giovedì 31 maggio 2007

Cancellare l'aumento di domani delle accise sul gasolio. IBL

Per l'Istituto Bruno Leoni il governo dovrebbe urgentemente cancellare l'aumento delle accise sul gasolio, imposto dal decreto legislativo n.68 del 22 febbraio 2007. L'aumento, che entrerà in vigore da domani, porterà l'accisa da 0,416 a 0,423 euro per litro; se si considera anche l'Iva al 20 per cento, la componente fiscale sarà di ben 0,508 euro per litro, un aumento pari all'1,68 per cento, in un momento in cui sembra essere unanime la convinzione che i prezzi dei carburanti per autotrazione siano troppo alti.

Commenta Carlo Stagnaro, direttore Ecologia di mercato dell'IBL: "se è vero che i prezzi sono troppo alti, allora bisogna intervenire subito sulla componente fiscale, che ne rappresenta la quota maggioritaria. Per di più, l'Antitrust ha recentemente accusato le compagnie di spostare illecitamente i loro margini dalla benzina al gasolio: perché l'Authority non contesta lo stesso comportamento al governo, che da anni aumenta la pressione fiscale sul diesel più velocemente di quanto non faccia sulla benzina? La verità è che, così come il teorema dell'Antitrust è infondato, l'esecutivo continua ad accanirsi contro il diritto della gente alla mobilità al solo scopo di generare gettito, senza alcun riguardo alle reali esigenze della popolazione".

Per sensibilizzare il pubblico sull'incidenza della componente fiscale sui carburanti, l'IBL ha avviato la campagna www.StopAccise.com. Sul tema della tassazione dei carburanti, si veda il Focus di Stagnaro Il dito e la luna. Perché in Italia i carburanti costano troppo, liberamente scaricabile qui (PDF). Sul teorema Antitrust contro le compagnie petrolifera, Stagnaro ha scritto assieme a Stefano Verde il Briefing Paper "Cartelli, cartelloni e carte bollate. Il caso dei carburanti", disponibile qui (PDF).
A me pare una ...ronzata, ma questa notizia è ripresa oggi da quasi tutte le agenzie.

Cnr: tracce di cocaina nell'aria di Roma
“Le concentrazioni più elevate di cocaina sono state riscontrate al centro di Roma e specialmente nell'area dell'Università La Sapienza”. Ad annunciare il risultato dell’indagine è Angelo Cecinato, un ricercatore dell'Istituto sull'inquinamento atmosferico (Iia) del Consiglio Nazionale delle Ricerche.
“Anche se – chiarisce - a causa del limitato numero di misure eseguite non si può dire con certezza che il quartiere universitario sia quello più inquinato da cocaina. Né possiamo affermare tout court che vi siano più diffusi il consumo e/o lo smercio di droghe: le cause di questa concentrazione sono tutte da indagare”.
La ricerca del Cnr si inquadra nel contesto più ampio della valutazione di composti tossici presenti nel materiale particolato ed è stata essenzialmente condotta in due aree urbane italiane (Roma e Taranto) e ad Algeri.
I risultati hanno evidenziato, oltre alla presenza di cocaina e di sostanze tossiche conosciute (come il benzopirene C20H12, un idrocarburo cancerogeno presente nel fumo di sigaretta, negli scarichi degli autoveicoli e nelle emissioni da combustione), quella di cannabinolo (il principale componente attivo di marijuana e hashish) e altre droghe, anche se meno dannose, come nicotina e caffeina.
Nicotina e caffeina risultano presenti in tutte le aree studiate, “dimostrando l’estrema diffusione del consumo di queste sostanze e la loro permanenza nell’aria ambiente”, spiega Cecinato.
L'analisi dell’evoluzione stagionale della cocaina in aria indica che le concentrazioni massime (a Roma, circa 0,1 nanogrammi per metro cubo) si raggiungono nei mesi invernali, “probabilmente per la più frequente e intensa stabilità atmosferica, ossia a causa dell’inversione termica al suolo che ‘blocca’ le emissioni d’inquinanti nei più bassi strati dell’atmosfera, impedendone la dispersione”.
Tali concentrazioni potrebbero apparire relativamente contenute, ma sono appena cinque volte inferiori ai limiti stabiliti per legge per una sostanza ampiamente riconosciuta come tossica quale è appunto il benzopirene.

mercoledì 30 maggio 2007

Autorità gasata. Davide Giacalone

La procura di Milano ipotizza una truffa nella misurazione del gas, raccoglie i dati di una lunga indagine compiuta dalla Guardia di Finanza ed invia degli avvisi di garanzia ai vertici delle aziende coinvolte. Non si dovrebbe drammatizzare e si faccia salva la presunzione d'innocenza. Ma ci sono conti che non tornano
L'Eni ha fatto sapere che chiarirà tutto, ma che le differenze nelle misurazioni non hanno comunque danneggiato i consumatori. E che significa? Essendo difficile che abbiano danneggiato i russi, gli algerini od i libici, che misurano per i fatti loro quel che ci vendono, ed essendo l'Eni un monopolista posseduto dallo Stato, delle due l'una: o non c'è alcun danno, o, se c'è, è a carico degli interessi nazionali, di tutti. Poi si tratta di stabilire se lo abbiamo pagato come consumatori di gas, o come cittadini, od in ambo le vesti. Lo stesso Eni sottolinea che le misurazioni avvengono secondo le indicazioni emanate dalla competente autorità. Leggo, però, che Alessandro Ortis, presidente dell'Autorità vigilante su l'energia elettrica ed il gas, afferma che collaborerà con la magistratura (ci mancherebbe) nella quale ripone fiducia. Grazie, gran bella cosa. Ma allora che ci sta a fare l'Autorità da lui presieduta? Si scopre, difatti, che gli apparecchi per la misurazione non sono omologati, taluni anche senza sigilli e che la disomogeneità dei risultati prende a scusa la diversa consistenza del gas a seconda della provenienza. Ricordate la domanda trappola che ti facevano a scuola: pesa più un chilo di piombo o di piume? Ed i fessi rispondevano scegliendo la prima opzione. Non ci provino con il gas.Se e quando ci sarà un processo (fra anni) sapremo se si sono commessi reati. Ma già ora sappiamo che l'Autorità di garanzia ha una concezione gassosa delle proprie competenze. Sento già l'obiezione, sempre la stessa: non abbiamo poteri adeguati. E allora dimettetevi, protestate, andate via, dite che così non si può lavorare. Invece se ne stanno tutti lì, da quelli della privacy a quelli degli scioperi, scarrozzati da un convegno all'altro a dir cose che solitamente criticano l'andazzo che dovrebbero vigilare. Il tutto in attesa che sorga un problema vero, innanzi al quale invocare la più devastante delle attenuanti: e io che c'entro? io sono inutile.

La lettera di Daniele Capezzone in risposta alle critiche di Pannella.

Roma, 29 maggio 2007

Carissime compagne, carissimi compagni, care amiche e cari amici radicali,
da sette mesi, con zelo forse degno di miglior causa (dopo che, per cinque anni consecutivi, 26 mozioni da me presentate sono state sempre – e pressoché unanimemente - votate dal gruppo dirigente radicale, Marco Pannella in testa!), vengo sottoposto ad un fuoco di fila di attacchi, con punte di comicità ai limiti del surreale (ancora domenica mattina, Marco mi ha …sobriamente paragonato al Mussolini anni '20).
Entro breve, di questo passo, temo che possano essermi addebitati anche il programma nucleare iraniano, la violazione del trattato di Kyoto, il rischio-Vesuvio e i fatti di Rignano Flaminio. E apposito dossier (si capisce: con documenti inediti e prove schiaccianti!) vi sarà tempestivamente inviato via email.
Cerco di sdrammatizzare, come vedete, ma credo che non vi sfugga l'amarezza anche personale, intima, che questa situazione mi procura, a maggior ragione se penso agli sforzi di moderazione, di pazienza, di responsabilità che ho cercato di compiere in tutto questo periodo, imponendo a me stesso di "non vedere", di "non sentire", insomma di non alimentare una telenovela stucchevole e non di rado piccina.
L'ho fatto (e continuerò a farlo) anche per la stima e la riconoscenza che provo per Marco, a cui debbo moltissimo -e lo ringrazio per questo-, e la cui storia per tanti versi gigantesca meriterà di essere conosciuta ed apprezzata, e per decenni: ed è questo un impegno a cui mi sento vincolato per la mia futura vicenda politica e civile.
Quindi, non mi avventurerò (avrei pena di me stesso) a compilare improbabili "dossier", a fare sapienti "collazioni" di dichiarazioni (significherebbe maramaldeggiare, come ciascuno intuisce...), o a giudicare l'altrui attività parlamentare passata o presente.
Da questo punto di vista, trovo avvilente il tentativo di colpire la mia azione politico-parlamentare: siedo alla Camera da alcuni mesi e, avendo avuto l'onore di presiedere una Commissione, ho ritenuto essenziale dedicarmi pressoché integralmente ad essa (anche per …“imparare un mestiere delicato”, per sbagliare il meno possibile, e per studiare dossier di grande rilevanza), con un'attività intensissima, e sacrificando consapevolmente il momento dell'Aula.
Ciononostante, o forse proprio grazie alla buona semina in Commissione, sono titolare di una della pochissime proposte di iniziativa parlamentare approvate dalla Camera in questo avvio di legislatura, e oggi in iter già avanzato in Senato: si tratta, anche per i suoi contenuti, di una piccola rivoluzione antiburocratica e per la libertà di impresa, e speravo che almeno questo potesse essere motivo di soddisfazione comune; invece, vedo che diviene pretesto per un'ulteriore occasione di piccineria.
Pazienza, poco male. Prendo atto, come si dice. Certo, però, fa una certa impressione constatare che un nuovo frutto dell'albero radicale, anziché essere visto come una opportunità, sia vissuto come un'insidia.
Ma poiché non conosco risentimenti e rancori; poiché ho passione di costruire e non di distruggere, cestino immediatamente le pagine scure, le occasioni di negatività, e guardo avanti. Continuerò a farlo.
Il dramma, però, è che buona parte della leadership politica italiana (e temo, a questo punto, della stessa leadership radicale) sembra non comprendere quanto accade nel paese.
Abbiamo il terzo debito pubblico del mondo; un sistema pensionistico che fa acqua da tutte le parti; una pubblica amministrazione troppo spesso nemica dei cittadini e delle imprese; una pressione fiscale che opprime il paese e lo metterà sempre più fuori competizione; una macchina istituzionale complessivamente inservibile; trasporti aerei e ferroviari che trasformano i viaggiatori in altrettanti sequestrati, e mi fermo qui per carità di patria...
Bene (cioè: male!), dinanzi a tutto questo, con i radicali che rientrano in Parlamento dopo 10 anni e vanno al Governo per la prima volta in 30 anni, possibile che la priorità delle priorità sia occuparsi delle nefandezze del “perfido Capezzone”? Dove non soccorre il senso della misura, dovrebbe aiutare almeno il senso dell'umorismo...
Per conto mio, ho pochissime cose da aggiungere:
1. Nel prossimo novembre, in occasione del Congresso di "Radicali italiani", non ho intenzione di candidarmi alla segreteria. Sono sollecitato in quel senso da moltissimi compagni, ma, allo stato, credo proprio che non lo farò.
Se questo fosse stato il mio obiettivo, mi sarei comportato ben diversamente a Padova, come non pochi dovrebbero ricordare...
Io non voglio "contendere" nulla a nessuno, non ho smanie né ansie, e -visto il clima che da qualche parte si vuol creare- non intendo alimentare né un reality-show né un sudoku né uno psicodramma.
2. Certo, se mi si chiede un'opinione, considero ricco di errori il nostro cammino di questi mesi, e mentirei se dicessi di pensarla diversamente. E’ forse un reato di opinione?
Il "problema", secondo me, non è il nostro stare nella maggioranza (o nell'opposizione, se lì ci trovassimo: e il discorso sarebbe lo stesso), ma il nostro starci così, troppo spesso anchilosati, subalterni, silenziosi e rinunciatari (perfino dinanzi a operazioni di potere opache e discutibili).
Se applicassimo a noi stessi i severissimi parametri di giudizio che abbiamo tante volte usato per valutare i comportamenti delle altre forze politiche, ne uscirebbe un quadro molto duro, mi pare.
E credo che gli attuali responsabili dei soggetti dell'area radicale, ma in primo luogo Marco Pannella ed Emma Bonino, sappiano che (ben al di là delle mie valutazioni) questo è un punto politico centrale, e difficilmente eludibile. Anche perché il naufragio elettorale di ieri dell’Unione (ben al di là -lo sottolineo- della sorte dei vincitori e dei vinti di giornata) parla a chiunque abbia orecchie per intendere.
3. "Rinnovarsi o perire", diceva un grande socialista del secolo scorso. La mia convinzione è che, dinanzi ad una crisi strutturale del paese, occorrano parole, cose, "varchi", strumenti, progetti, leadership rinnovate.
L'Italia (come i radicali, e come ogni altro, del resto) ha bisogno di progettare il futuro, di "pensieri lunghi" e non di sterili e rancorose dispute sul passato. Lavorerò per questo, e credo proprio che non soffrirò di solitudine...Tante e tanti radicali (e non radicali) avranno senz'altro modo di farsi una opinione e una valutazione propria.
Le idee e le speranze liberali, liberiste, libertarie, radicali, hanno un grande terreno da conquistare, cioè da far fiorire.
E’ una sfida appassionante, e -come potrò, come mi riuscirà- cercherò di fare la mia piccola parte per animarla, e per consentire a tante e tanti altri di compiere, insieme, la stessa buona fatica.

