venerdì 29 maggio 2009

Veronica, batti un colpo

Mi ha stupito il "silenzio assordante" della signora dopo la gaffe di Franceschini sull'educazione dei nostri figli eventualmente affidata a Berlusconi.
Mi sarei aspettato una reazione, quantomeno di madre colpita negli affetti più cari.
Evidentemente ha prevalso il dissidio con il marito: è proprio un peccato, sarebbe stata un'occasione unica per correggere certe affermazioni che hanno provocato il terremoto che sappiamo.
Ho la sensazione che la signora abbia degli informatori non disinteressati e che non abbia capito chi è suo marito.
Berlusconi non è un giocatore d'azzardo e se giura che non ha mai avuto "rapporti piccanti" con minorenni, c'è da credergli. In giro ci sono troppe intercettazioni non ancora rese pubbliche, per rischiare di dire il falso.
Allora.
Allora la signora si è spinta troppo nel personale mettendoci molto di suo.
Consigliata male dai suoi legali, in vista di un divorzio? Decisa a tutelare i suoi figli dalle eventuali pretese di quelli di primo letto? Oppure la lettera alla Repubblica è stata il teatrale lamento di una donna innamorata che vede sempre più assente l'oggetto del suo amore?
Sarebbe opportuno un chiarimento.
Signora, si faccia consigliare da suo marito per uscire con dignità e senza danni da questo vicolo cieco.

Carfagna: "In Aula c'è di tutto ma si accaniscono sul premier"

Gentile Direttore,
trascorso un anno da un attacco mediati­co di inaudita volgarità a cui sono stata sot­toposta, sono qui a fare alcune considera­zioni su vicende che in questi giorni ci so­no state date in pasto con una morbosità e un’ossessività che ricordano molto quelle che hanno riguardato la sottoscritta.

Sono qui a dire la mia, se mi è consenti­to. Anche forte e fiera di un lavoro svolto, in soli dodici mesi, con impegno ed auten­tica passione in favore e a tutela dei sogget­ti più vulnerabili di questo Paese.

Qualcuno è ancora convinto che io, gio­vane donna che dalla tv è passata alla poli­tica con Berlusconi, non abbia il diritto di parlare, non abbia nulla di sensato ed intel­ligente da dire. Ed invece vorrei osare così tanto. Mi sia consentito. Lo faccio perché ho testa. E cuore. Ho testa né più né meno di tanti pseudo-intellettuali che si ergono pomposamente a maestri di vita e di scien­za, di etica e di morale, che parlano e stra­parlano giudicando tutto e tutti pretenden­do di essere i padroni assoluti del vero.

Certo, mi riconosco una buona dose di coraggio se sono qui, oso parlare e, di più, vorrei addirittura dare, sottovoce, ma molto sottovoce, un consiglio. Che è quello di fare un passo indietro, di ritorna­re al di qua di quel limite della decenza e del buon senso che è stato abbondante­mente superato.

Insinuazioni pesanti e volgari hanno ac­compagnato la mia scelta sciagurata. Quel­la di una giovane donna che, dopo una (a dire il vero) assai insignificante carriera in tv ha deciso di accettare la sfida di fare politica con il partito di Berlusconi. Atten­zione. Giovane donna, televisione, Berlu­sconi.

E qui casca l’asino! Perché se cambiando l’ordine degli ad­dendi il risultato è lo stesso, sostituendo anche uno soltanto degli addendi il risulta­to sarebbe ben diverso e comporterebbe la legittimità dell’impegno politico.

Suvvia, siamo realisti. Il Parlamento vede tra i suoi banchi alcu­ni uomini dalle assai dubbie capacità poli­tiche. Ma nessuno si sorprende. L’Aula di Montecitorio è stata frequentata da perso­naggi condannati per banda armata e con­corso in omicidio, facinorosi violenti, con­dannati per detenzione e fabbricazione di ordigni esplosivi, protagonisti di risse e di indecorosi episodi di cronaca.

Ma nessuno mai si è indignato. Onorevoli che candidamente hanno am­messo di prostituirsi prima di approdare alla Camera, altri che, durante il loro incari­co, sono stati sorpresi a contrattare per strada prestazioni con transessuali. Mai nessuno si è scandalizzato. Mai.

Allora viene un sospetto. Che sia Berlusconi l’ingrediente indige­sto? Sì, è proprio così, Berlusconi indigna, scandalizza, inquieta. Forse è arrivato il momento di mettere un freno a questa follia collettiva, a questo vizio malsano, che qualcuno tenta di fo­mentare, di guardare e giudicare la politi­ca dal buco della serratura, di giudicare le persone per l’aspetto estetico e per il lavo­ro, seppur onesto, che hanno fatto in pas­sato. È assurdo, dopo anni di battaglie, è co­me tornare indietro quando i criteri seletti­vi per accedere alla politica erano il censo e il sesso.

Forse è proprio il caso di dire che si sta­va meglio quando si stava peggio! Ed è sorprendente che le dichiarazioni e la persona dell’ex fidanzato di Noemi Leti­zia, condannato per rapina, secondo qual­cuno meritino più rispetto dell’impegno e della persona di una donna che ha l’unica colpa di aver lavorato in tv. Cosa è più gra­ve, mi domando, aver lavorato in tv o esse­re stato un rapinatore? Quanto tempo do­vrà passare ancora perché chi ha lavorato nel mondo dello spettacolo possa essere trattato almeno come un ex rapinatore o un ex detenuto?

