venerdì 31 dicembre 2010

L'ho indagato e so che è indifendibile. Guido Salvini*

Quindi il Presidente Lula non intende estradare Battisti per proteggerne «l’integrità fisica». Un’idea incomprensibile per chi come me ha seguito una parte delle indagini sui Proletari Armati per il Comunismo di Battisti e ricorda bene la scia di dolore, l’«integrità fisica» delle vittime davvero perduta per sempre, che le loro gesta gangsteristiche, disprezzate persino dalle Brigate Rosse, hanno lasciato alle spalle.

Ma l’idea di Lula non si comprende in pieno se non si pone attenzione a una certa cultura da cui proviene. Il Brasile ha una storia lunga e anche recente di banditismo giustizialista, soprattutto rurale, i cui protagonisti erano pseudogiustizieri al confine tra crimine e ribellismo politico e alcune volte ottenevano, come i nostri briganti, anche ammirazione.

Per questa ragione Battisti, che uccideva i negozianti e le guardie penitenziarie che gli erano antipatiche, ha avuto la fortuna di trovare il posto giusto in cui rifugiarsi. Ricordiamo del resto che prima di diventare un terrorista e poi un romanziere di successo Battisti era semplicemente un ex-malavitoso politicizzatosi in carcere.

Con la scelta cui si prepara, il Presidente brasiliano forse eviterà di sostenere che Battisti è un innocente perseguitato, idea difficile visto che a suo carico ci sono sentenze alte come guide del telefono, ma più semplicemente, con un corto circuito frutto di una cultura più che di una strategia internazionale, che è un fuggiasco da ospitare e proteggere.

Ciò che infastidisce, e non poco, di questa scelta è il presupposto che Battisti sarebbe esposto in Italia a persecuzioni legali o extralegali. Dopo gli anni di piombo la nostra Giustizia ha processato quasi 3000 terroristi sempre con giudizi regolari in cui tutti hanno avuto diritto alla difesa. Grazie alle leggi sulla dissociazione e a benefici penitenziari la quasi totalità è tornata libera con tempi e modi che non suonano come persecutori ma che semmai hanno causato proteste dei parenti delle vittime. Sofri e Toni Negri non sono sepolti in uno Spielberg e la terrorista Baraldini estradata dagli Usa e malata, non giace in un Lazzaretto. Né in detenzione né dopo la scarcerazione nessun ex terrorista ha subito torture o è stato fatto scomparire illegalmente da apparati dello Stato o bande di poliziotti. Tutti coloro che non hanno più commesso reati vivono tranquillamente spesso ben reinseriti nella società e la nostra Giustizia, il caso Abu Omar insegna, non tollera violenze o rapimenti nemmeno in danno di stranieri.

Il popolo brasiliano suscita in noi giusta simpatia per la vitalità che esprime a dispetto delle difficoltà in cui vive. Nonostante l’offesa, ci deve restare amico. Ma il suo Presidente sa che gli squadroni della morte hanno agito non in Italia, ma nelle città del Brasile ove poliziotti e paramilitari hanno giustiziato sommariamente ogni notte ladruncoli e meninos de rua, i ragazzini che vivono nelle strade e la situazione delle sue carceri non è certo migliore. Il Presidente Lula dovrebbe guardare la trave nel suo occhio, poi forse le pagliuzze in casa altrui. ( il Riformista)  *giudice

giovedì 30 dicembre 2010

Perché il generale (innocente) è stato condannato. Carlo Panella

Il generale dei carabinieri Gampaolo Ganzer, comandante dei Ros, non solo è innocente, ma soprattutto è apparso pienamente innocente durante il processo che ha dovuto subire per la improvvida decisione della Procura di Milano. Però, il Tribunale di Milano, l’ha condannato e il modo e le motivazioni di questa condanna costituiscono un vulnus gravissimo alle nostre istituzioni. In piene festività natalizie la corte milanese ha inondato tutti i media italiani di affermazioni gravissime, al di là dell’insulto, sul carattere, le attitudini, le prevaricazioni, i tradimenti, insomma, di cui Ganzer sarebbe responsabile. Uno straordinario ufficiale, che ha dato sempre prova di eccezionali capacità investigative, negli ultimi trenta anni, che dirige da un quindicennio con risultati eccellenti il principale organo investigativo, i Ros, che ancora negli scorsi mesi ha diretto le indagini su Finmeccanica, Telecom-Fastweb, Protezione Civile, appalti e Enav, che negli ultimi 5 anni ha arrestato 56 latitanti di Mafia e narcotraffico, sequestrato 2 miliardi e mezzo di euro e 15 tonnellate tra beni e sostanze stupefacenti, è stato così umiliato, insultato, accusato di infamie immonde, senza alcun fondamento.

Tanto sono infatti terribili e indelebili gli insulti scritti in questa intollerabile motivazione di sentenza, quanto sono motivati unicamente dall’obbiettivo evidente di nascondere sotto un polverone di accuse infamanti l’unico dato di fatto incontrovertibile emerso dal processo: Giampaolo Ganzer non ha compiuto nessun reato contestato per la semplice ragione che non poteva materialmente farlo. Infatti, quando, nell’aprile del 1993, quei reati sono stati commessi da alcuni carabinieri, lui non era affatto il loro superiore, ma dirigeva tutt’altro settore, quello di contrasto all’eversione. Si badi bene: nel corso del processo, tutti i suoi coimputati, non solo hanno testimoniato di non aver obbedito ad ordini di Ganzer (che non poteva averli dati perché non era il loro comandante), ma anche e soprattutto di avergli tenuto nascoste e occultate le azioni irregolari da loro compiute (il riciclaggio in Svizzera di fondi destinati al narcotraffico, per ingraziarsi al fiducia di narcotrafficanti), in tutte le conversazioni e anche in tutti i verbali –ovviamente riscontrati- a lui inviati. Dopo che assunse il loro comando.

Il processo, insomma, ha dimostrato una totale e assoluta coincidenza della versione degli ufficiali del Ros che hanno compiuto azioni irregolari, con quella di Ganzer. Un dato irrefutabile, tanto che lo stesso Pm, nel corso del processo ha sempre sostenuto che la “colpa” di Ganzer sarebbe stata quella di avere “saputo” ex post di queste irregolarità e di averle “coperte”. Il tribunale, invece, si inventa letteralmente un’altra verità e cioè che Ganzer non solo avrebbe “saputo” ma avrebbe addirittura “fatto”; di qui l’accusa di avere “tradito per interessi personali tutti i suoi doveri”.

E qual è la prova che avrebbe “fatto”? Semplice, un ispettore svizzero, tal Azzoni, ha reso una confusa testimonianza al Pm Salamone di Brescia (a cui peraltro Ganzer aveva arrestato il fratello) secondo la quale il maresciallo dei Cc Palmisano, nel riciclare il denaro del narcotraffico, gli avrebbe detto di agire agli ordini di Ganzer. Tutto qui, un “sentito dire” senza prove e non solo senza riscontri (ripetiamo: Ganzer non era comandante di Palmisano e quindi non poteva dargli alcun ordine), ma anche risolutamente smentito da Palmisano che durante il processo ha affermato che all’epoca non conosceva neanche Ganzer. Dunque, una sentenza surreale, che calpesta i dati di fatto, le cui motivazioni sono ricalcate in larga misura sulle parole del Pm, in cui i dati incontrovertibili portati a difesa sono ignorati, in cui addirittura viene infamato l’onore di un generale dei Carabinieri per negargli le attenuanti generiche! Ci si chiede: perché. La risposta è semplice e terribile. Due sono stati i comandanti dei Ros: uno, Mori, è sotto processo a Palermo con accuse infamanti, l’altro, Ganzer, è maciullato dalla procura e dal Tribunale di Milano.

Un parallelismo evidente (anche se le due vicende sono ovviamente diverse) come evidente è l’obbiettivo politico comune: obbligare i vertici operativi dell’Arma a sottostare al controllo investigativo e operativo totale della magistratura che intende divenire l’unico dominus non solo del giudizio, come è giusto, ma anche di tutte le attività investigative. Mori e Ganzer, eccezionali investigatori, hanno il torto di avere fatto straordinariamente bene il loro dovere (incredibilmente la stessa sentenza lo riconosce al “traditore” Ganzer in una convulsione concettuale degna di Jonesco), nell’autonomia delle loro funzioni. E’ questa autonomia dei Carabinieri oggi sotto processo. E’ questa la funzione terribile di questa sentenza inaccettabile.

Per questo il generale Ganzer deve stare al suo posto alla guida dei Ros. I narcotrafficanti hanno già avuto troppe soddisfazioni per questa vicenda. (Libero)

Ormai alla Rai comandano i giudici.

Mario Missiroli usava dire che è sempre meglio fare il giornalista che lavorare. È ancora vero. Proprio mentre si chiede ad operai che guadagnano 1200 euro al mese di accettare più flessibilità e meno diritti, un giudice ha stabilito che Tiziana Ferrario, conduttrice del Tg1 per 28 anni, deve essere rimessa a condurre quello stesso Tg alla stessa ora perché la sua sostituzione è stata frutto di una discriminazione politica da parte del suo direttore Augusto Minzolini. A noi la Ferrario è sempre piaciuta: poco diva, molto professionale, dimessa e seria come poche. Ma davvero non si capisce come si possano esercitare le prerogative che il contratto giornalistico riconosce ai direttori in un’azienda come la Rai, dove è il giudice ormai a stabilire regolarmente orari e ruoli del lavoro giornalistico e palinsesto dei programmi. Minzolini potrà anche non piacere, ma un giudice che ne prende il posto ci piace anche meno. (il Riformista)

giovedì 23 dicembre 2010

Università, Berlusconi:"Ecco le ragioni della riforma". Free News Online

Con il sì del Senato, entro questa sera la riforma dell’università sarà legge.

La riforma introduce novità vere: mette fine agli sprechi, alle parentopoli e alle assunzioni facili; dice basta ai rettori a vita che d’ora in poi potranno restare in carica al massimo per sei anni; introduce il criterio del merito ad ogni livello, stabilendo che solo le università con i bilanci a posto potranno assumere e ricevere fondi statali, mentre quelle in dissesto saranno commissariate; favorisce i giovani studiosi e la ricerca scientifica, facendo sì che i ricercatori non debbano più farsi carico di tutte le lezioni al posto dei baroni, ma dedicarsi sul serio alla ricerca scientifica, pena l’espulsione dal circuito accademico dopo sei anni di contratto, come avviene in tutte le università di qualità. E mette un miliardo nel piatto.

Sminuire queste innovazioni come operazioni di potere, bollarle addirittura come una minaccia al diritto allo studio come hanno fatto la sinistra e gli studenti che ne hanno ripetuto gli slogan, non rispecchia il testo della legge, che pochi hanno letto, ma sembra volto a coprire qualcosa d’altro.

Il ministro Gelmini, e con lei il premier, sostengono che la sinistra non poteva fare diversamente, visto che considera da sempre la scuola, l’università e la giustizia come una proprietà esclusiva, una casamatta del potere da occupare (e occupata) con uomini propri ad ogni livello.

E i risultati sembrano proprio questi, visto che dopo la riforma Berlinguer del 1998 l’università ha aperto centinaia di sedi distaccate (per lo più inutili) oltre alle 92 sedi universitarie principali, ha assunto decine di migliaia di precari, promettendo loro la stabilizzazione: una massa intellettuale da usare come arma politica nei luoghi della formazione giovanile. Il risultato? Lo sfondamento inevitabile dei bilanci e la riduzione dell’università a uno stanco esamificio.

Se ora il governo ha deciso di dire basta a questo andazzo, e di restituire l’università al suo ruolo di servizio qualificato e sostenibile per la formazione culturale delle nuove generazioni, è giusto prenderne atto.

Finalmente, un passo nella giusta direzione.

Conclamata inciviltà. Davide Giacalone

L’Italia è stata ancora condannata per inciviltà, ma la non notizia neanche trova spazio sulle prime pagine. Una cosa scontata. In compenso ci accingiamo a una nuova corrida giudiziaria, preparandoci a ricevere la sentenza della Corte Costituzionale sulla legge che regola il legittimo impedimento. E non basta, perché la follia autolesionista non ha limiti: se un giornale straniero mette alla berlina qualche nostro governante parte subito il coretto parrocchiale di quelli che intonano il “che vergogna, davanti al mondo”, ma se è la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a sentenziare che la nostra giustizia fa schifo, improvvisamente diventano tutti muti, incapaci di commento alcuno. Ancora oltre: se si osserva che certuni sembrano potere disporre di un accordo con la magistratura associata, immediatamente parte la ola dello scandalo, non per il fatto, ma per il detto, sebbene si sappia benissimo che tutte le riforme della giustizia, a partire dalla necessaria separazione delle carriere, sono state avversate da quegli stessi, con gran soddisfazione della magistratura associata. Che è la stessa cosa di prima, ma guai a dirlo in modo chiaro.

E’ umiliante, disonorevole, essere condannati non solo per la lentezza, esasperante e disumana, della giustizia italiana, ma anche per la lentezza, grottesca e arrogante, con cui decidiamo e paghiamo i risarcimenti per le ingiustizie subite dai cittadini. In un Paese che ancora coltivi un briciolo d’amor proprio questo sarebbe un tema in cima alle priorità. Invece non importa niente a nessuno. La giustizia è data per morta, senza neanche cordoglio. Non a caso neanche più s’invocano i processi giusti e ragionevoli, mentre si parla sempre di arresti preventivi (con l’occasione: è vero che il senatore Gasparri ha detto uno sproposito, ma nello stesso Paese in cui Silvio Scaglia è detenuto da un anno, senza che nessuno lo abbia mai condannato a nulla). Quel che è vivo, invece, è un giustizialismo da pollaio, animato dalla voglia di veder cancellato l’avversario politico.

Quando la Corte Costituzionale si sarà pronunciata, a gennaio, giusto in tempo per poi cambiare il proprio presidente, saremo esattamente al punto di prima: una dubbia lezioncina pronunciata da un organismo che viola la Costituzione pur di far fare carriera ai propri membri. Possono salvare o affossare il legittimo impedimento, non per questo cambierà un accidente. Più probabilmente lo rimoduleranno, in modo da rendere più presente il tema nel dibattito politico. E se ne sentiva il bisogno. Sulla faccenda si farà gran caciara, mentre il silenzio scenderà sulle parole della Corte di Strasburgo: l’Italia deve profondamente riformare la propria giustizia. Quei giudici fanno anche riferimento ai lavori parlamentari, dove le riforme giacciono, auspicando che si concludano. Auspicio più che condivisibile, ma poco credibile. Da troppi anni giriamo attorno alle cose serie, incapaci di affrontarle, sempre distratti da norme limitate e frammentarie, da mozziconi di riforma che vengono avversati come se fossero inammissibili rivoluzioni.