Daniele Capezzone

martedì 29 maggio 2007

Comitato dei 45 membri promotori del Partito Democratico.

Per chi volesse conoscere i nomi di coloro che il 14 ottobre "fonderanno" il PD

Ecco i nomi dei componenti del comitato 14 ottobre: Giuliano Amato; Mario Barbi; Antonio Bassolino; Pierluigi Bersani; Rosi Bindi; Paola Caporossi; Sergio Cofferati; Massimo D'Alema; Marcello De Cecco; Letizia De Torre; Ottaviano Del Turco; Lamberto Dini; Leonardo Domenici; Vasco Errani; Piero Fassino; Anna Finocchiaro; Giuseppe Fioroni; Marco Follini; Dario Franceschini; Vittoria Franco; Paolo Gentiloni; Donata Gottardi; Rosa Iervolino; Linda Lanzillotta; Gad Lerner; Enrico Letta; Agazio Loiero; Marina Magistrelli; Lella Massari; Wilma Mazzocco; Maurizio Migliavacca; Enrico Morando; Arturo Parisi; Carlo Petrini; Barbara Pollastrini; Romano Prodi; Angelo Rovati; Francesco Rutelli; Luciana Sbarbati; Marina Sereni; Antonello Soro; Renato Soru; Patrizia Toia; Walter Veltroni; Tullia Zevi.

giovedì 24 maggio 2007

Centrodestra svegliati!

E' innegabile e sotto gli occhi di tutti, perché non c'è telegiornale che non ci mostri i cumuli di spazzatura nelle strade, il fallimento delle politiche di sinistra in Campania.
Bassolino imperversa da decenni, prima come sindaco e adesso come "governatore" della regione; la Jervolino e quasi tutte le amministrazioni locali, che sono di sinistra, hanno solo peggiorato di anno in anno il disastro; Pecoraro Scanio, salernitano, non ha trovato di meglio che dire "no" a tutto; commissari straordinari che di straordinario hanno solo le somme stratosferiche spese.
Per farla breve un fallimento su tutti i fronti di una sinistra che punta solo al consenso.
Ma il consenso di chi? Non posso credere al consenso della camorra che, nell'inerzia delle istituzioni, lucrerebbe con il traffico illecito dei rifiuti.
Allora parliamo del consenso di alcune decine di migliaia di residenti nelle zone individuate come discariche?
Se la sinistra che amministra in Campania, per garantirsi la sopravvivenza con il consenso di costoro, ignora lo sdegno, il disagio e la condanna del resto della popolazione e dell'Italia intera, è proprio una sinistra, come si dice, "alla canna del gas".
Uno Stato che cede alla folla rinunciando alla supremazia delle leggi e dell'autorità, è uno Stato che non può avere credibilità.
Vorrei che qualcuno mi trovasse delle scuse e adducesse motivazioni più nobili che, forse, noi cittadini ignoriamo: vorrei, insomma, che ci fosse una giustificazione di Stato per spiegare decenni di inerzia nell'affrontare l'emergenza rifiuti.

Un' altra cosa che non comprendo è il silenzio dell'opposizione.
Il centrodestra non ha responsabilità perché la sinistra detiene in quella regione il potere da decenni, non è un caso Visco/Unipol dove l'affondo può prestarsi ad una lettura politica, il centrodestra è favorevole ai termovalorizzatori, che potrebbero alleviare il disastro.
Eppure non cavalca lo sdegno della stragrande maggioranza silenziosa degli italiani i quali non possono tollerare che un manipolo di cittadini, per tutelare il loro personale tornaconto, blocchino la realizzazione di opere di pubblico interesse, deliberate da leggi. Ogni allusione anche alla TAV è puramente... voluta.

Centrodestra svegliati se vuoi che alle prossime elezioni vengano a votare tutti quelli che ti hanno votato il 13 maggio del 2001.

mercoledì 23 maggio 2007

Guerra inter-palestinese. Stefano Magni

La violenza dei palestinesi non è una reazione all'occupazione israeliana. Se questa affermazione era considerata come una bestemmia durante la prima e la seconda intifadah, adesso è una verità evidente a tutti. La prima intifadah scoppiò nel 1987 sotto forma di sollevazione popolare, guidata dall'Olp. I difensori della causa palestinese avevano buon gioco ad affermare che si trattava di una reazione all'occupazione dei Territori da parte di Israele, trascurando il fatto che l'Olp stessa era un'organizzazione eterodiretta, capitanata da un egiziano (Yassir Arafat), voluta e armata per volontà della Lega Araba nel 1964 con lo scopo di distruggere Israele. Prima di allora non esisteva alcuna Palestina, né alcuna coscienza nazionale palestinese: Gaza era un pezzo di Egitto, la Cisgiordania era sotto la monarchia di Amman.
La seconda intifadah scoppiò nel settembre del 2000, sempre guidata da una fazione dell'Olp, Al Fatah. Di popolare non aveva nulla: era un'operazione militare a cui parteciparono le nuove forze dell'ordine palestinesi e soprattutto le nuove formazioni di terroristi suicidi, come le Brigate Martiri Al Aqsa e le Brigate Ezzadin Al Qassam. I difensori della causa palestinese, tuttavia, insistettero con la loro tesi: ci dissero per milioni di volte che si trattava di una reazione popolare alla «passeggiata di Sharon» nella Spianata delle Moschee. Dimenticando il particolare che la «passeggiata» era stata concordata con le autorità religiose palestinesi e che i preparativi per la campagna terroristica, iniziata nel settembre del 2000, erano in corso da anni. Dal 1993 la Palestina araba era autonoma a tutti gli effetti e amministrata dall'Autorità Nazionale Palestinese. Nell'estate del 2000, nel corso delle trattative a Camp David, il governo di Gerusalemme (allora guidato dal laburista Ehud Barak) aveva accettato di cedere ai Palestinesi il 98% dei Territori. Ma, soprattutto, chi continuava a sostenere che la violenza palestinese fosse solo difensiva dimenticava un altro particolare macroscopico: che oltre alla guerra tra Palestina e Israele si combatteva una guerra parallela tra palestinesi, con centinaia di vittime. Gli scontri tra fazioni divennero particolarmente gravi (e arrivarono all'attenzione dei media internazionali) nel 2004 e poi alla vigilia della morte di Yassir Arafat.
L'ultimo scontro che si sta combattendo nei Territori è tutto interno alla Palestina: i primi morti della lotta fratricida fra Hamas e Al Fatah sono stati fatti ben dopo il ritiro dei coloni israeliani dalla Striscia di Gaza. Se si prestasse maggiore attenzione alla violenza interna a Gaza, si potrebbe scoprire anche la causa della guerra combattuta nel 1987-1993, di quella del 2000-2004 e di quella in corso: la determinazione a distruggere Israele. Al Fatah, guidata da Abu Mazen, ha «tradito» il suo fine: che è letteralmente quello di ributtare a mare gli ebrei, come sancito dalla prima Carta dell'Olp. In realtà lo ha «tradito» fino a un certo punto, perché anche Abu Mazen, sostenendo il diritto al rientro dei profughi palestinesi, intende distruggere lo Stato ebraico: demograficamente e non militarmente. Inoltre Al Fatah non ha mai rinnegato esplicitamente il suo «piano a fasi», secondo il quale prima si deve costituire uno Stato palestinese indipendente e sovrano e poi si deve procedere all'annientamento del vicino ebraico. Hamas attacca gli uomini di Al Fatah perché intende distruggere Israele subito, senza passare attraverso fasi intermedie, con una campagna militare e terroristica che dissangui il nemico.
Queste sono le ideologie, violentissime, nel nome delle quali si sta combattendo l'attuale guerra civile palestinese. Hamas, oltre a colpire i «traditori» di Al Fatah, non dimentica il suo obiettivo: è per questo che, tra un'imboscata e l'altra contro i nemici interni, non risparmia lanci di razzi Qassam contro il sud di Israele. Con queste azioni spera di attirare la reazione militare israeliana. Hamas spera che i carri armati con la stella di David attacchino in mezzo alle viuzze e alle case popolari di Gaza, per ripetere il successo degli Hezbollah in Libano e per unire il popolo palestinese sotto le insegne della jihad. Finora Israele ha risposto solo con raid aerei mirati. Se rispondesse con un'invasione di Gaza, schiere di giornalisti e intellettuali sono pronti a dichiarare che «la causa della violenza palestinese è l'occupazione israeliana». Perché già lo dicono.

martedì 22 maggio 2007

Serve la rivolta fiscale. Arturo Diaconale

Il governo ha deciso di chiudere il capitolo degli aumenti per gli statali trovando comunque un accordo con i sindacati prima della fine della settimana. Perché proprio entro i prossimi quattro giorni e non oltre? Semplice, perché domenica e lunedì prossimi dieci milioni di italiani votano per rinnovare le proprie amministrazioni locali. Ed, a dispetto delle affermazioni di Piero Fassino e dello stesso Romano Prodi sull'inesistente valore politico della consultazione, il governo si rende conto che sarebbe pericoloso subire una nuova sconfitta dopo quella siciliana. Così corre ai ripari andando incontro alle richieste di quegli statali che vengono considerati come la parte più consistente del proprio elettorato. Questa non è una illazione. E' una constatazione. A chiedere esplicitamente che il “tesoretto” venga impiegato per recuperare il consenso perso dal centro sinistra presso la propria base elettorale sono i massimi dirigenti del partiti della coalizione. Oliviero Diliberto e Franco Giordano, non più tardi di domenica scorsa, sono stati fin troppo espliciti nell'indicare Tommaso Padoa Schioppa come il responsabile della sconfitta siciliana a causa della sua linea di rigore e nel minacciare di non votare il Dpef se prima delle amministrative non verranno soddisfatte le richieste degli elettori del centro sinistra. “La scuola - ha detto ad esempio Diliberto - ha votato per il 90 per cento per la sinistra. Non la si può lasciare a bocca asciutta...”.

In altre epoche si sarebbe parlato di clientelismo elettoralistico , di “laurismo”, di voto di scambio. Ma i tempi sono cambiati. La sinistra al governo non si trincera dietro l'ipocrisia del “si fa ma non si dice”. Non solo lo fa. Ma lo proclama alto e forte affinché sia chiaro a tutti che il suo impegno è privilegiare i propri elettori a scapito di tutti gli altri. La conseguenza di simile comportamento è la disaffezione dalla politica. Ma non di tutta la politica (il voto siciliano lo dimostra). A dispetto di quanto può pensare Massimo D'Alema, solo di quella parte della politica che concepisce la gestione del potere come redistribuzione del reddito per gli amici e spremitura fiscale per gli avversari. Giuseppe De Rita sostiene che, di fronte a chi ha aumentato le tasse solo per favorire il proprio elettorale a scapito del resto del paese, esiste la concreta possibilità non di una nuova tangentopoli ma in un rifiuto generalizzato di pagare le imposte. E' una idea. Se le tasse servono per gli affari loro, perché pagarle tutti?