Credo che si sia superato il limite del buon senso e tutti abbiamo responsabilità e doveri. A cominciare dalla politica che deve ispirarsi a criteri di rigore e di serie­tà. Quei criteri che hanno indirizzato l’atti­vità di un governo che ha risolto gravi emergenze e problemi quotidiani con tem­pestività ed efficacia, grazie ad un presi­dente del Consiglio che è riuscito non solo ad interpretare le speranze e i sogni degli Italiani, ma anche a tradurli in realtà. Que­sto, quello delle cose realizzate per il bene del Paese, è il terreno di confronto sul qua­le vogliamo misurarci e di cui deve rispon­dere agli italiani il presidente Berlusconi. Un leader mai prepotente o arrogante, con­sapevole di una innata capacità seduttiva che ha usato a fini di ricerca del consenso e non per scopi morbosi. Un uomo leale, perbene e rispettoso. Una persona di garbo e gentilezza, doti che qualcuno vorrebbe declassare a mera finzione e che invece sono autentiche. E, lasciatemi pure dire che, in un mondo po­polato da gran cafoni, sono qualità rare ed invidiabili. Il resto, tutto il resto, sincera­mente sono affari suoi. O, almeno, così do­vrebbe essere in un Paese «normale».

So che ho ben poca esperienza, ma cre­do di averne quanto basta per auspicare che l’Italia diventi un Paese «normale», do­ve chi fa politica viene giudicato per ciò che fa e chi governa per come governa. Per fare questo, però, c’è bisogno di uno sfor­zo di volontà da parte di tutti. Forse è arrivato anche il momento che chi trascorre le sue giornate a criticare e a farci lezione, scenda dalla sua cattedra di cartapesta, si sporchi le mani con i pro­blemi veri e con le questioni che vera­mente interessano alla gente e dia il suo contributo alla crescita e allo sviluppo dell’Italia. Qualcuno lo troverà più noioso, ma sa­rebbe sicuramente più proficuo. Il Paese ne avrebbe un gran vantaggio. La qualità e il livello dell’attività politica, che qualcuno si diverte a far scadere verso il basso, ritroverebbero dignità e centralità.

Mara Carfagna, ministro per le Pari opportunità (Pdl) (Corriere della Sera)

martedì 26 maggio 2009

Chissenefrega con chi scopa Berlusconi. Miro Renzaglia

Non c’è niente da fare: si sono incarogniti. Dopo Santoro, dopo le fatidiche dieci-domande-dieci di “Repubblica”, dopo gli accorati appelli a riferire in Parlamento di Franceschini & Co., ecco a voi il nuovo magistrale colpo di scena dell’intervista a, niente popò di meno che: l’ex fidanzatino di Noemi Letizia, Gino Flaminio. Il quale, udite udite, ha svelato i retroscena della morbosa passione che avrebbe divorato Silvio Berlusconi fin dall’approccio con il book fotografico della giovane fanciulla napoletana…

Pensate: telefonate dirette di papi a Noemi che le raccomanda di “restare pura”, di “continuare a studiare”, di rimanere quella “creatura divina” manifesta ai suoi occhi, che le fa dei regalini in oro e brillanti anche prima del suo 18° compleanno, che la invita alla festa di Capodanno nella sua residenza privata in Sardegna, in compagnia di un’altra quarantina di ragazze e di non si sa quante decine di altri ospiti… Sconvolgente: non c’è che dire… Cose che lasciano veramente senza fiato… Queste, sì: queste… Mica le ciniche pruderie moralistiche dei neo Savonarola che incalzano un altro ragazzino di vent’anni fino ad esporlo alle possibili querele da parte dei genitori di Noemi e dello stesso Presidente del Consiglio…

I veri danni alla nazione sono le malefatte di un leader politico che ha la cattiva abitudine di farsi piacere il bello, il giovane, il pulito che “deve rimanere pulito”: mica la crisi economica; mica la ventilata minaccia di chiusura degli stabilimenti Fiat al Sud con la prospettiva però di inglobare quelli Opel al Nord; mica l’esercito dei disoccupati salito a un + 7,1% nell’ultimo quadrimestre del 2008; mica le morti bianche; mica le nostre missioni umanitarie (?) in Iraq ed Afghanistan; mica la mafia e la camorra; mica gli abusi bancari ai danni di cittadini che a causa delle loro (delle banche…) virtù speculative affamano il popolo e dissanguano le casse dello stato… Macché: qui il nodo da sciogliere veramente è quello di stabilire se Berlusconi ha detto o non ha detto la verità circa le modalità e la tempistica della sua conoscenza e dei suoi incontri con Noemi Letizia… Perché un premier non può e non deve permettersi di dire bugie…
Infatti - come tutti ben sapete - i premier precedenti a lui, e anche più di un Presidente della Repubblica, hanno sempre brillato per limpidezza di lingua e di coscienza. Prendiamo, per esempio, quel galantuomo di Romano Prodi che, sempre in odor di santità di parola, diede a suo tempo un’indicazione assolutamente precisa del luogo in cui era segregato Aldo Moro: «Gradoli», disse. Ora, lasciamo stare che le solerti Forze dell’ordine si fecero venire in testa il piccolo comune viterbese rastrellandolo casa per casa senza trovare ovviamente nulla, anziché, com’era più naturale, fare una puntatina in quella “Via Gradoli” a Roma sede effettiva del tribunale del popolo brigatista. Una volta che, purtroppo a tempo scaduto per le sorti di Moro, fu accertata che lì e proprio lì era stato effettivamente sequestrato lo statista, alla domanda da chi avesse ricevuto l’informativa, Prodi se ne uscì con la più limpida delle sincerità: «nel corso di una seduta spiritica», rispose… E chiunque non poté e non può ancora oggi che convenire sulla sua adamantina vocazione alla verità… Tanto che, anni dopo, poté assurgere al ruolo di premier senza macchia e senza paura e, soprattutto, senza che a nessuno venisse più in mente di rifargli la domanda…