A noi piace parlare chiaramente: è vero che la maggioranza di centro destra s’è spesa quasi solo per proteggere il proprio leader dagli assalti giudiziari, ma è anche vero che quelle norme specifiche erano sbagliate perché troppo poco, non perché troppo, come sostenevano gli oppositori e i moralisti d’accatto. Come è vero che non è assolutamente normale il protrarsi quindicennale di raffiche giudiziarie, spesso sparate a casaccio, sempre invitando chi è nel mirino a farsi da parte, con ciò stesso manomettendo la democrazia. Ed è vero anche che quel che di buono è stato fatto, come la legge Pecorella sulla non riprocessabilità degli assolti, è stato poi cancellato da una Corte Costituzionale politicante (in quel caso con la sentenza redatta da uno che è stato presidente poche settimane, a cavallo delle feste, e neanche avverte l’elementare bisogno di vergognarsene). Ora si ricomincia, con il legittimo impedimento. Ci sono colpe ben distribuite, quindi, e miserie seminate a piene mani. Ma la responsabilità d’impostare le riforme cade su chi ha la maggioranza. Oramai dovrebbe essere chiaro che l’Italia è in un vicolo cieco, per giunta rissoso e maleodorante: va sfondato, deve esserci ossigeno e giustizia per tutti, non per uno o per taluno.

Meglio, allora, puntare tutto al bersaglio grosso, non accettando compromessi al ribasso o protezioni esclusive. Abbiamo l’anima satura di polemiche senza costrutto. Si discuta la riforma vera, senza inseguire e neanche coprire il corporativismo togato: né quello dei magistrati né quello degli avvocati. Coccolarlo o sbertucciarlo è servito solo a diventare incivili.

mercoledì 22 dicembre 2010

I 500 coraggiosi prof. minacciati solo per aver difeso la riforma Gelmini. Giancarlo Loquenzi

Quasi cinquecento tra ordinari, associati e ricercatori (senza contare moltissimi docenti "a contratto") hanno firmato l’appello "Difendiamo l’Università dalla demagogia", sostenuto dalla Fondazione Magna Carta e lanciato dalle pagine de l’Occidentale in difesa della legge Gelmini.

Non c’è nulla di roboante o solenne nelle righe dell’appello, solo la richiesta di fermarsi un momento a pensare, di respingere il riflesso di dire 'no' a prescindere, e l’invito a chinarsi anche solo per curiosità intellettuale sui contenuti della riforma, per non ridurla a mero pretesto.
Assieme ai moltissimi che lo hanno firmato ne abbiamo sentito la necessità fin dai giorni in cui manipoli di studenti bivaccavano sui tetti e in cima ai monumenti, graziosamente ricevendo politici e intellettuali desiderosi di prostrarsi al senso comune della protesta: viva la cultura, viva i giovani, viva il futuro.
Pareva già in quei giorni e poi sempre di più fino alle violenze di piazza, che il testo della riforma Gelmini fosse depositario di un potere inusitato e funesto: "cancellare una generazione", "rubare il futuro ai nostri ragazzi", "uccidere la cultura e la ricerca".

Sapevamo che non era così: neppure una legge che si fosse follemente prefissata simili obiettivi avrebbe avuto la garanzia dell’efficacia. Figuriamoci la riforma dell’Università, frutto di compromessi, trattative, accordi, emendamenti, che ne hanno semmai attutito le molte buone intenzioni.
Questa legge non salva e non danna, è – come dicono gli americani – un "pezzo di legislazione" importante e che va nella giusta direzione. L’appello dimostra che al di là del vociare dei tetti e delle piazze, sono in tanti nel mondo universitario a pensarla così. Solo che la riforma Gelmini ha smesso molto presto di essere il tema della discussione e dello scontro. Al suo posto si è aperta una voragine demagogica che doveva inghiottire Silvio Berlusconi e tutto il suo governo: indegni per definizione e per vizio antropologico di avere a che fare con la cultura e con l’Università.

Per questo le voci dissonanti hanno fatto fatica farsi sentire, sia sul versante degli studenti che su quello dei professori. Chiunque si azzardasse a dire qualcosa di non immediatamente avverso alla legge Gelmini passava per un complice oggettivo dei barbari distruttori di futuro, un venduto all’interesse berlusconiano, un traditore. La controprova l’abbiamo avuta qui all’Occidentale quando abbiamo pubblicato il testo dell’appello con le prime firme. Immediatamente si è scatenata una controffensiva fatta di dileggio per i firmatari, di accuse di falsificazione per i promotori, di minacce per i divulgatori.

In poche ore si è scatenata la caccia alla firma falsa o estorta con la frode. Un vorticoso giro di e-mail è partito dalle centrali della protesta per aizzare l’opinione pubblica contro i firmatari. Che per fortuna non si sono scoraggiati e anzi ancora in queste ore nuove adesioni si aggiungono a quelle già raccolte.
Non si tratta di fan di Berlusconi, e forse neppure della Gelmini, ma solo di persone che hanno dedicato la loro vita all’insegnamento e non vogliono fare festa attorno alla bara dell’Università italiana solo perché il conformismo imperante ha bisogno di un cadavere e di un assassino. (l'Occidentale)

martedì 21 dicembre 2010

Tu vuo' fa' l'antiamericano. Christian Rocca

Siamo alla follia. Il pensiero unico del giornalista collettivo prima ha utilizzato i cable di WikiLeaks per accusare Berlusconi di essere poco filo-americano, ora usa un altro cable per accusare Berlusconi di essere troppo filo-americano (sul caso Calipari). Stupefacente. Per confondere ancora di più le acque, e bacchettare ulteriormente il Cav. sembra però che gli americani critichino Berlusconi anche su questo, che lo accusino, che svelino chissà qualche altra malefatta del Berluska (basta leggere Repubblica.it). Ma in realtà è vero il contrario. L'Ambasciatore Mel Sembler suggerisce a Washington di assecondare la versione italiana e gli sforzi del governo per non creare casini giudiziari transatlantici. E addirittura critica la magistratura italiana, "nota per piegare leggi del genere ai propri scopi". Ce ne sarebbe per un ventina di editoriali di Travaglio, invece l'opposizione si è scatenata su altro e grida all'insabbiamento delle indagini eccetera. Come sempre, non ha idea di che cosa parla. Il rapporto italiano, quello che gli americani decidono di non criticare, non è un insabbiamento. Anzi dà ragione alla testimonianza della Sgrena e del suo autista iracheno che gli americani hanno rigettato (gli italiani non hanno commesso errori, l'errore è stato americano). Il rapporto italiano si limita a dire che l'uccisione non è stata intenzionale. Basta leggerlo. (Camilloblog)

Solidarietà a Catia Polidori

Caro Mauro,

dal voto di martedì, coloro che hanno provocato la batosta per Fini vivono un altro genere di attacco. Da Silvano Moffa a Catia Polidori, gli ex finiani che non hanno votato la sfiducia al governo Berlusconi, vengono continuamente diffamati sia dagli ex compagni finiani sia dagli esponenti del centrosinistra.

Il bersaglio principale è Catia Polidori. Ha subito reiterate minacce alla sua incolumità, è stata insultata da alcuni finiani e da esponenti della sinistra. Hanno diffuso menzogne su di lei e sulla sua famiglia, asserendo che avrebbe votato spinta da interessi economici personali. Su questo punto ecco alcuni elementi che potranno essere utili per spiegare la verità e difendere chi, con un gesto di responsabilità, ha sostenuto il governo Berlusconi.

1. Il Cepu non appartiene alla sua famiglia, che non possiede nessuna partecipazione o quota societaria né diretta né indiretta (per verificare è sufficiente controllare la visura camerale). Nessun membro della sua famiglia lavora o ha mai lavorato per Cepu.

2. Durante il voto sull'emendamento inserito nel ddl Gelmini sulle università telematiche, l'on. Polidori è uscita dall'Aula per evitare dubbi di conflitti di interessi, in quanto conosce Francesco Polidori da quando è nata essendo entrambi originari dello stesso paesino di 32 abitanti vicino a Città di Castello.

3. Nessuna delle attività della sua famiglia ha mai ricevuto finanziamenti pubblici o ha mai in passato intrattenuto "affari" con le attività del presidente Berlusconi (ci sono solo 40anni di lavoro onesto e faticoso di suo padre, imprenditore di prima generazione).

4. La Polidori costruzioni, di cui qualcuno ha detto che avrebbe ricevuto aiuti o finanziamenti è stata venduta dalla sua famiglia l'11 giugno 2007, dunque ben prima che l'on. Polidori venisse eletta nel Parlamento, e dalla sua fondazione non ha mai ricevuto finanziamenti pubblici.

5. Nel votare la fiducia al Governo è stata coerente con quanto espresso e ampiamente riportato da giornali e televisioni. Già dal 29 luglio, al momento della firma delle dimissioni dal Pdl e dell'ingresso in Fli, e nei mesi a seguire la sua posizione è sempre rimasta immutata: non ha mai ritenuto utile per il Paese sfiduciare il governo che ha vinto le elezioni.

Da martedì scorso la Polidori vive sotto scorta. E' presidiata sia la casa che la sua azienda. E' oggetto di una campagna martellante sui media nazionali e locali e in internet. In mezzo a questo assedio, ci hanno segnalato una pagina a suo sostegno, che trovi qui: http://www.facebook.com/#!/pages/Io-sto-con-la-Polidori/174023329285949.
Vale la pena di aderirvi, come segno di solidarietà...

Grazie per l'attenzione e per quello che farai.
Cordialmente,

on. Antonio Palmieri
responsabile internet PDL

domenica 19 dicembre 2010

Flotte e marosi. Davide Giacalone

Avviso ai naviganti: il vento è girato. Dopo il rinnovo della fiducia una cosa è chiara alla truppa parlamentare: la legislatura dura finché dura il governo. Questo stabilizza l’esecutivo, al di là delle colorite cronache sull’andirivieni di tanta bella gente anonima. E lo stabilizza al punto da potere rendere verosimile la voglia di galleggiare e andare avanti. Si tratta, adesso, cambiate le condizioni meteo, di tarare la rotta e scegliere le vele.

Le imbarcazioni del centro destra seguono la scia della nave ammiraglia, sempre fiduciose che sappia dove andare. Anche se non avessero tale fiducia, sanno comunque che è l’unica capace di navigare qualsiasi mare. Quindi s’accodano. Taluni credono utile allargare la flotta alle vele di Pier Ferdinando Casini, ma non hanno le idee chiare sui tempi: l’alleanza è un fatto del passato e lo sarà del futuro, chiunque s’aggreghi al terzo polo per antiberlusconismo (coltivato dopo essere stati dal tiranno beneficiati) ha sbagliato indirizzo. Ma oggi Casini ha una potenziale rendita elettorale, data dall’essere l’unico elettoralmente sopravvissuto ad una rottura con Silvio Berlusconi, quindi il più credibile protagonista del terzopolismo (il che dimostra l’impietosa ironia della storia, essendo lui democristiano), pertanto il più capace di succhiare le ultime gocce di sangue elettorale che circolano nelle vene dei sui temporanei alleati. Il ruolo politico di Casini è cresciuto proprio mentre Gianfranco Fini si schiantava contro ad un muro e Francesco Rutelli si gettava nel vuoto, incontrando sé stesso. Siccome il tiranno è tale solo agli occhi di chi così se lo immagina, ma non può disporre di tutti i posti governativi che gli servirebbero e di tutti gli eletti che abbisognerebbero, non è da escludersi che l’alleanza si faccia, ma dopo le elezioni.

La flottiglia centrista, per le ragioni appena dette, viaggia costretta dalla disperazione. Il comandante di ciascuna bagnarola ha in cuore la voglia di vedere affondare il vicino alleato. L’unico per cui l’arrivo in porto non coinciderà con il disarmo è Casini.

A sinistra devono ancora decidere se mettere le navi in acqua, o continuare a farsi la guerra spernacchiandosi, sputandosi e lanciandosi le palline di carta, ma a secco. Tanti capitan Trinchetto non fanno mezzo mozzo utile. Il prossimo 23 si riunirà la direzione del Partito Democratico, ed è una delle ultime occasioni in cui questo partito qui si può dare una linea. Sorbole!

Pier Luigi Bersani legga quel che scriviamo da anni, sulla pagliacciata autolesionista delle primarie, e legga poi le cose che va balbettando adesso, per cercare di fermare la macchina tritapartito. Scoprirà che è il caso di stare ad ascoltare. Dunque: non solo deve chiedere le elezioni anticipate, ma è bene ci metta convinzione e lavori per ottenerle. Se la legislatura si sbrodola in lungo alla sinistra toccherà solo fare i conti con una piazza sempre meno praticabile e sempre più occupata dalla feccia che punta contro la sinistra stessa. Tutte le ipotesi dei governi che piacciono a sinistra, ovvero da loro egemonizzati e dagli italiani non votati, sono state spazzate via. Meglio accorciare i tempi, allora.

La sinistra ha paura delle urne, perché è sicura di non ritrovarcisi. Ma questo non è un prodotto del fato, bensì dei loro errori. Chiudano la porta in faccia al dipietrismo. Espellano ogni estremismo. La smettano di dire, con Bersani, che ci vogliono le “riforme istituzionali, elettorali e della giustizia”. Dicano quali. Ci vuole poco, le conoscono tutti quelli che non hanno portato il cervello all’ammasso: decisività del voto e potere in capo a chi ne prende di più, quindi sistemi di tipo presidenziale o con il premierato; procedure giudiziarie eque, quindi con tempi contenuti e separazione delle carriere, che sfoltiscano sia l’ostruzionismo legalizzato che il contenzioso esasperato. Non devono neanche sforzarsi di dir cose di sinistra, che, tanto, non ci riescono, basterebbe il buon senso. Dopo di che s’accorgerebbero che c’è una massa di voti alla ricerca dell’alternativa al berlusconismo, che non si trova nell’antiberlusconismo. Anzi, il settore della politica più deteriormente berlusconizzato è la sinistra.