Ora tocca a Gonzales. Christian Rocca

New York. Ora tocca ad Alberto Gonzales, ministro della Giustizia di George W. Bush. Uno dopo l’altro, la potenza mediatica dei grandi giornali liberal sta abbattendo i pilastri dell’Amministrazione Bush, riuscendo nell’impresa di cambiare il regime di Washington ben prima della scadenza naturale del secondo mandato. In verità ci aveva tentato anche prima della rielezione del 2004, inventandosi lo scoop fasullo sul servizio militare di Bush a una settimana dal voto, ma in quell’occasione un paio di blogger e la palese falsificazione della prova costrinsero la Cbs ad anticipare il pensionamento del leggendario conduttore Dan Rather.
Gli obiettivi sono sempre due, Bush e Cheney, ma il colpo grosso è difficile da sferrare. Più semplice far crollare quelli che gli girano intorno. Karl Rove, intanto, sul quale ogni giorno – compreso ieri – il New York Times scrive di aver trovato le sue impronte digitali su questo o quello scandalo. Rove è stato azzoppato per un paio d’anni, a causa del Plamegate poi finito nel nulla. Sotto c’è rimasto Lewis Libby, l’ex capo dello staff di Cheney, condannato per un reato – falsa testimonianza e ostruzione alla giustizia – commesso nel corso dell’inchiesta, non prima. Un’inchiesta creata su impulso dei media per accertare l’ipotesi di un complotto ordito dalla Casa Bianca contro l’ex ambasciatore Joe Wilson e sua moglie Valerie Plame. Il complotto non c’era, ma Libby è stato costretto a lasciare per un passo falso in un’inchiesta che lo aveva scagionato. La settimana scorsa, sotto la ghigliottina è finito Paul Wolfowitz, dimessosi da presidente della Banca Mondiale non si capisce per quale motivo, visto che l’accusa di aver aumentato lo stipendio alla sua partner, portandolo a una cifra già raggiunta da oltre mille dipendenti di quel livello, è stata dismessa dallo stesso board della Banca, anche perché l’intervento di Wolfowitz era stato esplicitamente richiesto dal direttore del personale per sanare un’ingiustizia maschilista nei confronti di Shaha Riza.
Ora, appunto, è il turno di Alberto Gonzales, a sua volta diventato Attorney General dopo che era andata a segno la campagna mediatica contro il suo predecessore evangelico, John Ashcroft, a suo tempo accusato di voler cancellare le libertà civili americane e stracciare la Costituzione. Adesso la stampa liberal ha riabilitato Ashcroft e comincia a dipingerlo come un “American Hero”, come uno che, in realtà, si era battuto come un leone contro le pressanti richieste della Casa Bianca, e dell’allora consigliere legale Gonzalez, di voler spiare sui presunti terroristi e di non voler garantire ai nemici combattenti di Guantanamo gli stessi diritti dei cittadini americani. Il viva Ashcroft di oggi serve ad abbattere Gonzales. Cinque senatori repubblicani, quasi tutti sotto rielezione tra un anno, si sono aggiunti ai democratici nel chiedere le sue dimissioni e in settimana ci sarà un voto di sfiducia, anche se non avrà alcun effetto costituzionale. Gonzales è accusato di aver sostituito 8 dei 93 procuratori locali, tutti repubblicani. Gonzales ha agito confusamente e con modalità sospette, ma resta che i procuratori sono nominati e rimossi a discrezione del presidente. Non è una questione di separazione di poteri (sono i giudici a essere indipendenti), ma di responsabilità politica dell’azione penale. Clinton, per dire, in un solo giorno li sostituì tutti e 93, compreso uno che in Arkansas stava indagando su cose che lo riguardavano. A Clinton non dissero niente, Gonzales prima o poi sarà costretto a lasciare tra gli olè della più formidabile potenza mondiale, la stampa.

Due domande al signor Fisco. Maurizio Belpietro

«Un avvicendamento unicamente riconducibile a esigenze di servizio». «Cambi del tutto ordinari». «Trasferimenti concordati, pianificati dal comando generale della Guardia di finanza, senza contare che per alcuni degli ufficiali in partenza è una promozione». Non risparmiò le parole Vincenzo Visco quel 17 luglio di un anno fa. Sorpreso dalla bufera politica che stava montando dopo la decapitazione dell’intero vertice della Gdf in Lombardia, il viceministro dell’Economia si affrettò a gettare acqua sul fuoco, negando che quei trasferimenti fossero punitivi, smentendo d’esserne l’ispiratore, ma soprattutto respingendo qualsiasi relazione tra l’allontanamento di generali e colonnelli e l’inchiesta Unipol. In una parola: mentiva, se è vero ciò che ha riferito ai magistrati il comandante generale della Guardia di finanza Roberto Speciale. Il Giornale è in grado di riportare integralmente il verbale dell’interrogatorio. Se è vero ciò che racconta Speciale, l’azzeramento dell’intero vertice delle Fiamme gialle della Lombardia e di Milano non era frutto di promozioni, e non lo era nemmeno di ordinari avvicendamenti. Visco - come spiega il nostro Gianluigi Nuzzi - ordinò al comandante in capo di rimuovere senza indugi il generale Forchetti e i suoi collaboratori e indicò personalmente i nomi degli ufficiali che dovevano fare le valigie. Secondo Speciale, al viceministro non importava assolutamente nulla di ciò che avrebbero fatto in futuro i militari rimossi, bastava che fossero spediti il più in fretta possibile lontano da Milano. La colpa di cui si erano macchiati agli occhi di Visco non è conosciuta, ma certo si sa che gli alti ufficiali avevano svolto le indagini sui furbetti del quartierino e sugli ancor più furbetti uomini delle Coop rosse. Anzi, su questi ultimi stavano ancora indagando e, proprio prima dell’estate, in Procura a Milano c’era un certo attivismo. Visco ordinò un trasferimento in tutta fretta, intervenendo di persona, telefonando con insistenza. E, siccome il comandante generale tergiversava perché non trovava ragione alcuna per quella improvvisa rimozione, il viceministro diessino giunse a minacciarlo, facendogli intendere che se non avesse dato il via immediato ai trasferimenti ne avrebbe sopportato le conseguenze. In pratica, la sua carriera sarebbe stata irrimediabilmente compromessa.
Se dobbiamo dar retta alla testimonianza del numero uno della Guardia di finanza, lo scontro al vertice fu molto duro e inconsueto. Speciale, alla fine, fu costretto ad adeguarsi. Soltanto l’esplodere delle polemiche dopo la diffusione dei provvedimenti fermò la decapitazione delle Fiamme gialle. La presa di posizione della Procura di Milano e le interrogazioni parlamentari indussero Visco a indietreggiare, ma soprattutto a negare un suo intervento per bloccare l’inchiesta Unipol. Ma delle vaghe giustificazioni del viceministro non resta in piedi nulla dopo aver letto la testimonianza del generale Speciale, che meticolosamente ha annotato ogni passaggio dell’oscura vicenda e lo ha riferito ai giudici. Restano due domande. La prima: perché Visco aveva così fretta di cacciare i vertici della Gdf della Lombardia? Cosa temeva? Perché quegli ufficiali non potevano restare ai loro posti un giorno di più? A questa domanda risponderà la Procura. La seconda domanda è più politica: può un viceministro restare al suo posto dopo aver tentato, con pressioni e minacce, di far trasferire ufficiali che indagavano sugli affari rossi? A questa so rispondere anch’io: no, non può.

lunedì 21 maggio 2007

Fu vero risanamento? Giuseppe Pennisi

http://www.ildomenicale.it/articolo.asp?id_articolo=770

Le analisi della Banca centrale europea dimostrano che i miglioramenti economici non sono merito dell'attuale governo.

Chiamatemi Veltronì. Marco Taradash

Veltroni vorrebbe Letta in un governo di sinistra per le ragioni opposte a quelle per cui Sarkozy ha scelto Kouchner : perché è uno dei campioni del Centrodestra, perché la pensa in tutto e per tutto come Berlusconi, perché è un suo alias. Veltroni vuole un governo smussato, per avere un’opposizione smussata. E questo non è Sarkozy. E’ Berlinguer.

Veltroni l’americano, il kennediano, l’hollywoodiano, ha scoperto la Francia. Lestissimo, il giorno dopo la vittoria di Sarkozy ci ha fatto sapere che l’uomo nuovo, quello della rottura degli schemi tradizionali, in Italia è lui. Veltroni ha cominciato a surfare sull’onda francese approfittando di una fortunata coincidenza, tanto provvida da sembrare ai maligni (come me) costruita a tavolino. Il martedì dopo le elezioni francesi è infatti apparsa sulla prima pagina di Repubblica un’accorata lettera di un elettore di sinistra, tanto insofferente della maleducazione e della delinquenza diffusa tra gli immigrati da temere di essere vittima di una patologica mutazione in uomo di destra. Uno che “guardo Ballarò e Matrix”, uno che “sono stato candidato municipale per la lista Veltroni per Roma”, uno che “insegno alle mie figlie i valori della tolleranza e della non-violenza”, uno che “a 49 anni sto diventando un grandissimo razzista e non lo sopporto”. Niente paura! risponde il giorno dopo il sindaco di Roma, sempre sulla prima di Repubblica: “Invocare la legalità non è politicamente scorretto”. E spiega che “la sicurezza non è di destra né di sinistra” e quindi “per chi minaccia il diritto alla sicurezza e alla legalità dei cittadini, per chi ruba alla società quel bene prezioso che è la serenità, c’è solo una risposta ed è la severità e la fermezza con cui pretendere che rispetti la legge e paghi il giusto prezzo”. Bravò!
Dopo di che Veltroni si è messo al lavoro per convincere il ministro dell’Interno Amato a varare un piano straordinario anti-crimine per le grandi città. Amato, a dir la verità non aspettava l’ora, ma purtroppo a sollecitarlo in questa direzione c’era stato finora soltanto il sindaco di Milano. Cosa assai “politicamente scorretta”. Come ricorderete Letizia Moratti il 26 marzo scorso ha organizzato, presente Silvio Berlusconi, una manifestazione pubblica contro la delinquenza. Il centrosinistra aveva reagito furibondo, a cominciare da Romano Prodi che a Matrix, appunto, aveva replicato seccamente: “Con Milano ci vuole un grande rapporto… Vuol dire che cercheremo di averlo con la Regione e la Provincia”. Per non parlare dei Ds milanesi, che avevano liquidato la manifestazione con una sentenza sommaria: “Letizia Moratti ha distrutto in un solo giorno la sua immagine di Sindaco di tutti i milanesi per portare una modesta manifestazione di commercianti e attivisti di partito ad ascoltare il comizio del Presidente di Forza Italia”. E l’Unità di rincalzo, a titolare il suo commento “Moratti divide Milano” e far dire a Dario Fo che il vero problema di Milano è la Moratti, non la sicurezza: “Perché non dichiara guerra allo smog?”.
Poi Sarkozy straccia la sinistra francese e tutto cambia: la sicurezza non è né di destra né di sinistra - ma se proprio vogliamo dirla tutta è di sinistra. Da Cofferati a Chiamparino a Veltroni a Penati ecco che da ogni parte dell’Italia rossa e turrita spuntano i nuovi Rudy Giuliani. Il secondo passo verso la definitiva incoronazione quale omologo di Sarkozy (e tant pis per il bayrouiano Rutelli) Veltroni l’ha fatto venerdì scorso. Il giorno prima Sarkozy aveva varato il suo governo e nominato ministro della difesa Bernard Kouchner, fondatore di Medici senza Frontiere ed esponente di primo piano del Partito Socialista. Dal quale il segretario Hollande l’ha prontamente espulso. Veltroni no. Al contrario, parlando a un convegno su Ricerca e Sviluppo, ha fatto sapere al mondo di aver cercato e anche trovato: “Mi auguro di vivere in un paese in cui il bipolarismo sia fatto in modo di permettere a persone di rilievo di far parte del governo a prescindere dagli schieramenti”. E ha fatto il nome di chi vorrebbe che di un “governo siffatto” faccia parte: Gianni Letta.
E qui, diciamocelo francamente, casca l’asino. Perché Letta è un eccellente personalità politica, un preziosissimo mediatore, un infaticabile tessitore, ma è l’esatto contrario di ciò che rappresenta Kouchner per Sarkozy. Kouchner è stato scelto perché, pur militando nel partito avverso, condivide la politica del nuovo Presidente francese sui diritti umani, sul ruolo degli Usa, su Israele. E’ socialista ma la pensa come Sarkozy. Veltroni vorrebbe Letta per le ragioni opposte: perché è uno dei campioni del Centrodestra, perché la pensa in tutto e per tutto come Berlusconi, perché è un suo alias. Veltroni vuole un governo smussato, per avere un’opposizione smussata. E questo non è Sarkozy. E’ Berlinguer, semmai, è il compromesso storico, è il consociativismo, è l’ammucchiata, è la solita storia del bipartitismo imperfetto Dc-Pci, è l’ennesimo b-movie sul gattopardismo nazionale. Prossimamente a Cinecittà.

Bukovsky: "Prodi un uomo del Kgb? Non mi stupirei". Paolo Guzzanti

http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=179341

Il testo dell'intervista al famoso intellettuale Vladimir Bukovsky.

sabato 19 maggio 2007

Effetto Serre. il Foglio

Falsi ecologismi e Pecorari Scani fanno male all’ambiente (e allo stato).

La battaglia per i rifiuti in Campania, dove le pretese falsamente ecologistiche di Alfonso Pecoraro Scanio s’incontrano con i più accesi campanilismi, non sarà mai vinta. Con il pretesto della vicinanza a una cosiddetta “oasi faunistica” la cittadinanza di Serre si è ribellata, con le autorità municipali in testa, alla decisione del commissario straordinario Guido Bertolaso di installare lì una discarica del tutto indispensabile. Il governo, come sempre, come sulla Tav, come su tutte le battaglie campanilistiche e minoritarie, ha ceduto e la popolazione di Serre ha applaudito all’annuncio, poi rivelatosi se non altro prematuro, delle dimissioni di Bertolaso. Le città della Campania sono soffocate dai rifiuti, che la politica falsamente ecologista impedisce di ritirare in discariche che si impedisce di realizzare, di incenerire perché anche i termovalorizzatori, chissà perché, qui non si possono costruire, e che quindi vengono esportati, con grandi costi, o in altre regioni o all’estero. A questo estremo rimedio, però, si arriva solo quando la situazione ha raggiunto, e in realtà largamente superato, i limiti di guardia dal punto di vista della sanità. Questo quindi è il bilancio della situazione: le città sono costantemente a un passo dallo scoppio di qualche epidemia, mentre gruppi di teppisti incendiano qua e là i cassonetti della nettezza urbana, creando così un’atmosfera letteralmente irrespirabile. I soldi stanziati per realizzare le strutture per lo smaltimento dei rifiuti vengono invece sperperati per pagare imprese che non possono lavorare per l’opposizione “ecologica” delle popolazioni aizzate dal ministro dell’Ambiente o per pagare il trasferimento fuori regione, che peraltro ha effetti tutt’altro che rassicuranti sul traffico ferroviario. Dell’autorità dello stato, che il ministro competente dovrebbe rappresentare, è meglio non parlare neppure per carità di patria. Quando qualcuno, come il commissario Bertolaso, cerca di esercitarla con razionalità e avvedutezza, si vede come va a finire.

