domenica 30 novembre 2008

Se non indigna la caccia agli ebrei. Angelo Panebianco

Mentre sono ancora frammentarie e confuse le notizie sui protagonisti, così come gli indizi sui mandanti, dell'attacco jihadista a Mumbai, gli analisti già ricominciano a dividersi, seguendo un canovaccio che è sempre lo stesso quando si tratta di terrorismo islamico. La divisione è fra chi ritiene che ogni singolo episodio terroristico, quale che sia la sua gravità, sia interamente spiegato dall'esistenza di conflitti locali (si tratti, di volta in volta, del Kashmir, della Palestina, del conflitto fra casa regnante ed estremisti in Arabia Saudita, dell'Afghanistan, dell'Iraq, eccetera) senza bisogno di prendere troppo sul serio le rivendicazioni dei jihadisti sul carattere «globale » della loro guerra contro apostati e infedeli, e chi invece ritiene che i conflitti locali siano fonti di alimentazione del jihad globale.

Non è una disputa accademica. Perché l'interpretazione che si adotta suggerisce linee di azione differenti. Se vale la prima interpretazione si tratterà, per l'Occidente, di agire pragmaticamente caso per caso, accettando il fatto di trovarsi per lo più di fronte a forme di irredentismo (Kashmir, Palestina), che usano strumentalmente la coperta dell'estremismo islamico, o di guerre civili che hanno per posta il potere all'interno di questo o quello Stato musulmano. Se vale la seconda interpretazione si tratterà di non perdere di vista il quadro di insieme e, per esso, il fatto che nel mondo islamico è da tempo in corso una lotta nella quale tanti gruppi estremisti (collegati tramite il web e le reti di solidarietà e finanziamento presenti in tutte le comunità islamiche, anche quelle europee) cercano di spostare a vantaggio delle proprie idee gli equilibri di potere all'interno della umma, della comunità musulmana nel suo insieme. In uno scontro di civiltà che usa la religione per distinguere musulmani buoni e cattivi e per identificare i nemici: i cristiani, gli ebrei, gli indù, eccetera.

Se si evitano le scelte ideologiche preconcette occorre riconoscere che tutte e due le interpretazioni contengono elementi di verità. Lo dimostra il caso di Mumbai. Hanno ragione quegli analisti che inquadrano la vicenda all'interno del conflitto indo-pakistano e delle sue connessioni con la guerra in Afghanistan. È plausibile che i burattinai stiano all'interno delle forze armate pakistane e che vogliano impedire la normalizzazione, sponsorizzata dagli Stati Uniti, dei rapporti fra Pakistan e India, sperando in una reazione indù antimusulmana: più sale la tensione, più essi possono segnare punti a proprio vantaggio all'interno del Pakistan nonché a favore dei propri alleati-clienti nella galassia talebana in Afghanistan. Ma ciò non spiega tutto. Fra gli ospiti degli hotel aggrediti erano gli americani e gli inglesi i più presi di mira. È dipeso solo dal ruolo degli angloamericani in Afghanistan? O non era anche un modo per lanciare agli islamisti sparsi per il mondo il messaggio secondo cui l'azione in corso era comunque parte di una più ampia lotta in cui il Grande Satana resta il nemico più importante? E, soprattutto, come si spiega l'attacco (anch'esso pianificato) al Centro ebraico, l'assassinio di un rabbino e di altri otto ebrei?

Cosa c'entrano gli ebrei con il conflitto indo-pakistano? Assolutamente nulla. Ma c'entrano moltissimo con l'ideologia jihadista e con il fanatismo antisemita che la caratterizza. Il richiamo più immediato è al caso di Daniel Pearl, il giornalista ebreo-americano rapito e sgozzato in Pakistan nel 2002. Il fatto che egli fosse ebreo ebbe una parte decisiva nel suo assassinio. L'attacco al Centro ebraico è la dimostrazione del fatto che il terrorismo islamico ha due facce, trae alimento da due radici: i conflitti regionali ma anche un'ideologia jihadista che ha per posta la riorganizzazione della umma, la comunità dei credenti, in chiave antioccidentale e della quale è un tassello essenziale la «guerra ai sionisti».

Per questa ragione, pur dovendo modulare le risposte a seconda delle condizioni locali, non conviene perdere di vista il quadro di insieme. Le battaglie «locali» (soprattutto quando si colpiscono anche ebrei e americani) ottengono una eco immediata in tutti i luoghi del mondo ove l'estremismo islamico alligna e favoriscono un proselitismo i cui effetti si manifesteranno in seguito, con altre azioni terroristiche, in altre parti del globo.

Per quanto riguarda noi europei di singolare nei nostri atteggiamenti verso il terrorismo islamico c'è l'indifferenza che spesso mostriamo per un aspetto della sua ideologia che dovrebbe, a rigore, apparirci ripugnante: l'antisemitismo. È una vecchia storia. La stessa Europa che ricorda l'Olocausto e si commuove davanti al film Schindler's List non prova particolare sdegno per l'antisemitismo diffuso nel mondo arabo, e musulmano in genere, di cui la «caccia all'ebreo» da parte dei jihadisti (anche a Mumbai) è una diretta conseguenza. Non casualmente, qui da noi trovò fertile terreno, dopo l'11 settembre, la favola secondo cui il jihadismo sarebbe colpa di Israele, un frutto delle persecuzioni israeliane nei confronti dei palestinesi. E vanno anche ricordati i sondaggi che registrano l'ostilità di tanti europei per Israele. Al fondo, sembra esserci una strategia inconsapevole e politicamente suicida. C'è l'idea che solo se neghiamo l'evidenza, ossia i veri caratteri dell'ideologia jihadista, solo se spieghiamo le sue manifestazioni violente come il frutto esclusivo di circostanze specifiche in luoghi lontani da noi, possiamo sperare di essere lasciati in pace. (Corriere della Sera)

sabato 29 novembre 2008

Il paroliere di Obama. Christian Rocca

Barack Obama sa scrivere molto bene, al punto che a quarantasette anni ha già pubblicato due premiatissimi libri di memorie, ma i formidabili discorsi con cui ha conquistato l’America e il mondo occidentale sono stati scritti da un ragazzino di 27 anni che si chiama Jonhatan Favreau, nato nel 1981 in Massachusetts.
Laureato nel 2003 all’Università Holy Cross di Worcester, Jon Favreau ha cominciato a lavorare quattro anni fa con l’allora candidato presidenziale del Partito democratico John Kerry. Aveva soltanto ventitré anni quando ha incontrato per la prima volta Obama. Gli uomini di Kerry l’avevano mandato ad assistere il poco conosciuto politico di colore impegnato, dietro il palco della convention di Boston, a provare il discorso con cui avrebbe poi stupito l’America. A un certo punto, Favreau ha interrotto le prove di Obama, suggerendogli di cambiare una frase del discorso, perché conteneva qualche ripetizione con una battuta precedente. Obama, ricorda Favreau, lo guardò male: “Ma chi è questo ragazzino?”.
Sconfitto Kerry, Favreau si è trovato senza lavoro. Obama e il suo portavoce Robert Gibbs si sono ricordati del ragazzino e dell’episodio dietro il palco di Boston e così Favreau è stato assunto prima come assistente al Senato, poi come capo degli speechwriter della campagna presidenziale. La leggenda vuole che Obama scriva i suoi discorsi a mano, su un bloc notes. In realtà li scrive Favreau, aiutato da altri due ragazzi, uno ventisettenne e uno che dall’alto dei suoi trent’anni si considera “l’anziano statista del gruppo”.
“Barack si fida molto di Jon – ha detto lo stratega politico David Axelrod – E non è uno che si arrende facilmente all’idea di dover affidare a qualcuno così tanta autorità sulle sue stesse parole”. Obama invece gli ha affidato pensieri e parole della sua avventura politica, sapendo che Favreau non l’avrebbe deluso. I due si intendono al volo: quando c’è tempo o il discorso è molto importante, Favreau si siede mezz’ora con Obama. Obama parla, Favreau scrive al computer. Poi Favreau mette a posto gli appunti, scrive il testo e manda il discorso a Obama. Durante la giornata Favreau si segna e assorbe qualsiasi cosa dica Obama, in modo da entrare meglio nel personaggio a cui poi deve fornire parole, frasi, concetti. Favreau fa anche un’immersione nei libri e nei discorsi di Robert Kennedy e di Martin Luther King. Così sono stati scritti il discorso di accettazione della candidatura alla convention di Denver, quelli di sei mesi prima, in Iowa, prima e dopo la storica vittoria contro Hillary Clinton, e quasi tutti gli interventi durante la campagna elettorale.Ora Favreau è stato nominato capo dell’ufficio da cui escono tutti i discorsi della Casa Bianca, dove avrà di che scrivere. I presidenti degli Stati Uniti fanno in media quasi due discorsi al giorno, circa cinquecento l’anno. Tra il 1993 e il 2001, Bill Clinton ha parlato pubblicamente 4.474 volte. George W. Bush, a un mese e mezzo dalla fine del suo secondo mandato, ne ha fatti una manciata di meno. Con lui hanno lavorato tredici persone nell’ufficio che cura il “presidential speechwriting”. Favreau sta già lavorando al discorso di inaugurazione del 20 gennaio e sta assemblando la squadra che lo seguirà alla Casa Bianca e che dovrà sfornare discorsi su qualsiasi tema e per qualsiasi occasione.
“Tutto quello che dice il presidente è importante – ha detto Terry Edmonds, predecessore clintoniano di Favreau alla Casa Bianca – Non ci sono gerarchie, perché ogni volta che il presidente parla le sue parole hanno impatto globale”. (il Foglio)

L'Europa degli indecisi. Ernesto Galli della Loggia

Cosa si prefiggono il terrorismo islamista e le forze ad esso collegate? Quale obiettivo hanno gli attentati che dall'11 settembre insanguinano la scena mondiale? Non sono proprio domande dappoco, eppure sono domande che noi, opinione pubblica europea, sostanzialmente non ci poniamo o alle quali, se proprio dobbiamo, diamo risposte vaghe e sfuggenti. Ogni volta registriamo i fatti, li deploriamo doverosamente, ribadiamo la necessità di «tenere alta la guardia» (una delle espressioni più stupide e inconcludenti del nostro gergo politico, e proprio per questo adoperatissima), e guardiamo da un’altra parte. Non c'è dubbio che anche dopo i fatti di Mumbai sarà così. Cioè anche dopo la dimostrazione che il terrorismo islamista è ormai in grado di passare dagli attentati, sia pure in grande o in grandissimo stile tipo quello alle Torri gemelle, a vere e proprie operazioni di sbarco con conseguente attacco a interi distretti urbani. Non ci poniamo le domande perché abbiamo paura delle risposte. Di una risposta soprattutto: e cioè che il terrorismo islamista e i diversi gruppi che esso ispira mirano essenzialmente a terrorizzare «noi»; sì, noi che con tutta evidenza costituiamo il suo vero obiettivo strategico.