Nel complesso le diverse flotte paiono più preda che dominatrici dei marosi, mentre gli equipaggi aspirano più a fare i sugheri che i navigatori. Ogni volta che l’onda dei problemi scuote i gusci corrono tutti a legarsi agli alberi, invocando la stabilità, solo che la confondono, colpevolmente, con la stagnazione. L’Italia ha bisogno di ben altro, né tutti hanno vocazione per la ciurma.

sabato 18 dicembre 2010

Fini può essere un problema nel terzo polo. Luca Ricolfi

Ora che il fumo e la polvere si sono un po’ diradati dai molti campi di battaglia - Parlamento, piazze, mass media - forse si può cominciare a trarre qualche lezione da quello che è successo martedì, quando è fallito l’ultimo tentativo di disarcionare il Cavaliere.

La lezione più importante mi sembra questa: forse non vedremo mai la sconfitta politico-elettorale di Berlusconi. Dopo l’ultima, infruttuosa, sfida di Veltroni (elezioni del 2008), i tentativi di porre fine alla stagione del berlusconismo sono stati solo di quattro tipi, non propriamente politici: giudiziario, mediante i processi; mediatico, mediante le campagne di stampa; fisico, mediante il lancio di oggetti contundenti; parlamentare, mediante il passaggio all’opposizione di deputati e senatori di maggioranza. Né le dichiarazioni delle opposizioni dopo la sconfitta suggeriscono che, per il futuro, le vie privilegiate si discosteranno dalle solite: spasmodica attesa per il verdetto della Corte Costituzionale sul legittimo impedimento, manovre di palazzo, imboscate parlamentari quotidiane. Il «vasto programma» dei principali leader di opposizione, infatti, si sostanzia essenzialmente in una sequela di annunci di guerra: ora ci divertiamo, aspettatevi un «Vietnam parlamentare», non potete fare niente se non trattate con noi.

Tutto ciò, a mio parere, allontana di molto l’eventualità che alle prossime elezioni vi sia un’alternativa credibile all’attuale centro-destra. E nondimeno il modo in cui il problema si pone nelle due opposizioni, quella di sinistra e quella del Terzo polo, è alquanto diverso. A sinistra il problema di fondo è la conclamata incapacità di un gruppo dirigente, ormai consunto dai propri riti e prigioniero della sua storia, di abbandonare rivalità interne, settarismi, riflessi condizionati, abitudini mentali, prima fra tutte quella di ragionare per alleanze e per formule astratte. Più che mai resta vero, quasi dieci anni dopo, quel che profeticamente ebbe a dire Nanni Moretti: «Con questi dirigenti non vinceremo mai!».

Nel caso del Terzo polo, invece, il problema non è quello di costruire un’alternativa al centro-destra, bensì quello di correggerne l’evoluzione o, se preferite, di pilotare la nascita della sua variante post-berlusconiana. Il problema di Fini e Casini, non da oggi, non è solo (e forse nemmeno prevalentemente) il legittimo desiderio di succedere a Berlusconi, ma è il tipo di centro-destra che Bossi e Berlusconi hanno costruito intorno a sé stessi. Un centro-destra cui, non senza motivo, vengono rimproverati il populismo, lo scarso rispetto per le istituzioni, l’ostilità verso gli immigrati, la disattenzione per il Mezzogiorno, e infine di aver tradito la promessa di una «rivoluzione liberale». Anche se quest’ultimo rimprovero non può certo essere riservato a Bossi e Berlusconi (in passato i partiti di Fini e Casini sono stati ancora più statalisti e spendaccioni), è vero che la maggior parte dei rimproveri non sono infondati. Si possono condividere oppure no le ragioni di Fini e Casini, ma resta il fatto che la loro visione della politica, la loro idea di centro-destra, i valori che essi difendono, sono perfettamente ragionevoli. Meritano una discussione seria. Hanno tutto il diritto di aprire una riflessione.

È qui, però, che interviene una complicazione non da poco. La credibilità di Casini e quella di Fini sono del tutto diverse. Casini ha iniziato la sua battaglia da molti anni, fin da quando era Presidente della Camera (legislatura 2001-2006). Il suo comportamento, sia come terza carica dello Stato, sia come leader dell’Udc, è stato sempre corretto, e fondamentalmente leale verso gli alleati. Quando non è stato più in sintonia con Berlusconi, ha scelto di correre da solo, ed è stato all’opposizione sia contro il centro-sinistra sia contro il centro-destra. La sua opposizione è stata quasi sempre costruttiva. Le cose che dice ora le ripete da molti anni.

Non così Fini. Il suo punzecchiamento nei confronti di Berlusconi è iniziato poco dopo lo scioglimento di An nel Pdl. I motivi del suo passaggio all’opposizione sono stati troppo evidentemente strumentali, tardivi, e difficili da conciliare con le sue scelte passate, sempre largamente in sintonia con quelle di Berlusconi. Una certa mancanza di pudore, o di buon gusto, gli ha impedito di arrossire al momento di denunciare cose da lui stesso ampiamente approvate (l’orribile legge elettorale) o giustificate (le leggi ad personam). Soprattutto, nessuno ha capito perché il suo nuovo partito, dopo avere dato la fiducia a Berlusconi sui famosi cinque punti (29 settembre), anziché spiegare in che cosa il governo li stesse tradendo, ed eventualmente aprire una battaglia sui contenuti, abbia preferito ingaggiare un confronto di principio, tutto interno al codice della politica, e come tale intraducibile nel linguaggio della gente comune: ci vuole una «discontinuità», non ci fidiamo di Berlusconi ma siamo «disponibili a un Berlusconi-bis», si deve «aprire una nuova fase», ci vuole «un governo che governi» (paradossale detto da chi lo paralizza da mesi).

Di qui un problema grande per il Terzo Polo. Molte cose che i suoi esponenti dicono sono più che sensate. Diverse critiche a Berlusconi e al berlusconismo sono preziose per uscire dalle secche in cui siamo incagliati. La loro visione della politica e del futuro dell’Italia merita rispetto e considerazione. Però il modo in cui i temi cari al Terzo Polo sono stati portati nel dibattito politico da Fini e dal suo partito rischiano di bruciarli. La spregiudicatezza dell’operazione condotta da Futuro e Libertà rischia di gettare discredito su una visione della politica e del mondo che tanti altri, con più pazienza e più rispetto per gli avversari, difendono da anni e anni.

Non resta che augurarsi che l’opinione pubblica non getti il bambino con l’acqua sporca. E che il bambino - l’idea di una destra diversa da quella che abbiamo conosciuto - riesca a fare qualche passo nella politica italiana. (la Stampa)

venerdì 17 dicembre 2010

Giacchetta nera. Gianni Marchesini

Il governo ha vinto, ma a pensarci bene ha vinto di più il Pdl. Perché? Perché, gettate le zavorre, è diventato finalmente il partito del berlusconismo. Ci spiace, ma il multiculturalismo politico è terminato.

La nuova gestione non prevede ex anime perdute, sordamente anti cavaliere che vorrebbero orientare la baracca verso i loro vecchi, nostalgici amori. A dio piacendo quelli che combattevano i comunisti nelle piazze quando Berlusconi faceva i palazzi, ormai fanno parte del futuro in libertà.

E ditemi, giacchette nere, così anticomunisti da votare insieme a loro la sfiducia al Governo, migliaia di piccoli, medi imprenditori che si trovavano, specialmente in regioni come la mia, l’Umbria, gettati in mezzo ad una strada da un giorno all’altro dalla delinquenza sindacale e dai pretori d’assalto, secondo voi, i comunisti non li combattevano?

Fu quello l’humus, care camicine inamidate, dentro il quale s’impastò il berlusconismo e, molto prima che il cavaliere discendesse sulla terra, c’era gente che come lui operava, imprendeva, e non passava giorno che non venisse umiliata, derisa, fatta spesso fallire a vantaggio del sistema delle cooperative amato anche dalla destra di Fini, almeno fino a quando, concorrendo con i comunisti, restò statalista, anticapitalista, antiamericana e avversa a Israele.

Ma voi, carissimi sparacazzate, vi ci siete mai trovati titolari di un laboratorio di cento donne impegnate a confezionare una partita di giacche (vincolata ad una penale per ogni giorno di ritardo pari al costo del confezionamento e da consegnare l’indomani) alle prese con i sindacati che vi bloccano la fabbrica e vi portano via trenta donne per donare la mimosa alla festa della donna?

O avete mai provato cosa possa aver significato per una valigeria di altissimo livello con cento anni di storia caricare la produzione di notte dentro auto nascoste prima in campagna per evitare che gli autisti dei tir e il direttore dell’azienda venissero picchiati a sprangate dai sindacalisti rossi?

Come altre migliaia di aziende, queste due da me menzionate, furono costrette a chiudere dopo aver combattuto i comunisti, non in piazza, ma tutti i giorni sulla propria carne per dieci, quindici, venti anni.

E, per favore, non riesumate l’esclusiva dei morti ammazzati perché, con il dovuto rispetto, le vittime per infarto e per le malattie da stress provocate agli imprenditori dalle incazzature dovute ai comunisti e ai loro sindacati non le hanno mietute nemmeno i Turchi nei confronti dei Curdi.

Ancora oggi, vi risulta che almeno una volta il Presidente della Repubblica abbia commemorato due rappresentanti di commercio morti sull’autostrada nel recarsi al lavoro? Forse Napolitano, fedele interprete della Costituzione cattocomunista, non è tenuto a considerare i rappresentanti o gli imprenditori alla guisa dei lavoratori?

Grazie allora, giacchette nere, grazie di cuore per essere uscite da un partito che non è il vostro e che non riuscirete mai a capire, da un partito carsico, silenzioso,(forse troppo), che affiora dirompente quando la pressione nel sottosuolo diventa insopportabile, partito che si fa gassoso, liquido o solido, ma che conserva ancora una forte speranza di cambiamento e confida che colui che dirige l’orchestra sia ancora l’unico in grado di esaudirla.

I futuri berlusconiani, oh giacchette nere, facevano la vitaccia degli ufo che si nascondono tra gli umani già da quando il piccolo cavaliere i palazzi li costruiva al mare con la sabbia e se non hanno combattuto i comunisti, hanno di certo combattuto il comunismo.

Tanto che verrebbe voglia di rispondervi come quel mio amico omosessuale rispose all’americano che denigrava gli italiani: “Guarda, carino, che quando voi mangiavate la carne dell’orso cruda, noi, qui in Italia, eravamo già froci”. (il Predellino)

mercoledì 15 dicembre 2010

Il tramonto di Fini e l'alba del Cavaliere. Arturo Diaconale

Il tramonto di Silvio Berlusconi è rinviato a data da destinarsi. La rinnovata fiducia del Parlamento al governo indica in maniera inequivocabile che l’operazione condotta in prima persona da Gianfranco Fini e sostenuta da Pierferdinando Casini e Pierluigi Bersani tesa ad espellere il Cavaliere dalla scena politica, è clamorosamente fallita.
E’ vero che con due voti di vantaggio alla Camera il cammino del governo appare di fatto paralizzato. E che se Berlusconi vorrà continuare ad andare avanti dovrà necessariamente avviare una fase politica nuova caratterizzata dall’apertura all’Udc ed alla parte dialogante e ragionevole di Futuro e Libertà.
Ma la vera posta in palio della giornata parlamentare di martedì non era il futuro di questo governo. Era la sorte personale del Presidente del Consiglio, la fine del suo ruolo di asse portante del sistema bipolare della Seconda Repubblica, la conclusione definitiva della sua parabola nella vita pubblica nazionale.
E questi obbiettivi sono totalmente falliti. Berlusconi rimane al centro della scena. E qualunque possibile evoluzione del quadro politico non può non passare attraverso il riconoscimento del suo ruolo fondamentale. Le ragioni di questo fallimento sono molteplici. E vanno dalla capacità di resistenza dello stesso Berlusconi ancora una volta sottovalutata dai suoi oppositori, ai clamorosi errori di presunzione di Fini e dei suoi collaboratori più esagitati ed intransigenti.
Ed è fin troppo evidente che da queste ragioni scaturiranno conseguenze destinate ad avere effetti significativi nei prossimi mesi. Tra le diverse forze politiche e, soprattutto, all’interno di Futuro e Libertà, il partito del Presidente della Camera uscito lacerato e diviso dalla prova del fuoco.
Ma sia queste ragioni, sia le loro conseguenze dovranno comunque ruotare attorno alla conferma del ruolo centrale di Berlusconi e del fatto che ancora una volta spetterà al leader del centro destra di dare le carte per le future partite politiche. Dal tavolo della politica, infatti, sono state cancellate tutte le ipotesi che erano state avanzate prevedendo la sconfitta del Cavaliere.
Da quella del governo tecnico a quella del governo di responsabilità nazionale guidato da un esponente del centro destra diverso da Berlusconi e formato da parte del Pdl. Sono rimaste, invece, solo quelle che riconoscono al Presidente del Consiglio il compito di avviare una svolta diretta a completare la legislatura allargando la maggioranza o di puntare alle elezioni anticipate.
Prima del voto nessuno prendeva in alcuna considerazione l’appello alle forze moderate, in particolare all’Udc ed a Futuro e Libertà, lanciato dal Cavaliere in risposta alla richiesta di Fini e di Casini di dimissioni immediate. Soprattutto in considerazione del fatto che l’intransigenza antiberlusconiana del Presidente della Camera costringeva l’Udc a seguirne l’esempio.
Ma la indiscutibile sconfitta personale di Fini, aggravata dall’esplosione delle contraddizioni interne di Fli, ha di fatto liberato il partito di Casini dalla palla di ferro imposta dai finiani. Ed il via libera data da Umberto Bossi alla trattativa tra centro destra e centristi per l’allargamento della maggioranza rende concreta e credibile l’ipotesi che solo l’altro ieri sembrava fantasiosa.
Non si tratta, ovviamente, di una impresa facile. Per garantirsi il sostegno dell’Udc il Cavaliere deve dare un segno tangibile di svolta e di cambio di passo. Non dimissioni al buio ma una coalizione più articolata e ben equilibrata tra Pdl, Lega, centristi e finiani ravveduti. Ma anche quella che può apparire una sorta di quadratura del cerchio può diventare possibile.
Soprattutto perché non ha più alternative oltre a quel ricorso alle elezioni anticipate che spaventano tutti. Tranne Berlusconi e Bossi! (l'Opinione)

Identità. Jena

La sinistra rassicurata nella sua identità: «E vai, abbiamo perso ancora». (la Stampa)                     

lunedì 13 dicembre 2010

Corte e cortigiani. Davide Giacalone

Non so se iniziare segnalando la vergogna di una Corte Costituzionale che continua a calpestare la Costituzione, oppure ricordando le mie capacità divinatorie. Difatti, il 23 novembre 2008, dalle colonne di questo giornale, commentando la scandalosa elezione di Giovanni Maria Flick a presidente della Corte, feci due previsioni: il suo successore sarà Francesco Amirante, cui seguirà Ugo De Siervo. Centrate. Facevo anche una terza previsione: dopo De Siervo, nell’aprile del 2011, eleggeranno presidente Paolo Maddalena. E così andranno le cose, a meno che non si verifichi un auspicabile sussulto di dignità, o un non augurabile intervento della natura. Tutto questo non sarebbe possibile se i custodi della Costituzione la rispettassero.