A Sderot danni psichici per un abitante su due. Cristina Balotelli

"La vita a Sderot è come la roulette russa". E' quanto raccontano gli abitanti della città israeliana più vicina alla Striscia di Gaza, sulla quale da più di sei anni non hanno mai smesso di cadere i razzi Qassam: dal 2001 oltre 4.500. Ma in questi giorni la situazione si è aggravata. I Qassam fabbricati nella Striscia sono venti volte più piccoli dei Katyusha e provocano danni materiali nettamente inferiori. Ma quelli psicologici sono identici. In alcuni casi sono irreversibili, come il post-traumatic stress disorder (PTSD), un disturbo che colpisce chi si trova in zone di guerra.

"Almeno la metà della popolazione di Sderot (in tutto circa 24.000 abitanti) ha bisogno di cure", dice la dottoressa Adriana Katz, 59 anni, che dirige la clinica per la salute mentale di Sderot e il Trauma Center per il trattamento immediato delle vittime da shock. Di origini rumene, è giunta in Israele venti anni fa con il marito, dopo averne trascorsi sedici in Italia, a Padova. Il suo lavoro è come una missione. Ma è sempre più dura, perché anche il personale della clinica soffre attacchi di ansia. "Non sai mai quando potrebbe capitare a te", racconta, mentre suona con insistenza il beeper che la avverte di nuovi Qassam in arrivo. "Può accadere per strada, in clinica, mentre mangi… non hai neanche il tempo di ripararti, perché trascorrono solo 15 secondi dal suono della sirena all'impatto. Qui non è come ad Haifa, gli edifici non hanno rifugi, non hanno protezione, i muri sono fatti di cartone".

Com'è possibile, dottoressa Katz? Perché gli edifici qui non hanno protezione? Sono vecchi?
"Sì, questa è la ragione. I nuovi edifici per regola devono avere la ‘safe room' (una stanza anti-missile). Perché negli ultimi sei anni non è stato fatto nulla? Non lo so. So solo che dopo sei anni sotto il tiro dei Qassam, anche la persona più forte cede".

Quindi dove vivete e lavorate non avete un rifugio anti-missile?
"Niente. C'è una grossa differenza qui, rispetto ad Haifa. Non possiamo proteggerci e questo ti fa venire il panico. Come facciamo a sentirci tranquilli e a dare ai pazienti il nostro conforto, quando noi stessi siamo sotto stress e abbiamo paura?"

Dopo il ritiro dell'esercito dalla Striscia di Gaza le cose sono peggiorate per voi?
"Sono sempre stata favorevole alla politica del disimpegno dai Territori e in particolare dalla Striscia di Gaza. Ma è stata una delle grosse delusioni che ho avuto. Anche oggi sono convinta che dovevamo lasciare la Striscia di Gaza ai palestinesi, eppure questo non ha portato la pace".

Come si vive in questa situazione?
"Si vive male, si vive nella paura. Forse all'inizio l'angoscia si sentiva meno. Questi missili sembrano giocattoli, rispetto ai Katyusha. Ma quando abbiamo capito che questo ‘giocattolo' uccide, quando un giorno è stato ucciso un bambino, poi un nonno, poi una donna è rimasta senza le gambe…. allora abbiamo incominciato a capire. E ad impaurirci. Non hanno smesso un solo giorno di sparare Qassam, nonostante il cessate il fuoco."

Lo scopo è terrorizzarvi?
"Esattamente. Ma non solo, perché oltre a terrorizzare, talvolta ammazzano. Sparano senza nessun criterio. E allora, di colpo, la paura ha incominciato a impadronirsi dei cittadini. Ormai ha preso delle dimensioni serie."

Qual è il suo ruolo, alla clinica?
Mi occupo di tutti coloro che subiscono traumi e che le ambulanze portano al centro d'emergenza. Non parlo dei feriti, quelli vanno all'ospedale. I miei pazienti sono i feriti nell'anima: shock, paure, agitazione. Bisogna esaminarli, curarli. Nel caso di attacco ricevo una telefonata e se mi avvertono che ci sono vittime mi metto in moto, anche di notte. Sono sempre reperibile.

Nella sua posizione di responsabile della clinica ha visto molti casi?
"Moltissimi. E non li conosciamo tutti, perché non tutti vengono a curarsi. Ultimamente abbiamo circa mille pazienti. Una signora che da mesi era in cura da noi perché soffriva di ansia per le bombe, è stata ferita da un Qassam che ha distrutto la sua casa. Ora è ricoverata in ospedale perché è ferita. Sarà un tipico caso di PTSD.

Come vengono trattati?
"Ci sono vari tipi di cure e le applichiamo tutte insieme: terapia con i farmaci, psicoterapia, gruppi e varie tecniche. Facciamo del nostro meglio per non arrivare alla diagnosi del PTSD, che è irreversibile. Alcuni pazienti però non rispondono alle terapie. Quindi abbiamo un buon numero di Post Traumatici che praticamente hanno finito di vivere: hanno dei flash back e continuano a rivivere la paura. E' qualcosa che somiglia tanto alla schizofrenia e malgrado i molti metodi di cura i risultati sono limitati.

Ci sono anche bambini alla clinica? Che sintomi presentano?
"Si, ci sono bambini. Presentano tutti i sintomi di regressione che può immaginare: dal fare la pipì a letto al rifiuto di dormire da soli e di andare a scuola. Questo influenza molto la vita familiare. Ci sono famiglie che si sono separate perché uno dei coniugi decide di andar via da Sderot, ma l'altro non vuole. In verità pochissimi possono andarsene: le condizioni materiali non lo permettono. Solo il 10% degli abitanti di Sderot ha lasciato definitivamente la città".

Il Governo sta facendo qualcosa?
"Come dicono qui, per il momento il Governo ha deciso di non decidere".

venerdì 18 maggio 2007

Calabresi, le lapidi e i trinariciuti. Michele Brambilla

http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=178636

C'è un giornale che ancora non si rassegna a "revisionare" la storia: l'Unità.

Andea's version. il Foglio

Scena: Palermo. Contesto: il giorno appresso la musata di Leoluca Orlando. Regista: Attilio Bolzoni (giornalista, Repubblica). Attore non protagonista: Giovanni Falcone. Messaggio: guai a dimenticarsi il Terzo livello di mafia. Intenzione: eccellente. Evocazione sullo sfondo: “Come ogni vigilia d’estate, Palermo si prepara a celebrare i suoi morti”. Pronti? Via. Primo ciak: “Mandanti dell’omicidio Falcone: chi sa, deve parlare”. Secondo ciak: “I primi due indagati per concorso in strage furono Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, che vennero prosciolti”. Terzo ciak: perché vennero prosciolti? Quarto ciak: perché? Quinto ciak: perché proprio prosciolti? Sesto ciak: sapete dirci perché mai? Settimo: come mai vennero assolti? Ottavo: perché vennero davvero assolti Berlusconi e Dell’Utri? Nono: ce lo direste il perché? “A quindici anni dalla strage di Falcone”, ci/si sfruculia il regista Bolzoni, “volete dirci chi fornì il telecomando?”. Il telecomando. Che è una domanda senza possibile risposta, quanto al Terzo livello. Fosse il Quarto, propenderemmo per Endemol.

giovedì 17 maggio 2007

Vi do una notizia: il vero razzismo è ormai tutto a sinistra. L'Occidentale

Alcuni avvenimenti di questi giorni mi hanno convinto di un fatto piuttosto clamoroso: il razzismo è ormai un fenomeno tipicamente di sinistra.
Parto dalla vicenda della vignetta di Vauro, peraltro entusiasticamente commentata anche qui su l'Occidentale. Qual è il meccanismo logico di quella vignetta: ci sono stati casi di preti pedofili, ergo tutti i preti sono pedofili. E' esattamente ciò che intendiamo per razzismo. Ma alla sinistra italiana quella vignetta è parsa eroica e coraggiosa, degna di essere comprata in originale su Ebay per 1500 euro, appesa in ufficio, esibita come icona di libertà da ogni persona perbene.
Proviamo a fare un paragone sul versante della destra. Mettiamo che la cronaca nera porti in prima pagina qualche crimine commesso da extra-comunitari. E' il classico caso in cui può capitare che qualcuno dal centro destra dica: gli extra-comunitari sono criminali. Magari riferendosi , seppure in modo un po' rozzo a dati e statistiche che dicono che la percentuale di crimini commessi da extra-comunitari in Italia è aumentata vertiginosamente. L'incauto dichiaratore sarebbe sepolto sotto accuse di razzismo, gli verrebbe detto di non fare di tutt'erba un fascio, che la stragrande maggioranza degli stranieri vive e lavora in Italia in piena legalità e che insomma il suo è puro razzismo.
Lo stesso doppiopesismo vale in mille altri casi. Prendete le elezioni in Sicilia: poichè ha vinto il centro-destra è automatico che abbia vinto la mafia. Avesse vinto il centro-sinistra sarebbe stato un trionfo della democrazia.
Lo stesso vale per le due piazze del family day: quella vuota era in realtà piena di gente vera e libera; l'altra era riempita da non-persone, da truppe eterodirette e inconsapevoli o peggio insincere.
Ma il discorso si potrebbe allargare, per esempio a Israele. La sinistra può permettersi ogni genere di critica contro quel paese, spesso anche con una furia che lascia sospettare qualcosa di più profondo. Ma se la destra parla del mondo arabo senza rispettare ogni comandamento del politicamento corretto l'accusa di razzismo è immediata.
Il risultato di tutto ciò è paradossale. Mentre anche la destra più becera si è ormai ripulita e ha imparato a stare a tavola, e a forza di bastonate magari pensa e non dice. La sinistra in nome di una debordante prosopepea morale si crede legittimata a esprimere qualsiasi giudizio, anche il più offensivo e discrimintatorio. Lì infatti ci sono solo persone perbene, preoccupate dei mali del mondo e sempre vicine a chi patisce e dispera. Lì ogni cosa, anche la più sporca, diviene degna, mentre fuori dai quei confini anche la più degna si sporca.
Così credendo di potersi tutto permettere sono diventati gli unici veri razzisti. Qualcuno li avverta.

Gli ultimi giorni di Wolfowitz. Christian Rocca

New York, 16 maggio 2007. Gli ultimi giorni di Paul Wolfowitz alla Banca mondiale sono cominciati ieri pomeriggio, quando il board si è riunito per valutare il rapporto interno sulla “violazione delle regole etiche”. L’accusa al presidente, basata sulla testimonianza di un paio di funzionari, è quella di aver aumentato lo stipendio alla sua compagna, Shaha Riza, senza aver consultato i capi del personale, anzi, provando a nasconderlo ai vertici della Banca. La versione di Wolfowitz, surrogata da e-mail e documenti non considerati nel rapporto, racconta una verità opposta: nel 2005, una volta nominato presidente della Banca, Wolfowitz ha chiesto di non essere coinvolto nella questione apertasi sul ruolo di Riza, dirigente della Banca già da sette anni. Si era posto il problema che Riza avrebbe dovuto rispondere, sia pure non direttamente, al suo partner diventato presidente, in una situazione di potenziale conflitto di interessi. La Banca, un po’ maschilisticamente, aveva chiesto a Riza di dimettersi per consentire al suo compagno di presiedere l’istituto, ma lei ha orgogliosamente rifiutato.
La Banca, senza l’intervento di Wolfowitz, le ha offerto una buonuscita, ma ancora una volta Riza ha detto che non vedeva alcun motivo per cui avrebbe dovuto rinunciare alla sua carriera e, stando a un dettagliato resoconto del Los Angeles Times, anche ai successi a cui aveva portato la Banca mondiale nel campo della condizione delle donne in medio oriente (confermati dal presidente palestinese dell’università al Quds di Gerusalemme). A quel punto, il comitato etico della Banca ha scritto a Wolfowitz per comunicargli che il suo coinvolgimento diretto per risolvere la questione non avrebbe violato alcuna regola della Banca, data anche la situazione senza precedenti che si era venuta a creare. Secondo Wolfowitz, i dirigenti avevano paura ad affrontare Riza, per cui gli è stato esplicitamente chiesto un aiuto. La questione è stata risolta con un aumento di stipendio di 50 mila dollari, a compensazione della fine della carriera, e l’assegnazione al dipartimento di stato. L’accusatore di oggi, il capo delle risorse umane Xavier Coll, allora scrisse in un memo che la scelta di Wolfowitz era “un modo ragionevole per andare avanti e trovare una soluzione”. Con l’accordo, Riza ha raggiunto il livello retributivo di un migliaio di altri dipendenti della Banca nella sua posizione. E’ trascorso il 2005 e nessuno ha avuto niente da dire. E’ passato anche il 2006, idem.
Nel frattempo, le politiche anticorruzione intraprese da Wolfowitz – per cui la Banca ha posto come condizione per i suoi prestiti un livello minimo di correttezza nella gestione dei soldi – hanno scatenato l’opposizione europea e di parte dello staff interno, contrari a usare gli strumenti della Banca per inseguire obiettivi politici, ma soprattutto sospettosi che Wolfowitz non avesse abbandonato le sue idee di promozione della democrazia. La crescita del sentimento anti Iraq – una guerra di cui Wolfowitz è stato lo stratega – nelle settimane scorse ha fatto riesumare il caso Riza e a fornire l’occasione buona per liberarsi di Wolfowitz e umiliare la Casa Bianca. Secondo il Wall Street Journal, la vicenda Riza potrebbe essera stata fin dall’inizio una trappola tesa dallo staff liberal della Banca, dagli europei anti Bush e da ambienti vicini al finanziere George Soros. Il polemista di sinistra Christopher Hitchens sostiene che le accuse contro Riza sono “la più disgustosa e disonesta e volgare campagna di character assassination che abbia mai visto”. I 24 membri del board della Banca si sono riuniti ieri per decidere del futuro del presidente, ma le anticipazioni del rapporto, l’ostilità europea e un certo raffreddamento della Casa Bianca sembrano non lasciare scampo a Wolfowitz.