Va benissimo, infatti, versare il sangue di indiani, filippini, turchi, iracheni o marocchini; ma quello di cui i terroristi vanno ogni volta ansiosamente in cerca, dovunque colpiscono, è soprattutto il sangue di americani, inglesi, francesi e tedeschi; anche di italiani se capita. E di sangue ebraico naturalmente: quello sempre. Le vittime che soprattutto essi vogliono sono vittime occidentali: «crociati» e «sionisti». Non perché i terroristi siano belve accecate dal fanatismo (lo sono, ma in un senso più complicato di ciò che si pensa di solito). Ma perché si prefiggono lucidamente un obiettivo, e pensano che ammazzarci possa aiutarli a conseguirlo: l'obiettivo di ridurre via via fino a cancellarla l'area di rapporti e d'influenza politica, nonché l'insieme di legami economici, culturali e religiosi, che una storia millenaria ha stabilito tra Europa e America da un lato e il mondo afro-asiatico dall'altro. Dimostrando ai governi di Asia e Africa che basta il rifiuto di essere nemici dell'Occidente e degli Stati Uniti in particolare, ovvero basta avversare a qualunque titolo i disegni del radicalismo islamico, per attirarsi la sua spietata furia omicida. Di fronte a questo piano del terrorismo islamista noi—intendo noi europei dell'Unione, fatti salvi come al solito gli inglesi— non ne abbiamo tragicamente nessuno. Gli Usa, infatti, con Bush una via, la si giudichi come si vuole, l'hanno scelta da tempo, e vedremo adesso come la cambierà Obama. Ma è certo che gli Usa continueranno comunque a fare qualcosa. Siamo noi Europei dell’Unione, invece, che non sappiamo cosa fare. Abbiamo degli uomini sul campo ma non vediamo l'ora di ritirarli; critichiamo di continuo gli americani ma non vogliamo né sappiamo essere alternativi in alcun modo ad essi; siamo decisi a parole ma poi indecisi e divisissimi tra noi in ogni azione: sballottati qua e là dalle tempeste di una storia nella quale pensiamo sempre meno di dover avere una parte, e di poterla avere. (Corriere della Sera)

venerdì 28 novembre 2008

Si saldi chi può. Davide Giacalone

Riusciamo ad imbrogliare anche sugli sconti, sui saldi. Un’assurda politica dirigista, statalista, regionalista e municipalista, pretende di stabilire quando iniziano e come funzionano, togliendo la libertà di scelta al singolo commerciante. Più le norme sono rigide ed anacronistiche, più ne è garantita la violazione. Così i saldi sono già in corso, ma in clandestinità, con due effetti deleteri: a. non tutti i consumatori sono sullo stesso piano, perché invitati ai primi sconti sono solo i clienti abituali; b. proprio a causa di questo tipo di rapporto, i saldi cominciano anticipatamente presso i negozi di lusso, a beneficio di coloro che ne hanno meno bisogno. A farlo apposta, non ci si sarebbe riusciti.
La sensazione generale, confermata dai dati reali, è che le festività si avvicinano in un clima di minore propensione all’acquisto. Quando i soldi mancano, naturalmente, non c’è modo di cambiare andazzo solo facendosi coraggio. Ma, nella maggior parte dei casi, i soldi ci sono, magari pochi, ma ci sono, solo che si esita a tirarli fuori sia perché ogni giorno va in scena lo spettacolo della crisi, che magari si capisce poco cosa sia, ma fa paura, e sia perché quel che serve ci si ripromette di acquistarlo da lì ad una settimana, quando cominceranno i saldi. In altri anni ed altre situazioni, il Natale era l’occasione per vendere al meglio, giacché i clienti erano disposti a pagare pur di avere una carrettata di doni da fare e ricevere. Oggi vale l’approccio opposto, e gli sconti, se fatti prima di Natale, concilierebbero il desiderio di risparmiare con la brama di avere e regalare, portando beneficio ai consumatori, ai commercianti ed al mercato. In tempi di vacche magre, per giunta, rimandare a dopo le feste porterà molti a rinunciare, evitando del tutto acquisti non indispensabili.
Purtroppo, nessuna testa è più dura di chi pretende di sapere meglio di te qual è il tuo bene, e s’incarica di scegliere per tuo conto, stabilendo quando è giusto cercare di vendere ed acquistare di più. Da noi la ripartenza può essere propiziata proprio dalla cacciata dei tutori, dalla cancellazione di regole che servono solo a chi non sa fare il proprio mestiere, dalla liberazione del cittadino. La libertà funziona meglio di quattro euro regalati, che ne costano otto di tasse.

La metastasi del terrore. Paolo Guzzanti

E questa è la risposta a tutti coloro che quando sentono parlare di terrorismo islamico, di Al Qaida e di guerra contro l'Occidente, sbuffano, infastiditi come se avessero di fronte a sé il ridicolo anziché la tragedia. Da mercoledì abbiamo la prova ulteriore che il terrorismo è ovunque, può colpire ovunque, a Madrid e in India, in Africa e negli Stati Uniti, in Inghilterra e in America Latina dove ha la sua rete di alleanze. Dire Al Qaida, dire Bin Laden, dire organizzazione terroristica dell'odio, provoca malumore: finché il sangue non scorre a fiumi, finché la segatura non copre quel che resta di un essere umano, di una famiglia, siamo abituati a negare, a minimizzare, ridurre, sorridere persino. Che errore.

L'Occidente è di sua natura tollerante, polimorfo, multietnico, afflitto da sensi di colpa, pieno zeppo di moschee e cantieri di moschee, tenero con chi vuole applicare la sharia islamica anche in Europa, soddisfatto quando sente che Olanda, Danimarca, Svezia sono Paesi che si stanno islamizzando. Eppure, la guerra che seguita a far versare sangue è una guerra contro l'Occidente, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, Israele e poi anche contro di noi, il ventre molle dell'Occidente. Eppure l'Occidente ha dato dignità e valore giuridico, oltre che morale, ai diritti dell'uomo, della donna, della famiglia, dell'infanzia. L’Occidente ha creato le organizzazioni internazionali e, persino, l'Occidente è stato capace con la guerra in Kosovo, di bombardare un Paese cristiano per difenderne uno musulmano.

L'Occidente, noi, siamo fatti così. E se qualche regista imbecille sostiene che l'11 settembre gli americani se lo sono fatto da soli e che tutti gli ebrei erano scappati via in tempo dalle Torri Gemelle, noi – alcuni di noi – annuiscono felici. Gli occidentali indossano la kefia e travestiti da palestinesi si dedicano all'odio verso Israele e tutti insieme all'odio contro l'America, tanto che l'amore per Obama è diventato – nell'immaginario di questa parte debole del pensiero occidentale – una delle forme subliminali di espressione dell'odio per l'America. Non hanno capito che Obama ha confermato Gates alla Difesa e che sposterà tre brigate corazzate dall'Irak all'Afghanistan con diritto di penetrazione in Pakistan: lui, l'Obama dell'immaginario collettivo antiamericano.

Ha tutto ciò a che fare con quanto è successo ieri a Mumbai, la città che per noi europei è sempre stata Bombay? Sì, ha a che fare. Ieri i turisti sono stati selezionati come pecore al macello. Chi aveva passaporto americano: fila della morte. Passaporto inglese: fila della morte. Passaporto israeliano: fila della morte. Passaporto italiano, prego si accomodi nella fila della vita, ciò che ci fa enorme piacere. Ma guardiamo in faccia la verità e la realtà: l'attacco a Mumbai era atteso dai servizi segreti, peccato che non fosse atteso a Mumbai ma altrove. C'è stato un difetto di informazione, ma si sapeva che l'attacco sarebbe stato scatenato. Forse l'intelligence del terrorismo è più efficiente del Mi6, della Cia e del Mossad messi insieme, non lo sappiamo.

Sappiamo però che l'attacco assassino, la mattanza da tonnara, è stata condotta con l'uso dell'odio e dell'infanzia: abbiamo visto bambini carnefici imbracciare il mitra e uccidere ridendo. Abbiamo visto esseri umani mutati in mostri. Abbiamo visto esseri umani sacrificati come agnelli in base a un simbolo: il colore del passaporto, la presenza di un timbro, un visto, un'aquila. Due terzi della mia famiglia ha quei passaporti. Due terzi della mia famiglia sarebbero stati ammazzati. Io e i miei figli saremmo stati ammazzati. Chi è ebreo sarebbe stato ammazzato. Capite adesso il modello, l'impianto morale di questa guerra che viene scatenata contro l'Occidente? Non è un caso che il nazionalsocialismo hitleriano fosse fanaticamente sostenuto e sostenitore del radicalismo arabo, del gran Muftì di Gerusalemme, degli insorgenti iracheni delle guerre passate.

L'Occidente oggi guarda sbalordito le immagini in televisione. Le televisioni nazionali trasmettevano le loro sciocchezze. Tutto il mondo era appeso ai grandi network internazionali, Cnn e non soltanto. Tutto il mondo ieri era stravolto, sconvolto, disperato. Fra gli stranieri del mio mondo ieri si piangeva, si urlava, ci si abbracciava convulsamente. Ma la calma piatta del diniego cala come una nube tossica che mette tutte le coscienze a dormire. Stasera si vedranno ai Tg nuove immagini, di sfuggita. I commenti saranno o banali o timidi. La paura di offendere il carnefice prevarrà sulla schiena diritta. La tremebonda ansia di non dispiacere il persecutore sarà unita allo smodato orgasmo speso per comprenderlo e disarmarsi.

Il terrore purtroppo oggi ha dimostrato di avere metastasi ovunque, con un centro diffusore e diramazioni senza frontiere né geografiche né limiti nella dignità umana. (il Giornale)

martedì 25 novembre 2008

Il pluralismo al posto dell'evasione. Arturo Diaconale

Si può dare torto a Silvio Berlusconi quando si lamenta del fatto che i conduttori della televisione pubblica lo hanno trasformato nel loro bersaglio preferito? Basta compiere una frettolosa rassegna di tutti i programmi d’informazione presenti sulle Tv pubbliche e private per stabilire che, con la sola eccezione di Emilio Fede berlusconiano dichiarato e Bruno Vespa ecumenico altrettanto dichiarato, tutti gli altri conduttori di programmi d’informazione, siano essi del servizio pubblico o delle reti private (Mediaset compresa), sono apertamente ed in alcuni casi anche ostentatamente ostili al Presidente del Consiglio al governo ed ai partiti della sua maggioranza. Berlusconi, dunque, non ha torto nel lamentarsi. Santoro, Fazio, Floris, Annunziata, Gruber, Lerner, D’Amico, sono schierati sul fronte opposto al suo. E non solo non lo nascondono affatto ma lo dichiarano ai quattro venti. Un po’ in nome dell’antica militanza, un po’ per avallare un proprio presunto ruolo di “cani da guardia” della democrazia che morde i polpacci al Cavaliere inteso come il potente di turno. Dato a Berlusconi quel che è di Berlusconi, però, non si può ignorare che se la responsabilità dei conduttori di sinistra nella deformazione dell’informazione italiana è alta, altrettanto alta è la responsabilità del Cavaliere stesso e dell’intero centrodestra per il perdurare di un fenomeno niente affatto nuovo ma che si perpetua ormai da qualche decennio.

E’ stato mai affrontato seriamente dal centro destra e dal suo leader il problema dell’egemonia culturale di una sinistra in via di rottamazione in ogni settore della società italiana tranne che in quello dell’informazione? Mai. La questione non è mai stata esaminata. E non in termini di epurazione e di occupazione. Che non risolvono minimamente il problema. Ed anzi lo aggravano e lo trasformano in un boomerang pericolosissimo per la credibilità democratica del centro destra. Ma in termini sia culturali che strutturali. Qualcuno, per la verità, imbevuto di una sorta di gramscismo di segno opposto, ha più volte sollecitato di contrapporre all’egemonia della sinistra una egemonia eguale e contraria. Ma non è mai andato oltre la semplice sollecitazione. Perché la cultura dell’estrema destra a cui questo qualcuno fa riferimento è fortemente minoritaria e non ha alcuna possibilità reale di tornare ad essere egemone come nella prima metà del secolo scorso. Nell’impossibilità di seguire la strada del gramscismo all’incontrario non si è seguita alcuna strada. O meglio, si è seguito il metodo delle televisioni commerciali di contrapporre all’informazione, più o meno paludata, più o meno militante, l’intrattenimento legato agli indici d’ascolto. L’intuizione di combattere l’impegno con l’evasione ha funzionato a meraviglia per lungo tempo.