Ma a Berlusconi, no… A Berlusconi non è permesso dire bugie, neanche sul privato… Perché, di nuovo, pur volendo ammettere la discutibilità pubblica delle sue frequentazioni con minori, resta tutta da dimostrare che, qualunque siano gli esatti contorni di questa vicenda, essa abbia una qualsiasi attinenza con le sue funzioni di Capo del Governo… Che non è sicuramente il miglior governo auspicabile ma, proprio per questo, si meriterebbe una serrata opposizione sui contenuti politici. Che le parti a lui avverse non ne siano capaci, sembra dato certo. Ma se almeno si attenessero all’aureo detto di Ugo Foscolo: «L’Italia è un cadavere che non va più né tocco né smosso oramai, per non provocarne più tristo il fetore», le nostre narici, almeno le nostre narici, ne proverebbero sicuramente sollievo.

E chissenefrega con chi scopa Berlusconi… (mirorenzaglia)

lunedì 25 maggio 2009

Giustizia, a sinistra. Davide Giacalone

Due esponenti della sinistra hanno colto con precisione il nostro allarme, circa l’errore che l’opposizione sta, ancora una volta, commettendo. Due segnali importanti, ma ancora troppo poco. Paolo De Castro, ex ministro prodiano e capolista del Pd nel sud, per le elezioni europee, dice: “non posso certo mettermi a fare campagna elettorale sul caso Mills o su Noemi”. Nicola Latorre, senatore Pd, considerato dalemiano, vede bene la trappola: incalzare Berlusconi sulle faccende giudiziarie è un suicidio, conviene a lui, ma non a noi di sinistra. Giusto. Visto che ora dicono quel che noi scriviamo, cerchino di leggere quel che da tempo sosteniamo.
Il giustizialismo è non solo improduttivo, ma fascistoide. La sinistra che lo cavalca merita di essere spazzata via. Questo non significa, però, che non si debba parlare di giustizia. Non si parli dei singoli processi, neanche di quelli che D’Alema evita grazie all’immunità parlamentare europea, che, evidentemente, nel caso Unipol non è considerata scandalosa (difatti non lo è, mentre è scandaloso, anzi, furfantesco rimproverare altri che si giovano dell’immunità). Si parli, però, della giustizia che non funziona. La sinistra sfidi la maggioranza, affronti il governo sul terreno delle riforme, dica apertamente quello che tutte le persone intelligenti sanno alla perfezione: occorre smontare la corporazione e ridare senso al diritto, separare le carriere, rivedere l’obbligatorietà dell’azione penale, contingentare i tempi, scandagliare gli immani sprechi di denaro pubblico, semplificare il procedimento senza intaccare le garanzie, scoraggiare l’ostruzionismo giudiziario e punire la nullafacenza togata. Questo è il terreno della sinistra riformista.
Comporta la rottura con le meschinità del passato, con la doppia morale di chi plaude alle indagini ma suggerisce l’omertà ai propri uomini. Richiede la rottura con alleati che sono più vergognosi che scomodi. Presuppone il fare i conti con se stessi ed il passato recente. Ma offre un futuro e porta lo scontro sul piano delle idee e della coerenza, per poi denunciare l’inerzia del governo e le legislature passate invano.
De Castro, Latorre, Follini, dimostrano che a sinistra c’è chi ha capito. Ma leggete le parole dei capi che si sono scelti, e trovate il ritorno del sempre uguale.

venerdì 22 maggio 2009

Contributo al dibattito. Filippo Facci

Se scrivessi qualcosa a favore del Parlamento, simbolo della nostra democrazia, potrebbe sembrare una dichiarazione a favore di Fini e contro Berlusconi. Se scrivessi che 630 deputati però sono tantini, anche perché coi senatori fanno 945 parlamentari, qualcuno urlerebbe al fascismo e al bivacco di manipoli. Se scrivessi che la Gandus ha rinviato gli atti al Pm perché non ha provato l'origine dei soldi di Mills, com'è stravero, sarei un servo di Berlusconi. Se scrivessi che la Terra gira attorno al Sole, come lessi su un sussidiario scientista, l'onorevole Volontè direbbe che attacco la Chiesa. I giudici sicuramente faziosi che hanno condannato Mills, del resto, sono «estremisti di sinistra». Berlusconi non è neppure stato processato, mentre Mills è solo al primo grado, ma è «un corrotto». Difesi Beppino Englaro: cultura della morte. Raccontai che la stuprata di capodanno non fu stuprata: odi le donne. Difesi i romeni che non avevano stuprato: buonista, poverinista. Intanto Di Pietro, ieri, ha detto che Berlusconi governa un doppio Stato e che il governo contiene «i semi del razzismo, dell'antisemitismo, della xenofobia, del fascismo e del piduismo» e poi che «si comincia con la caccia al nero e si finisce con quella all'ebreo» e infine che hanno da proccuparsi «ebrei, omosessuali e diversi». Se questo è il clima, be’, scusate se mi adeguo: è un deficiente. (il Giornale)

giovedì 21 maggio 2009

Le nomine Rai ai tempi di Prodi. l'Occidentale

L'opposizione ha giudicato "irricevibili" le nomime Rai approvate dal Cda di Viale Mazzini, tanto che i consiglieri di minoranza hanno lasciato il consiglio per protesta. Viene contestato il ricorso a candidati "esterni" e soprattuto il fatto che le nomine siano state decise a "palazzo Grazioli". Leggi Berlusconi.
Sarebbe stato istruttivo se i consiglieri "aventinisti" e tutti i leader dell'opposizione che si sono pronunciati più o meno nello stesso modo, si fossero andati a rileggere qualche cronaca giornalistica del settembre 2006. Quando cioè a scegliere dirigenti e direttori era il governo Prodi.
In quell'occasione sulla poltronissima del Tg1 arrivò Gianni Riotta proveniente dal Corriere della Sera e prima ancora dal Manifesto e l'Espresso. Anche lui e quindi un "esterno" proprio come Augusto Minzolini. Ma dell'origine della nomina parlarono molto apertamente tutti i giornali e non solo quelli dell'opposizione.