Leggiamo l’articolo 135 della Costituzione, quinto comma: “La Corte elegge tra i suoi componenti (…) il presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile (…)”. Non c’è scritto che rimane in carica “un massimo” di tre anni, ma che presiede per un triennio, rinnovabile. I Padri costituenti avevano le idee chiare, tanto è vero che aggiunsero, per prudenza e conoscendo il pollame italico: ferme restando le scadenze dei mandati. Tradotto: se eleggete presidente uno che sta per andare via, non per questo rimane in carica altri tre anni. Quindi: può essere eletto solo chi ha almeno tre anni di mandato davanti. Meglio sei, per contemplare l’ipotesi del rinnovo. E così è stato, fino agli anni novanta, epoca di disfacimento istituzionale. In chiusura di secolo è partito il malcostume di mandare in pensione il più alto numero possibile di giudici costituzionale con il titolo di presidente emerito (30.000 euro al mese, macchina e autisti a vita, e diritto d’insegnare dove gli pare). Grazie al positivo prolungarsi della vita, avremo più presidenti emeriti che giudici costituzionali.

Il criterio dell’anzianità di servizio è incostituzionale, ma è anche rivelatore di una misera decadenza della più alta Corte a luogo di connivenza carrieristica, quindi di cortigiani. Quando elessero presidente Flick (14 novembre 2008), già ministro prodiano e destinatario di nomine dalemiane, deprecai il disgustoso spettacolo della presidenza trimestrale, feste di Natale comprese. Egli decise di replicare, invitando a leggere il discorso d’insediamento. Qui si trova scritto: “l’elezione del giudice anziano (…) è prassi largamente prevalente rispetto alla regola del triennio, posta dai Padri Costituenti”. Che è la puntuale, arrogante e anche insensibile conferma della mia denuncia: calpestano il dettato costituzionale.

Tutto questo i signori giudici lo sanno benissimo, al punto che quando fu eletto Amirante ci fu una solitaria scheda bianca (a parte quella dell’interessato, spero), mentre ieri De Siervo è prevalso per un solo voto su Alfonso Quaranta (che scade nel 2013). La vergogna, insomma, comincia a farsi strada e, chissà, potrebbe minacciare l’elezione di Maddalena. A quel punto, però, neanche Quaranta avrà più tre anni davanti. In ogni caso, li ritroveremo tutti fotografati in smoking e farfallino, intenti a sporchettare in una qualche prima musicale e teatrale, avendo conquistato il loro posto nel cafonal costituzionale.

Questi giudizi che mi cascano dalla penna, con il groppo in gola per l’amore che portiamo al diritto e alla Costituzione, ma a stento trattenendo un’indignazione che reclamerebbe un linguaggio più crudo e ruvido, prescindono completamente dal fatto che questi protoemeriti sono de sinistra. Affari loro. Di una cosa, però, sono sicuro: se non lo fossero non ce ne staremmo solitari, a scriverne in questi termini, se non lo fossero ci sarebbe una qualche cattedrina di diritto costituzionale che non se la farebbe sotto nell’additare lo sconcio. Invece, tutti zitti, questi maestri di viltà.

In ultimo, e venendo ai contenuti della breve presidenza De Siervo. Insediandosi ha preso la prima decisione: l’udienza sul legittimo impedimento, originariamente fissata al 14 dicembre, è spostata all’11 o 25 gennaio. Perché, ha detto, è bene evitare un “eccessivo sovraccarico mediatico in un clima esterno infuocato”. Ora, a parte l’italiano oramai flesso alle esigenze di una lingua imbastardita e non dicente, e a parte che il clima di gennaio sarà più sereno solo nella fantasia politicante di chi crede di potersi permettere discorsi alla Nazione, faccio osservare che il richiamo al contesto esterno è esattamente ciò da cui i fortissimi privilegi di quei giudici dovrebbero tenerli lontani, mentre parlarne, con tanta compiaciuta conquista della ribalta, equivale ad alimentarne le fiamme.

Ove mai esistesse, la politica dovrebbe reagire. Tutto, invece, scorrerà nel vuoto mentale e morale di una classe non meno arrivista e priva di senso delle istituzioni. Sicché mi resta la speranza che ad indignarsi siano i cittadini, o, almeno, quanti fra loro hanno conservato un ricordo di quella cosa polverosa e brodolante cui ancora ci sentiamo legati: il senso dello Stato.

La replica di Silvio

Sono fiducioso: aspetto la replica di Berlusconi tra poco.
Spero che il discorso sia "alto" e che possa provocare una bella deflagrazione.
Il Cav. è imprevedibile!

venerdì 10 dicembre 2010

E Ciampi non è un santo. Salvatore Tramontano

Auguri presidente. Non è che uno viene qui a rovinarle la festa, novant’anni sono una strada lunga quasi un secolo e tante cose si possono dimenticare. È un po’ di tempo che quando si parla di lei tutti annuiscono: Carlo Azeglio Ciampi è un padre della patria. Nessuno lo mette in dubbio. Il problema è che quando i politici finiscono sugli altari è difficile fare loro domande e, soprattutto, ricevere risposte. Ma ce n’è una a cui gli italiani forse hanno diritto. È questa. Come mai quando lei era presidente del Consiglio, e l’eminente Conso suo ministro di Grazia e Giustizia, fu revocato il carcere duro, il famoso 41 bis, a 140 mafiosi? È vero, lei ha già risposto. In una lunga intervista di Giannini su Repubblica davanti a questa domanda ha avuto uno scatto di rabbia, una sorta di lesa maestà, la tenerezza e l’auctoritas sembrano sparire dalle sue parole. «Capisco che a 18 anni di distanza le parole assumono un peso diverso. Ma il mio governo si prese le bombe della mafia. E ora proprio io mi dovrei sentire sotto accusa? Se Conso ha fatto altro, prima o dopo, lo ha fatto autonomamente. Io non ne ho mai saputo nulla». Per tutti la questione è finita qui. Nessuna interpellanza parlamentare, nemmeno un avanzo di dieci domande, Annozero sordo e cieco, i professionisti dell’antimafia omertosi. Silenzio. Carlo Azeglio Ciampi è intoccabile. Nessun sospetto. Lui non sa nulla. E non fa niente la piccola caduta di stile di scaricare tutta la responsabilità sul povero Conso. Il guardasigilli non è un padre della patria. Si arrangi.
Ora, questa storia del carcere duro revocato non è una bazzecola. Dopo le bombe a Milano, Firenze, Roma si narra, e si sospetta, che lo Stato abbia trattato con la mafia per una sorta di tregua. Niente bombe, niente carcere duro. Uno scambio alla pari. Forse questa è solo una leggenda. Ma almeno possiamo chiedere a Ciampi se ne sapeva qualcosa? A quanto pare no. Non serve. È inutile. Tutte le domande vanno fatte al grande nemico, al Cavaliere. Solo che al governo non c’era Berlusconi, ma il padre della patria.
Questi santoni non si possono neppure sfiorare e se uno ci prova passa i guai. Quando qualcuno chiese a Oscar Luigi Scalfaro, un altro grande padre e presidente, che fine avessero mai fatto i fondi neri del Sisde, la risposta fu a reti unificate, con il dito alzato e lo sguardo da giudizio universale. «Non ci sto», urlò Oscar Luigi. «Non ci sto», ancora muovendo il ditone. «Non ci sto», guardando fisso la telecamere. E tutto si spense. È chiaro che a certi signori porre domande non sta bene. Con loro, con tutti quelli che in un modo o nell’altro sono stati utili all’aristocrazia di sinistra, non si va mai a fondo. Basta la parola. Dicono no e tutti fanno un passo indietro. Il solo sospetto è lesa maestà. In un Paese di retroscenisti e dietrologi non c’è nessuno che si scandalizzi per questa reticenza. Per i padri della patria, e per Ciampi in particolare, il «non poteva non sapere» non si applica. Basta la parola.
Eppure qualcosa presidente ce lo deve dire: come mai le stragi cessarono? Non basta dire che il suo era un governo tecnico. Questa volta non è la scusa migliore. C’è di mezzo un mistero e un padre della patria può aiutare a risolverlo. È tutto qui. Ancora auguri. (il Giornale)

Lettera aperta a Marco Pannella

Gentilissimo Marco Pannella,
sono Angela Piscitelli, classe 1953. Scrivo le mie generalità in preambolo, perché per quelli che hanno la mia età ed ebbero e continuano ad avere una passione politica in un cuore liberale hanno condiviso, con vicende alterne, un pezzo di strada con Lei e con il partito radicale.

Da socialista craxiana ebbi la doppia tessera. Ho sempre pensato che fosse un fatto straordinario, avere le due tessere in tasca, perfettamente logico e perfettamente trasgressivo insieme. Trasgressivo verso questa soffocante autoreferente partitocrazia gattoparda buona a contar teste ed allergica ai cervelli e logico per noi, che volevamo davvero cambiare il mondo e le regole farlocche del medesimo.

Non abbiamo cambiato un bel nulla, ma non abbiamo perso la speranza. E non l'ha persa lei, splendido lottatore solitario dal quale si può certamente dissentire e molto, ma certamente non prescindere. Se il suo dialogo con Silvio Berlusconi si è interrotto, è stato certamente per contingenze umane e politiche che hanno enfatizzato le diversità e cancellato la forte determinazione, comune ad entrambi di liberare l’Italia da questa mefitica palude di burocrazia, di conformismo, di minuscole dittature da accatto, corporazioni e prevaricazioni.

Ed immagino che la palude intera abbia sghignazzato arci contenta accomodando con soddisfazione il posteriore alla poltrona. La palude, a mio avviso, sta sferrando l’attacco finale. Ma intanto i piccoli liberali sono cresciuti e sanno che il presidenzialismo, la riforma della giustizia e la rivoluzione liberale, antidoti indispensabili contro il veleno della conservazione che sfianca la nostra Patria e tutte le Patrie, non possono farsi senza i veri liberali, che sono i veri gentiluomini.

Noi vogliamo cambiare l’Italia, e vogliamo cambiare anche il Pdl disinfettandolo dai miasmi dell’arrivismo, dell’immobilismo, del trasformismo senza ideali. Vogliamo diversità eccellenti che trovino insieme le soluzioni migliori, vogliamo idee che volino alto e che si scontrino nei cieli delle opinioni per creare una pioggia fertile che dia frutti per tutti.

A me piacerebbe che quella strada che fu della mia giovinezza si materializzi ancora, e che in fondo ci sia, finalmente, la rivoluzione liberale. E che con Silvio Berlusconi ci fosse Marco Pannella, lottatore non più solitario. Ma insieme a noi.(il Predellino)

giovedì 9 dicembre 2010

La lezione del "maestro" Baremboim: criticare i tagli con il c...o degli altri. Giancarlo Loquenzi

L'altro giorno, mentre davanti alla Scala di Milano si svolgevano i rituali tafferugli in occasione della "prima" (studenti, immigrati, disoccupati, tutti a chiedere più soldi alla cultura) e all'interno il "maestro" Baremboim impartiva una lezioncina sulla Costituzione al pubblico in sala (Napolitano compreso) dicendosi anche lui preoccupato per i "tagli alla cultura", al Senato veniva approvata in via definitva la legge di stabilità (ex finanziaria).

In questa manovra da 5,7 miliardi ci sono provvedimenti a lungo attesi e spesso pretesi. C'è il rifinanziamento per gli ammortizzatori sociali, l'assistenza ai malati di Sla, i soldi per l'editoria (a cui è appesa la vita del Manifesto ad esempio), l'esenzione per altri 5 mesi dal ticket sanitario, un miliardo di euro per l'Università, meno tasse per i salari di produttività, più risorse al ministero dell'ambiente per la tutela del territorio e molto altro ancora.

Davanti e dentro alla Scala erano in molti ad offrirsi alle telecamere con l'occhio umido per i tagli alla cultura ma non uno ha suggerito a quale dei questi capitoli della finanziaria si fosse disposti a rinunciare per trasferire più risorse alla lirica, al cinema o ai teatri. Tanto meno lo hanno fatto i dimostranti in piazza, anche loro sulle barricate della cultura, illuminati dalla luce dell'avvenire, sprezzanti del pericolo (a rimanere feriti sono stati solo poliziotti e carabinieri) e investiti dalla missione salvifica di difendere i fondi a quel teatro dell'Opera che per decenni era stato semmai il bersaglio della loro protesta.

Nessuno ha detto (a dire il vero non lo fa neppure Napolitano, quando anche lui lamenta i "tagli alla cultura"), dove altro si sarebbe dovuto tagliare: i fondi per la Sla?, i soldi ai cassa-integrati?, i fondi per l'Università? O qualcuno che dicesse per lo meno: "in nome della cultura siamo pronti a pagare più tasse!". Perché delle due l'una, visto che i saldi quelli sono, o si tagliano altre spese o si chiedendo altri soldi ai contribuenti.

Ma la cosa davvero più insopportabile della giornata è stato il siparietto costituzionale di Daniel Baremboim. Il "maestro scaligero" argentino, con aria seria e contrita si è rivolto al pubblico in sala per dirsi preoccupato per lo stato della cultura nel nostro paese, "anche in nome di tutti i miei colleghi che suonano, cantano, ballano e lavorano non soltanto in questo magnifico teatro, ma in tutti i teatri d'Italia". Poi ha tirato fuori un foglietto dalla tasca e ha letto l'articolo 9 della Costituzione: "La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura...ecc, ecc, ". E giù applausi fragorosi.