Ed anche ora continua a dare i suoi frutti. Ma ha prodotto anche conseguenze nefaste. Non solo perché ha proposto nella società una serie di valori effimeri (basti pensare al mito della velina e del tronista per le giovani generazioni), ma perché ha spinto la sinistra egemone ad adattarsi producendo una serie di fenomeni mediatici devastanti. Come il fatto che l’unica sinistra in grado di essere capace di avere una qualche presa sulla società non è formata dalla classe politica ma dalla categoria dei personaggi dello spettacolo che, dall’alto di una ignoranza abissale e conclamata, fanno le veci dei vecchi depositari dell’ideologia e del sapere di partito. Che fare, allora? L’unica cultura in grado di competere in termini egemonici con quella della sinistra gramsciana è quella liberale. Che, però, essendo antiegemonica e sostenitrice del pluralismo, non può in alcun caso contrapporsi e sostituirsi a chi punta comunque a difendere e garantire. Da Berlusconi, quindi, non ci si deve attendere epurazioni di massa. Solo la consapevolezza che se si vuole una informazione equilibrata è necessario smetterla di contrapporre l’evasione all’impegno militante. Per riequilibrare basta applicare la regola liberale del pluralismo. (l'Opinione)

Non è il Nordest e nesssuno si indigna. Massimo De Manzoni

Quattro ventenni italiani di buona famiglia hanno cosparso di benzina un clochard e gli hanno dato fuoco. «L’abbiamo fatto così, per divertirci», hanno confessato. Possibile?, vi chiederete. E perché tutto tace? Com’è che dagli schermi tv non spunta il faccione di Veltroni con la sua migliore espressione di circostanza a «condannare» e a «lanciare l’allarme per la deriva razzista»? Per quale strana ragione non rullano i tamburi di Cgil e comitati antifascisti per chiamare alla Grande Manifestazione Nazionale di Protesta? Che cosa impedisce ai siti internet dei giornaloni politicamente corretti di dare fiato alle trombe dell’indignazione? Quale mistero si cela dietro l’assenza pressoché totale di dichiarazioni di parlamentari di sinistra sulla vicenda? E perché il sindaco Alemanno non si è ancora precipitato a chiedere scusa?
Il fatto è che il delitto non è avvenuto nella magica Roma inopinatamente caduta nelle manacce degli eredi di Mussolini. Non è stato perpetrato neppure nella cupa Milano della Moratti, quella celebre aguzzina. E stavolta non c’entrano la Verona percorsa quotidianamente da squadre di naziskin (ovviamente tollerate, quando non incoraggiate, dal sindaco leghista Tosi), né la Marca Trevigiana dove, agli ordini dello sceriffo Gentilini, periodicamente le ronde padane si esercitano nel tiro all’immigrato e al barbone.
Nossignori, il vile agguato ha per teatro la rossa Emilia-Romagna. Peggio ancora: non la pallida Emilia già contaminata dal morbo che ha portato Parma ad eleggere un sindaco di centrodestra, Vignali, debitamente crocifisso per settimane dopo che alcuni vigili circonfusi di rara idiozia avevano picchiato un ragazzo di colore. No, qui siamo nella sanguigna e ancora incontaminata Romagna, terra di partigiani, di gente gioviale, accogliente e progressista, nella gaia Rimini tutta mare, balere e piadine. Retta, ça va sans dire, da una bella giunta di centrosinistra (Pd, Rifondazione, Comunisti Italiani, Verdi e dipietristi) con a capo il diessino Ravaioli. Quindi, non c’è notizia. Certo, si registra il fatto di cronaca: senzatetto bruciato, arrestati quattro ragazzi. Qualche quotidiano, forse, si spingerà a interpellare uno psicologo sulla «crisi educativa delle famiglie». Ma vedrete, tutto finirà lì.Vuoi mettere il bel carrozzone mediatico che si sarebbe potuto allestire nel Nordest, con i grandi inviati impegnati per giorni a fare le pulci alla «cultura del denaro» di quelle rozze genti, a spiegare l’ignobile gesto con l’altrettanto ignobile sfondo politico che caratterizza la zona, irrimediabilmente sbilanciata verso il centrodestra. Ricordate? Accadde nel maggio scorso, a Verona: cinque giovinastri uccisero a calci e pugni un poveraccio incrociato per strada. Allora, esattamente come oggi a Rimini, i magistrati dissero subito che non c’era matrice politica nel delitto. Ma non servì a nulla: fu il finimondo. Così come a Roma, con il grottesco caso del Pigneto poi risoltosi in un clamoroso autogol. E a Milano, dove la morte di un giovane di colore durante la rissa con i gestori di un bar che, con un complice, aveva derubato diventò l’emblema stesso del razzismo italiano.A Genova, invece, no. Che cosa c’entra Genova? In effetti, come potete sapere, dal momento che nessuno ne ha praticamente parlato? Dunque, Genova: agosto scorso, tre mesi dopo il raid nazifascista di Verona, un mese prima che Milano si risvegliasse razzista. Una quindicina di italiani copre di insulti xenofobi un giovane angolano. Poi lo riempie di botte: sberle, calci, pugni. Il ragazzo fortunatamente sopravvive, ma il caso c’è tutto. Anzi no. Sotto la Lanterna, nella città medaglia d’oro della Resistenza che mai nella sua storia ha subito l’onta di essere amministrata dal centrodestra, non c’è il «clima» giusto: i riflettori restano spenti, gli inviati non si scomodano, i commentatori riposano. Come a Rimini.Troppo banale raccontare la semplice verità. Raccontare che sì, il razzismo esiste o, ancor meglio, esistono i razzisti. Ma a qualunque latitudine e senza aver bisogno di nessun particolare contesto politico per dar sfogo ai loro stupidi istinti. Raccontare che la cattiveria è di questo mondo indipendentemente da chi lo governa. E che, insomma, purtroppo la mamma dei delinquenti è sempre incinta. Così come quella degli ipocritamente corretti. (il Giornale)

lunedì 24 novembre 2008

L'agonia dello Stato minimo. Luca Ricolfi

In questi giorni tutti i giornali parlano della tragedia di Rivoli, ma non vorrei che ce ne dimenticassimo troppo presto, come purtroppo è successo tante volte in passato.

Perché tendiamo a dimenticare? E perché, soprattutto, non impariamo mai dall’esperienza? Lo stato disastroso dei nostri edifici scolastici era noto da tempo, come è documentato da varie accurate rilevazioni del ministero della Pubblica Istruzione, nonché dalla lunga serie di interventi legislativi che in materia di edilizia e di sicurezza si sono susseguiti nell’ultimo quindicennio, a partire dalla legge 626 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Nonostante ciò, e a dispetto di alcune lodevoli eccezioni (tra cui quella del Comune di Torino), pochissimo è stato fatto. Lo stato delle nostre scuole, specie nel Mezzogiorno ma anche in parecchie realtà del Centro-Nord, è spesso poco degno di un Paese civile: difettano protezioni contro i sismi, gli incendi, i cedimenti strutturali, i cortocircuiti elettrici, ma mancano anche, semplicemente, le condizioni minime di decoro, tutto ciò che può ricordare ai ragazzi che il luogo in cui studiano non è un luogo qualsiasi ma è un’istituzione, che merita il loro pieno rispetto. Un analogo degrado pervade in misura inaccettabile quasi tutti i grandi pilastri della vita sociale. Gli ospedali, ad esempio, alle volte malandati perché troppo vecchi, a volte malandati perché mai nati (sono oltre 100 gli ospedali finanziati e mai completati). O le caserme, i posti di polizia, i palazzi di giustizia, gli uffici che ti fanno sentire suddito più che cittadino.

Per non parlare delle aule universitarie ricavate in cinema, capannoni, o semplici alloggi. O delle carceri, che tutti i governi hanno lasciato in uno stato di deplorevole degrado. O delle strade pericolose, delle ferrovie antiquate, delle discariche illegali. Dei treni sudici, dei bagni sempre guasti, delle strade coperte di immondizia. Non è solo la scuola che è in stato di abbandono, ma lo sono quasi tutte le grandi infrastrutture fisiche del paese. È di qui che dobbiamo ripartire se vogliamo che tragedie come quella di Rivoli o di San Giuliano non si ripetano più. Quel che dobbiamo chiederci non è semplicemente perché tante scuole siano fatiscenti, ma è come mai, lentamente, le grandi strutture materiali del Paese - il suo hardware, verrebbe da dire - si stiano sbriciolando come grissini.

Una prima ovvia risposta è che l’hardware si sbriciola perché pensiamo quasi soltanto al software. Da almeno quindici anni, ossia da quando il debito pubblico è diventato la priorità delle priorità, la politica economica risparmia sistematicamente sulla manutenzione delle infrastrutture fisiche (l’hardware del sistema Italia), e dilapida le poche risorse disponibili in spese improduttive e stipendi pubblici (il software del sistema Italia). La storia sarebbe lunga da raccontare tutta quanta e nei dettagli, ma la realtà è che negli ultimi quindici anni - quale che fosse il colore politico dei governi - in quasi tutti i settori della pubblica amministrazione la maggior parte delle risorse disponibili sono state convogliate sugli avanzamenti di carriera e sottratte agli investimenti e agli acquisti.

È accaduto così che tra avanzamenti automatici, corsi di formazione più o meno fasulli, lauree facili (primo fra tutti lo scellerato programma «laureare l’esperienza»), la piramide gerarchica della pubblica amministrazione è stata stravolta, con due conseguenze fondamentali: una contrazione delle ordinarie risorse per il funzionamento (dalla benzina, alla carta, ai computer) e una grave perdita di efficienza organizzativa (perché un esercito di generali non combatte). In questa triste vicenda la scuola è stata colpita due volte: come gli altri settori della pubblica amministrazione è rimasta a corto di ossigeno sul versante degli investimenti edilizi e su quello delle risorse per il funzionamento, ma a differenza degli altri settori della pubblica amministrazione non ha potuto beneficiare di significativi avanzamenti perché non esiste una vera e propria carriera degli insegnanti, come ne esistono invece per i medici, i professori universitari, i magistrati, i militari, i poliziotti, i burocrati.

Dobbiamo dunque prendercela con i politici, ciechi di fronte ai veri interessi del paese?

Forse no, se riflettiamo su come funziona l’opinione pubblica e su cosa davvero riesce a scuotere la cosiddetta società civile. L’opinione pubblica dimentica con sorprendente rapidità le tragedie collettive, quelle che oggi ci fanno stringere intorno alle famiglie dei ragazzi di Rivoli, ma è estremamente vigile sugli interessi particolari delle innumerevoli categorie, corporazioni, lobby che si contendono quel che resta della nostra povera Italia. Se i politici, quando hanno 100 euro da spendere, ne destinano così pochi all’hardware del paese e così tanti al suo software, è perché hanno capito che quest’ultimo ci interessa molto più del primo. Possiamo indignarci quando crolla una scuola, quando deraglia un treno, quando un ospedale è invaso dagli scarafaggi, ma non siamo disposti a rinunciare a un pezzettino del nostro modesto benessere per vivere in un paese in cui queste cose non succedano più. I consumi privati ci interessano di più degli investimenti pubblici, lo Stato sociale, fatto di sanità, pensioni e assistenza, ci interessa di più dello Stato minimo, fatto di infrastrutture fisiche e funzioni fondamentali.

Proviamo a immaginare che cosa succederebbe se un ministro dicesse: la messa in sicurezza delle scuole costa 5 miliardi, per finanziarla propongo di bloccare tutti gli aumenti retributivi nel pubblico impiego (ad esempio: 1 anno gli stipendi bassi, 2 quelli medi, 3 quelli alti). Ci sarebbe una sollevazione, e mille eloquenti argomentazioni e sottili distinguo farebbero immediatamente naufragare la proposta, o qualsiasi altra idea consimile. I politici l’hanno capito, sanno perfettamente che l’agonia dello Stato minimo non è la prima delle nostre preoccupazioni. Sta a noi dimostrare che si sbagliano. (la Stampa)

sabato 22 novembre 2008

E' morto Sandro Curzi

e il TG3 non lo ha commemorato...poco.

La politica e la libertà. Angelo Panebianco

Ciò che più sgomenta della battaglia delle idee che la crisi sta alimentando è la voluttà con cui tanti si impegnano ad archiviare, attribuendola alla follia umana, quella rivoluzione liberale che prese l’avvio con le vittorie di Margaret Thatcher (1979) e di Ronald Reagan (1980) e i cui effetti si manifestarono ovunque. Dimenticando che quella rivoluzione fu una reazione alla crisi, economica e morale, degli anni Settanta. E cancellando, con un tratto di penna, i benefici che ne derivarono: una trentennale crescita economica mondiale e una spettacolare accelerazione della globalizzazione, certo nutrita di squilibri e disuguaglianze, ma anche capace di diffondere benessere e libertà in tanti luoghi che queste cose non conoscevano. Oggi si torna a rivendicare il «primato della politica» e ci si fa beffe degli stolti che confidano nella libertà, anche in quella «economica ».

Conviene ricordare a chi irride il «liberismo » qualche insegnamento della storia. Anche dopo il ’29 il primato della politica venne riaffermato con forza (il New Deal, il socialismo scandinavo, l’Iri, i piani quinquennali sovietici, il riarmo hitleriano) in variante democratica o totalitaria. E anche allora l’intellighenzia occidentale si buttò con entusiasmo ad inseguire i miti del momento, sostenendo che il «liberalismo» (giudicato un residuo ottocentesco) era finalmente al tramonto, che stava per nascere la luminosa era della «pianificazione ». Sappiamo come finì. Il primato della politica sfociò nel protezionismo selvaggio e tutto si concluse (dieci anni dopo l’inizio della grande crisi) con una guerra mondiale. Il rapporto fra la politica e il mercato è uno degli aspetti più complessi (e oscuri, difficili da mettere a fuoco) delle società contemporanee. Lo dimostra, per un verso, la tradizionale difficoltà del pensiero liberale (e della scienza economica di ispirazione liberale) di fare i conti con il ruolo della politica. Spesso, all’acuta, intelligente, analisi delle situazioni economiche, quel pensiero affianca una critica solo moralistica della politica (per la sua propensione a farsi influenzare dagli interessi delle lobbies e a sacrificare la razionalità economica alle esigenze del consenso). Ma la difficoltà di fare i conti con la complessità del rapporto fra politica e mercato è dimostrata anche dalla disinvoltura dei fautori del primato della politica, i quali ne esaltano la capacità di occuparsi del «bene comune » (redistribuzione, protezione dei più deboli) ma sembrano ignari degli «effetti collaterali», pesantemente negativi, che quel primato porta con sé.