Prendete Repubblica del 5 settembre 2006, dove un retroscena sulla lotta per le nomine raccontava: "La situazione si è complicata e la conferma implicita è arrivata proprio da Prodi, ieri durante il vertice di maggioranza sulla Finanziaria. «Mettere mano alla Rai è peggio che andare in Libano - ha ripetuto il premier - . Non c' è niente da fare». Riotta resta in pole position per la poltrona del Tg1, ma con molte complicazioni. Per Prodi le sue capacità non si discutono, ma nello staff del Professore non viene considerato vicino".

Riotta poi ce la fece, ma secondo Repubblica ebbe delle difficoltà perchè gli uomini di Prodi non lo consideravano abbastanza "vicino".

Non solo, Repubblica racconta ancora le frenetiche trattative condotte dalla maggioranza di allora: "sono in piena attività gli «ambasciatori» del centrosinistra, per la Margherita Renzo Lusetti, per i Ds Fabrizio Morri e per Prodi Angelo Rovati. Che si muovono sui nomi in lizza ma anche sugli equilibri politici. Perché la partita Rai coinvolge uomini, partiti ma anche il provvedimento sul conflitto d' interessi."

Non sappiamo in quali palazzi si incontrassero questi "ambasciatori", certamente non palazzo Grazioli, ma la sostanza non cambia di molto.

L'unica differenza che si nota leggendo i giornali del 2006 è nell'atteggiamento dell'opposizione. Viene infatti citata una frase di Berlusconi che disse: "Stimo Riotta e gli faccio tutti i miei auguri".

mercoledì 20 maggio 2009

Con Mills perdono tutti. Davide Giacalone

Comunque la si voglia girare, la vicenda legata alla condanna, in primo grado, dell’avvocato Mills è un segno d’imbarbarimento e decadimento ulteriore della nostra vita civile. Non era facile, ma ci siamo riusciti. Da qui in poi si faranno tutti del male e ciascuno prenderà per sé una parte rilevante di torti. Vale per la giustizia, per la sinistra e per il governo. Vediamoli uno ad uno.
Il fatto è noto: dovendo giustificare dei soldi incassati, e non volendoli spartire con i soci di studio, David Mills, avvocato inglese, affermò, nel 1997, di averli ricevuti da Berlusconi, ma non per una prestazione professionale, bensì per raccontare frottole ai magistrati italiani. Lo scopo sarebbe quello di nascondere i legami di Fininvest con società finanziarie off shore. Lo interrogano, nel 2004, e prima conferma tale versione, poi esce dalla procura di Milano e quasi sostiene d’essere stato torturato, smentendo. Nel 2006 arriva la richiesta di rinvio a giudizio. Nel 2009 Mills conferma di smentirsi, raccontando che quei soldi li ha ricevuti da altri. Il 17 febbraio i giudici milanesi lo condannano e ieri depositano le motivazioni. Ovvio che, se lui è un corrotto, Berlusconi è un corruttore. Salvo che, per i fatti relativi alla presunta corruzione, Berlusconi stesso fu prima condannato e poi assolto, in via definitiva.
La giustizia ne esce a pezzi. Sia per i tempi, ancora una volta incivili, talché occorrono cinque anni per arrivare ad una sentenza di primo grado, quando la civiltà della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ne reclama fra i quattro ed i sei, al massimo, per quella definitiva. Ne esce a pezzi anche per la solita, pessima consuetudine di trasformare le motivazioni in trattati politico-sociali, con prolisse considerazioni che finiscono con l’indicare come colpevoli anche quelli che si assolvono, o, addirittura, come in questo caso, anche quelli che neanche si processano. Mescolando i due problemi, tempi intollerabili e prosa colpevolista, si inquina pesantemente la vita pubblica e si lascia che tutti parlino di “sentenze” e colpevolezze, quando, invece, non solo il processo è ancora in corso, ma la probabilità che il giudizio sia riformato è, statisticamente, elevato.La sinistra va ancora fuorigioco. Ha cominciato a capire che il giustizialismo colpevolista non porta né voti né fortuna, ma ha praticato il vizio per talmente tanto tempo e con tale esasperata ripetitività che, adesso, sono i suoi stessi alleati a giovarsene. I voti, insomma, si sposteranno, ma dentro l’area dell’opposizione. Gli avversari lo sanno, quindi utilizzeranno la novità giudiziaria come un evergreen, capace di restituire l’ebbrezza degli esordi. Della serie: toghe rosse due, la risconfitta. Inoltre, è sciocco plaudire a che il presidente del Consiglio riferisca in Parlamento, perché quando sosterrà d’essere innocente non è che si potrà trasformare l’aula parlamentare in giudiziaria, quindi, dopo avere consegnato una tribuna importante al giustizialismo dipietresco, saranno costretti a dire che si attende la sentenza definitiva. E campa cavallo. Puerile chiedere: “si faccia processare”, perché l’unico verdetto che vale arriverebbe fra due legislature.
Neanche il governo ne esce bene. Intanto perché fummo facili profeti nel dire che la non processabilità delle alte cariche istituzionali (lodo Alfano) lungi dallo svelenire il clima si sarebbe prolungato per anni il dibattito pubblico sulle faccende giudiziarie, sicché, a seguito della prima condanna di Mills, il capo del governo non è al riparo, ma esposto. Poi, perché i mali della giustizia italiana sono così drammaticamente evidenti da rendere altrettanto visibile la responsabilità di chi non vi pone rimedio. Vale per la legislatura dal 2001 al 2006, passata invano, e vale per l’attuale. Fin qui.
Il nostro vivere civile sprofonda perché è necessariamente lordo un sistema in cui le sentenze vivono come annunci giornalistici, spessissimo smentite da altri giudici, e, conseguentemente, sono lette, dalle rispettive tifoserie, come alabarde con cui infilzare gli avversari. Nessuno ci crede, insomma, nessuno le prende sul serio, né chi fa finta di non sapere che un primo grado lascia intatta la presunzione d’innocenza, né chi le sfida come fossero mozioni del partito avverso. In un sistema funzionante non il condannato, ma direttamente il sospettato si dimette e si difende in tribunale. Se lo facesse, da noi, sarebbe l’unico pirla che crede nella giustizia, visto che la nostra storia è piena di scandalosissimi esempi d’innocenti che hanno subito la condanna al silenzio durante i lunghi ed incivili anni dell’inutile inquisizione.
Giratela come vi pare, dunque, ma questa è l’ennesima conferma di una vergogna nazionale.