E' un ben strano paese l'Italia se può accadere una cosa del genere proprio il giorno della prima della Scala, alla presenza del Capo dello Stato e di mezzo governo italiano in pompa magna. Ma ve li imaginate Muti o Abbado che chiamati a dirigere al Lincoln Center di New York, magari alla presenza di Obama e first lady, o all'Operà di Parigi con Sarkozy e premiere dame, che si mettono a leggere un articolo della Costituzione contro, chessò, Abu Grahib o Guantanamo, la riforma della Sanità, o la cacciata dei Rom?

Sarebbero travolti dai fischi e dall'indignazione, accompagnati a calci al confine e dichiarati persone non gradite per il resto della loro vita e carriera. Qui da noi Baremboim è l'eroe del giorno. Con il suo bel cachet in tasca, l'onore di dirigere la Scala e la lacrimuccia per i "tagli alla cultura", soffuso dall'immancabile aura anti-berlusconiana che oggi si porta tanto bene. E senza neppure il beau geste di dire: "Devolvo il mio compenso di stasera al sostentamento del teatro".

Macché: sono tutti bravi a criticare i tagli con il culo degli altri. (l'Occidentale)

Trattare di mafia. Davide Giacalone

Si dispiace, il Presidente emerito, Carlo Azelio Ciampi. Dice. “vergogna accusarmi d’avere favorito la mafia”. Ma la colpa è sua, come vedremo, si arrabbi con sé stesso. Rifletta sulle tesi che ha avallato, comprese quelle di quel Massimo Ciancimino che, ora, va di moda considerare inattendibile. Noi, che quelle versioni abbiamo contrastato, e non certo per ragioni di schieramento (ce ne importa meno di niente), noi che abbiamo subito additato le bugie, utilizzando i fatti, la memoria e la logica, adesso invitiamo alla cautela. Perché c’è del vero, in quel che questi delinquenti dicono. C’era del marcio nel modo in cui venivano ascoltati.

Ciampi si duole perché le rivelazioni del suo ministro della Giustizia, Giovanni Conso, stabiliscono che fu il suo governo a rimangiarsi il carcere duro, prima inflitto ai mafiosi (e non solo). Se il nostro fosse un dibattito civile si potrebbe discutere sull’opportunità o meno di revocare l’applicazione del 41 bis (della legge sull’ordinamento penitenziario). Quella norma è emergenziale, ha valore solo temporale e renderla permanente è una tortura. Questa è la mia opinione. Ma il nostro non è un dibattito civile, anche per colpa di Ciampi. Egli ha scritto, in un suo libro (Da Livorno al Quirinale, pagine 149 e 150), che le bombe mafiose erano contro il suo governo e che: “finisce il mio governo, finiscono di esplodere le bombe”. Già, peccato che, come Conso ha raccontato, finiscono i botti perché i mafiosi ottengono quel che vogliono, perché il governo lo concede sapendo che serve ad evitare altre stragi, perché quello è uno dei punti del “papello”. Sicché va riletto anche quel che Ciampi disse al Corriere della Sera (24 giugno corso): “La verità è che la mia presenza a Palazzo Chigi non era gradita a troppa gente. A cominciare dalla mafia”. Sicuro? Quattrocento mafiosi ebbero vantaggi immediati, quattromila furono poi liberati, grazie a una gestione dei pentiti di cui non sappiamo nulla. Fa schifo sentirselo dire, Presidente? Capisco, ma i fatti hanno la testa dura.

Per difendersi dalle accuse Ciampi ricorda che, nel numero di “Vita italiana” dell’aprile 1994, Conso scrisse che non era cambiato nulla, durante i mesi precedenti, circa l’applicazione del 41 bis. Ma da quando ci si difende citando un falso, o un gioco di parole? Perché, delle due l’una: o Conso ha detto il falso adesso, o lo ha scritto nel ’94. O, meglio, si può sostenere che la norma è rimasta invariata, salvo non essere applicata. Però, cribbio, per sedici anni siamo andati avanti con taluni, Ciampi compreso, che volevano mettere il cedimento ai mafiosi in capo a quelli che c’erano prima o che vennero dopo. No, è un falso, un depistaggio, un inquinamento. E’ da venduti al berlusconismo mafioso dirlo? A me pare sia da irresponsabili pretendere che lo si taccia.

Fino a qualche settimana fa si pendeva tutti dalle labbra di Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza. Erano i testimoni confermanti la trattativa fra mafia e Berlusconi, per il tramite di Dell’Utri e dei Ros dei carabinieri. Poi è capitato che il primo abbia messo in relazione uno spione (presunto) con Gianni Di Gennaro e il secondo sia stato smentito dal suo capo. Da quel momento, per dirla con la scienza e la coscienza di un magistrato itinerante, Antonio Ingroia, sono credibili a seconda dei casi. Come dire che si è casti a seconda di quale sia il partner occasionale cui ci si concede, in quel momento.

Ma Spatuzza è un collaboratore importante, che con la sua testimonianza ha distrutto una sentenza (quella per la strage di via D’Amelio) già passata in giudicato. Ha azzerato il lavoro di decine di magistrati. Lo stesso Ciancimino, aduso al racconto fantasioso, è importante, perché l’interesse a conservare i piccioli lo porta a svelare il modo in cui erano riciclati quelli persi. Vanno usati, non considerati oracoli. Come Giovanni Falcone insegnò. Purtroppo, però, si sono persi quindici anni a dimostrare teoremi, così salvando gli interessi mafiosi.

Non si è indagato, si è divinato. E lo si è fatto perché la tesi politica era già stata confezionata da Luciano Violante, vero demiurgo di una stagione che si dovrà scandagliare nel dettaglio, per liberarci dalle bendature che seppe imporre. La morte di Falcone spianò la strada a Oscar Luigi Scalfaro, ma si volle sostenere che era diretta contro gli avversari del morto. La mafia contribuì alla fine di un sistema politico, ma si pretende di far credere che uccise per favorirlo. Le bombe trovarono risposta in un provvedimento governativo, ma si sostenne che servivano a favorire il governo successivo. E ora che i conti non tornano, neanche a cannonate, si suggerisce che i pentiti non sono credibili e i teoremi da abbandonare? Certo, d’accordo, seppelliamoli tutti. Ma non siano i loro sostenitori di ieri a prendere di darci lezioni oggi. Noi vedemmo giusto, loro no. E, in queste materie, chi molto ha sbagliato non sarà in vantaggio per il regno dei cieli, ma in prima fila fra i manigoldi, o fra i beoti.

mercoledì 8 dicembre 2010

Uno studio IBL mostra che la concorrenza della GDO fa ridurre i prezzi dei distributori. Stefano Agnoli

Mettiamola sul ridere: non è vera festa se il prezzo della benzina non aumenta. In economia potrebbe anche essere un argomento ragionevole: quando sale la domanda di un bene sale il suo prezzo. Se a Natale e ad agosto si va tutti in auto e si consuma di più, benzina e prodotti petroliferi dovrebbero (in teoria) anche costare di più. «E il mercato, bellezza, e non ci si può fare niente» si potrebbe dire parafrasando Humphrey Bogart.

Peccato, però, che per i carburanti non ci sia mai il momento dei saldi. E peccato anche che quello italiano della benzina non sia un mercato «vero», ma assomigli molto di più a una marmellata di interessi corporativi. Che si è stratificata nel tempo e che accomuna tutti, dai petrolieri ai gestori, con l'esclusione (è ovvio) dei consumatori. E allora - e qui il buonumore non c'entra più nulla - che non ci si fermi sempre alle solite storie: l'andamento internazionale dell'indice Platt's della benzina e del gasolio; lo «stacco» strutturale tra i prezzi italiani e quelli europei; il cambio euro-dollaro; le accise, l'Iva e le responsabilità di uno Stato goloso; una rete di distribuzione troppo frammentata; le abitudini sbagliate degli italiani e la loro pigrizia a usare i self-service; la riforma che non parte.

Tutto vero, ma prendiamo un esempio concreto: pochi giorni fa uno studio (PDF) dell'Istituto Bruno Leoni (da sempre sensibile, diciamo così, alle ragioni del mercato «vero») osservava che quando si trovano nelle vicinanze dei distributori gestiti dalle grandi catene di supermercati, gli altri impianti tagliano i prezzi. Un effetto competitivo insomma - come quello causato dai volumi di vendita della grande distribuzione organizzata - non si applica solo a chi lo adotta, ma si trasferisce all'ambiente economico circostante. Lo studio dell'Ibl calcolava anche che se nel settore dei carburanti la Gdo avesse una quota di mercato vicina al 10%, come succede in Germania, gli automobilisti italiani risparmierebbero poco meno di 200 milioni di euro l'anno. Rimangono sempre pochi centesimi per ogni litro, ma serve altro per iniziare? (IBL)

martedì 7 dicembre 2010

Il relativismo giudiziario. Orso Di Pietra

Se Massimo Ciancimino sostiene di aver parlato con l’anima del proprio papà Vito e di essere stato informato che Berlusconi e Dell’Utri facevano mettere le bombe dalla mafia per scendere in politica e conquistare il potere, può essere tranquillamente creduto. Ma se Massimo Ciancimino torna a parlare con l’anima di papà Vito che gli racconta come la trattativa tra mafia e Stato veniva gestita da Gianni De Gennaro, viene automaticamente considerato il cazzarone che racconta balle a tutto spiano.
Antonio Ingroia, Pubblico Ministero palermitano, sostiene che il giovane Ciancimino sia un testimone problematico. Che alle volte dice la verità, altre volte delle bugie. Come dire che dopo il relativismo culturale abbiamo il relativismo giudiziario! (l'Opinione)

Moratoria. Filippo Facci

Tocca difendere persino Lele Mora, uno che mi fa schifo solo a vederlo: ma è davvero insopportabile che il baby-sindaco di Cortina l’abbia definito «persona non gradita» dopo che per un decennio gli ha riempito la località di grana e di vip. Fa niente se il talent-scout non è inquisito e non ha condanne né altro: è girato il vento, sicché «Mora e il suo circo» ora dovrebbero sloggiare, così, come se Cortina non fosse soggetta all’articolo 16 della Costituzione («Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale») e come se si trovasse in Texas con un sindaco pistolero. Ha detto, il sindaco, che Mora e i suoi personaggi - tipo Sabrina Ferilli, Luisa Corna, Aida Yespica e Nina Moric - sono «molto distanti dal nostro target»: come se Cortina non fosse stata già un circo quando Mora portava ancora i pantaloni corti, come se il pubblico della kermesse di «Cortina Incontra» fosse diverso da quello identicamente televisivo che accorre ogni estate per guardare altri vip del circo mediatico, come se la Onlus messa in piedi da Mora a Cortina, e che ha permesso di costruire asili e scuole per migliaia di bambini in Bolivia, fosse peggiore della «InSè Onlus» che a Cortina ha fatto progetti analoghi per i bambini del Mozambico. Che guerra tra poveri, tra vecchi e nuovi conformismi, tra vippame in canotta e vippame incravattato. (Libero)

lunedì 6 dicembre 2010

Alla cena d’addio, le lacrime della Dibble per il rapporto travisabile sul Cav. Mattia Ferraresi

La pubblicazione dell’intero dispaccio scritto dalla diplomatica americana Elizabeth Dibble a proposito di Silvio Berlusconi illumina un problema che nei giorni convulsi di Wikileaks viene spesso dimenticato: il contesto. Nella relazione scritta dall’ambasciata americana a Roma il 9 giugno 2009 e inviata direttamente al presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, il Cav. non è esattamente descritto come il leader “inetto, vacuo e inefficace”, il “portavoce di Putin”, il premier che “non riposa abbastanza”, come raccontato dai giornali dopo le prime, parziali rivelazioni del sito di Julian Assange; letto nella sua interezza, il ritratto di Berlusconi è quello di un leader certamente originale e anche criticabile a livello personale, ma uno statista capace di governare e un alleato fedele degli Stati Uniti che – per necessità che non sfuggono alla diplomatica Dibble – coltiva relazioni che fanno alzare qualche soppracciglio al dipartimento di stato.

“La nostra relazione con Berlusconi è complessa”, scrive Dibble, “ci ha aiutato a sviluppare i nostri interessi su molti piani in un modo e una dimensione che il governo precedente non era intenzionato o capace di perseguire, sia dal suo ritorno al potere la scorsa primavera che nei suoi precedenti governi”. Dibble, che scrive a Obama alla vigilia dell’incontro del G8 all’Aquila, entra nei dettagli dell’alleanza e distingue chiaramente due piani: da una parte c’è il Berlusconi capo affidabile di un governo storicamente alleato che lavora per non perdere rilevanza nel panorama internazionale, che è fedele e solerte nel rispettare “l’impegno morale con gli Stati Uniti” e che “ha sempre accettato le nostre richieste, nonostante i rischi per la politica interna”. Si citano i dossier fondamentali, soprattutto l’Afghanistan, e il lavoro fatto dal Cav. sulle basi americane in Italia. “Berlusconi è uno dei politici che dura da più tempo in Europa e la sua popolarità in Italia garantisce la sua influenza nel panorama politico italiano dei prossimi anni. Ha fatto terminare il periodo dei governi italiani inefficienti e deboli che hanno afflitto questo paese dalla fine della Seconda guerra mondiale”, scrive Dibble.

Dall’altra c’è il Berlusconi “non ortodosso”, quello delle gaffe e del chiacchiericcio, dei rapporti “non trasparenti” con la Russia. E’ questo secondo volto che ha “portato molti, inclusi alcuni nel governo americano, a ritenerlo inetto, vacuo e inefficace come leader europeo moderno”. Non è un mistero che al dipartimento di stato alcuni operativi di medio e alto livello non vedano di buon occhio la relazione con il governo Berlusconi: il segretario per gli Affari europei, Philip Gordon, è fra questi, ma la relazione con l’Italia è appunto “complessa”: Gordon è stato ad esempio l’uomo che durante la campagna elettorale di Obama ha fatto saltare l’ipotesi di una tappa in Italia durante il tour europeo. Fonti vicine al dipartimento di stato spiegano che quella era esattamente il contrario di una mossa antiberlusconiana: Washington temeva piuttosto che il passaggio di Obama potesse rafforzare il Pd veltroniano e obamiano contro un Berlusconi che, per quanto guascone, è alleato affidabile sui dossier che contano.