Gli assertori del primato della politica hanno un grande vantaggio rispetto ai liberali. Consiste nel fatto che dalla politica tutti si aspettano la soluzione ai loro problemi e le attribuiscono ogni colpa delle mancate o cattive soluzioni. La politica è il deus ex machina che tutti invocano. È interessante il fatto che non solo la gente comune ma anche gran parte delle élites fatichino ad accettare l’idea che non tutto ciò che accade sia il prodotto di decisioni politiche. Essi mostrano di non riconoscere che molti accadimenti sono semplicemente il frutto del reciproco adattamento «spontaneo» fra i comportamenti di milioni e, a volte, miliardi di persone, l’esito aggregato, per lo più imprevisto e imprevedibile, di un gran numero di azioni ispirate da altrettante menti singole. Nonostante la secolarizzazione, gente comune e élites continuano a credere che tutto si debba alla volontà degli Dei. La differenza è che questa idea di onnipotenza è stata trasferita, proiettata, su uomini in carne ed ossa, i cosiddetti potenti della Terra. I più, misconoscendo il ruolo fondamentale degli aggiustamenti spontanei, credono nella sola esistenza delle «mani visibili». Siano esse di Roosevelt, di Clinton, di Bush. Ma anche di Sarkozy, Berlusconi, eccetera.

L’attesa salvifica che oggi circonda Obama è un esempio estremo di questo persistente atteggiamento. A me pare che in questo atteggiamento si annidino due errori. In primo luogo, l’errore di non riconoscere che l’onnipotenza della politica è solo un mito. Un mito lugubre, per di più. Con quanto più accanimento è stato perseguito tante più catastrofi si sono prodotte. Il grande lascito culturale (che oggi la crisi va disperdendo) delle rivoluzioni liberali di trenta anni fa —a loro volta, ispirate al liberalismo classico, sette-ottocentesco— stava nel rifiuto dell’onnipotenza della politica, nel riconoscimento che solo lasciando massima libertà agli individui e alla creatività individuale si fa il bene di una società, che compito del governo non è darci la «felicità» ma lasciarci liberi di cercare la nostra personale strada alla felicità. Il secondo errore consiste nel non vedere i costi del primato della politica, non saper contrapporre ai vantaggi di breve termine i costi dì medio-lungo termine. Nel breve termine la politica è sicuramente in grado di assicurare vantaggi. Per esempio, in una situazione di crisi, salvando il credito, tamponando gli effetti della disoccupazione, eccetera.

Ma il punto è che ciò che la politica ci dà con una mano oggi se lo riprenderà domani con gli interessi (in termini di controllo sulle nostre vite). Certamente, dobbiamo oggi affidarci a decisioni politiche per fronteggiare la crisi. E dobbiamo purtroppo accettare una più forte presenza dello Stato. Ma se non lo facciamo a malincuore, se ci mettiamo dentro un immotivato entusiasmo, se non ci rendiamo conto che si può accettare un temporaneo ampliamento del ruolo dello Stato in condizioni di emergenza solo pretendendo che lo Stato si impegni a ritirare di nuovo i suoi tentacoli quando l’emergenza sarà finita, contribuiamo a preparare un futuro persino peggiore del presente. È una questione di atteggiamenti culturali. In America esistono potenti anticorpi che impediranno degenerazioni permanenti del tipo «socialismo di Stato». In Europa continentale gli anticorpi sono più deboli (in Italia, poi, sono debolissimi). Il rischio, qui da noi, non è il «ritorno dello Stato» della cui invadenza, in realtà, nonostante tanti sforzi, non ci siamo mai liberati. Il rischio è che quell’invadenza torni a godere di piena legittimazione culturale. Il rischio è dimenticare che quanto più la politica si impiccia, quanto più pretende di dispensarci la felicità, tanto più si riduce, col tempo, la libertà di ciascuno di noi. (Corriere della Sera)

venerdì 21 novembre 2008

Oltre Forza Italia, il partito anti-partitocrazia. Gianni Baget Bozzo

La nascita di Forza Italia nel ’94 fa già parte della memoria, 14 anni è il tempo di una generazione. Per usare una celebre frase di Winston Churchill, «mai tanti uomini hanno dovuto la salvezza alla scelta di un uomo solo». Forse è difficile anche per chi ricorda i fatti rammentare l’atmosfera del tempo.
La fine del comunismo in Russia aveva prodotto in Italia l’effetto incredibile della distruzione ad opera della magistratura dei partiti anticomunisti e il Pds, cioè il Pci cambiato di nome, era divenuto l’unico partito costituzionale. Alla fine della rivoluzione russa aveva corrisposto la conquista del potere del Pci in Italia. Il Pci aveva compiuto, come l’armata cinese di Mao, una lunga marcia attraverso le istituzioni ed era giunto a dominare la coscienza delle istituzioni e della cultura. Aveva realizzato la rivoluzione di Gramsci: prendere le casematte prima di attaccare il quartier generale, usare la cultura per conquistare le istituzioni. Il Pci italiano aveva usato la fine del comunismo in Russia per mostrare come si possa prendere il potere con la democrazia. Se c’era un precedente in Italia di una tale conquista, si poteva pensare al fascismo, che ottenne il potere mediante la corona e l’esercito. Il Pds lo ottenne mediante la magistratura. Tutti sanno che questa è la verità ma non fa più notizia. La sinistra di cultura comunista aveva occupato tutto. Tribunali, parrocchie, episcopi, giornali e libri, tv e radio. Ed è tuttora così. Siamo immersi ancora nella «lingua di legno» comunista che esclude dalla memoria quelli che ascoltarono Berlusconi e si sentirono liberati dalla sua parola. Era il popolo che aveva votato democristiano, socialista, liberale, e aveva operato il miracolo italiano, aveva retto la Guerra fredda e la sfida nucleare dalla parte atlantica, era l’Italia occidentale e non sovietica.
Nel ’93 il Pds era la forza legittimante: si poteva essere democristiani, socialisti e liberali solo con il bollino postcomunista. Questo ricordava le democrazie popolari dell’est, i regimi comunisti che per mostrare che l’Unione Sovietica era una sola, mantenevano formalmente i vecchi partiti borghesi e contadini debitamente comunistizzati. Era una conquista comunista da manuale, combinava aspetti del modello sovietico nel falso pluralismo e la differenza dei comunisti italiani che si dichiaravano democratici.
Forza Italia nasce in questa situazione, Berlusconi liberò il pensiero, queste cose si poterono dire. Si poteva essere anticomunisti. La democrazia funzionò e il popolo scelse la libertà. Nel ’94 Forza Italia ebbe la maggioranza alla Camera e la quasi maggioranza al Senato. Nel Paese sorse il sentimento di liberazione, nacquero migliaia di club. Furono un’organizzazione spontanea di sentimento e non di struttura, ma serviva un partito. La tv commerciale di Berlusconi e Publitalia furono la struttura minima in cui si organizzarono le liste vittoriose alle politiche. Giorgio Bocca scrisse che Publitalia aveva messo il «mondo sottosopra»: per questo Marcello Dell’Utri venne eliminato dal gioco con l’azione dei magistrati. Ma Forza Italia era nata ed era nata per rimanere.Il popolo italiano aveva voluto scegliere una struttura fragile ma popolare per esprimere la sua volontà di rimanere libero. Da allora cominciò la «leggenda nera»: Berlusconi aveva vinto perché proprietario di televisione. La tv commerciale era una struttura fragile ma fu il popolo a farne una forza politica. Tutti i poteri italiani furono contro questo popolo e il suo leader, ci fu un clamore mondiale, Berlusconi divenne un fatto che delegittimava il sistema dei partiti e creava una realtà diversa, un effetto che era sorto con se stesso. Una storia unica. Ora Forza Italia si scioglie e il Popolo della libertà è diventato un popolo di governo e la sinistra è sfiorita come non si poteva immaginare. Il Pdl, che oggi nasce come partito, raccogliendo Fi, An e altri partiti, era sorto prima nel popolo che nella forma politica ora conseguita. (il Giornale)

Quote latte, finisce l'era delle multe, Zaia libera la mungitura. Apcom

Una vittoria economica, senza dubbio, ma anche una grande vittoria politica per la Lega. Lo sblocco delle quote latte in quantità tale da coprire tutta l'attuale produzione italiana, e forse anche qualcosa in più, è un successo del ministro Luca Zaia, che anche l'opposizione riconosce.
Dopo anni di battaglie degli allevatori sulle strade, spalleggiati apertamente dalla Lega, la questione si è chiusa all'alba di ieri a Bruxelles dopo sei mesi di discussioni, sulla scia della abolizione totale delle quote nel 2015, ma, per l'Italia con cinque anni di anticipo. Mentre gli altri Paesi infatti aumenteranno la loro produzione di latte dell'uno per cento l'anno (a partire dall'aprile del 2009) l'Italia ha avuto tutto subito: il 6% in più, tra quote latte (5%) e quote per la materia grassa (1%). Tradotto in quantità si tratta di 620.000 tonnellate in più (come ha precisato lo stesso Zaia, dopo aver parlato in mattinata di 640.000, ma non cambia molto).
La sede di questa "vittoria storica", salutata come tale da una raffica di dichiarazioni di esponenti del Carroccio, è stata il Consiglio Agricoltura della Ue, nel quale si è parzialmente modificata la Politica Agricola Comune (Pac), toccando non solo le quote latte, ma anche i fondi non utilizzati, il tabacco, i fondi per lo sviluppo rurale, il riso e altri aspetti minori.
Una notte sveglio a trattare, fino alle otto del mattino, un riposo di qualche ora in hotel e poi raggiante davanti ai giornalisti per parlare senza mezzi termini di una "giornata storica" che "ripristina la legalità dopo il disgraziatissimo negoziato del 1984". Zaia veleggia felice su un fiume di latte dopo aver ottenuto l'aumento delle quote latte e la possibilità di tenere nel nostro paese anzichè restituire alla Ue circa 140 milioni di aiuti all'agricoltura non distribuiti.
E' la vittoria di una squadra - esordisce Zaia nella sala stampa del Consiglio europeo affollata come nelle epiche, e non sempre fruttuose, trattative degli anni '70 e '80 -. Voglio ringraziare anche la stampa, che ci ha aiutati anche nel chiedere trattative più serrate e ringrazio anche chi ha lavorato con me". La vittoria che il ministro segna nel suo diario la sente è talmente grande che vuol dividerla un po' con tutti.
Zaia ringrazia anche "Mariann Fischer Boel e Michel Barnier, (commissaria europea e ministro francese presidente di turno del Consiglio Ue) per aver accolto al 100% i nostri desiderata".
La trattativa ha portato vittorie e sconfitte, in particolare per il tabacco, dove l'Italia non è riuscita a prorogare gli aiuti europei accoppiati alla produzione fino al 2013, invece che alla scadenza prevista nel 2009. "Ma abbiamo previsto di incontrarci ancora tra ministri nel luglio del 2009 per valutazione del settore agricolo e spero si possa discutere in quella sede anche di tabacco", ha detto Zaia.
E' sulle quote latte però che Zaia insiste di più, "soddisfattissimo della soluzione ad hoc per l'Italia che ripristina la legalità dopo il disgraziatissimo negoziato del 1984" (premier Craxi e ministro Pandolfi, viene ricordato, ndr).
Spiega il ministro: "in Italia splafoniamo di 500.000 tonnellate, con multe per 200 milioni l'anno. Ora abbiamo a disposizione circa 620.000 tonnellate in più per chiudere la partita delle aziende che sforano"
Questa maggior quota, in sostanza copre ampiamente la maggior produzione in qualche modo strutturale degli allevatori italiani, eliminando il problema. "Per il futuro non avremo più multe da pagare - sottolinea Zaia -, ed abbiamo ripristinato un gap negativo di 24 anni fa a vantaggio di altri Stati e contro di noi".
Naturalmente, sottolinea il ministro "per avere le nuove quote bisognerà aver pagato le multe, però questa possibilità di maggior produzione va prioritariamente a chi vuole regolarizzarsi, per dare a tutti la possibilità di risollevarsi".
Di latte però ce ne sarà per tutti, anche per i produttori più giovani, dei quali il ministro ha spesso parlato questa mattina. "Considerando lo splafonamento di 500mila tonnate, le 640mila che abbiamo ottenuto oggi e le 200mila delle 'vecchie' che ancora non abbiamo assegnato, abbiamo a disposizione circa 340mila tonnellate ancora da distribuire".
Oggi in Italia (al netto delle 620.000 tonnellate ottenute oggi)vengono prodotte, legalmente, 10.800.000 tonnellate di latte e 10.000.000 vengono invece importate.

mercoledì 19 novembre 2008

Il sacrosanto silenzio di un premier liberale nel dramma di Eluana. Maria Giovanna Maglie

Quando una ha la fortuna di essere titolare di una rubrica, con la straordinaria possibilità di scrivere quello che le pare, ne approfitta, anche quando di certi dibattiti si avverte una dolorosa saturazione. La vicenda di Eluana Englaro è diventata purtroppo una sorta di sport nazionale, nel quale nessuno rinuncia a dire la sua, a costo di pronunciare sciocchezze irritanti.