martedì 19 maggio 2009

Le bufale della stampa estera. Gianni Pennacchi

Da sempre vanno a mangiare al Monserrato, da Pierluigi. Talvolta si spingono da Fortunato al Pantheon, e questo è il posto più vicino al Parlamento e a Palazzo Chigi che riescono a lambire, tagliolini è il pezzo più ricercato. Mai visti alle conferenze stampa governative, in tribuna giornalisti di Montecitorio ne intravedi qualcuno se sta cadendo il governo o abbiamo dichiarato guerra alla Serbia. Dopo cena, specie d’estate, dilagano sulle terrazze romane, tutte targate radical chic come i salotti invernali, frequentate da colleghi italiani sedicenti di sinistra e con spocchia vera sotto il naso, intellettuali in perenne ricerca d’ingaggio, onorevoli democrat di seconda fila. Hanno casa a Trastevere o a Campo de’ Fiori, chi torna in patria o è trasferito in altre capitali, lascia il prestigioso appartamento a chi lo sostituisce. Tutti si innamorano dell’Italia, di Roma e della Toscana in particolare. Molti trovano consorte qui, in quel mondo chiuso e riservato che fa la spola fra terrazze e trattorie in, finendo con l’accasarsi definitivamente. A quel punto, di rigore è il casale in Toscana o sul lago di Bracciano.

Quando lavorano? È un mistero, ma di certo non li incontri negli sbarchi clandestini, nei terremoti, nelle bombe, nei congressi di partito e negli eventi di cronaca reale. Non tutti beninteso, c’è qualche eccezione. E quelli delle tv, Bbc, Cnn, Antena 3, battono il marciapiede molto più dei corrispondenti di carta. Probabilmente lavorano da fermo, nelle loro postazioni che costano una miseria, nella bella sede allestita a spese del nostro Stato senza diritto alla reciprocità. Prima l’Associazione della Stampa Estera stava in via della Mercede, ora è in via dell’Umiltà, a due passi dalla direzione nazionale di Forza Italia. Ma anche lì, non s’affacciano mai.

Come nascono allora, questi bei servizi dall’Italia? Ripeto, ci sono anche meritevoli eccezioni. Ma i più dei corrispondenti, in tarda mattinata compulsano Repubblica e l’Unità dopo che la sera prima han scambiato quattro chiacchiere al ristorante o in terrazza coi soliti amici/colleghi italiani; si confrontano a pranzo con la/il consorte intellettuale più o meno frustrata/o e anch’essa/o sedicente sinistrese, poi vanno in via dell’Umiltà e partoriscono. Peggio dei corrispondenti italiani dall’America e dal resto del mondo, che almeno i giornali locali se li leggono tutti, da destra a sinistra. Ma il peggio del peggio è che se i giornali americani o francesi manco leggono quel che scrivono i nostri, quelli italiani sono affamati, s’ingozzano come oche di quel che scrivono i corrispondenti stranieri da Roma.
Sono circa 400 gli accreditati, e la maggioranza è professionalmente ineccepibile. Ma a dare il la è quel groppone di mischia che s’autoperpetua alimentando il serpentone più idiota che il mondo italiano dell’informazione abbia mai generato: i nostri giornali di sedicente sinistra scrivono, quelli ricopiano, i nostri li riprendono e rilanciano finalmente col marchio dell’autorevolezza.