mercoledì 16 maggio 2007

Berlusconi, la politica e io. il Foglio

Tremonti “per una volta” parla di Palazzo e di Forza Italia . “Nel Cav. c’è più calcolo e raziocinio che istinto”. “Lo spazio per uno sfondamento elettorale è al centro”. Guiderebbe un movimento per promuovere le sue idee? “Sì”

Roma. Giulio Tremonti è intelligente e scaltro, un genio scaltro. Non si cura delle voci che lo rincorrono: bisbigliano i retroscenisti che è incazzato nero per la storia della Michela Vittoria Brambilla, ha portato al Cav. il suo esplicito dissenso, e quello di tanti che gli chiedono di reagire, ribisbigliano i soliti noti, minacciando di fare le valigie. “Dei bisbigli non mi occupo, anche perché non sono veri. Per una volta – dice al Foglio – vorrei parlare di politica anche da un punto di vista interno, il Palazzo, il movimento o partito che si chiama Forza Italia, il suo sistema di alleanze, la sua funzione di rappresentanza politica e sociale nella realtà italiana e non solo italiana”.
Tremonti, si sa, è uomo di frontiera. Sui rapporti con la Lega di Bossi ha saputo dare per tempo consigli strategici decisivi per la vittoria del 2001, e anche costruire una trama di relazioni cruciale, e ha gestito al governo il terzo debito pubblico del mondo, per riconoscimento ormai unanime, piuttosto bene. Si è anche guadagnato (dice che “è un giudizio preciso, nevrotico, ma preciso e qualificante”) l’epiteto di “delinquente politico” da parte di Prodi, e questo nel fuoco dell’ultima campagna elettorale che per un soffio poteva essere vinta, e politicamente è stata vinta, dalla coalizione berlusconiana, proprio sul tema delle tasse che ora (vedi l’Ici) ridivide goffamente il governo in carica, che può bensì continuare a vivacchiare ma allo stremo. Così ora Tremonti ci affida le cose che pensa, parlando direttamente di politica, di leadership, del suo partito e dei suoi alleati e avversari. Ragionando ovviamente sull’Italia, sulla sua storia politico-istituzionale recente, sul berlusconismo, sul futuro (con un accenno perfino al suo, di futuro).
“Al contrario di voi del Foglio, io non credo nella logica dell’antropomorfismo politico. La persona conta, il carattere del leader è importante, ma non è tutto. Anzi, prevale sempre la struttura, l’effettiva natura delle cose economiche, sociali e politiche. Non faccio esegesi né discorsi iniziatici, non è il mio stile, non è il mio compito. In Berlusconi, in quello del 1994 come in quello di oggi, vedo un continuum di assoluta razionalità. In lui certo c’è il pragmatismo lombardo, l’istinto dell’imprenditore, ma la razionalità, in senso nobile, di un freddo calcolo delle forze e delle opportunità prevale sempre. Con qualche elemento di imprevedibilità o di fantasia, che non offusca il filo interno di questa continuità nella ragione”.
A noi il Cav. sembra il soggetto di una grande eterogenesi dei fini e dei mezzi, l’istinto al servizio della ragione, più che la ragione oltre l’istinto. Ma Tremonti la spiega così, la faccenda. “Forza Italia è una monarchia ovvero una forte leadership legata al carisma del fondatore, ma ha come altra faccia l’anarchia ovvero una libertà diffusa in cui si cresce o non si cresce, fino ad ora, in proporzione alle responsabilità generali che ci si assume e alla capacità di realizzare risultati. Questa alternanza di monarchia e anarchia, così spiegata, è anche nella persona di Berlusconi, non nella sua psicologia, che non è così importante come sembra, ma nella sua storia, e anche nei suoi legami, nelle sue diverse squadre di governo e di opposizione, di partito e di movimento. Guardate al caso di Firenze. E’ stato criticato, sembrava l’imprevedibilità fatta persona, offrire e prendere applausi nella tribuna dell’avversario, e sotto elezioni amministrative. Un’imprudenza istintuale? Invece no. C’era come al solito la ratio ex ante. Ha omologato i Ds, normalizzandoli a destra contro la loro volontà. Ha fatto emergere come novità vera del congresso non la sinistra moderata, pallide buone intenzioni, ma la sinistra comunista, antagonista. Ha compiuto una brillante operazione politica, aperta, non dissimulata, e alla fine utile alle sue idee sull’insieme della situazione”.
Vero. Ma è appunto istinto e un po’ anche follia al servizio di una ragione del dopo, il tutto come sempre indecifrabile con categorie non antropomorfiche, non legate all’effetto personalità. Tremonti dissente e argomenta: “No, io non vedo l’esplosione di irrazionalità combattiva nemmeno nel grande fenomeno del ’94. Berlusconi è diverso dalla politica convenzionale, ma sempre calcolato. Anche nell’uso, di cui oggi si riparla, di mezzi di marketing e di invenzioni della tecnopolitica. Sui sondaggi l’irrazionale non era lui, ma gli altri, i De Mita e compagnia che non li usavano e non li conoscevano. De Gaulle usava il metodo Gallup negli anni Sessanta. Ora si tende a esasperare la ‘cifra’ pre-razionale di Berlusconi, come dite voi la psicologia dadaista, la body art nella costruzione dei candidati, il suo parco giochi scintillante, la teatralità da Re Lear, i marchingegni antropologici del Ramo d’Oro, i suoi totem e tabù, l’idea di un suo doppio, di una sua reincarnazione femminile. Non vedo tutto questo. Per attualizzare, vedo un esperimento di Berlusconi per modificare la geografia politica, queste cose qua, una volta è l’operatore di massa Scelli, un’altra volta i circoli. Il suo è un duttile empirismo da laboratorio per superare la staticità attuale”.
Una buona cosa, dunque? “Non ho niente contro lo spirito sperimentale, ma il problema è che non tutto è volontà, modificare la realtà vuol dire prima di tutto valutarne la struttura, capirne l’essere. La mia valutazione è questa. Dai tempi del big bang della Prima Repubblica e della politica, ma anche da prima, in un certo senso, la politica italiana è statica. La geografia politica riflette la geografia dell’Italia. Le modalità di voto sostanzialmente non cambiano, neanche con il passare delle diverse leggi elettorali. Contano due sole vere dinamiche: le alleanze (vinci o perdi a seconda della ampiezza e forza delle tue alleanze coalizzate), e le astensioni (vinci o perdi a seconda della capacità di motivare il tuo elettorato innanzitutto, e poi quello marginale). Abbiamo ottomila comuni, filiere di votanti che procedono generazione dopo generazione praticamente all’unisono con i padri, con cambiamenti di forma ma non di sostanza. Forza Italia è sostanzialmente quel luogo che fu la Dc, senza il cattocomunismo e con un di più di liberalismo che è l’eredità del Psi e di molto altro ancora. Noi non abbiamo la grande area metropolitana che intercetta e orienta giganteschi movimenti e mutamenti di opinione”.
Questo valeva certamente nel ’94, sebbene la rottura delle forme politiche sia stata assai forte. Ma vale ancora adesso? “Sì. I sondaggi dicono che siamo al culmine felice dei nostri voti, il trenta per cento più o meno. Difficile pensare a un avanzamento ulteriore, prodotto da geniali scelte di marketing politico. In giro c’è una forte protesta, di fondo e senza visibili segni di remissione, contro il governo, contro la cultura di governo di una classe dirigente gravemente inadeguata. Fanno tutto loro, davvero. La tattica di stand by è perfetta, se ben interpretata, perché il fenomeno di oggi è la massimizzazione della rendita di opposizione. Inoltre, la società civile non tende all’impegno politico, per tante ragioni diverse che sarebbe lungo analizzare, prevale la divaricazione. Intorno al nostro movimento o partito esistono consistenze (Lega, Udc, An) non cancellabili”.
E allora che si deve fare, seguire il filo della staticità sociale e politica del sistema in transizione? Non è un po’ poco? “C’è uno spazio di penetrazione verso il centro sociale e politico, ma un’avanzata in quella direzione richiede mezzi e cultura raffinati. Un messaggio o altri messaggi tipo il 5 per mille, per esempio: fraternità, solidarietà reale contro solidarismo virtuale, una moralità superiore e liberale dell’agire politico, un liguaggio di aspra moderazione, per così dire. La via non è la rappresentanza degli interessi di categoria, l’esasperazione e radicalizzazione degli interessi di settore. Tutti i sindacati, comprese le associazioni degli artigiani e dei commercianti, sono colpiti da una crisi di rappresentatività. Dunque lo spazio per una certa voce che rinverdisca la nostra capacità critica partendo dal punto di vista delle categorie colpite dall’egualitarismo fiscale dissennato del prodismo c’è, ma un vero sfondamento elettorale è ipotizzabile solo al centro. Contano buone idee generali e il saper dirle a tutti. Voi del Foglio avete analizzato con intelligenza, e per tempo, il fenomeno Sarkozy, che proprio questo è. Lo spirito repubblicano, che unisce nell’esaltazione della parità di diritti e doveri, contro la radicalizzazione dei meri interessi sociali parziali”.

Costruire classe dirigente
Insomma, Tremonti non crede in un’operazione politica imperniata su persone, leadership da promuovere, e marketing massmediologico… “C’è spazio per tutto, ma Forza Italia e i suoi alleati sono movimenti di libertà di idee, un Dna di politica alta quanto è chiara e forte. Non sono mezzi e basta. I mezzi sono mezzi, non si possono confondere con la costruzione di una vera classe dirigente”.
Forza Italia sembra pur sempre un leader senza stato maggiore, un cartello di personalità e di forze ma un cartello, non un partito politico a tutti gli effetti. “C’è un leader, c’è un popolo, c’è un contenitore ovvero una forma politica, ed è Forza Italia. In questo contenitore deve e può crescere una novità politica, non lo nego. Bisogna realizzare una cifra alta di democrazia e una meccanica organizzativa sulla linea dal movimento al partito. I congressi sono in corso e ogni settimana, da due mesi, con il pieno consenso di Berlusconi, i leader si vedono e discutono. Sarà un organismo informale, sarà un meta-organismo, ma è qualcosa che sta nella via della novità. E anche i coordinatori regionali, la classe dirigente diffusa, sono ormai di qualità, più che competitivi con il personale politico del sistema italiano”.
Ci sembra che le idee di Tremonti siano una linea o il suo abbozzo, certamente sono un’analisi interessante. Siamo interessati a sapere se, a parte questo colloquio eccezionalmente incentrato su questi temi, nel futuro prossimo Tremonti intende promuovere politicamente le sue idee, queste sue idee. Se intenda muoversi come leader di un movimento, con Berlusconi. La prima risposta è “nei limiti del possibile e dell’utile, sì”. Alla contestazione: “Questa sembra una frase del tardo Forlani”, la risposta sorridente di Giulio Tremonti è: “Sì”.