Perché allora anche io voglio metterci la mia pietruzza? Perché negli sport nazionali all’italiana, cioè nel sentirsi tutti competenti di tutto, qualcosa di buono c’è, soprattutto se si tratta di pronunciarsi su una cosa seria, anzi serissima. C’è un desiderio diffuso e condiviso, con brutta parola si direbbe di massa, di esprimersi su un problema che è necessariamente, dolorosamente, individuale, che nessuno Stato e nessuna Fede possono regolamentare d’autorità, anche se possono e devono tracciare dei limiti all’arbitrio, nel caso dello Stato, ripetere e ribadire la parola e la dottrina, nel caso della Chiesa.


Perciò perdonatemi se ancora una volta, a decisione della magistratura presa, e addolorandomi che l’abbiano dovuta prendere dei giudici, dico ancora una volta che la morte di Eluana Englaro non è in alcun modo eutanasia, che è la fine di una sofferenza inutile e protratta per troppo tempo, che a lei, che quel desiderio espresse quando ancora poteva, e a suo padre, che ne è stato l’infermiere e il custode, spetta la decisione finale.

Per il Parlamento non è difficile partorire ora, dopo tanto dolore, una legge umana e giusta, secondo le direttive del 2005, che rispettavano la complessità della società italiana, le sue profonde radici cattoliche mescolate a una convinzione laica, che rispetta ed esige altrettanto rispetto. Smettiamola con il terrorismo mediatico e a mezzo governo. Il sottosegretario Eugenia Roccella è una donna intelligente e colta, ma il suo percorso sembra a me, cittadina ed elettrice, approdato a un integralismo di fondo già verificato durante la vicenda della fecondazione artificiale. Il governo di centrodestra dovrebbe essere liberale; non codino. Ho notato perciò con soddisfazione, sempre da cittadina ed elettrice, un rumoroso silenzio su Eluana Englaro del presidente del Consiglio. Ancora una volta ripeto: lasciatela andare in pace, lasciate in pace suo padre, che di sofferenza ne conoscerà ancora, fate presto una legge che rispetti il testamento biologico di ognuno di noi. (il Giornale)

Il paese dei zavoli. L'uovo di giornata

Un signore di ottantasei anni prova a salvare la faccia a Veltroni. Si chiama Sergio Zavoli, senatore Pd, uno di quelli che si è soliti definire un giornalista con gli attributi, che ha scritto e fatto la storia del giornalismo italiano. Sulle qualità professionale nulla da dire, sullo spessore del personaggio non si discute. Ma non vi pare una contraddizione che Walter, pur di venire a capo della telenovela sulla presidenza della commissione viglianza Rai, debba affidarsi ad un ultra ottuagenario? Proprio lui che non perde occasione per sostenere e promuovere i giovani e il loro inserimento in politica. Pare di vedere nuovamente Rita Levi Montalcini che accorre in Senato per salvare Prodi. Scene che fecero partorire a Vittorio Feltri titoli come “la Repubblica del pannolone”.

Esclamazioni forti ma che riassumevano bene la situazione. Il paese che abbraccia all’unisono l’idea di promuovere i giovani e di fargli largo, continua a chiedere aiuto ai nonni. E poi dicono che sia difficile reinserirsi nel mercato del lavoro dopo una certa età. Altri esempi. La presidenza del Il Festival internazionale del cinema di Roma è stato assegnato a Gian Luigi Rondi, classe 1921.

Un curriculum lungo con tanto di onorificenze varie. Ma parliamo sempre di un signore di quasi novant’anni. Sullo sfondo troviamo Pippo Baudo, classe ’36 e quindi un giovanotto in confronto agli altri, autoproclamarsi come il vero antidoto alla quarantenne Simona Ventura, il tutto mentre Mike Bongiorno, 83 anni, ricevere rassicurazioni dal suo amico Silvio che grazie alla medicina e alle cellule staminali potrà vivere fino a centoventi anni. Altri quarant’anni a fare spot, pubblicità e televisione. Viene da dire, poveri giovani, era meglio nascere vecchi. (l'Occidentale)

martedì 18 novembre 2008

Signori di sinistra l'incubo Berlusca l'avete creato voi. Marcello Veneziani

Signori e signorini progressisti che vi alzate ogni mattina denunciando l’esistenza di Berlusconi, che di per sé è un reato. E vi coricate ogni sera denunciando l’insistenza di Berlusconi voler vivere ad ogni costo, che lo rende scandalosamente recidivo, state a sentire: Berlusconi l’avete inventato voi. È figlio vostro per le ragioni che ora vi esporrò. Lo dico mentre esce l’ennesimo libro contro di lui dell’ottimo Massimo Giannini, "Lo Statista. Il Ventennio berlusconiano tra fascismo e populismo" (Baldini & Castoldi Dalai). Un libro esagerato già nel titolo perché parla di un ventennio che non c’è; mai vista una critica preventiva su un ventennio che non è ancora terminato. E un libro prevenuto anche in senso cronologico. Ma è esagerato soprattutto nel riprendere il più becero repertorio di demonizzazione, pur nobilitato in forma di analisi dal notista politico de la Repubblica: Berlusconi fascista, populista, perfino totalitario. Ma se c’è la libertà di pubblicare questi libri, a volte editi dallo stesso Berlusconi, se nessuno viene represso e perseguitato, se è possibile votare liberamente e democraticamente e vedere il Cavaliere alternarsi a D’Alema e Prodi, se siamo liberi di vivere pensare scrivere come crediamo, è ridicolo parlare di totalitarismo ed è offensivo per chi ha realmente patito sotto regimi totalitari.

Il disprezzo per l’Italia reale

In realtà Berlusconi lo avete inventato voi. È figlio della demonizzazione che lo accompagna da quando è sceso in campo. È figlio della vostra denigrazione permanente, dell’irrisione di tutto ciò che fa, che dice, che indossa, che pensa. È figlio della vostra intolleranza verso l’unico Padrone contro cui vi siete scagliati negli ultimi decenni, magari con il plauso degli altri padroni. È figlio del malgoverno dei vostri governi, della vacuità dei vostri leader, dell’arroganza culturale delle vostre caste, intellettuali, giudiziarie, mediatiche. E figlio di tutto ciò che gli attribuite: per Giannini ad esempio è colpa di Berlusconi se in Italia riappaiono squadristi, Licio Gelli, più razzismi vari. Era colpa di Prodi se c’erano spacciatori clandestini, pedofili e si rivedevano i terroristi rossi?

Persino la tv berlusconiana, sbarazzina e un po’ idiota, nacque per contrappasso alla vostra informazione cupa e ideologica. Poi spuntarono gli emissari del berlusconismo politico, gli zelanti servitori di lui, come una reazione allergica ai vostri funzionari, servi e agenti che pervadevano l’informazione e lo spettacolo. La gente non ne poteva più del vostro manicheismo, del vostro razzismo etico, del vostro disprezzo per l’Italia reale e popolare. E dopo dieci Santoro vuole un Fede. Berlusconi è figlio del vostro settarismo elitario, del vostro antifascismo intollerante a fascismo sepolto, un antifascismo come mestiere e come religione. E gli italiani che di religione ne hanno già una antica e radicata, non vogliono sentir parlare di un’altra religione politica, per giunta, senza Dio e senza pietà per i non credenti. Basta e avanza quella che hanno e preferiscono osservare o trasgredire quella. Berlusconi al potere lo avete portato voi, con i vostri governicchi, la vostra incapacità, il vostro scarso senso della vita e degli interessi generali. Siate stati i suoi sponsor e agenti pubblicitari. Lo avete innaffiato voi, col vostro fiele e la vostra monnezza. Lo avete messo in croce come Chisachi, ignorando che in un paese di matrice cattolica un martirio paga sempre. E gli allungate la vita ogni volta che da iettatori gridate veri e presunti problemi di salute. Avete costruito voi a rovescio il mito dell’uomo della Provvidenza, il Decisionista, l’Ubiquo e Onnipotente. Offrendo agli italiani a basso prezzo il prototipo di un dio in terra, lo zar di tutte le reti, visibili e invisibili, padrone del cielo (l’etere nell’emittenza) e della terra, signore dei consumi e dei sogni nazionali. E ora di che vi lamentate? Totalitario Berlusconi è nei vostri deliri, perché lo vedete dappertutto. Lo avete poi maledetto perché era un importatore del Nuovo o della seconda repubblica; istigandolo così al doroteismo, al riciclaggio dei detriti anche brillanti del socialismo e della dc. Lo avete costruito voi come un puzzle, giorno dopo giorno. E gli avete soffiato voi, col vostro fiato, l’anima che ora volete dannare. Lo avete poi accusato di liberismo e di far west, e ora lo condannate perché interviene nell’economia e sulle banche.

Populismo facile e telepromozioni

Se esiste davvero quel che voi chiamate berlusconismo, voi ne siete i figli naturali. Avete assimilato il populismo facile, la telepromozione; il veltronismo è un berlusconismo minore oltre che minoritario, tutto immagine, america e fiction; ma anche il dipietrismo è la sua versione rozza e terrona: l’antipolitica, il linguaggio diretto e impulsivo, il decisionismo, in versione agropastorale.

Allora vi consiglierei nel ventennale della caduta del Muro di Berlino che fu poi la caduta del Pci, di scrivere a rovescio la storia del berlusconismo, come la storia della sinistra che si guardò allo specchio e fuggì atterrita. Il berlusconismo come il rovescio speculare dell’ideologia sinistrese, il frutto delle sue incubazioni e dei suoi incubi. Scrivete la storia del fantasma berlusconiano che nasce dalla vostra mente bacata, e descrivete in lui il triplice aborto della sinistra italiana: il fascismo, il populismo e il totalitarismo. Ecco un libro necessario da scrivere e soprattutto da capire: una sinistra così si merita Berlusconi esattamente come lo descrive. Se il berlusconismo è l’effetto collaterale del sinistrismo, Berlusconi è tutto ciò che vorreste essere e non siete. (Libero)