Esagerazioni? Ma via, come si fa a scambiare nostro Signore col Cavaliere ed arrampicarsi sui vetri in questo modo? Anni fa, ai tempi di «affittopoli», per aver confuso i due Lubrano ambedue giornalisti Rai, su questo giornale che pur non è The Times, il sottoscritto ha dovuto presentare le dimissioni. Però è proprio Richard Owen che tempo fa, in un convegno a Spoleto ha raccontato che sì, «la politica italiana è importante, l’economia anche, ma quando la nostra redazione ha la lista di tutte le notizie drammatiche che provengono dal mondo, si chiama Roma con lo scopo di avere articoli che divertano i lettori. Grazie a Dio c’è sempre qualcosa di questo genere dall’Italia!». I fatti separati dalle opinioni, certo. Siamo sempre stati riempiti di paroloni sulla serietà e sulla sobrietà della stampa anglosassone, salvo poi scoprire che siamo tutti uguali, altro che. Andiamo avanti con la correttezza e la precisione di lor signori? Ancora si sorride di un noto corrispondente inglese che si presentò ad una conferenza stampa della Farnesina in bermuda e busta della spesa. Ma ricorderete Tana de Zulueta, che con le sue corrispondenze per l’Economist s’è guadagnata un seggio nel nostro Parlamento. Ora per The Guardian ha scritto che il solito Berlusca «padrone dei giornali», ha premiato Gianni Riotta per i buoni servigi resi al Tg1, facendolo direttore del Corriere della Sera. A parte che lo han fatto direttore del Sole 24 Ore, ma solo la Tana ancora non sa che l’unico gruppo dove il Cavaliere conta come il due di coppe quando regna bastoni, è proprio quello del Corrierone.

Ma che volete? Così va il mondo della stampa estera romana. Da sempre, da quando Marcelle Padovani (i accentata, perché francese), moglie di Bruno Trentin e corrispondente del Nouvel Observateur, impose la sua egemonia fissando regole, comportamenti, usi e costumi. Contro questa lobby, agli inizi del nuovo millennio ha scatenato guerra vittoriosa Eric Joszef, di Liberation: ma sempre beghe di sinistra, sono. Nel 2004 un’altra guerra per la guida della stampa estera, Joszef ha perso e se ne è andato sbattendo la porta, ha mollato anche l’associazione. Ha vinto Tobias Piller della Frankfurter Allgemeine Zeitung, più moderato. Ma le trattorie, le terrazze e gli amici romani, non son cambiati. Stessa strada, stessa osteria... (il Giornale)

venerdì 15 maggio 2009

Quello che dice Berlusconi. Lodovico Festa

“Se c’è una cosa che uno straniero fa fatica a capire dell’Italia è questa: il modo in cui Berlusconi può dire quello che vuole e nessuno si scandalizza” Dice Bill Emmott alla Repubblica (15 maggio) C’è anche il problemino che ognuno può dire quel che vuole di Berlusconi (che ha fatto la tv con i soldi della mafia, che ha ordinato le stragi di Falcone e Borsellino, e ora che avrebbe una figlia naturale e che forse sarebbe colluso con la camorra) senza mai arrivare a un fatto verificabile. E nessuno se ne scandalizza. Non va scordata la battuta di Salvemini sulla giustizia italiana (che un po’ vale anche per la Repubblica): se qualcuno mi accusasse di avere aver violentato la Madonnina del Duomo prima scapperei e poi penserei a una linea difensiva. (l'Occidentale)

La libertà di stampa? Vale solo per "Repubblica". Paolo Granzotto

«Nella mia vita ho conosciuto tante canaglie che non erano moraliste, ma non ho mai conosciuto un moralista che non fosse una canaglia». Chissà perché di questi giorni torna alla mente l'aforisma col quale Ernest Renan liquidò il tartufismo, il perbenismo ipocrita e sleale, ma è così. Bisogna ammettere che fa una certa impressione tutto questo porre la Questione Morale, con le maiuscole, questo accorrere in difesa di una moglie indispettita per la presenza di una mezza dozzina di ciarpanelle che ronzano attorno al coniuge. E più che mai desta impressione, mista a ilarità, bisogna ammetterlo, il levarsi a difesa della libertà di stampa minacciata dal rifiuto del premier di rispondere a una sfilza di domande su fatti privati, personali, che non si capisce in nome di quale delle infinite libertà a disposizione Repubblica vorrebbe mettere in piazza. Sfilza di domande che impavidamente la senatrice Magistrelli definisce - e da qui l'amenità - «ordinario articolo su notizie politiche ma anche di colore». Che sarebbe come chiamare ciance, innocenti pettegolezzi gli interrogatori di Torquemada. La libertà di stampa! Quando Silvio Sircana, il braccio destro di Romano Prodi, venne colto in ispezione sodomitica-transessuale per i viali di Roma, i paladini della libertà di stampa fecero il diavolo a quattro perché le foto che testimoniavano la randonnade non venissero pubblicate. E quando lo furono, altissimi si levarono i cori delle indignate proteste per l'uso indegno e infamante che si faceva della stampa: libera sì, ma non di infangare un probo cittadino, non di intromettersi nelle sue vicende intime. Questo per Sircana. Per Berlusconi, ma guarda tu, tutto il contrario.
Bontà sua, il vicepresidente dei senatori del Pd, Luigi Zanda, ha ammesso che «le vicende private di Berlusconi non debbono essere utilizzate politicamente». Aggiungendo che «l'opinione pubblica e le forze politiche hanno il dovere di occuparsi della trasparenza delle azioni personali del presidente del Consiglio». Lo facciano, diano pure di Vetril («brillantezza senza confronti»). Ma senza pretendere che l'interessato partecipi al gioco al massacro rispondendo a domande tendenziose, poste non per «fare chiarezza», ma per incastrarlo. E incastrarlo politicamente, perché sai cosa glie ne importa, agli inquisitori, della signora Veronica. Soprattutto, lo facciano senza seguitare a menarla con la libertà di stampa minacciata se l'interessato rifiuta di contribuire alla «strategia mediatica diffamatoria tesa a strumentalizzare vicende esclusivamente private a fini di lotta politica». Parole, queste, di Berlusconi che l'eterna candidata (a tutto) Anna Finocchiaro interpreta come «volontà di abolire il diritto di critica da parte dell'opinione pubblica». E qui, inevitabilmente, l'ilarità torna a far aggio sullo sconcerto.
Noi del Giornale di libertà di stampa ce ne intendiamo. Quando uscimmo, chi si faceva vedere col nostro quotidiano in tasca rischiava una randellata, se gli andava bene. Le maestranze della Same, dove allora si stampava il Giornale, ci piantavano uno sciopero un giorno sì e uno no. Molti edicolanti non lo esponevano o, peggio ancora, dicevano, a chi ne faceva richiesta, di non averlo ricevuto. E mai che uno dei campioni della libertà di stampa ci avesse, come minimo, mostrato solidarietà. Dov'erano gli Zanda, le Finocchiaro, gli Ezio Mauro e tutti i sepolcri imbiancati che ora si fanno venire le convulsioni, parlano di «punto di non ritorno per la democrazia» solo perché le domande della Repubblica rimarranno senza seguito? Son due mesi che noi facciamo domande a Di Pietro senza averne risposta. Qualcuno della Casta lo ha mai accusato di calpestare per questo la libertà di stampa e di mettere la democrazia a rischio. Perché altro che comunicati, ci bombarda di querele, che è il suo modo sincero e democratico per difenderla, la libertà di stampa e di opinione. (il Giornale)