L’autrice dei cable, Elizabeth Dibble, è stata descritta come una specie di spia americana incaricata di attaccare Berlusconi da via Veneto, ma fonti che conoscono bene l’ambasciata americana dicono che semmai è vero il contrario: Dibble voleva con tutte le forze rimanere in servizio in Italia, mentre a ottobre è stata riassegnata a Foggy Bottom perché si sapeva ormai che Wikileaks aveva in mano documenti che, opportunamente ritagliati, rimasticati e risputati, l’avrebbero messa in imbarazzo.

Alla cena romana d’addio, con i colleghi dell’ambasciata, la Dibble era in lacrime. Ma il giudizio che la diplomatica dà nel 2009 su Berlusconi è inequivocabile: “Quella di liquidare Berlusconi come un interlocutore poco serio, con le sue fissazioni personali, le sue gaffe e talvolta il suo modo di agire spregiudicato in politica, potrebbe essere una tentazione, ma pensiamo si tratterebbe di un errore. Nonostante i suoi difetti, Berlusconi è stato la pietra di paragone della politica italiana per gli ultimi quindici anni, e tutto sembra indicare che lo sarà ancora per gli anni a venire. Egli si è dimostrato un alleato e un amico degli Stati Uniti”. Al vertice Osce di Astana, il segretario di stato, Hillary Clinton, ha detto che Berlusconi è il “miglior amico dell’America”, formula subito bollata da Repubblica come brodaglia diplomatica servita per riparare la verità di Wikileaks; ma i dispacci, letti nel contesto, dicono che l’affezione di Hillary è vera nella sostanza e il segretario non ha perso occasione per dare un altro segnale all’Italia a proposito dell’Afghanistan, dossier fondamentale per giudicare l’alleanza. All’ex inviato speciale della Farnesina in Afghanistan e Pakistan, Massimo Iannucci, Hillary ha consegnato un biglietto di ringraziamento che va oltre ogni linguaggio diplomatico. Non si sa se si sia espressa in termini “migliori amici”, ma il concetto è quello. (il Foglio)

venerdì 3 dicembre 2010

Sedici buoni motivi per continuare ad avere fiducia in Silvio Berlusconi. Antonio Mambrino

Nel quotidiano predicozzo futurista di FFwebmagazine, ieri, Filippo Rossi ha elencato i (numerosi) motivi per i quali non si può avere fiducia personale in Silvio Berlusconi. Motivi, sostiene Rossi, per i quali, rivestendo lui la carica di Capo del Governo, la sfiducia personale non può che trasformarsi in sfiducia politica. Sarebbe facile, fin troppo, replicare a Rossi elencando i (numerosi) motivi per i quali non si può avere fiducia personale in Gianfranco Fini. Sarebbe facile organizzare un rapido sondaggio di opinione su un semplice quesito. Da chi comprereste un’automobile usata: A) Silvio Berlusconi; B) Gianfranco Fini. (La risposta a nostro avviso è scontata). Sarebbe facile, però sbagliato. Sarebbe l’ennesimo cedimento a quella spirale di imbarbarimento politico che ha condotto il dibattito politico al livello del gossip scandalistico, che ha reso praticamente indistinguibili alcuni degli articoli ospitati nella pagina politica dei nostri principali quotidiani dai servizi sui pettegolezzi relativi ai VIP di Novella 2000, Stop ed altre gloriose testate del genere.

Eppoi l’equazione fiducia personale = fiducia politica potrà forse essere valida per chi si occupa di comunicazione politica, ovvero per chi aiuta i politici a trasmettere il proprio messaggio in modo efficace e convincente in modo da massimizzare il ritorno in termini di consenso elettorale. Ma per chi, anche animato da una propria passione politica, ha l’ambizione di analizzare i fatti della politica in modo più profondo per cercare di capirne le dinamiche e diagnosticare le possibili evoluzioni, tale equazione è del tutto inservibile. Un’analisi politica appena decente non può fare a meno di separare le cose essenziali dal rumore. Non può fare a meno di concentrarsi sugli elementi strutturali e costitutivi di un certo quadro politico e sui fattori dinamici che ne possono determinare l’evoluzione. A ben vedere non è la fiducia personale che si trasforma in fiducia politica. E’ vero esattamente il contrario. E’ la fiducia politica che si trasforma in fiducia personale.

Ed è per questo motivo che anziché concentrarci sui vizi privati dei concorrenti del Cavaliere preferiamo concentrarci sulle sue pubbliche virtù. Ed allora ci siamo fatti una domanda, forse meno “ruffiana” di quelle di Filippo Rossi, ma assai più pertinente. Quali sono i motivi per i quali è possibile avere fiducia (politica) in Berlusconi? Ma, posta la domanda, la nostra mente è stata immediatamente assalita da una miriade di risposte ed argomenti. Ed allora proviamo a fare un po’ d’ordine schematizzando le risposte più importanti.
1. E’ possibile avere fiducia in Berlusconi perché nel 1994, con il crollo del sistema dei partiti resistenziale, ha intuito la necessità di fondare la Seconda Repubblica.
2. E’ possibile avere fiducia in Berlusconi perché ha sdoganato il pensiero e la politica anticomunista, pudicamente rimossi durante la Prima Repubblica e tenuti in vita solo dalla testimonianza neo fascista del Movimento Sociale Italiano (e noi anticomunisti ed antifascisti?).
3. E’ possibile avere fiducia in Berlusconi perché ha auspicato e favorito l’evoluzione della destra italiana, fino ad allora confinata nel recinto del nostalgismo e quindi ripudiata dal discorso politico pubblico.
4. E’ possibile avere fiducia in Berlusconi perché è riuscito ad includere in una seria prospettiva di governo anche le pulsioni secessioniste con venature xenofobe presenti nel Nord del Paese che rischiavano di spaccare in due il Paese.
5. E’ possibile avere fiducia in Berlusconi perché, pur non essendo un politico di sacrestia e senza ambire a costituire il partito dei cattolici, è riuscito a stabilire un rapporto proficuo con il mondo cattolico.
6. E’ possibile avere fiducia in Berlusconi perché, pur essendo incensurato e privo di pendenze giudiziarie al momento del suo ingresso in politica è stato vittima di un’incredibile aggressione mediatico-giudiziaria (inaugurata dal famigerato avviso di garanzia notificato durante il vertice di Napoli) e ciononostante non ha, come molti altri avrebbero fatto al suo posto, cercato un comodo accordo transattivo ma ha accettato la sfida e posto al centro del dibattito il tema della giustizia.
7. E’ possibile avere fiducia in Berlusconi perché le migliori leggi degli ultimi vent’anni sono state approvate con il suo voto favorevole (alcune anche quando era all’opposizione).
8. E’ possibile avere fiducia in Berlusconi perché ha avuto il coraggio di sfidare il tabù della riforma della Costituzione e di approvare una (per quanto imperfetta) legge di riforma del titolo II della Carta fondamentale assai ambiziosa.
9. E’ possibile avere fiducia in Berlusconi perché non ha mai (anche quando gli avrebbe fatto comodo) ceduto alla tentazione di consentire la restaurazione della palude partitocratica della prima repubblica ed è sempre rimasto ancorato ai valori della democrazia bipolare e maggioritaria.
10. E’ possibile avere fiducia in Berlusconi perché quando ha fatto il Presidente del Consiglio lo ha fatto sulla base di una chiara investitura degli elettori e non sulla base di oscure trattative fra i partiti e fra le correnti dei partiti.
11. E’ possibile avere fiducia in Berlusconi perché è riuscito a fronteggiare efficacemente alcune drammatiche emergenze economiche e sociali.
12. E’ possibile avere fiducia in Berlusconi perché per primo ha affermato con forza la centralità del mercato e della libertà d’impresa.
13. E’ possibile avere fiducia in Berlusconi perché non ha mai detto che le tasse sono bellissime ma anzi ha sempre affermato che il primo obiettivo da realizzare, quando le condizioni lo permetteranno, è la riduzione della pressione fiscale.
14. E’ possibile avere fiducia in Berlusconi perché dovendo affrontare la più grave crisi economica e finanziaria del dopoguerra non ha ceduto alla tentazione di dilatare a dismisura la spesa pubblica ed ha tenuto sostanzialmente in ordine i conti dello Stato senza aumentare le tasse.
15. E’ possibile avere fiducia in Berlusconi perché ha dato all’Italia una linea di politica estera di leale atlantismo e americanismo, senza rinunciare a svolgere un autonomo ruolo nei confronti di Paesi di rilevanza strategica per noi (come la Libia o la Russia).
16. E’ possibile avere fiducia in Berlusconi perché, pur essendo bersagliato da dichiarazioni di presunti penti di mafia tese a coinvolgerlo nei loro sporchi traffici, non ha nemmeno pensato di revocare il carcere duro ai boss mafiosi per guadagnare la benevolenza della criminalità organizzata (e quindi qualche testimonianza a favore) ed anzi presiede il Governo che ha raggiunto i migliori risultati nella lotta al crimine.

E l’elenco sarebbe ancora lungo.

Naturalmente a fronte di tale elenco ce ne è anche uno dei tanti motivi per i quali Berlusconi ci ha deluso. Delle cose che ci saremmo aspettati e che non sono ancora arrivate (dal Presidenzialismo all’abolizione dell’articolo 18, dall’eliminazione delle pensioni di anzianità alle liberalizzazioni dell’economia, dalla separazione delle carriere dei giudici alla privatizzazione dell’immensa mano morta pubblica, dalla privatizzazione della Rai alla liberalizzazione dei taxi). In alcuni casi ci ha provato ma ha raggiunto risultati solo parziali, in altri ci ha provato ma è stato bloccato dalla reazione conservatrice delle corporazioni politico - sindacali. In altri ancora non ci ha nemmeno provato e temiamo che non ci proverà affatto. Ma non è questo il punto. Se neanche queste delusioni (alcune anche cocenti) riescono a scalfire la nostra fiducia in Berlusconi, ciò è dovuto essenzialmente ad un fatto. Il fatto è che noi siamo convinti che se l’età di Berlusconi dovesse concludersi non in modo fisiologico ma in modo violento (ovvero per un attacco mediatico - giudiziario ovvero per un complotto di Palazzo) quel che verrà dopo sarà molto, ma molto, peggio. Possiamo (e dobbiamo) aver fiducia in Berlusconi se non altro perché nutriamo la più completa sfiducia in chi prenderebbe il suo posto se dovesse andare a buon fine il tentativo di toglierlo violentemente dalla scena. (l'Occidentale)

mercoledì 1 dicembre 2010

Quando la nave affonda i topi fuggono

Non è una bella cosa assistere al linciaggio mediatico del Cavaliere.
A parte i futuristi-finiani che sono scesi dalla nave e non sanno perché, quello che mi sconcerta di più è la presa di posizione di molti blogger che hanno sfoderato un'acrimonia inusitata nei confronti di colui che prima, non dico incensassero, ma comunque era tra i leader preferiti.
Tira una brutta aria.
Faccio appello ai blogger amici e simpatizzanti affinché si stringano attorno a Berlusconi e lo sostengano in questi momenti difficili.
Non si capisce quale sia il motivo di una guerra assurda, proprio mentre il governo sta lavorando bene, se non la volontà di abbattere il "tiranno" e prenderne il posto.
Noi italiani cerchiamo di non essere coglioni : stiamo molto attenti alla forza di penetrazione che ha lo stillicidio della calunnia e della notizia artefatta.
Non so se il governo cadrà tra due settimane, due mesi o due anni. Una cosa è certa: rivincerà Berlusconi o un suo "delfino" e spero che nessuno dimentichi nomi e cognomi degli "amici" che oggi lo pugnalano alla schiena, per ripagarli con la stessa moneta.
Sconcerta anche il fatto che molti politici vicini al premier siano poco efficaci nella difesa del governo, poco credibili e per niente reattivi. Se si escludono Capezzone, Santanché, Alfano, Maroni, La Russa, Sgarbi in certe sue sortite e pochi altri, lo scenario è desolante: Berlusconi è costretto a difendersi da solo.
L'opposizione macina odio ed è ossessivamente impegnata ad attaccarlo, tanto da non accorgersi che non avrà più argomenti quando dovrà fare proposte e scrivere programmi.
Insisto: si sta perpetrando un colpo di Stato mediatico con la progressiva demolizione dell'avversario.
E noi non staremo alla finestra!

Antiamericani. Davide Giacalone

Fanno tenerezza. Mi riferisco a quelli che hanno passato una vita a sfilare urlanti contro l’imperialismo americano, maledicendo la satanica macchina diplomatica che pretendeva di guidare le politiche altrui, screditando quanti non si piegavano agli ordini a stelle e strisce, e ora si ritrovano a biascicare moralismi da beghine affrante, lamentando che “gli americani” ci giudicano male. Spulciano la documentazione di Wikileaks e non attendendo neanche che arrivi la parte succosa, posto che ci sia, s’accasciano sul pettegolume. S’accontentano della formula da barzelletta: ci sono un francese, un tedesco e un italiano, il primo ha pretese napoleoniche, il secondo è ottuso ma disciplinato, il terzo crapulone.

Fin qui, la faccenda dei files pubblicati è gravissima non tanto sotto il profilo del contenuto, ma del fatto stesso che cada il segreto diplomatico, fissato dal Congresso di Vienna (1815). Senza riservatezza diplomatica non ci sono negoziati, solo alleanze o guerre. Si provi a immaginare.

Non ho idea se fra quei documenti si troveranno cose, meno superficiali, relative al dossier energetico, ma quella è la partita più significativa. E ci vuole una miopia, e un’ignoranza, fuori dal comune per affrontarla solo sotto la luce dei rapporti fra Berlusconi e Putin, quasi si tratti di questioni personali. E’ una partita che traversa tutta intera la storia repubblicana, a cominciare dall’Eni di Enrico Mattei, di cui non solo i petrolieri statunitensi dicevano peste e corna, ma si giunse pure a questioni relative alle “donnine”. Anche in quel caso, naturalmente, non era una questione personale, tanto è vero che coinvolse per intero la politica estera italiana, la cui gestione dossettiana e filo araba non piaceva per nulla agli americani, ma piaceva tantissimo a quelli che oggi sperano siano loro a dire “qualche cosa di sinistra”.