Quando Roma è lontana dal Nordest. Massimo De Manzoni

La distanza tra Roma e il Nordest è sempre più grande ma si può misurare in due rettangolini di carta di pochi centimetri: due lanci d’agenzia di ieri. Nel primo, il segretario provinciale della Cgil di Treviso, Paolino Barbiero, spiega di aver presentato una proposta per fermare nuovi ingressi di immigrati «fino a che non saranno riassorbiti i disoccupati, stranieri e italiani». Nel secondo, il «capo» di Barbiero, il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani, che pochi giorni fa aveva chiesto di sospendere la legge Bossi-Fini per due anni, critica il governo perché ha limitato a 170mila gli accessi programmati di lavoratori dall’estero: «Un numero non sufficiente, ci voleva più coraggio». Poche righe, due mondi: il pragmatismo di chi deve fare i conti con quello che succede sul territorio contro la supponenza di chi filosofeggia da lontano, la preoccupazione di chi deve dare risposte ai concittadini che lo fermano per strada o al bar contro l’indifferenza di chi detta comunicati e parla per slogan che odorano di naftalina.È una dicotomia che sempre più spesso lacera la sinistra. Non da altro, nei mesi scorsi, sono nate le critiche e le polemiche prese di distanza di molti amministratori ex diessini. Cacciari e Chiamparino, la Bresso e Penati a modo loro hanno lanciato un solo grido a Veltroni e al suo loft: voi chiacchierate e i nostri avversari fanno, voi vi perdete dietro a Di Pietro e alla Commissione di vigilanza Rai e intanto ci perdiamo il Nord, voi vi pavoneggiate «yes we can» ma qui rischiamo di poter solo stare a guardare per i prossimi 50 anni. La novità è che ora questo dubbio è penetrato persino nella più tenace roccaforte della conservazione e delle corporazioni: la Cgil. Non nella segreteria generale, naturalmente. Ma negli avamposti del sindacato sì: là dove la realtà si scontra con l’ideologia, la realtà vince.
Nelle ultime elezioni è stato il centrodestra a convincere gli elettori di essere dalla parte della realtà ed è stato largamente premiato, soprattutto nelle aree più produttive del Paese. Poi, però, si è creato un paradosso. Come ha già scritto su queste colonne Mario Cervi, il governo più nordista della storia repubblicana ha finora dedicato la maggior parte delle sue energie a risolvere emergenze createsi ben al di sotto del corso del Po: dai rifiuti all’Alitalia. Azioni, in tutto o in parte, doverose. Ora tuttavia è giunto il tempo di guardare anche a Settentrione perché è da qui che può arrivare la spinta per uscire dalla crisi. A patto di rimediare alle croniche carenze di servizi e infrastrutture.Ieri al Giornale il ministro Matteoli ha parlato di accelerare sulla BreBeMi, sulla Milano-Mantova, sulla Tav Torino-Lione, sul Mose. Sigle che non si sentivano più pronunciare da tempo. Musica per le orecchie nordiste, che però si sono un po’ stancate di un ritornello che rimane sulla carta: vorrebbero sentirlo finalmente risuonare nei cantieri. (il Giornale)

domenica 16 novembre 2008

La sentenza che la sinistra non rispetta. Mario Cervi

La stampa schiuma di rabbia contro la sentenza di Genova che ha assolto i capi della polizia dalle accuse mosse loro per le violenze nella scuola Diaz. Precisiamo subito, per chiarezza, che la stampa cui abbiamo fatto riferimento è quella di sinistra. Da quella barricata sono venuti e vengono gli attacchi furibondi alla magistratura qualificata come serva del potere, vile, reazionaria. Di sicuro sarete stupiti: perché in innumerevoli circostanze l’abbiamo vista, la sinistra, schierata indomitamente a difesa delle toghe, e rumoreggiante per le critiche che il centrodestra muoveva ad alcune sentenze. Con altezzosità sprezzante le teste d’uovo progressiste ricordavano che le sentenze devono essere rispettate: e addebitavano alla gagliofferia dei reazionari la loro pretesa di dissentirne.Ma poi è successo che un Tribunale non accontentasse pienamente, in una sua decisione, le aspettative della sinistra amica. Che d’un colpo è diventata nemica. Abbasso i giudici. Non c’era bisogno di conferme. Ma s’è ben capito, un’ennesima volta, di che qualità sia l’ossequio alla legge che alcuni fogli e alcuni personaggi vanno continuamente sbandierando. L’ossequio funziona solo se la legge fa comodo. In caso contrario arriva, nei confronti della legge e dei suoi sacerdoti, il turpiloquio.
L’Unità si è affidata, per inveire, alla cronaca, al “vergogna, li hanno assolti, vergogna!” lanciato da un ragazzo in bicicletta. Il Manifesto ha mobilitato Luca Casarini, noto per la sobrietà civile del linguaggio, dal quale la sentenza è stata caratterizzata come “ignobile”. Solo “pessima” invece per Giuseppe D’Avanzo di Repubblica. In questo zelo antisentenza s’è inserita, non capisco bene a quale titolo, la Federazione nazionale della stampa italiana. Anch’essa invoca chiarezza, dando per scontato che i giudici di Genova abbiano rimestato nel torbido per compiacere poteri occulti.La ciliegina su questa torta d’amenità settarie è rappresentata dall’invocazione - poteva mancare? - d’una commissione d’inchiesta parlamentare. Della triste istoria d’Antonio Di Pietro - che a suo tempo la commissione parlamentare la fece bocciare, e che per questo è vituperato adesso dai talebani dell’antiberlusconismo come Vittorio Agnoletto e Francesco Caruso - s’è già occupato ieri Paolo Granzotto. Non tornerò sul patetico tema del Tonino sfiduciato. Voglio invece spendere due parole per la mania delle commissioni d’inchiesta.
Deputati e senatori privi di serie occupazioni chiedono le commissioni a ogni stormir di foglia, leggiadramente incuranti dei costi che - tra indennità, sopralluoghi e consulenze a peso d’oro - questi organismi hanno. Ma in questa occasione - e sempre all’insegna del “dagli ai giudici” - la commissione è voluta a un solo scopo: quello di smentire la sentenza della magistratura. Su avvenimenti tuttora soggetti alla valutazione dei giudici, proprio la sinistra che dei giudici si dichiara tifosa vuole una valutazione dissenziente. Il fine ultimo di quanti alla commissione s’appellano sembra consistere nell’ottenere, sullo stesso fatto, pronunce opposte. Ripetendo cioè il miracolo realizzato con l’inchiesta parlamentare sulla P2. Nella P2 la commissione individuò la matrice di tutti i mali e di tutti i crimini d’Italia. La magistratura vi ravvisò un losco ma non molto pericoloso comitato d’affari. Chi aveva ragione? Non lo sapremo mai. Per la scuola Diaz abbiamo avuto dal Tribunale una prima certezza. Troppo comodo, ragazzi. Ci vogliono il conflitto e il dubbio continuo. E sia. Ma dubbio continuo anche sull’onestà d’alcune prese di posizione della sinistra. (il Giornale)

martedì 11 novembre 2008

Atenei: prima dov'era la sinistra? Paolo Ercolani*

Caro direttore,
non posso. Io, ricercatore (precario) di filosofia politica, che da anni frequenta l’Università italiana e che si riconosce nei valori di una sinistra moderna, non riesco proprio ad aderire acriticamente alle manifestazioni contro l’ancora inesistente decreto Gelmini. Non riesco a difendere, di fatto, lo statu quo di un’università che da anni fa entrare gente fra il patetico e il grottesco, gente che non studia più (ammesso che abbia mai cominciato) e che nulla ha da dare a studenti che, sempre più impreparati, comunque ottengono il loro bel voto se ascoltano annuendo la lezioncina del prof., quasi sempre messa anche per iscritto in un libricino pubblicato da qualche minuscola casa editrice a pagamento. La Gelmini sbaglia se prevederà tagli indiscriminati, perché finirà con l’avvantaggiare i più ricchi e privilegiati, ma la sinistra dov’era in tutti questi anni in cui nelle università entravano rigorosamente i figli di e i raccomandati, da dove il vincitore del concorso veniva stabilito prima ancora di bandire il concorso e sulla base di accordi fra i vari ordinari, non su quella di un valore scientifico dello studioso e della sua produzione?

Dalla destra ci si possono e forse devono aspettare misure pensate con il criterio della gerarchia sociale, ma dove sta scritto che dalla sinistra ci si debba aspettare il nulla e il silenzio? Perché tutti si sono svegliati solo ora che il governo sembra voler affrontare una situazione che non può più andare avanti in questo modo, fornendo inevitabilmente l’immagine di una sinistra sempre al rimorchio d’idee d’altri, prontissima ed efficace a contestarle ma tristemente incapace di proporne di proprie a tempo debito? Facendo prosperare questo sistema di «baronaggio onnipotente», abbiamo lasciato che l’università, luogo cardine della cultura di un Paese, si impoverisse e degradasse fra docenti improbabili e sconosciuti alla comunità internazionale (ma ben conosciuti ai piccoli potentati locali e territoriali), e studenti che «seduti dall’altro capo della scrivania, in un italiano stentato, smozzicano frasi per lo più sconnesse, ciancicano frattaglie di nozioni irrancidite, rimasticano rigurgiti di conoscenze mal digerite» (Antonio Scurati, La Stampa del 1° novembre).

Contro tutto questo la sinistra italiana non ha fatto pressoché nulla, creando di fatto il peggiore dei sistemi fondati sulla «gerarchia» e sul «privilegio», perché se il sapere degrada presso la generalità degli studenti, a ottenere successo comunque nella società saranno quelli provenienti dalle famiglie agiate, così come a potersi permettere la carriera universitaria saranno soltanto quelli sempre con famiglia ricca alle spalle. Un paese in cui la «famiglia» diventa il fattore più importante di avanzamento dei saperi e delle carriere è inevitabilmente condannato al degrado e all’emarginazione internazionale. Ecco perché non ce la faccio a scendere in piazza con questi studenti (alcuni dei quali anche i miei), in maniera acritica e senza che un tormento interiore s’impossessi del mio animo, senza potergli dire le cose che sto scrivendo qui. Così come non ce la faccio a manifestare a fianco di quei tanti «incardinati» che hanno trovato posto nell’università grazie alle logiche grette e degradanti di cui abbiamo parlato, e che oggi vorrebbero solo che si potesse continuare a vivere come se le vacche fossero sempre grasse e le botti piene.

Io accuso la sinistra italiana di prolungata latitanza, accuso chi ha gestito le università finora d’irresponsabilità e spirito di casta, accuso un Paese in cui la cultura sta diventando roba noiosa, per reietti da ogni reality show che si rispetti, e accuso anche me stesso di aver avuto più di un timore a firmare questa lettera. Accuse ben più gravi di quelle comunque sacrosante che mi verrebbero da rivolgere a un giovane e improvvisato ministro che agisce evidentemente sotto l’«egìda» di qualcun altro...(la Stampa)

*ricercatore all’Università di Urbino

sabato 8 novembre 2008

La cura statalista non salverà Wall Street dalla prossima crisi. Elio Bonazzi

Sono ormai anni che lavoro a Wall Street, nel settore delle tecnologie informatiche ad alto valore aggiunto. Disegno sistemi e basi di dati per quelle che fino a due mesi fa erano le grandi merchant banks americane, le varie Merrill Lynch, Goldman Sachs, Morgan Stanley, etc. Dopo il terremoto finanziario delle scorse settimane non esistono più merchant banks. La Merrill Lynch si sta amalgamando con Bank of America, Goldman e Morgan Stanley sono diventate banche normali, retail banks, quindi soggette a regole molto più stringenti in termini di operazioni finanziarie consentite e controlli, con auditing molto più estesi da parte della Federal Reserve e dai diversi enti regolatori del mercato finanziario.

Gli avvenimenti degli ultimi tempi sono ormai l’unico, monotono argomento di conversazione nei miei vari luoghi di lavoro, tra Manhattan ed il New Jersey, dove ormai si estende l’industria finanziaria in seguito all’attacco dell’11 settembre 2001. Tra addetti ai lavori non possiamo che essere scettici sulle reazioni dei politici, che in preda al panico stanno approfondendo la crisi, piuttosto che alleviarla. Ma procediamo con ordine: le crisi finanziarie non sono certo nuove, la storia pullula di esempi simili, antichi e più recenti. Il classico libro di Charles Mackay, pubblicato per la prima volta nel 1841, tradotto in italiano col titolo "La pazzia delle folle. Ovvero le grandi illusioni collettive", riporta esempi di bolle finanziarie come la "mania dei tulipani", che nell'Olanda del 17esimo secolo mise sul lastrico migliaia di persone coinvolte in uno dei primi esempi di crisi finanziaria del capitalismo moderno. Ornamento fra i più ambiti dai ricchi puritani che non eccedevano in consumi vistosi, il tulipano divenne una moda irresistibile all'inizio del decennio del 1630. Dalla moda alla mania speculativa il passo fu quello di una febbrile accelerazione. Più i prezzi aumentavano, più la gente acquistava col miraggio di una scalata senza fine. Fino a un massimo e al crollo del 1636 - 37. Al culmine della mania speculativa il prezzo più alto per un singolo bulbo fu di ventimila sterline. Quando il reddito annuo di una famiglia olandese era di circa 300 fiorini, al crescere della tulipomania, il "Semper Augustus", uno dei bulbi più rari, passava da 5.500 a 10.000 fiorini. Il crollo dei prezzi, alla fine, fu inevitabile e devastante. Così come fu devastante, tra euforia e panico, l'effetto delle altre crisi finanziarie del capitalismo moderno, diligentemente riportate e spiegate da Mackay nel suo libro, come le contemporanee bolle finanziarie della South Sea a Londra e del Mississippi a Parigi nel 1719 e nel 1720.