giovedì 14 maggio 2009

Rep. contro il premier: ha festeggiato abusivamente un compleanno! Lodovico Festa

"Quando e come Berlusconi ha conosciuto il padre di Noemi Letizia, Elio?" Dice Giuseppe D’Avanzo sulla Repubblica (14 maggio) La requisitoria del procuratore aggiunto D’Avanzo è spietata. Non si capisce, però, di quale reato si stia parlando: party improprio? Festeggiamento abusivo di compleanno? (l'Occidentale)

La sinistra degli snob. Luca Ricolfi

Respingimento. Su questa parola altamente evocativa gli animi si stanno dividendo. Da una parte il ministro dell’Interno Maroni e la Lega, orgogliosi che l’Italia sia riuscita - per la prima volta - a impedire a diverse imbarcazioni cariche di migranti di raggiungere illegalmente le nostre coste. Dall’altra la Chiesa, le organizzazioni umanitarie e ieri anche il Consiglio d’Europa.

Preoccupati che fra i migranti vi possano essere persone che, una volta sbarcate in Italia, avrebbero chiesto e ottenuto asilo politico. In mezzo, su posizioni leggermente meno estreme, si collocano i nostri due maggiori partiti, il Popolo della libertà e il Partito democratico, il primo tentato di inseguire la Lega (nonostante i distinguo di Fini), il secondo tentato di inseguire la Chiesa (nonostante i distinguo di Fassino).

Che i partiti di governo, nonostante qualche timido mugugno, plaudano all’azione del ministro dell’Interno è del tutto naturale. La sicurezza è uno dei punti chiave del programma del centro-destra, e sarebbe strano che il «respingimento» dei barconi nei porti di partenza non fosse salutato con un sospiro di sollievo. Quel che a me pare invece meno scontato è l’accanimento con cui il Pd e il suo neosegretario da tempo combattono qualsiasi idea venga partorita dal ministro Maroni. Non solo non mi pare né ovvio né normale, ma mi pare estremamente interessante, per non dire rivelatorio. L’ostinazione con cui la sinistra respinge al mittente qualsiasi proposta concreta in materia di sicurezza, senza essere minimamente sfiorata dal dubbio di aver torto, ci fornisce una preziosa radiografia dei suoi mali.

L’astrattezza, prima di tutto. Astrattezza vuol dire non voler vedere la dimensione pratica, concreta, materiale di un problema. Se non fossero ammalati di astrattezza i dirigenti del Pd capirebbero che il problema dell’Italia è che attira criminalità e manodopera clandestina più degli altri Paesi perché non è in grado di far rispettare le sue leggi, e che l’unico modo di scoraggiare l’immigrazione irregolare è di convincere chi desidera entrare in Italia che può farlo solo attraverso le vie legali. A questo serve il «respingimento», ma a questo serviva anche la norma che prolunga da 2 a 6 mesi la permanenza nei centri di raccolta degli immigrati (i vecchi Cpt, ora ridenominati Cie), una norma necessaria ma ottusamente combattuta dall’opposizione. Senza il respingimento (in mare) i trafficanti di immigrati continuerebbero a scaricarli sulle nostre coste, senza il prolungamento dei tempi di permanenza (nei Cie) l’identificazione sarebbe perlopiù impossibile, e continuerebbe la prassi attuale, per cui il clandestino viene trattenuto qualche settimana e poi rimesso in circolazione senza possibilità di riaccompagnarlo in patria. Io capisco che si possano avere seri dubbi sulle cosiddette ronde, o sui medici-spia (denuncia dei malati clandestini) o sui presidi-spia (denuncia dei genitori clandestini di bambini accolti nelle nostre scuole), e io stesso ne ho molti. Ma non capisco il rifiuto pregiudiziale di provvedimenti di puro buon senso, la cui unica funzione è di ristabilire quello che tutti i governi degli ultimi vent’anni avevano sbriciolato, ossia un minimo di deterrenza. Tra l’altro questo è uno dei pochi punti fermi degli studi sulla lotta al crimine: minacciare pene più severe serve pochissimo, quel che serve è rendere credibile la minaccia.

Ma non c’è solo astrattezza, c’è anche molta presunzione, per non dire molto snobismo. Lo sa il segretario del Pd che la maggior parte degli italiani approva l’azione del ministro Maroni?