martedì 15 maggio 2007

Ecco come l'America (non) regola il conflitto di interessi. Christian Rocca

Nel paese dove il conflitto di interessi è una cosa seria, non esiste una legge che impedisca al proprietario di aziende, azioni, imperi industriali o mediatici, di candidarsi a cariche pubbliche e di governo. L’ipotesi di vendita forzosa non è presa in considerazione. Qualora un miliardario o un imprenditore, anche del mondo dell’informazione, venisse eletto a una carica pubblica non è obbligato né a vendere le sue proprietà né a metterle in un blind trust, cioè in un fondo cieco amministrato da terzi. Può farlo o non farlo, il giudizio poi spetta agli elettori. L’eletto non è nemmeno obbligato a presentare la dichiarazione dei redditi completa, come si fa in Italia da ben prima dell’avvento di Silvio Berlusconi. Prendete i diciotto candidati alla Casa Bianca 2008, dieci repubblicani e otto democratici. E’ notizia di ieri che nessuno di loro, tranne Barack Obama, renderà pubblici i dettagli dei propri interessi finanziari.
Nel 2000 e nel 2004 George W. Bush l’aveva fatto, rendendo noti i suoi “tax returns”, mentre il suo sfidante John Kerry aveva negato di svelare gli asset finanziari di sua moglie, la multimilionaria Teresa Heinz Kerry. Bill Clinton, nel 1992, non fece conoscere l’entità e la qualità dei suoi redditi. Rudy Giuliani è proprietario di una società con intrecci finanziari e interessi pubblici in mezzo mondo, John Edwards è un multimilionario che fino a pochi mesi fa ha lavorato per un hedge fund, Mitt Romney è un businessman e, probabilmente, il più ricco di tutti, anche se mai quanto il magnate dell’informazione finanziaria Mike Bloomberg, ora sindaco di New York e solido proprietario del suo impero. Secondo molti analisti, nessuno dei quali si scandalizza, Bloomberg potrebbe scendere in campo alle presidenziali 2008, proprio grazie al suo patrimonio che gli consentirebbe di utilizzare 500 milioni di dollari di tasca propria e di evitare il fastidioso e lungo processo di raccolta fondi a cui sono obbligati gli altri candidati. Una volta eletto sindaco di New York, Bloomberg ha chiesto al New York City Conflicts of Interest Board, un organo comunale nominato dallo stesso sindaco della città, di valutare se una piccola quota del suo patrimonio, circa 50 milioni di dollari su un totale, allora, di 4 miliardi, fosse in potenziale conflitto di interessi perché investito direttamente in società che fornivano servizi al Comune. Bloomberg avrebbe potuto mettere quei pochi titoli in un blind trust, ma non l’ha fatto, preferendo venderli e dare in beneficenza il ricavato. Da sindaco, Bloomberg non rende nota la sua dichiarazione dei redditi. Se lo facesse – ha detto – danneggerebbe il business delle sue società. La Bloomberg L.P. è un megagruppo che fornisce notizie e analisi finanziarie a banche e istituzioni, possiede un’agenzia di stampa, una radio e una tv. Il suo fondatore e proprietario, dimessosi dalla gestione operativa, è socio della banca d’affari Merrill Lynch, detiene quote di 85 società quotate e ha obbligazioni milionarie della città che governa. Tutto ciò è consentito e non è tema di battaglia politica.

Dalla metà degli anni Settanta è consuetudine, però, far conoscere al pubblico alcune informazioni minime. I candidati alla presidenza, e i membri del Congresso, compilano un modulo che descrive in modo parziale fonte e tipo dei propri guadagni, senza entrare nello specifico e senza rivelare l’esatto ammontare. Questi dati, in ogni caso, non vengono controllati e verificati dallo stato federale, lasciando quindi aperta la possibilità ai candidati di fornire notizie incomplete. Nel modulo ci sono nove categorie di entrate, così ampie e vaghe che le ultime due sono: “Più di un milione di dollari, ma meno di 5 milioni” e “oltre 5 milioni di dollari”.
Il conflitto di interessi vero e proprio, invece, è regolato da un Codice di “leggi etiche” di 90 pagine, disponibile presso l’United States Office of Government Ethics. A differenza delle ipotesi in discussione in Italia, le norme non si occupano dei conflitti potenziali, ma puntano a garantire la trasparenza decisionale e si limitano a sanzionare penalmente i comportamenti privati che effettivamente confliggono con gli interessi pubblici. “Va segnalato – si legge nel report del 31 ottobre 2003 del Congresso degli Stati Uniti che fa il punto delle leggi americane sul conflitto di interessi – che non esiste alcuna legge federale che richiede espressamente a un particolare funzionario federale, o a una categoria di funzionari, di mettere i propri asset in un fondo cieco per esercitare un lavoro pubblico all’interno del governo federale”. Ancora: “I funzionari federali e gli impiegati non sono obbligati a dismettere i loro beni per evitare il conflitto di interessi. Piuttosto… i metodi principali di regolamentazione dei conflitti di interessi, a norma delle leggi federali, sono l’esclusione e la trasparenza (disclosure)”. Le leggi americane, dunque, non impediscono a priori a nessuno, neanche a un simil Berlusconi locale, l’elezione o la nomina a cariche politiche o di governo. La legge americana, malamente invocata in Italia, prescrive esclusivamente “l’esclusione”, cioè la ricusazione, l’astensione dal partecipare a decisioni pubbliche che potrebbero favorire interessi privati, e poi la trasparenza, cioè rendere pubblici i propri interessi finanziari.
Ma c’è di più, molto di più. Seguite bene: l’obbligo di non partecipare alle decisioni pubbliche potenzialmente confliggenti con gli interessi privati vale soltanto per i funzionari di governo e per gli impiegati federali, ma non si applica né al presidente degli Stati Uniti né al vicepresidente né ai parlamentari di Camera e Senato né ai giudici federali (articolo 202, comma c del Codice degli Stati Uniti). Ancora prima che questa esplicita esenzione fosse iscritta nel Codice, era consuetudine consolidata escludere presidente e vicepresidente dalle norme sul conflitto d’interesse, per lo stesso motivo per cui non sono mai state applicate nei confronti dei parlamentari: “Una ricusazione obbligatoria potrebbe, in teoria, interferire con i doveri di presidente e vicepresidente richiesti dalla Costituzione”, si legge nel report del Congresso, perché in democrazia liberale è più importante l’interesse pubblico che gli eletti sono chiamati a perseguire, piuttosto che il potenziale conflitto con i loro interessi privati.

venerdì 11 maggio 2007

Giustizia uguale vergogna. il Foglio

Rignano, 5 esseri umani travolti dalle favole. Contrada, processo incubo.

Cinque persone sono state sbattute per settimane in galera per pedofilia ed altri reati collegati, in un delirio di morbosità giudiziario-mediatica di cui ci si vergognerà a lungo, salvo l’eccezione di coraggiosi cronisti (Bonini di Repubblica, il nostro Cerasa e qualche altro) che hanno fiutato l’orrore e lo hanno raccontato. La cosa, ha stabilito un giudice, non si regge in piedi, e i cinque sono stati scarcerati. L’orrore di Rignano, stazione dell’apocalisse antropologica, cioè di una tendenza alla caccia alle streghe che s’insinua nel cuore delle famiglie, che tocca i bambini e fa di loro gli impossibili testimoni d’accusa di vicende che dovrebbero essere indagate con scrupolo e valutate con cultura e rigore, e invece spesso non lo sono. Persone distrutte, letteralmente distrutte, nell’identità e nell’onore personale, e bisogna ringraziare il cielo che in questo caso non ci siano stati suicidi. Un caso che si aggiunge ad altri casi celebri di impazzimento, prima delle coscienze di chi guarda e valuta, poi del meccanismo giudiziario, compresi gli esperti psicologi e assistenti sociali da talk show; e a Rignano, in più, si è scatenato il finimondo comunitario, la messa in discussione senza prove della responsabilità presunta del vicino, in una costruzione fatta di confusione sociale e di crisi patente dei ruoli familiari e di ogni principio educativo stabile e serio. Si può finire in galera per le fantasmagorie crudeli da telefilm di serie B che si insediano nella mente collettiva di una comunità e poi strisciano come serpenti velenosi fino a trovare personale impreparato a indagare e a giudicare, visto che le ordinanze di custodia cautelare in carcere le firma un giudice dell’indagine preliminare, su proposta del pm. Se questo fosse un governo di sinistra e liberale, come pretende di essere, darebbe subito al Guardasigilli la delega per misure draconiane di riequilibrio dei diritti della difesa, e se fosse un paese serio, intellettuali e giornalisti alzerebbero la testa e rovescerebbero il loro indifferente cinismo in tema di diritti umani. Ma non succederà, e saremo ricoperti di vergogna per questo.

L’altra vergogna è duplice, e riguarda un servitore dello stato, il dottor Bruno Contrada, che ieri la Cassazione ha consegnato al carcere di Forte Boccea per dieci anni di reclusione, convalidando la condanna in appello per concorso esterno in mafia emessa nel febbraio del 2006. In appello il pm aveva detto che Contrada era colpevole “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Affermazione paradossale e a nostro rispettoso giudizio risibile, visto che quel processo era il rifacimento di un altro processo in cui Contrada era stato assolto. Come il legislatore aveva giustamente stabilito, non ha senso condannare al di là di ogni ragionevole dubbio una persona che è stata assolta per le stesse accuse, perché il dubbio resterà sempre, visto che una Corte lo ha fissato in una sentenza. Essere processati due volte per lo stesso reato è un principio volgarmente contrario all’idea accusatoria e liberale di giustizia degli anglosassoni, e pericolosamente vicino alla deforme caricatura di giustizia della nostra cultura inquisitoria, lontana da ogni garantismo civile. La Corte costituzionale, con una decisione di burocrazia giuridica ispirata alla cosiddetta parità delle parti nel processo, pm e difesa che tutti e due dovrebbero avere sempre il potere di ricorso, anche in caso di assoluzione, aveva abrogato quella legge giusta, con ciò abrogando un principio di civiltà che viene dal meglio del diritto romano: nel dubbio, ci si pronuncia per la libertà del reo. Ed eccoci di nuovo davanti a una patente malagiustizia, in una catena di pronunciamenti che contraddice il senso comune e il diritto naturale, oltre che positivo, a non essere perseguiti con accanimento quando si è oggetto di indagine e di imputazione.
Ma nel caso Contrada ci sono altri elementi decisivi che ci fanno sentire disarmati di fronte all’inerzia da mozzorecchi con cui continuiamo a gestire i diritti civili dei cittadini, quelli veri, quelli al giusto processo, il fair trial. Il capo di reato di concorso esterno in associazione mafiosa è un obbrobrio emergenziale, costruito con l’artificiale sovrapposizione di due articoli del codice penale, e fatto apposta per colpire in modo indistinto, a seconda delle convenienze di potere che allignano nelle istituzioni deputate a fare giustizia e di altre convenienze. Se sei un grande poliziotto, come Contrada è stato per testimonianza congiunta in tribunale di altri capi della polizia, di titolari dei servizi di intelligence, di ministri dell’Interno, ma ti fai nemica la persona sbagliata, sarà un gioco da ragazzi incastrarti per la tua “vicinanza”, appunto il concorso esterno, a criminali dai quali, facendo il tuo mestiere nella zona grigia della confidenza e dei confidenti, hai cercato di estrarre informazioni in uno scambio diretto a favorire l’opera di repressione. Se sei un politico o un uomo d’affari siciliano (i casi celebri sono quelli di Calogero Mannino e Marcello Dell’Utri) sarà facile incastrarti nelle tue amicizie e frequentazioni, e sbatterti in galera senza mai avere dimostrato la tua mafiosità. Basta un impalpabile concorso esterno.

L' "altra" inchiesta. Lino Jannuzzi

http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=176993

Perché i giudici hanno condannato Contrada credendo ai "pentiti" e non alle innumerevoli testimonianze favorevoli? Chi aveva interesse a "togliere di mezzo" un fedele servitore dello Stato?
Un articolo che deve essere letto dai "giustizialisti" a oltranza.

giovedì 10 maggio 2007

"Sulle pensioni il Governo truffa i giovani". Emanuela Zoncu

E’ un fiume in piena l’ex viceministro del governo Berlusconi, Mario Baldassarri. Non gli va giù di essere preso in giro con numeri che non trovano riscontro nella realtà e di litigare per un tesoretto che non può essere distribuito perché occorrerebbe prima metterlo nel bilancio di assestamento di giugno. E lo scontro relativo alla riforma previdenziale? Quello per il senatore di An è un film già visto, dove le pensioni sono solo i titoli di coda di una pellicola falsata.

Padoa Schioppa ha detto: c’è tempo fino a giugno per raggiungere accordo, altrimenti rimane la legislazione vigente. La sinistra radicale insorge. Cosa sta succedendo?
Quello che sapevamo fin dalla campagna elettorale

Cioè?
Questa è una squadra che si è messa insieme per battere il centrodestra e mandare a casa Berlusconi ma che sui temi di governo non ha elementi di consenso. Le pensioni sono solo un caso, ce ne sono altri venti: la politica estera o le tasse per esempio.

Perché non si raggiunge un accordo?
C’è la cosiddetta ala moderata riformista della sinistra che si rende conto che occorre completare la riforma Dini e quella Maroni. Mentre l’ala radicale pensa che bisogna aumentare la spesa pensionistica e poi aumentare le tasse con l’illusione di far pagare le imposte ai ricchi. In realtà le tasse le pagano i poveri. Ma questa è la storia della sinistra in Europa e nel mondo.
Padoa Schioppa ha messo sul piatto 2,5 miliardi, le risorse che rimarrebbero dagli 8-10 miliardi in più rispetto alle stime di settembre. I conti quindi non erano allo sfascio?Certo che no. Prodi ha detto che il deficit 2007 sarà al 2,3%. Ma era al 2,3% anche un anno fa, nel 2006. Invece loro sa cosa hanno fatto?