Guardando alla storia più recente, negli anni ottanta abbiamo avuto la bolla cosiddetta dei "junk bonds", negli anni novanta quella di Internet. Alla fine degli anni novanta lavoravo in Australia, facendo consulenza per Quest Software, una delle maggiori aziende di software mondiali, tra le prime 50 aziende del settore. La Quest aveva 1200 dipendenti in tutto, tra USA, Australia ed Europa, un personal computer per ogni dipendente, e qualche server, ben più costoso di un PC, ma decisamente non paragonabile al costo di un Jumbo jet. La Quest nel 1999 era più capitalizzata della Qantas, la linea area australiana, che possedeva decine di Jumbo jets, oltre ad aerei di minori dimensioni, ed aveva più di 10.000 dipendenti. Quando facevo osservare il paradosso di un mercato che sopravvalutava a dismisura una Quest e penalizzava pesantemente un pezzo dell' "economia reale" dell'Australia come la Qantas, i miei amici col Master in Business Administration mi guardavano con aria di sufficenza, considerandomi un dinosauro che non capiva come nella nuova economia la proprietà intellettuale era tutto, era un valore che, seppure impalpabile, superava di gran lunga il valore intrinseco dei beni dell'economia tradizionale.
L'aprile del 2000 ha reso giustizia ai dinosauri del mio stampo, spazzando via l'80% del "valore" del Nasdaq durante il dotcom crash. Quando la distanza tra valore percepito e valore reale cresce al di là dei paradigmi del senso comune, la bolla esplode. Non dimentichiamoci di Enron e Worldcom, l’ultima bolla prima dei mutui subprime, esplosa nel 2002. Il caso Enron e Worldcom fu essenzialmente uno scandalo contabile, di bilanci gonfiati e fasulli che aderivano sì alle linee-guida burocratiche della SEC, l’analoga della Consob in Italia, ma che nei fatti fuorviavano gli investitori. Un brillante riassunto di come il Caso Enron e Worldcom abbia potuto assumere dimensioni tali da far tremare i mercati finanziari mondiali è disponibile in italiano, grazie a Massimiliano Neri.

Già nel 2002, in seguito a quello scandalo, si levarono alti gli scudi dei regolatori e degli statalisti, che forti dell’indignazione popolare verso, ancora una volta, quegli sciagurati di amministratori delegati che guadagnano milioni riducendo alla rovina i pesci piccoli (i risparmiatori), chiedevano a gran voce una regolazione più stringente ed un maggiore intervento dello Stato, chiamato a sopperire “alle debolezze intrinsiche del mercato”.

E la risposta dello stato arrivò implacabile alla fine di luglio del 2002, con una legge denominata Public Company Accounting Reform and Investor Protection Act of 2002, ma nota come la “Sarbanes-Oxley”, il senatore democratico del Maryland Paul Sarbanes ed il deputato repubblicano dell’Ohaio Michael G. Oxley, che presiedettero la commissione d’inchiesta divenendo gli sponsor della nuova legge. La “Sarbanes-Oxley” ha formato un nuovo ente, un “controllore dei controllori” – il Public Company Accounting Oversight Board o PCAOB – che supervisiona l’operato dei certificatori di bilanci, ed ha imposto un complicato ed astruso insieme di norme e procedure per l’auditing della finanza aziendale.

La risposta dello stato è, come sempre, una risposta “burocratica” – la formazione di un nuovo dipartimento a spese di Pantalone, e la produzione in triplice copia di documenti che se hanno un senso all’inizio, subito dopo la promulgazione della legge, con l’andar del tempo diviene un rito svuotato di ogni contenuto fattuale. Ma per noi informatici la Sarbanes-Oxley fu tanta manna inviata dal cielo. L’attuazione pratica in azienda delle norme Sarbox ha significato un’espansione considerevole dei budget per la spesa informatica necessaria per essere ritenuti conformi alle direttive della legge. Le basi di dati finanziarie sono state soggette ad uno scrutinio mai visto, la Oracle Corporation ha prodotto un nuovo add-on, chiamato Database Vault, che impedisce la visione delle informazioni contenute nella base di dati anche agli stessi gestori del database, che fino ad allora, avendo accesso privilegiato al database, potevano selezionarne i records e visualizzarli. L’azienda di cui sono Chief Technology Officer ha aumentato il fatturato negli anni che vanno dal 2003 al 2006 di circa il 30-35%, grazie alla maggiore richiesta di servizi informatici generata dalla Sarbanes-Oxley. Io stesso ho curato l’implementazione di Oracle Database Vault in alcune delle grandi merchant banks, lavorando con remunerazioni record. La retorica dei politici in quegli anni era dominata dal messaggio “sappiamo di chiedere un grosso sacrificio alle aziende, ma la contropartita è una tale trasparenza da evitare crack finanziari in futuro”. Le ultime parole famose.

Arriviamo alla crisi attuale. Come era ovvio per gli addetti ai lavori, non c’è Sarbanes-Oxley che tenga, quando una bolla si forma deve scoppiare. Ancora una volta, sono i meccanismi di allucinazione collettiva che dovrebbero essere sotto accusa, non il capitalismo. È dal 2004 che ricevo spam email che annunciano il futuro crash del mercato edilizio e propongono forme di investimento alternativo. La realtà era sotto gli occhi di tutti, non che gli spammer promotori di dubbie operazioni finanziarie alternative fossero particolarmente intelligenti o arguti premonitori dell’andamento del mercato. Ancora una volta, come nel 2002 per il caso Enron, la politica ha le maggiori colpe. È curioso come l’attuale crisi dei mutui subprime non sia stata un argomento da usare dai democratici in campagna elettorale contro il candidato repubblicano. Un attacco di Obama contro i repubblicani che li avesse accusati di essere responsabili per la crisi dei mutui subprime si sarebbe ritorto contro di lui. Fin dall’inizio sia democratici che repubblicani hanno ammesso di avere colpe comuni – molto comprensibile, visto che da parte repubblicana lasciare crescere la bolla finanziaria significava dare il miraggio di un “sogno americano” facile per quella parte di popolazione esclusa dai grandi sgravi fiscali dell’era Bush, e da parte democratica il gonfiare a dismisura enti parastatali come Fanny May and Freddy Mac rientrava nella logica di welfare statalista di cui i democratici sono campioni e promotori. Dal 2004 era chiaro che la bolla era in atto, ma nessuno ha mosso un dito per evitarne le catastrofiche conseguenze. Il prezzo politico da pagare era troppo alto per tutti.

Il pensare che un intervento governativo a Wall Street possa migliorare la situazione è risibile. La risposta statale alla crisi sarà ancora una volta burocratica. Un’ennesima commissione d’inchiesta, che comporterà la creazione di un altro ente – prevedo un nuovo controllore dei controllori, una super-SEC – che emanerà direttive che implicheranno la creazione di documenti e rapporti, che con l’andar del tempo nessuno leggerà, ma che entreranno a far parte dei ritualismi aziendali… fino alla prossima bolla. Che arriverà puntualmente, nonostante i nuovi regolamenti.

Ho già avuto un assaggio della nuova ventata regolativa. Per una delle maggiori banche sopravvissute al terremoto finanziario ho disegnato un sistema informativo che calcola l’esposizione al rischio di ogni posizione di trading. Usando una modellistica finanziaria ultrasofisticata, siamo in grado di calcolare il rischio dovuto a shock di mercato, come il prezzo del greggio a 200 dollari al barile o il crollo del rublo. Simulando scenari “normali”, invece che imporre shocks, siamo in grado di consigliare di disfarsi di posizioni più a rischio e di avere un portafoglio più bilanciato. Questo su un volume di circa 4 milioni di posizioni al giorno. I creatori dei modelli di simulazione hanno almeno un dottorato di ricerca in matematica, e guadagnano cifre che solo il settore privato può permettersi. La SEC, che sta già imponendo la produzione di documenti e rapporti obbligatori in seguito alla recente crisi, si è mostrata molto interessata al sistema, il cui by-product è la creazione di rapporti finanziari che ogni giorno dovranno essere obbligatoriamente forniti all’ente regolatore. C’è tuttavia un problema. Siccome alla SEC nessuno è in grado di capire l’output del nostro sistema, perchè troppo complesso, i diligenti funzionari governativi hanno chiesto, in modo candidamente naïve: “Non potreste darci solo una pagina riassuntiva?”. La domanda stessa tradisce la colossale incompetenza dell’ente governativo. No, non è possible riassumere in una pagina il risultato di una simulazione così sofisticata da richiedere menti matematiche e risorse informatiche non comuni, è come chiedere di riassumere in una pagina il contenuto dell’Enciclopedia Treccani. Sappiamo già come andrà finire. I rapporti giornalieri prodotti dal nostro sistema, che presto diventeranno obbligatori per tutto il settore, andranno a formare una pila su una scrivania di un burocrate che non saprà neppure leggerli, ma che li catalogherà con diligente deferenza burocratica in caso una nuova commissione d’inchiesta ne abbia bisogno.

Se da una parte l’immissione di nuove regole urta la mia sensibilità libertaria, dall’altra me la rido pensando alle nuove opportunità per me e per la mia azienda. In controtendenza con il resto del mercato a New York, siamo già in espansione; il nuovo grosso business, per il momento, è l’integrazione dei sistemi informativi in seguito alle fusioni delle grandi banche, per esempio Merrill Lynch e Bank of America. Ma è solo l’inizio – anticipiamo una espansione ancora maggiore quando le banche sopravvissute alla crisi finanziaria dovranno ricorrere ai nostri servizi di supporto informatico per ottemperare alle nuove regole burocratiche che indubbiamente seguiranno il bailout.

Così come i monatti, che immuni alla peste durante le grandi epidemie dal medio evo al seicento, lucravano sulle sfortune altrui, facendosi pagare lautamente per portare i malati al lazzaretto ed i morti al cimitero, noi, monatti del 21esimo secolo, prosperiamo, nostro malgrado, sulle miserie indotte dallo statalismo e dalla frenesia regolamentativa, pur sapendo in anticipo che il frutto del nostro lavoro non servirà ad impedire la prossima bolla; servirà soltanto a dare un fallace senso di sicurezza al cittadino medio, rassicurato dai politici sull’impossibilità di un nuovo crollo, “adesso che il governo ha finalmente sotto controllo Wall Street”. Sembra un déjà vu che si ripete e si perpetua senza mai destare il dubbio che la ricetta statalista provoca solo sprechi e burocrazia aggiuntiva senza mai risolvere il problema. (l'Occidentale)

venerdì 7 novembre 2008

Ma il linguaggio diretto di Silvio ha creato la sua fortuna politica.