Era l’Italia in cui la Fiat apriva lo stabilimento di Togliattigrad, quella in cui si trovavano ambasciatori statunitensi che inviavano rapporti durissimi contro il centro sinistra e contro Aldo Moro. Ma allora, gli odierni adoranti, erano impegnati a chiedere: fuori la Nato dall’Italia e l’Italia dalla Nato. Fortunatamente hanno perso. E dico “fortunatamente” da antico estimatore degli Stati Uniti, pertanto poco propenso a confondere per “americane” le cose scritte da un americano. Perché, alla fine, quella che conta e la politica estera ufficiale, non lo smanacciamento cui è stata sottoposta nelle cucine. E, per dirne due, conta che a Pratica di Mare sia iniziato l’avvicinamento della Russia alla Nato, come conta che il gas italiano arrivi prevalentemente dall’Algeria, mentre i nuovi gasdotti non si prestano a rapporti compromissori con gli iraniani. Ma che possono capirne quelli che si sono sempre prestati alla non autonomia energetica dell’Italia e che volevano riconoscere ad Ahmadinejad l’aspirazione a essere potenza regionale? Sicché, oggi, pubblicano i dispacci in cui lo si definisce Hitler accanto alle battute insulse sul lettone di Putin, senza neanche afferrare il nesso.

C’è una forza della geopolitica, un peso degli interessi indisponibili di un Paese, che attraversa il tempo e non cambia colore con i governi. Per capirlo si deve studiare la storia, avendo in mente una cartina geografica, e saper far di conto. Se si corre appresso ai dispacci in cui i diplomatici fanno il riassunto della rassegna stampa, se si perde di vista la sostanza e ci si butta sulla paccottiglia, va a finire che l’intero Paese è ai materassi. Uno sopra e gli altri sotto.

martedì 30 novembre 2010

Idolatri climatici in rotta

Quasi un anno fa iniziava a Copenaghen la conferenza sui cambiamenti climatici che avrebbe dovuto “salvare il mondo”. Non c’era più tempo, bisognava agire in fretta, quella era l’ultima occasione per fermare il global warming (o climate change a seconda del tempo che fa). La presenza messianica di Obama al summit avrebbe messo d’accordo tutti. Mesi di articoli catastrofisti sulle prime pagine dei giornali prepararono le coscienze: ghiacciai che si sciolgono, mari buoni solo per fare le terme, deserti che avanzano. Poi il capolavoro del giornalismo collettivo: il giorno dell’apertura dei lavori in Danimarca, 56 testate da tutto il mondo pubblicarono lo stesso identico editoriale, che nella sua maniacalità arrivava a dire che “le possibilità di controllare il clima da parte nostra saranno determinate dai prossimi giorni”. Come noto Copenaghen fu un fallimento senza precedenti, nelle ultime ore i leader del mondo abbozzarono soltanto un appunto con qualche buona intenzione e tante promesse datate futuro remoto.

Ieri a Cancun, in Messico, è iniziato un nuovo summit sul clima, ancora organizzato dall’Onu. A eccezione del Sole 24 Ore e del francese Monde, nessun giornale ne ha parlato in prima pagina, molti si sono limitati a brevi articoli nelle pagine interne. Tutti sottolineavano un po’ imbarazzati che né a Cancun né forse mai si arriverà ad alcun accordo vincolante sulle emissioni. Il grande circo ha richiuso le gabbie, c’è aria di smobilitazione; persino le richieste degli ambientalisti suonano sciatte, già viste, quasi dovute. Magari è la volta che si discuterà davvero, senza che certa scienza ci faccia credere di avere in tasca la verità. (il Foglio)

Teoremi mafiosi. Davide Giacalone

Ci sono dettagli che illuminano l’insieme. Notizie rimpiattate che dicono più dei titoloni urlanti. A saper leggere, però. Molti credono che l’intreccio fra mafia e politica sia una partita del passato, invece deve ancora essere giocata. Il terreno è quello del processo a Mario Mori, carabiniere, ex comandante del Ros. In quel dibattimento passerà la nostra storia recente, compreso l’atto di nascita della così detta seconda Repubblica.

Ecco alcuni dettagli. Primo: se un qualsiasi macellaio di mafia racconta di aver saputo, dal fratello del suo capo, che il cugino della cognata è stato a colloquio con lo zio di un collaboratore di Silvio Berlusconi, il quale gli ha detto che presto lo nominerà capo dell’Europa, la cosa finisce su tutti i giornali (ed è naturale), nonché al centro di un’indagine che dura venti anni; se, invece, un carabiniere, che arrestò Totò Riina, sostiene che le accuse di cui è fatto bersaglio sono una vendetta dei corleonesi, e dice che ascoltando il pubblico ministero sente parlare il boss mafioso, la notizia raggiunge pochissimi e viene subito dimenticata. Secondo: se lo stesso carabiniere, Ultimo, al secolo Sergio De Caprio (mi scuso per un precedente errore, meramente materiale), dice che “più vedo Ingroia e più capisco la grandezza di Borsellino. Gente come lui e la lobby mediatica che lo sostiene hanno distrutto l’antimafia”, ancora una volta finisce in due righe. Antonio Ingroia è lo stesso pm di cui sopra. Terzo: scrivendo un libro Ingroia mette in dubbio l’assoluzione di un altro carabiniere, Carmelo Canale, braccio destro di Borsellino, sostenendo cose che aveva taciuto al processo, quando era stato chiamato come testimone. Anche in questo caso, non succede niente. Per giunta, Canale sarà presto sul banco dei testimoni, al processo Mori. Quarto: Mario Mori sostiene che il suo calvario giudiziario è iniziato quando la procura di Palermo affondò il rapporto “mafia-appalti”, voluto da Falcone e Borsellino. Neanche questa volta succede niente.

Sono convinto che molti non colgono la terribile gravità di tutto ciò, perché non hanno un “teorema” con cui tradurre segnali che non capiscono. E’ vero, ha ragione Pierluigi Battista (Corriere della Sera del 26 novembre), la deposizione del ministro Giovanni Conso, l’avere saputo che il carcere duro (41 bis) fu cancellato dal governo Ciampi, nel 1993, demolisce il teorema della trattativa posticipata, ma sbaglia a non accorgersi che noi lo scriviamo da anni, naturalmente silenziati e minacciati di querela. Degli schieramenti non m’importa un fico secco, ma osservo che, puntualmente, si cerca di buttarla in caciara.

Mori è sotto processo perché sarebbe stato il tramite di una trattativa. Lo sostiene Massimo Ciancimino, assieme ad un altro cumulo di corbellerie. Secondo Luciano Violante lo stesso Mori gli fece presente, quando era presidente della commissione antimafia (1992-1994), che Vito Ciancimino era pronto a collaborare. Se ne è ricordato, Violante, solo nell’agosto del 2009, precipitandosi a Palermo per raccontarlo alla procura. C’è un solo italiano disposto a credere che, nel mentre era il potente presidente della commissione antimafia, Violante non abbia saputo che ai mafiosi era stato revocato il carcere duro? Eppure tacque. Singolare, anche perché Mori ricorda le cose in modo diverso.

Ora, posto che chi chiede spiegazioni facili ha sbagliato tema, provo a fornire elementi utili per la lettura. A. Non credo alla “trattativa”, ma un canale di comunicazione ci fu. Il buon Conso può pure credere di avere deciso da solo, ma stia sicuro che, come su altre faccende, lo avrebbero sbugiardato in tempo reale se quella decisione non fosse stata condivisa. B. La guida di Violante dell’antimafia privilegiò i processi politici rispetto alle indagini sui canali di riciclaggio e il coinvolgimento d’imprese non sicule. Preferì guardare alla politica in visita a Palermo piuttosto che ai soldi mafiosi diffusi per il mondo. C. Contro questa scelta era Giovanni Falcone, che, difatti, fu combattuto da Violante e da altri esponenti della sinistra, come Elena Paciotti, esponente di Magistratura Democratica e poi segretario dell’Associazione Nazionale Magistrati (infine parlamentare per il partito di Violante). Per non dire di Leoluca Orlando Cascio, che lo accusò di complicità con la mafia, cosa che ripeté del carabiniere Antonino Lombardo, che ci lasciò la vita. D. Contro fu anche Paolo Borsellino, che sollecitò le conclusioni del rapporto mafia-appalti. Tutti e due furono isolati dalla politica (compresa quella vile che non li difese), sconfitti dai magistrati e ammazzati dalla mafia. E. La mitologia successiva vuole che tutto questo non sia mai esistito, ma che la storia s’incardini solo sulle responsabilità di chi, al momento delle decisioni più rilevanti, aveva perso il potere o non lo aveva ancora avuto. F. Infine: per sostenere questa tesi dissennata, questo “teorema”, che fa a cazzotti con le date e con i fatti, si deve togliere credibilità a chi lavorò con Falcone e Borsellino.

Aprite gli occhi, perché attorno al processo Mori balla la nostra storia recente, quella che ancora dura.

Macché 11 settembre, è il 1° aprile della diplomazia. Marcello Veneziani

E venne il giorno del Giudizio Universale, il mondo fu giudicato da un dio imbecille. Un mondo guidato da cretini e presieduto dal principe dei cretini: non ho altre parole per riassumere il senso della bufala cosmica delle rivelazioni di Wikileaks. Scusate ma non capisco l’allarme mondiale. Frattini dice che è stato l’11 settembre della diplomazia mondiale, a me è parso il Primo Aprile. Certo, un furbo circondato da furbetti ci ha guadagnato. Ma vi rendete conto di quale Cazzata Planetaria ci stiamo occupando? Sono giudizi sommari e stupidi espressi da qualche funzionario che deve redigere le sue note informative per la Casa Bianca e copia dai giornali e dalle tv; mica sono le pagelle del Signore sulle convocazioni in paradiso e sulle dannazioni all’inferno.

Riflettete un attimo, per favore, su quei rapporti. E ripassate in rassegna quei giudizi, la fonte e il tenore. Nella migliore delle ipotesi sono aria fritta, cose risapute, traduzioni in forma di gossip di giudizi che già s’intuivano. Nella peggiore sono chiacchiere da saloon, tra un whisky e l’altro, che sembrano ispirate più dalla lavandaia - con tutto il rispetto per le lavandaie - piuttosto che dalla diplomazia più importante del mondo. Se questa è la diplomazia americana, allora Dagospia for president, via Obama dalla Casa Bianca e dentro Roberto D’Agostino che almeno è spiritoso e non pretende con i suoi giudizi di guidare la superpotenza mondiale. Ma che senso ha riferire in mondovisione giudizi scemi su Putin macho e capobranco, la Merkel di scarsa fantasia, Sarkozy l’imperatore nudo e autoritario, Ahmadinejad il nuovo Hitler pazzo, Gheddafi un ipocondriaco che si è fatto il botulino ed ha un’amante ucraina, Karzai il paranoico, Kim Jong Il, leader della Corea del Nord, un vecchio ciccione con l’ictus...

A proposito di ciccioni, una obesa signora americana, come purtroppo ce ne sono tanti negli States, Elizabeth Dibble, trincia un giudizio su Berlusconi dandogli dell’incapace e del vanitoso, e poi riferisce di feste selvagge, probabilmente traducendo alla lettera e senza un filo d’ironia il mitico bunga bunga. Ma i festini dei Kennedy e di Clinton erano da prima comunione? I giudizi della signora in sovrappeso (disturbi ormonali e ghiandolari?, dovremmo chiederci stando ai criteri usati per redigere questi compitini) sembrano solo il frutto di una sommaria lettura dei titoli dei giornali italiani all’attacco del premier; e la cosa perfida e grottesca è che ieri gli stessi giornali hanno riferito con grande solennità quei giudizi di cui essi stessi sono la fonte... Ma pensate che il compitino di una grassa patatona americana, per restare alle categorie usate in questo rapporto, sia così sconvolgente per gli equilibri mondiali e così determinante per influenzare l’azione politica di Obama? Su, sono chiacchiere da dopocena, tra il caffè e l’ammazzacaffè, mica altro. Penso cos’era stata per secoli la diplomazia europea, vaticana, orientale, cinese (a proposito, e della Cina non si dice niente negli States; paura?). Giudizi acuti e valutazioni prudenti, informazioni vere e stile di espressione... Tremila anni di diplomazia e di civiltà finiti nel cesso. Pensieri sparsi attaccati col chewing gum. Naturalmente non escludo affatto che ci siano fascicoli seri, e perfino minacciosi, oltre la giostra per idioti globali che è stata pubblicata ieri. Allora lasciamo da parte la buffonata e pensiamo alle cose serie.

Il ciclone Wiki esplicita molte cose che erano implicite, e porta alla luce quel che tutti gli informati probabilmente già sapevano, regolandosi di conseguenza: la preoccupazione per l’Iran, le pressioni arabe per dichiarargli guerra, i rapporti difficili con Israele, la debolezza internazionale dell’Europa, e via dicendo. Per quel che ci riguarda, viene esplicitata una cosa che pensavamo e scrivevamo da tempo: all’Italia di Berlusconi, al di là del fumo dei pettegolezzi e delle campagne per delegittimarlo, alcuni ambienti internazionali, alcune lobbies e alcune diplomazie, a cominciare da quella americana, non perdonano i nostri rapporti economici con la Russia di Putin, la Libia di Gheddafi, la Cina e l’Iran. Non è il lettone di Putin o le amanti bionde di Gheddafi la loro preoccupazione, semmai è la propaganda; ma il fatto che l’Italia abbia vantaggiosi rapporti con quei Paesi, sia un loro partner significativo. Se vogliamo, è un copione già visto, ai tempi di Craxi e di Andreotti, forse anche di Moro. E non c’è da indignarsi e gridare al complotto ma c’è da capire e agire con realismo di conseguenza.