No, cosa?
Lo hanno nascosto facendo un altro falso in bilancio. Nel 2006 hanno messo a deficit due tipi di pregressi: la sentenza Iva sulle automobili che risale al ’76 e lo spostamento del debito della Tav allo Stato. E hanno mandato all’Unione Europea la comunicazione che c’era un deficit del 4.4%. Ma semplicemente perché hanno preso un pezzo di stato patrimoniale (debito) e lo hanno messo nel conto economico. Se lo fa l’amministratore di una società va in galera.

Torniamo alle pensioni, cosa comporta l’abbattimento dello scalone come vuole la sinistra radicale?
Comporta nove miliardi di euro di spesa in più, esattamente quello che era la correzione sulla spesa pensionistica determinata dallo scalone. Lo scalone è nato perché è necessario aumentare l’età pensionabile. Se questa cosa fosse stata fatta nel ’95 con la riforma Dini, avremmo avuto 13 anni di tempo per arrivarci in modo graduale. Se noi, governo Berlusconi , l’avessimo adottata subito e fosse cominciata già nel 2005 saremmo arrivati nel 2008 in maniera più graduale

Sta facendo mea culpa, professore?
Sto facendo un appunto al nostro governo, questo sì. Il nostro governo mise un paletto: non volete alzare l’età pensionabile subito? Sappiate però che dal 2008 l’età passerà da 57 a 60 anni. Dico che potevamo arrivare a 60 anni o 62 anni cominciando nel 95: si diceva che si aumentava un anno ogni due e in 13 anni, oggi saremo già a 63. Ma il dato di partenza è un altro.

Quale?
Quando è stato fatto il sistema di ripartizione nel ’69, la riforma Brodolini, noi avevamo 4 lavoratori dipendenti che allora pagavano il 25% di contributi e quindi in quel momento potevamo garantire il 100% dell’ultimo stipendio all’unico pensionato che c’era: avevamo 4 lavoratori che potevano mantenere un pensionato. Oggi il rapporto è quasi uno a uno. Quindi dovremo dire al lavoratore più giovane di pagare il 50% di contributi per pagare al pensionato il 50% della pensione. Non solo: prima con 35 anni di contributi uno prendeva dieci anni di pensione perché campava fino a 67 anni, oggi con 35 anni di contributi prende venti anni di pensione perché l’età media è aumentata ed è arrivata a 77 anni.

Quindi i conti non tornano
Infatti. Perché se lei paga gli stessi contributi ma riscuote la pensione per un periodo che è doppio è evidente che con 35 anni di contributi lei non può andare in pensione a 57 anni. La cosa morbida è quella di dire: lavora un po’ di più per avere una pensione consistente.

L’alternativa?
L’alternativa è quella di correggere i coefficienti. Che vuol dire: va bene, vai in pensione dopo 35 anni. Già, però prendi una pensione che è la metà. Se uno campa dieci anni in più, qualcuno dovrà pur pagare quei contributi: o in parte li paga lavorando di più oppure li paga prendendo una pensione più bassa

Ma la sinistra radicale non vuole mettere mano ai coefficienti di trasformazione
Esatto, semplicemente perché ideologicamente vuole più spesa pubblica e più tasse. Tutto qui.

E’ vero che i giovani stanno lavorando per pagare le pensioni di oggi?
Certo, perché non c’è capitalizzazione. I giovani assunti dopo il 1995 già da 13 anni sono con il sistema contributivo, quindi andranno in pensione con un assegno che sarà pari al 35% dello stipendio. Mentre noi continuiamo a mandare a casa quelli più anziani, che prendono l’80% della retribuzione (chi aveva più di 18 anni di anzianità di lavoro nel ’95, fino al 2012 conta sul vecchio sistema retributivo). Insomma: abbiamo persone che vanno in pensione con l’80% dell’ultimo stipendio e stiamo dicendo ai giovani che quando ci andranno loro avranno il 35% e i loro contributi di oggi servono per pagare le pensioni di oggi all’80%. Dopodiché gli abbiamo spiegato: però voi vi potete fare il fondo pensione e questo governo come sappiamo prende il Tfr e lo porta all’Inps. Prima di tutto è un furto, poi è una contraddizione.

Perché?
Perché dicono che vogliono agevolare i fondi pensione e poi che fanno? Si prendono i soldi e li portano all’Inps. C’è un conflitto d’interesse. Ma loro sono gli avversari dei conflitti di interessi degli altri.

I razzisti rovesciati. Davide Giacalone

Un lettore di Repubblica scrive al quotidiano dicendo che pur essendo lui progressista e di sinistra (ricordate la puttana cantata la Lucio Dalla?), pur essendosi battuto contro lo spostamento dei campi nomadi, pur avendo declamato le parole dell'accoglienza e dell'assimilazione, ora ne ha le tasche piene di zingari che rubano, immigrati che si comportano con violenza, violazioni continue ai danni dei cittadini comuni, e si preoccupa, il poveretto, d'essere diventato razzista. Si rassicuri: lui, e quelli come lui, razzisti lo sono sempre stati, non lo sono diventati.

Io no, non sono razzista, non concepisco alcuna forma di discriminazione, mi ripugna ogni sottolineatura delle differenze, anche per credi religiosi. Non penso affatto che noi si sia tutti uguali, ma lo siamo (o dovremmo, per la precisione), tutti, davanti alla legge, che è poi un modo per dire che lo siamo nel convivere civilmente. Quindi, se si dice “zingaro” a me non viene in mente “ladro”, e per accogliere gli zingari non penso affatto che si debbano tollerare i ladri. Gli zingari sono nomadi? Buon pro faccia loro. Ma se si fermano nel mio Paese ne devono accettare le regole: i bambini vanno a scuola, i ladri in galera. Non sono stato io a suggerire loro il nomadismo, per cui se si fermano da noi non provvedo a mie spese a farli alloggiare (ricordate gli zingari alloggiati negli alberghi “con il televisore ed il frigobar”, cantati da Gaber?), ma se lo desiderano possono inserirsi nel nostro tessuto civile, nel nostro mondo del lavoro, accettandone tutte le condizioni. E se non lo desiderano? Buon viaggio.
Io non credo che i senegalesi siano spacciatori, i rumeni papponi e mignotte e così via. Credo, però, che se continueremo a tollerare l'ingresso di un'umanità irregolare e disperata, che appena mette piede in Italia ha il primo dovere di saldare il debito con i criminali che hanno organizzato la loro transumanza, è evidente che continueremo a metterci in casa una vasta manodopera criminale. Quindi io vorrei fare entrare tutti quelli che mi servono e che posso ospitare, ma il loro status non è ancora quello di miei concittadini e, pertanto, alla violazione delle regole s'accompagna l'immediata espulsione.
Non credo proprio che l'essere extracomunitario significhi una qualche maggiore vicinanza alla devianza ed al crimine, ma so che, statisticamente, fra questi esseri umani si concentra una maggiore percentuale di devianti e criminali. Questo significa che difetta la nostra capacità di far rispettare le leggi e punire i colpevoli, significa che accumuliamo sacche di extraterritorialità che poi esplodono zozzando la realtà circostante. E se dico che a tutto questo si deve porre fine non mi sento razzista manco per niente, perché non penso che quella criminale sia una caratteristica personale, o razziale, delle persone che ospitiamo, ma una degenerazione del modo in cui li facciamo entrare.
Certo, capisco il disagio di chi ha sfilato dietro ai tamburi colorati, estasiato per la diversità culturale, ha abbracciato le giovani venute dall'est, ammirato per la libertà dei costumi, ha mostrato rispetto per le fedi, nascondendosi davanti a costumi barbari come l'infibulazione, s'è commosso per gli zingarelli, dicendo insensatezze sul popolo che viaggia con il vento, e ora si ritrova circondato da bande, puttane, sfregiatori di bambine e pure senza il portafoglio. E ora si domanda: sarò diventato razzista? No, sei solo uno che s'è raccontato un sacco di balle, e ora i conti non gli tornano più.

Intervista a Benedetto Della Vedova. Dimitri Buffa

“Il conflitto di interessi? Non può essere usato come arma di ricatto politico su Berlusconi a intermittenza. A me sembra un problema interno alla coalizione dell’attuale maggioranza perché qualcuno deve dimostrare di avere fatto qualcosa di anti berlusconiano, ma i nodi della politica e dell’economia non si possono risolvere così”. Benedetto Della Vedova dei Riformatori liberali incarna da sempre l’anima più libertaria, insieme a Marco Taradash, della casa delle libertà. In questa intervista Della Vedova dice la sua a proposito delle privatizzazioni all’italiana, del caso Telecom, delle banche amiche e ovviamente della new entry nel dibattito, cioè la legge sul conflitto di interessi che, unitamente a quella di riforma delle televisioni meglio nota come Gentiloni, sembra destinata a caratterizzare la rissa politica tra i due schieramenti nei mesi a venire.
Onorevole Della Vedova lei cosa legge tra le righe in questa nuova guerra scoppiata tra la sinistra e Berlusconi sulla legge per regolare il conflitto di interessi?
“La sinistra è sempre alla presa con i propri riti e il suo conflitto di interessi consiste nel fatto che le leggi che fa non servono alla collettività ma solo agli apparati politici. Con Berlusconi e la legge contra personam che si sta mettendo in cantiere, unitamente alla riforma Gentiloni sulla tv, non si rende un servigio al paese ma si cerca di dimostrare di avere fatto qualcosa di anti berlusconiano che nell’immaginario dell’Unione oggi, e del futuro partito democratico domani, sta prendendo il posto del “fare qualcosa di sinistra.”
In che senso?
“Che si insista oggi sul conflitto di interessi perché c’è Berlusconi dopo che negli ultimi tredici anni ha fatto per due volte il presidente del consiglio governando per oltre sei anni, di cui cinque tutti di seguito, assomiglia più a una giustificazione a posteriori del perchè la sinistra con lui ha sempre perso le grandi battaglie politiche che a una vera necessità del paese. Sarebbe più logico creare nuove leggi dopo che questa fase sarà passata, dopo tutto Berlusconi non è eterno come nessuno di noi e si potrebbe anche attendere il suo ritiro dalla politica attiva invece che costringerlo a questo con una legge che spaccherà in due il Paese”.
Ma è più in conflitto un imprenditore che con i propri soldi voglia fare politica o un politico che voglia fare impresa con i soldi della collettività?
“Questa è la classica domanda da cento milioni di euro. L’Italia intera si dibatte in mezzo a questo dilemma.”
L’Italia potrà mai diventare un paese liberale?
“Nel dibattito politico non ci sono novità e io non so se questo è un bene o un male. Tutto procede sulla falsa riga della vicenda Telecom, che è il paradigma del sistema economico italiano.”
Cioè?
“Da una parte uno stato che ha formalmente, ma solo formalmente, rinunciato alla gestione diretta delle aziende,e in particolare di questa azienda, ma che in fin dei conti non accetta fin in fondo questa scelta, e questo vale soprattutto per il centro sinistra che però non ha la forza di teorizzare e fare un intervento diretto, dall’altra c’è un sistema industriale che dal punto di vista dei grandi operatori perde pezzi invece che acquisirne e un sistema finanziario che è tutto imperniato sulle banche. Poi manca il coraggio di assumersi le responsabilità: ad esempio nessuno nel governo Prodi dice chiaramente “Telecom ce la ricompriamo noi”. Si cercano soluzioni di compromesso, si sondano le intenzioni della contro parte politica, in questo caso Berlusconi, e si trova sempre un alibi per non volere privatizzare fino in fondo, ora adducendo l’italianità come valore, ora parlando di reti e di strategie, ma di fatto con l’obiettivo di portare a casa un risultato statalista senza darlo a vedere.”
Ma sono le banche a dettare l’agenda alla politica o viceversa?
“Le banche in Italia sono le uniche istituzioni finanziarie solide e quindi le uniche a possedere dei soldi. Su loro pesa il peccato originale delle fondazioni e della legge Amato che di fatto le ha messe in mano alla politica che allo stesso tempo tiene in pugno le sorti delle imprese. Questo corto circuito determina tutte le scelte industriali e di fatto limita il libero mercato. E le fondazioni dalle banche non sono mai uscite, perché, anche se non sono più gli azionisti di maggioranza, di fatto sono gli enti che determinano la politica economica delle banche e condizionano i comportamenti dei grandi operatori anche nel settore delle privatizzazioni come stiamo vedendo con Telecom e Alitalia. L’esempio calzante per fare capire come funzionano le cose è la telefonata di Padoa Schioppa al presidente delle Generali: un ministro del Tesoro che chiama il capo delle assicurazioni più grandi d’Italia dicendogli che gradirebbe un intervento è la nostra maniera di intendere il libero mercato. E queste cose si pagano, perché poi un giorno le Assicurazioni Generali chiederanno al governo un favore che non potrà essere rifiutato. E questo favore sarà a danno della concorrenza.”
Perché in Italia non esistono fondi che operano come quelli stranieri?“E’ una conseguenza di quanto detto prima, in Italia non c’è posto perchè tutto è in mano alle banche. E altri operatori non si azzardano a intervenire perché la politica e i monopoli, o oligopoli, di fatto che si sono creati non lo permetterebbero. Così il circolo vizioso si chiude anche con le mancate privatizzazioni di quei beni dello stato che permetterebbero di ridurre il debito e che invece oggi come oggi di fatto lo accrescono per quanto costano gli interessi bancari che ci vogliono per tenerli in vita. E’ il caso di Alitalia, ma anche di tantissime altre realtà e i lamenti sull’italianità perduta sono tutto fumo negli occhi.”