Berlusconi è così, prendere o lasciare: il protocollo e il gergo della diplomazia non sono nel suo dna, ma stipulare tredici accordi con la Russia e ripulire Napoli dai rifiuti sono cose che gli riescono bene. Prendete l’esempio della battuta su Barack Obama: che cosa avrebbe detto di sconveniente Berlusconi, se si va all’osso? Il fatto che alluda al colore della pelle del nuovo Presidente degli Stati Uniti? Ma che scoperta! Tutto il mondo ne parla, da mesi, compresi tutti i sepolcri imbiancati che oggi simulavano indignazione e raccapriccio. Anzi, a voler essere filologici, il modo in cui Obama deve essere definito, in America, non è ovviamente la parola nigger (che corrisponde anche in italiano al dispregiativo «negro»), non è di sicuro «afroamerican» (perché Obama non appartiene al ceppo etnico degli ex schiavi dell’Ottocento), ma è proprio «coloured» (di cui «abbronzato», se vogliamo, è la più vezzeggiativa delle traduzioni). Quindi, andando al sodo, nella frase pronunciata da Berlusconi in Russia non c’è nulla, ma proprio nulla che abbia un sottofondo vagamente o concretamente razzistico. Ed è la sostanza delle cose che decide se una battuta è offensiva oppure no. Mentre la vera gaffe è quella di chi continua a non capire che da quattordici anni, l’anomalia vincente di Berlusconi consiste proprio nella sua continua capacità di violare i confini del politicamente corretto. Dovrebbero capire, i Veltroni, i Franceschini, i vari Di Pietro che da almeno quattordici anni non è che Berlusconi vinca malgrado un eloquio che loro considerano sconveniente, ma semmai il contrario. Berlusconi vince proprio perché la sua cifra comunicativa è questa: diversa, non imbrigliata dalle convenienze, non congelata dal freddo sigillo della più algida burocraticità. Ma tutti i grandi leader violano e hanno violato questi confini, nella storia: non era politicamente corretto Winston Churchill, quando durante la guerra pronosticava «lacrime e sangue» (non parlava di «sacrifici doverosi», come gli eurocrati di oggi), non lo era sicuramente Charles De Gaulle quando spiegava che nella sua Francia c’erano più partiti politici che formaggi (ed era Presidente della Repubblica!). E così, da quattordici lunghi anni, Silvio Berlusconi continua a fare questo: si diverte a infilare le corna in una foto ufficiale, per esempio. Sono forse più spontanee quelle foto in cui le grisaglie grigie dei burocrati si mettono in posa una al fianco all’altra? Ovviamente no. C’è forse qualcosa di offensivo per il ministro spagnolo che fu vittima di questa burla? Ovviamente no. E dunque Berlusconi rompe quella ritualità impolverata, e comunica la sua diversità. Oppure il premier dice: vincerò io perché «gli elettori non sono mica dei coglioni». Tutti noi, nella nostra vita quotidiana facciamo ricorso a questo lessico informale, e sicuramente ironico: ma gli opinionisti della sinistra vogliono vedere in quella battuta una notitia criminis e allora ne rovesciano il senso: «Berlusconi dà dei coglioni agli elettori del centrosinistra». Qui, se c’è qualcosa di osceno è il modo in cui il senso di quella battuta è stato deliberatamente stravolto per creare un caso, per trasformarla in un insulto. E il Berlusconi che dava del kapò a Schultz che aveva mancato di rispetto al governo italiano? Certo, per un tedesco era sicuramente un’offesa sanguinosa, ma non era anche questa una risposta a chi per anni ci ha dipinto come dei mangiaspaghetti mafiosi? Ancora una volta, il politicamente scorretto berlusconiano andava al senso delle cose, senza giri di parole, e significava scrollarsi di dosso gli atavici complessi di inferiorità che per noi risalgono alla seconda Guerra mondiale.Lo stesso vale per le barzellette sulle sabbiature, per le bandane più o meno esibite, per le revisioni storiografiche un po’allegre e per le battute sulle località di «villeggiatura» dei confinati del fascismo. Il premier è diverso dai molti ipocriti che si fanno scudo del politicamente corretto per difendere politiche scorrettissime, lobbies di affari, rendite di posizione e poteri forti. Nella sua base elettorale il politicamente scorretto berlusconiano raccoglie ascolto e consensi. Una «connessione sentimentale», come direbbe forse Antonio Gramsci, che al rapporto fra il sentimento nazionalpopolare e le leadership ha dedicato alcune delle pagine più belle dei suoi quaderni. Parlava anche di Berlusconi. Anche se non poteva saperlo. (il Giornale)

mercoledì 5 novembre 2008

La vera sciagura saranno gli obamiani italici. Lanfranco Pace

Un po’ per tigna, un po’ per una certa consuetudine con il tavolo verde, so che finché hai una fiche e una sedia, non hai ancora perso. La vittoria gli altri se la devono comunque sudare. Obama ha sudato, mese dopo mese, andando a mille, adrenalina al massimo, mettendo in riga tutti. Per diritto democratico e forza della leadership il presente e l’avvenire sono innegabilmente suoi. Non hanno sudato affatto invece gli adoranti di questa contrada, le giovani marmotte che sognano l’altra faccia dell’America e che hanno già ordinato balle di tubini neri e camicie bianche immacolate da portare con il colletto aperto. Nei mesi a venire dunque la sciagura non sarà Obama, ma gli obamiani italici, i residuali del riciclo, gli specialisti fantasiosi della protesi e della plastica facciale.

Noi, pochi in verità, che per otto anni abbiamo approvato una politica “barbara” perché pensavamo fosse la sola in grado di difendere la democrazia e l’occidente, fregandocene dell’evidente mancanza di carisma e d’appeal del comandante in capo, perdonandolo anche quando si comportava come un “ganascia” di periferia, ecco noi possiamo sopportare tutto ma non un crepuscolo malinconico. Perché, delle due l’una. O abbiamo preso una crudele cantonata e allora dovremmo ammetterlo. Oppure se siamo ancora convinti che il bushismo continuerà oltre Bush, al più con qualche correzione di forma, dobbiamo saper aspettare con spavalderia.

Siccome mi sono fatto due palle così a sentire chiacchiere stravaghe di gente che diceva che Bin Laden l’avevano inventato gli americani e quindi spettava a loro chiedere scusa all’islam e al mondo, ho visto pure uomini con occhialetti d’acciaio e donne tacco zero precipitarsi alle peggiori cagate di Michael Moore, proprio io che amo follemente l’America da quando vidi “Via col vento” e “Ombre rosse” e che l’amo tutta intera perché è un paese e uno solo e Humphrey Bogart e John Wayne sono due facce dello stesso mito, ecco io a questi qua non gliela darò mai vinta. Poi si vede già che Obama ha un che di sceriffo, sarà Morgan Freeman e non il Duke, va bene lo stesso: quando se ne accorgeranno qui, ci sarà da ridere. (il Foglio)

martedì 4 novembre 2008

L'eroe americano degli antiamericani. Arturo Diaconale

“Beati quei popoli che non hanno bisogno di eroi”. Quante volte abbiamo ascoltato la famosa frase di Bertold Brecht? Una infinità. Al punto da convincerci che esprime un valore assoluto, da considerare come se facesse parte dei “Dieci Comandamenti”. Invece, si tratta di una colossale sciocchezza. Perché i popoli hanno bisogno di eroi positivi. Al punto che se non riescono ad esprimerne di propri si aggrappano agli eroi altrui. Il caso delle elezioni americane è la riprova che Brecht sbagliava e che quelli che lo avevano trasformato in un Mosè redivivo ci hanno per decenni imbrogliato. Non avendo più eroi condivisi a cui fare riferimento ed, anzi, avendo per decenni smitizzato e cancellato tutti quelli provvisti dei requisiti per esserlo, l’opinione pubblica italiana ha puntato su un eroe straniero ed ha scelto come espressione dei propri sogni, aspettative e speranze il candidato democratico alla Casa Bianca Barak Obama. A dispetto dei sondaggi che ci hanno martoriato nella lunghissima campagna elettorale Usa, nessuno è in grado di prevedere con certezza se Obama riuscirà a battere McCain. Ma questo sembra un dettaglio marginale. Per quella parte degli italiani (si calcola più dell’ottanta per cento) che lo ha scelto come proprio eroe, il candidato democratico è già presidente da più di un anno. Certo, oggi gli americani votano. E questa sera ci saranno le interminabili dirette sull’andamento delle operazioni elettorali nei singoli stati.

Ma per gli obamisti italici si tratta di un rituale dall’esito scontato. Ai loro occhi l’eroe siede già da mesi al tavolo presidenziale. E se ancora non ha avuto l’investitura ufficiale e non svolge le funzioni che un tempo furono di Kennedy lo si deve solo al testardo attaccamento alla poltrona del nefasto Bush. Il fenomeno non è soltanto italiano ma riguarda tutti i paesi europei. Anzi, pare che in Francia, Spagna, Germania e Regno Unito le percentuali di chi ha scelto Obama come proprio eroe siano addirittura più alte di quelle che registrate nelle nostre città. Come se l’intero Vecchio Continente avesse rinunciato ad avere come modello un personaggio espressione della propria storia e della propria tradizione politica e culturale ed avesse deciso di puntare su un modello di eroe definitivamente globalizzato. Perché Obama? Ognuno si può sbizzarrire nel formulare una risposta. Perché è politicamente corretto in quanto nero ma al tempo stesso a stelle ed a strisce. Perché promette più tasse e più intervento pubblico che è musica per le orecchie degli orfani del socialismo di stampo sovietico (ed anche del corporativismo di stampo italiano). Perché lascia intendere che rinnegherà l’unilateralismo imperiale di Bush e tornerà all’imperialismo multilaterale di Clinton.

Perché è giovane, aitante e sembra il figlio di Sidney Poitier ed il fratello più piccolo di Denzel Washington. I perché possono essere infiniti. Ma è un fatto che le folle italiche e quelle europee hanno scelto un eroe e se la loro granitica certezza di avere finalmente l’uomo giusto a cui guardare come speranza per il futuro venisse infranta, si sentirebbero terribilmente frustrate e deluse. Si dirà che tutto questo è frutto del condizionamento dei media, che negli Usa così come in Europa, sono per la maggior parte schierati ed adagiati sulle posizioni liberal e di sinistra. Si dirà anche che nel puntare su Obama gli antiamericani dell’Europa non si rendono conto di dimostrare di non avere altro modello che quello americano. Si dirà quello che si vuole. Ma soprattutto che, alla faccia del comunista ipocrita Brecht, gli eroi servono. (l'Opinione)

lunedì 3 novembre 2008

Silvio pensaci tu...

Vorrei che Berlusconi intervenisse, vorrei che indicesse una conferenza stampa per chiarire una volta per tutte e definitivamente la condotta del Governo riguardo alla scuola.

Troppe parole al vento si sono spese da parte di tutti: sono rimasti pressapochismo ed improvvisazione.
La sinistra mistifica, falsifica, omette e inventa: nessun aggancio alla verità, se non per sbaglio.
La destra annaspa, si difende, balbetta e soccombe.

Non possiamo permetterci politici impreparati perché, di fronte a spudorate falsità, si deve poter controbattere con precisione chirurgica e argomentazioni solide.
La maggioranza non sa comunicare e si ostina ad usare il linguaggio del confronto, concedendo all'opposizione lo slogan urlato e il clamore della piazza.
Siccome è falso che il Governo "controlla" le televisioni e la carta stampata, dobbiamo dimostrare una volta per tutte che l'autorità e l'autorevolezza di una coalizione di governo si misurano con i fatti e non con le panzane di chi sa solo contestare.

Potrebbe essere ragionevole non partecipare ai dibattiti televisivi, ma trovo più efficace ricorrere alla prova provata, alla carta scritta e al giudizio terzo quando si contestano numeri o fatti facilmente verificabili: non è possibile che non si trovi un accordo su numeri pubblicati o su fatti, leggi ed episodi pubblici.

domenica 2 novembre 2008

La scuola che non cambia. Davide Giacalone

La scuola d’oggi non è diversa da quella di ieri, quella di domani non sarà diversa da quella d’oggi. La conversione in legge di un decreto ha agitato le piazze, ha fatto il miracolo di restituire la parola ad una politica altrimenti muta. Senza saper leggere, però. Se il testo fosse conosciuto per quel che c’è scritto, sarebbero ingiustificati tanto i festeggiamenti quanto i lutti. La riforma non c’è, e quella che si vedrà è il frutto di due legislature fa, quando passava nel silenzio dei movimenti e con la sinistra che, nella scorsa legislatura, si limitò a posticipare, senza nulla cambiare. Se così stanno le cose (e sfido a dimostrare il contrario), cosa sta succedendo?
Dire che i giovani in piazza sono solo una minoranza serve a poco, anzi, confonde le idee. Sono anni che non esiste alcun movimento studentesco, e le varie “pantere”, di cui i giornalisti riempivano articoli e teleschermi, erano micioni, gattini ciechi fuori dal contesto. Ragazzi che si accontentavano dell’ignoranza che veniva impartita loro, che scorrevano in scuole ed università senza selezione e meritocrazia, convinti che il tempo, condito anche con qualche sensuale piazzata, avrebbe dato loro i “diritti” dei loro genitori: consumare senza produrre, vincere senza competere.
I tagli riguardano (troppo poco) baronie e rendite di posizione, ma sono i giovani a fornire la carne da manifestazione. Ho visto che alcuni studenti si sono spogliati, per attirare i fotografi. Claudiani e veline hanno applicato alla protesta il codice comunicativo nel quale sono cresciuti. Un padre s’è arrabbiato. Ha ragione, ma è terribilmente in ritardo, perché s’è allevata una generazione destinata ad applicare la profezia di Andy Warhol, senza neanche conoscerla: tutti saranno famosi, per quindici minuti. Ho ascoltato un’assemblea all’università di Siena, dove parlavano i professori: cattivo italiano, lessico datato e logica mancante.
Il brodo di coltura, però, è pericoloso. Solo pochi sembrano avvertire quel che sta arrivando. Non avremo “studenti ed operai uniti nella lotta”, ma spappolamento sociale, incattivito da minore possibilità di consumare. Urge politica, capacità di offrire disegni coerenti e riforme profonde. Ne vedo tanti che parlano al passato, altri che galleggiano sul presente. Il futuro è sguarnito.