Quella è la partita più delicata, da lì vengono i suggeritori internazionali che si servono magari di toghe avvelenate, ma anche di scatole vuote nostrane per riempirle di tritolo e far esplodere il governo in carica. Quello è il pericolo reale, oltre la bufala. Vedrete, non si fermeranno lì, le loro feste selvagge proseguiranno in varie direzioni per inguaiare il governo. Non so quanto Obama condivida questa linea. Per il resto, l’effetto immediato di questo gossip cosmico dovrebbe essere solo uno: chiudete le ambasciate e aprite le sale da parrucchiera. È la sede più consona per questi pettegolezzi. (il Giornale)

lunedì 29 novembre 2010

Perché i politici di centrodestra vanno ancora da Floris, Santoro & Co.? Dino Cofrancesco

Sulle trasmissioni di Santoro (& Travaglio), di Fazio (& Littizzetto), di Floris (& C.) di Dandini (& Vergassola) ogni persona ragionevole e con un minimo di senso di imparzialità dà lo stesso giudizio che ne danno professionisti della carta stampata come Piero Ostellino e Giampaolo Pansa, due commentatori politici e saggisti che non votano certo né per Berlusconi né per Fini. Il conduttore televisivo, nei casi ricordati, è il dodicesimo calciatore della squadra che gioca sempre in casa ma con la maglia dell’arbitro. Davanti alla compagnia dei finti «muckraker» – i muckraker erano quei giornalisti d’assalto, come Lincoln Steffens e Edwin Markhan, che al tempo di Theodor Roosevelt denunciarono la corruzione politica e le collusioni con la criminalità organizzata – giornaliste (di parte) come Lucia Annunziata e persino Lilli Gruber diventano esempi di altissima professionalità.

Ci si chiede allora: come mai ministri e giornalisti del centro-destra accettano di intervenire in trasmissioni in cui verranno letteralmente sbranati, messi alla gogna, sbeffeggiati? Quale pugile accetterebbe di salire sul ring sapendo che l’arbitro farà di tutto per metterlo in difficoltà?

La risposta c’è ma è desolante: l’indice di ascolto! Le trasmissioni dei predicatori dell’etere vengono seguite da milioni di italiani, dei quali una minoranza è formata da soli curiosi, mentre la stragrande maggioranza è fatta di nemici e antipatizzanti del Cavaliere.

Come capita spesso nel nostro paese, e in tutte le sue stagioni politiche, gli sconfitti della storia si ritagliano una loro ‘subcultura’ antagonista, fatta di simboli, di linguaggi, di segni che sottolineano una diversità irriducibile e che producono una gratificazione di ‘revanche’ in quanti hanno perduto ogni presa sulle masse apatiche, qualunquistiche ed eterodirette. Come ho scritto in un articolo pubblicato domenica scorsa sul ‘Giornale’: «Da molti anni, ormai, il crollo dell’impero sovietico ha causato il discredito del marxismo e il vuoto seguito al tramonto di una teoria della storia e della società coerente e strutturata è stato riempito da una marmellata anti-capitalistica e antiliberale, fatta di pulsioni anarcoidi e libertarie, che del vecchio materialismo storico ha conservato le passioni, dopo averne perso le ragioni. E’ una muffa rossa che, a Genova ad esempio, ha trovato i suoi simboli in una compagnia di giro che, ‘ai suoi bei dì’, comprendeva Fernanda Pivano, Fabrizio de André, don Andrea Gallo, Moni Ovadia». Un tipico prodotto di questo culturame –absit iniuria verbis – è Fabio Fazio, espressione di una regione, la Liguria, in piena decadenza che si consola organizzando, grazie a un brain trust che va da Pannella a Vendola, il VI Congresso di Anticlericale.net (11-12 dicembre 2010) e l’organizza proprio a Genova giacché «la situazione del capoluogo ligure riassume in sé l’occupazione parossistica di ogni aspetto della vita politica, economica e civile delle gerarchie vaticane ai danni della società, dello Stato fu laico dell’individuo e della sua libertà di scelta». La potenza del catto-berlusconismo dev’essere davvero smisurata se quell’«occupazione parossistica» avviene in un territorio in cui città, provincia e Regione sono amministrate dal centro-sinistra!

A prevenire possibili malintesi, non intendo associarmi a quanti vorrebbero oscurare gli schermi della suddetta ‘compagnia di giro’. La libertà di parola è la più alta conquista della civiltà liberale e se essa viene condizionata (cattolicamente) dai ‘contenuti di verità’ si riduce alla ‘libertà vigilata’ dei regimi teocratici e totalitari, nei loro rari momenti di ‘apertura’. La faziosità, la malafede, la menzogna, l’isterismo ideologico sono ‘giudizi di valore’ che, per quanto motivati – ed è il caso della banda dei nostri imbonitori televisivi – potrebbero sempre, in teoria, essere dettati dal pregiudizio ideologico. Un liberale – segnato e corrotto da David Hume – ha sempre il dubbio che le sue valutazioni siano sbagliate, un dubbio che non sfiora mai animali politici come Santoro & C., le cui menti sono state colpite, senza rimedio, dalle metastasi totalitarie. Ben vengano quindi altri dieci, cento, mille ‘Anno zero’ e ‘Vieni via con me’ che ridiano conforto e ‘joie de vivre’ a quanti hanno perso tutti gli appuntamenti della storia e trovano conforto solo ritrovandosi nella grandi adunate ‘reducistiche’ che le televisioni di Stato preparano per loro (con i soldi di tutti).

Tra l’altro in un paese in cui «nulla si crea e nulla si distrugge», le trasmissioni antagoniste hanno una funzione non trascurabile di ‘sfogo’ emotivo: consentono alla rabbia repressa contro i connazionali che, insensibili alle virtù civiche e all’antifascismo, votano per il PDL, di esplodere verbalmente nella finta satira, nel dileggio sguaiato, nel pernacchio atonale e, in tal modo, forse, fanno sbollire un’aggressività che potrebbe trovare altre vie di fatto (ma talora siamo al limite: è il caso di un negozio di informatica di Trastevere che ostenta una statuetta di Berlusconi sanguinante con accanto il corpo contundente, il plastichetto del duomo di Milano!); ma hanno, pure, una funzione di riproduzione e di rassicurazione culturale in senso lato. Da noi il 68 non è mai finito, i suoi cascami ideologici, nutriti di post-marxismo e della ‘political culture’ dei centri sociali e delle comunità cattoliche di base, hanno de facto il monopolio dell’istruzione media e universitaria, sono diventati, per molti italiani, ‘senso comune’. Qualche esempio vale più di tanti discorsi teorici. Recentemente in una città del Nord un sociologo della comunicazione – docente alla scuola di giornalismo – mi ha inviato una email di protesta per la sentenza dei giudici lombardi che, per la strage di Piazza della Loggia, non avevano condannato nessun fascista. Sono le occasioni in cui si risveglia in me il mio quarto (ma decisivo) di sangue napoletano e, pertanto, gli ho risposto che i tribunali avevano insabbiato tutto perché il mandante di quella strage era Silvio Berlusconi. Pensavo di averlo irritato ma con mia grande meraviglia mi ha subito risposto di non aver preso in considerazione questa ipotesi così inquietante e mi ha pregato di inviargli al più presto lo scritto in cui io o altri rivelavamo i documenti scottanti! Se questi sono i maestri, figuriamoci gli allievi! Del resto quando in una lezione – è capitato a me – si dice che si è innocenti finché una sentenza del tribunale non abbia stabilito il contrario e una simpatica, candida, allieva fa una domanda esordendo «quindi Lei è un berlusconiano!», si ha la riprova che la cultura liberale, nel nostro paese, è ancora più fragile che al tempo dei ‘trinariciuti’ quando, nei licei borghesi, si poteva ancora trovare qualche insegnante amico della ‘società aperta’, del mercato e della proprietà privata. (Oggi, anche se un po’ meno, persino un Giulio Giorello si riempie la bocca di Popper ma dalla sua idea di ‘società aperta’ è escluso il diritto di proprietà e, soprattutto, il principio che l’interesse pubblico si realizza attraverso la tutela dei diritti individuali, al contrario di quanto ritengono i democratici antiliberali per i quali sono i diritti individuali che vengono salvaguardati dal primato dell’interesse pubblico!).

Ebbene senza le trasmissioni fabiofaziose come potrebbe tramandarsi alle generazioni future la cultura sessantottesca? Licei e Università non bastano se i loro ‘saperi’ non si proiettano sul ‘piccolo schermo’: la televisione è la conferma che quei saperi non sono fantasticherie della ‘repubblica delle lettere’ – come in tempi lontani in cui tra la leopardiana ‘Ginestra’ che si leggeva nelle aule scolastiche e le canzoni ‘urlate’di Tony Dallara che si sentivano fuori c’era un abisso planetario – ma ‘vissuto esistenziale’. I commenti politici di Luciana Littizzetto e quelli del docente di ‘Sociologia della comunicazione’ stanno ormai sullo stesso piano, sono identici e intercambiabili sicché non meraviglia che le sociologhe di una Facoltà di ‘Scienze della Formazione’ (nel profondo Nord) abbiano potuto programmare un incontro con Vladimir Luxuria nello stesso ‘spirito di servizio’ col quale, mezzo secolo fa, il mio vecchio Liceo ‘Giosuè Carducci’ di Cassino aveva organizzato un incontro con lo scienziato credente Filippo Medi sul ‘Paradiso’ di Dante e le prove dell’esistenza di Dio alla luce della fisica moderna. E’ finito, quindi, il ‘gap’ tra la ‘scuola’ e la ‘vita’ ma, purtroppo, non nel senso, che la prima si è aperta alla seconda e ne ha lasciato penetrare l’aria fresca e rigeneratrice ma nel senso che una subcultura politica, nella sua strategia gramsciana di conquista della società civile, ha messo profonde radici nel ‘sistema culturale’ e di lì ha conquistato sia le ‘scuole’ – e persino quelle elementari una volta sotto il controllo pressoché capillare dei pedagogisti cattolici – sia i centri di riproduzione massmediatica delle immagini della vita. Che la vita ‘reale’ non sia mai entrata nelle aule medie e universitarie è dimostrato da un’esperienza che come docente universitario di una materia politologica, mi capita di fare tutti i giorni: quando tento di spiegare agli studenti – portati ad attribuire la vittoria del centro-destra alle influenze subliminali delle televisioni di Mediaset – che assai è più determinante è stato «il popolo delle partite IVA», mi accorgo che la maggior parte di essi non sanno di cosa sto parlando e solo un’esigua minoranza ‘informata’ abbozza un sorrisetto ironico come a dire: «certo quelli che non vogliono pagare le tasse!...».

«Se le cose stanno così» è giocoforza rassegnarsi che in Italia c’è un paese nel paese – con le sue scuole, le sue televisioni, i suoi giornali – che non ha più rapporti con l’altro, non solo con quello della maggioranza silenziosa ma altresì con quello della vecchia sinistra riformista e socialdemocratica pur sempre ancorata all’Occidente e che grazie a (ma io preferisco dire: per colpa di) Berlusconi, il paese dei ‘contras’ ha mollato gli ormeggi, naviga per conto suo, rifiutando ogni serio confronto con quanti non fanno parte della sua «comunità di linguaggio».

A questa frattura, sempre più insanabile, non si reagisce con la retorica o con la demonizzazione ma creando strumenti culturali seri e affidabili, in grado di trasmettere un’autentica cultura liberale. Un ‘Anno Zero’ di destra – come da qualche parte auspicato – sarebbe la vittoria degli ‘antagonisti’ giacché porterebbe il match ideologico sul terreno ad essi congeniale. Sul piano dei diritti di libertà un pluralismo rissoso e fazioso non può essere censurato ma sul piano dell’etica pubblica – e della rifondazione liberale di una società civile sempre più lontana dalla political culture del suo fondatore, il Conte di Cavour – il discorso cambia. Qui si vince se all’isteria dei Travaglio, dei Giuseppe d’Avanzo delle Barbare Spinelli si contrappongono i ragionamenti pacati, le analisi fattuali, lo stile scientifico e distaccato dei Luca Ricolfi, tanto per fare un nome.

Nulla, però, lascia sperare che ci si muova in questa direzione. Talora gli stessi politici del centro-destra che vorrebbero allontanare dagli schermi televisivi i Santoro, i Floris & C. vanno volentieri alle loro trasmissioni: se fossero liberali non solo dovrebbero ben guardarsi dal chiederne la chiusura ma dovrebbero altresì evitare inutili esibizioni gladiatorie terminanti regolarmente col pollice verso della claque precettata negli studios. Il fatto è che pur di essere visti da milioni di italiani si fa baratto della propria dignità contrabbandando la comparsata televisiva per un atto eroico – ‘uno solo contro tutti’, ‘Daniele nella fossa dei leoni’ etc. – e non avvedendosi che si vestono i panni del patetico Professor Unrat dell’«Angelo Azzurro» di Heinrich Mann.

Contrariamente a quello che credono letterati, filosofi, preti, maîtres-à-penser di ogni ordine e grado, la politica non è (solo) spettacolo. Quando gli italiani furono chiamati a pronunciarsi in un referendum che avrebbe dovuto, tra l’altro, togliere di mezzo Rete 4 (ero tra i convinti sostenitori di quel referendum e, chiedo scusa a Emilio Fede, non me ne pento affatto), non pochi elettori di Rifondazione Comunista votarono con la destra: nel ‘tempo del lavoro’, quando ne andavano di mezzo i loro (legittimi) interessi, stavano con Bertinotti, ma nel ‘tempo dello svago’, quando stanchi tornavano a casa, non intendevano rinunciare a trasmissioni ‘leggere’ e, soprattutto, gratuite.

Un buon provvedimento sulla criminalità organizzata o sulla scuola producono più consenso (e più popolarità) del battibecco televisivo con Di Pietro o con Vendola. Un quinto potere che, come s’è detto, si avvolge fabiofaziosamente su se stesso serve (ma non sui tempi lunghi) a rafforzare l’identità polemica di una parte politica e a pubblicizzarne le ragioni attraverso l’etere ma una responsabile classe di governo non dovrebbe avere nulla a che fare con i Dulcamara televisivo, spacciatori di elisir dell’odio. E’ un riserbo che si chiede ad essi non come uomini o esponenti di un partito politico ma come rappresentanti delle istituzioni. Un vecchi proverbio ciociaro dice «chi va a durmì cu le criature se sveglia scacat’» («chi va a letto con i neonati, si ritrova la popò nel letto»). Si scachino pure i politici e i giornalisti del centro-destra – a cominciare dal simpatico Maurizio Belpietro tutto gongolante quando viene invitato dalle iene televisive – ma lascino le istituzioni fuori dalla rissa… e dalla melma. (l'Occidentale)