Il Single Day. Filippo Facci

In un anno ci sono solo 365 day, altrimenti sarebbe davvero il caso di organizzarne uno per i single. In Italia, secondo l'Istat, sono quasi dieci milioni, e molti lo sono per scelta. Di essi, prima della politica, si è accorto come sempre il mercato: sono quelli che spendono di più e comprano e viaggiano e leggono e consumano di più. Negli Usa, nel 1940, i singles erano l'8 per cento: oggi sono il 25. Ci sono film e telefilm solo per loro, libri, periodici, siti internet, ristoranti, addirittura associazioni che li tutelano fiscalmente e socialmente. Un tempo erano snobbati, oggi i candidati alla Casa Bianca se li contendono.
In Italia invece non se li fila nessuno, ed è tanto se trovi la monoporzione al supermercato o se ti rimediano un angolo al ristorante. Quelli italiani sono i più tartassati d'Europa: un lavoratore dipendente con moglie e due figli a carico, e un reddito di 20mila euro annui, paga 1.342 euro di tasse; un single con lo stesso reddito deve sborsarne 3.629, e questo nonostante abbia spese più alte perché non può dividerle. Nel resto d'Europa le differenze fiscali tra nuclei mono e plurifamiliari sono quasi a zero. Allora organizziamo? La questione dei single gay la vedremo poi.

martedì 8 maggio 2007

Gentiloni confessa: lo faccio per i voti. l'Occidentale, orientamento quotidiano

Bisognerebbe consigliare al ministro Gentiloni di rileggersi un paio di volte le interviste che concede prima di dare il via libera. Quella pubblicata dal Corriere di lunedì 7 maggio è chiaramente il frutto di una svista: forse non aveva tempo, forse il suo portavoce era distratto, ma di certo se ci avesse posto un poco più di attenzione ne avrebbe guadagnato in credibilità.
Gentiloni infatti se la piglia subito con Berlusconi accusandolo di agitare lo spettro dell'esproprio di Mediaset per via legislativa solo a scopi elettoralistici. "Qualcuno deve avergli spiegato - suggerisce, capzioso, Gentiloni - che parlando solo dei problemi delle città il centro-destra perderebbe". Ecco dunque che Berlusconi mette in scena la parte della vittima solo per "politicizzare le amministrative".
A questo punto deve aver squillato il telefono o forse è entrata la segretaria perchè quando l'intervista riprende Gentiloni ha evidentemente perso il filo. Il giornalista infatti gli chiede: "Che succede se non si approva la legge?" e qui ci saremmo aspettati qualcosa di edificante del tipo: "La concorrenza ne soffrirebbe, il sistema televisivo sarebbe penalizzato, ci sarebbe meno pluralismo, ecc...". Insomma qualcosa da mettere in contrasto con il rozzo Berlusconi che la butta in politica e guarda solo al risultato elettorale. Invece, candidamente, lo sventurato Gentiloni risponde: "Se non approvassimo quella legge ci sarebbe uno tsunami elettorale", che tradotto vuol dire: il centro-sinistra verrebbe travolto alle prossime elezioni.

Il Corriere giustamente ci fa il titolo: "Spediti sulla mia legge o ci sarà uno tsunami elettorale". Il motivo della fretta è tutto lì. Il ddl Gentiloni è l'assicurazione sulla vita della maggioranza, ma che a dirlo fosse lo stesso Gentiloni non era scontato.
Ma sant'iddio, uno straccio di esperto di comunicazione il ministro della Comunicazione se lo potrebbe pure trovare.
Il filosofo Pierre Manent ci spiega perché domenica i francesi hanno scelto di contravvenire alla vulgata dei mass media e alle ingiunzioni dei partiti e hanno votato per “l’impresentabile”

Parigi. Esulta Pierre Manent, storico del liberalismo, della ragione della nazione. Anche lui era uno di quelli che si aspettavano un terremoto. E il terremoto c’è stato. Il 6 maggio segna in Francia un cambiamento politico profondo. Ecco perché: “Il sistema era paralizzato, da quando avevano preso piede le monarchie mitterrando-chiracchiane. E in particolare nell’ultimo periodo la democrazia era arrivata a una paralisi perché il voto popolare, con le stesse presidenziali, con Le Pen in ballottaggio nel 2002, con il referendum antieuropeo nel 2005, non aveva sortito alcun effetto”. Il sistema, dice Manent, era rimasto immutato, e questo alimentava la frustrazione popolare. “Il voto di domenica cambia tutto. Cambia innanzitutto il personale politico, con una nuova generazione di cinquantenni pragmatici, proiettati nell’azione e sui risultati. Ma soprattutto cambia il voto degli elettori, perché si oppone a tutto quello che gli avevano detto di fare”. Manent, che è un filosofo della politica educato al realismo da Raymond Aron, sa di cosa parla. Quello che più lo ha colpito di queste elezioni, “è la mobilitazione della classe dei mass media e della politica, per continuare a dire al popolo cosa deve fare. Ora però, per la prima volta nella storia della democrazia francese, il popolo ha votato secondo le sue convinzioni: ha scelto di eleggere presidente l’uomo che veniva rappresentato come il nemico pubblico numero uno, Sarkozy”. E’ questo secondo Manent il dato inedito delle presidenziali 2007. “Abbiamo assistito a una campagna mediatica incredibile, a una pioggia di appelli e petizioni contro Sarkozy, contro la minaccia di un nuovo fascismo. Abbiamo sentito annunciare rivolte, disordini, violenze. I francesi però non si sono lasciati intimidire. Hanno scelto contravvenendo alle ingiunzioni della classe politica. Stavolta dunque la ‘rivolta elettorale’ non sembra essere sterile e fine a se stessa, come nel 2002 e nel 2005, perché ottiene un risultato, legittima cioè con la volontà popolare la possibilità di un cambiamento politico maggiore”.
E’ la prima volta che succede, secondo Manent. Un caso inedito al quale si aggiunge l’altra novità della vittoria della destra senza complessi. “Per la prima volta un uomo di destra che si è sempre presentato come tale, elaborando un programma di destra, viene ad essere eletto senza doversi mascherare da uomo di sinistra”. Una prima assoluta, in un paese di antica tradizione rivoluzionaria come la Francia. “La destra in Francia – dice Manent – non è mai stata eletta in nome proprio, ma ha sempre avuto bisogno di porsi sotto la protezione di qualcun altro, il re, Napoleone, il secondo Impero, De Gaulle. Ora con Sarkozy, per la prima volta, si vede un politico che arriva al potere da destra e in nome della destra”. E’ per questo che è stato tanto demonizzato dalla sinistra? “Certo, perché era un uomo di destra e in Francia, prima di oggi, veniva considerato impossibile essere davvero di destra. Chirac, per esempio, l’aveva capito benissimo visto che ha finito la sua carriera politica come un radicale di sinistra, ostinandosi a spiegare ai suoi elettori che liberalismo e comunismo in fondo sono la stessa cosa, dopo aver diretto la politica francese delegittimando la destra. La novità di Sarkozy, in questo senso è notevole.
Che dire allora di quelli che lo giudicano un bonapartista fuori tempo massimo o un gollista in ritardo? “Non accettano l’idea che un uomo politico di destra possa essere eletto dal popolo, senza un colpo di stato, senza l’aiuto delle baionette. E non si rassegnano”.(il Foglio)

Antropologicamente superiori. Martin Venator dal blog dell'Anarca

Non serve scomodare Michele Serra, lo sappiamo che sono superiori, in Italia come in Francia, a sinistra, come à gauche. Ce lo ricordano ogni giorno i nostri sensi di colpa reazionari, i nostri complessi di inferiorità, quel frustrante bisogno di essere accettati che ci portiamo dietro da tempo immemorabile per farci perdonare la nostra intrusione nel mondo. A sinistra sono "antropologicamente superiori", punto è basta. Bisogna farsene una ragione. Non possiamo competere con loro. Non abbiamo la stoffa. Poi chiaro dipende dai casi, dalle latitudini, dalla pronuncia (se la evve è moscia la supeviovità sale). Dipende anche dalla fisiognomica: se uno si confronta con le facce di Prodi, Fassino e Russo Spena… pure pure se la gioca. Ma quando di fronte ha il sorriso di Ségolène Royal, allora non c’è partita. E si è visto. Che poi loro, gli "antropologicamente superiori", stiano prendendo schiaffi in tutta Europa questo è un altro paio di maniche. Può essere il segno del Kali Yuga, oppure della nuova offensiva delle oscure forze della reazione che dal Vaticano, alla Casa Bianca, all’Eliseo, muovono contro i legittimi diritti dei diseredati che gli abitini griffati di quella povera proletaria di Ségolène rappresentavano in pieno. Ma la sconfitta politica non mina certamente quella superiorità di animo e di cultura che promana da ogni pelo di barba di intellettuale sessantotardo, da ogni lacrima isterica della Melandri, da ogni ghigno feroce e stupido di quei figli di papà che rivestono di rivoluzione e molotov la loro frustrazione piccolo borghese. "Antropologicamente superiori" è un dettato costituzionale a cui ci si deve arrendere: basta provare ad ascoltare Ségolène senza ridere o rileggere il discorso di Veltroni al congresso del PD quando dice che quelli di sinistra sono quelli che si preoccupano delle vecchiette sole, lasciando intendere che quelli di destra le vecchiette le puntano con il Suv. E non c’è da sorprendersi se di fronte a questo straordinario editoriale di Maria Laura Rodotà, uno "antropologicamente inferiore" pensa come si possano scrivere tante cazzate in 24 righe…
E quando casualmente, per un bizzarro scherzo del destino, forse aiutata da quella particolare congiunzione astrale che si chiama “culo”, la Destra vince immeritatamente come in Francia, beh allora noi "antropologicamente inferiori" dovremmo perlomeno concedere l’onore delle armi agli sconfitti. E lo faremmo pure se la gauche di Segoléne non si fosse mostrata così meschina e repellente da fare schifo persino al nostro stomaco allenato ai Caruso nostrani. Perché quell’invito a scatenare la rivolta nel caso di vittoria di Sarkozy ha superato per scelleratezza anche le stupidaggini di Gino Strada.
Il problema è se il mondo si rovescia. Se gli "antropologicamente superiori" cominciano a pensare di non esserlo poi così tanto; se un incubo di destra come Sarko inizia a sembrare più superiore di loro. Se la sua vittoria è soprattutto una vittoria di un’idea chiara, precisa, convincente del mondo, delle sfide da raccogliere e del ruolo che il proprio paese deve avere. Se lo sguardo curioso e determinato di Sarkozy è superiore al gelido e finto sorriso della bella signorinella di Lorena.
Massimo Nava sul Corriere ha definito Sarko "un Blair di destra" dimenticando che Blair è stato una "Thatcher di sinistra" e con la differenza che il buon Tony in Europa è stato isolato proprio dalla sinistra europea sui grandi temi che creano oggi un’identità. Ma quel timore che qualcuno voglia esaltare il lato conservatore di Sarkozy e nascondere quello riformista che piace anche a sinistra, è un timore infondato. Perché la destra di governo in Europa ha sempre saputo accelerare i tempi e anticipare i processi. La stessa destra che in forme diverse continua a produrre modernizzazione e cambiamento da almeno 30 anni a questa parte, costringendo la sinistra a rincorrerla o al massimo ad adagiarsi sulle riforme che essa fa (come è stato in Gran Bretagna e Spagna). Margareth Thatcher, Kohl, Aznar, Berlusconi, grandi leader che hanno promosso e accelerato processi di modernizzazione e di cambiamento politico e sociale… ma anche di linguaggi e immaginario simbolico.
Dei grandi leader della destra europea che hanno fatto la storia, Sarkozy ha qualcosa in più. Innanzitutto ha la Francia dietro di sé: un grande paese che riscopre l’orgoglio del proprio ruolo nel mondo. Poi ha la grande tradizione gollista di una destra moderna che Chirac aveva addormentato nella misera gestione del potere. Infine ha la grande visione delle nuove sfide in gioco nel campo dell’identità, dei diritti civili, del ruolo di una laicità capace di considerare la religione come elemento fondante e forza di una democrazia moderna. Ma Sarko incarna anche la consapevolezza che il mito degli "antropologicamente superiori" è pattumiera, come le idee di una sinistra che arranca in tutta Europa impaurita dalle sfide che sono di fronte a noi, rinchiusa nel retaggio ideologico di un ’68 che ha prodotto più danni che altro. Rimane la questione dello stile; e il dito medio con cui gli "antropologicamente superiori" hanno salutato la vittoria di Sarkozy in Francia rappresenta la frustrazione di chi, almeno per una volta, non si sente più tanto superiore.