Sì, probabilmente lo sa, ma si racconta la solita fiaba autoconsolatoria. Gli italiani non sono quelli di una volta, Berlusconi li ha rovinati, la Lega li ha incattiviti, noi politici illuminati non possiamo farci guidare dai sondaggi, noi dobbiamo riforgiare le coscienze, corrotte e intorpidite da vent’anni di berlusconismo. E’ la solita storia: «alla sinistra non piacciono gli italiani», come scrisse fulmineamente Giovanni Belardelli quindici anni fa, allorché la «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto, sconfitta e umiliata, non si capacitava che un rozzo imprenditore lombardo avesse potuto sconfiggere una classe politica colta e raffinata qual era quella del vecchio Pci.

E qui si arriva all’ultimo e più grave male della sinistra, la sua distanza dai problemi delle persone normali, specie se di modeste origini o di modesta cultura. Quando si parla di criminalità, di sicurezza, di immigrazione clandestina, nella gente c’è certamente anche molto cattivismo gratuito, molta insofferenza, molta intolleranza. Ma una forza politica dovrebbe sapere che i cattivi sentimenti non vengono dal nulla, e quelli buoni hanno talora origini imbarazzanti. L’insofferenza verso gli immigrati è più forte nei ceti popolari perché è nei quartieri degradati che la sicurezza è un problema grave; ed è innanzitutto per chi non ha grandi risorse economiche che la concorrenza degli stranieri per il posto di lavoro e per servizi pubblici può diventare un problema serio. L’apertura verso gli stranieri, il sentimento di solidarietà, l’attitudine a tutti accogliere albergano invece in quelli che lo storico inglese Paul Ginsborg ha battezzato i «ceti medi riflessivi», e raggiungono l’apice fra gli intellettuali, dove - soddisfatti i bisogni primari - ci si può dedicare all’arredamento della propria anima: chi ha un lavoro gratificante e un buon reddito, chi può permettersi di vivere nei quartieri migliori di una città, chi non deve combattere per un posto all’asilo o per una prenotazione in ospedale, può coltivare più facilmente un sentimento di apertura.

Insomma, l’insofferenza degli uni è spesso frutto dell’emarginazione, il solidarismo degli altri è spesso frutto del privilegio. Possibile che la sinistra, che pure continua a dire di voler rappresentare gli umili, non riesca a rendersi conto del paradosso? Ma forse in questi giorni assistiamo anche, lentamente, quasi impercettibilmente, a uno smottamento. Nel Pd qualche timida voce di concretezza e di pragmatismo si è pur fatta sentire: prima Fassino, poi Parisi, poi Rutelli. Speriamo che non siano rapidamente sopraffatti dalla forza del passato, dai tanti luoghi comuni che essi stessi hanno alimentato e che ora frenano il cambiamento. (la Stampa)

mercoledì 13 maggio 2009

Le colpe dell'Onu. Davide Giacalone

L’Onu ha grandi responsabilità, o, quanto meno, è colmo d’incapaci che aiutano il mercato degli schiavi ad essere fiorente. Visto che, al commissariato che si occupa dei rifugiati (Unhcr), non riescono a star zitti, è utile rinfrescare loro la memoria. E dato che non sono in grado, diciamogli anche che cosa dovrebbero fare. Il lettore scusi la pedanteria, ma questi ciarlieri e strapagati perditempo hanno stufato.
Cosa sia un “rifugiato” è stabilito dal primo articolo della convenzione relativa, firmata a Ginevra nel 1951. Può chiedere rifugio chi scappa da persecuzioni che abbiano ad oggetto la fede religiosa, la razza, la cittadinanza, l’appartenenza ad un determinato gruppo sociale o le opinioni politiche. Dato che non è ragionevole scappare da un Paese che l’Onu considera affidabile, sotto il profilo dei diritti umani e dell’assistenza ai rifugiati stessi, il punto E del sesto comma chiarisce: “La presente Convenzione non è applicabile alle persone che secondo il parere delle autorità competenti del loro Stato di domicilio hanno tutti i diritti e gli obblighi di cittadini di detto Stato”. E, per evitare equivoci, poco dopo stabilisce che non è applicabile nemmeno alle persone che “hanno commesso un crimine grave di diritto comune fuori dal paese ospitante prima di essere ammesse come rifugiati”.
E veniamo alle cose pratiche: noi italiani saremmo degli incivili perché riaccompagniamo in Libia, dopo averli soccorsi, i barconi di migranti, fra i quali potrebbero esserci dei presunti rifugiati. Questa è la tesi dell’ex presidente dell’internazionale socialista, oggi a capo dell’Unhcr. La Libia, ci dice questo signore, non ha firmato la convenzione di Ginevra (grazie, lo abbiamo scritto noi per primi). Ebbene, abbia la cortesia di prendere una cartina geografica. Difficile credere che i migranti arrivino in Libia via mare, visto che da lì salpano per venire da noi. Arrivano via terra. Quello che segue è l’elenco dei Paesi confinanti, e quella fra parentesi è la data, per ciascuno, dell’entrata in vigore della convenzione: Algeria (16 agosto 1992); Ciad (17 novembre 1981); Egitto (20 agosto 1981); Nigeria (21 gennaio 1968); Sudan (23 maggio 1974); e Tunisia (20 maggio 1956). Detto in modo diverso: ammesso e non concesso che il Paese di partenza non abbia aderito alla convenzione, per arrivare in Libia questa gente è, per forza, passata da un altro Paese, dove la convenzione è vigente. Perché non hanno chiesto lì, di essere rifugiati? Avrebbero fatto meno strada e corso meno pericoli.
L’Onu, anziché dedicarsi alla propaganda politica ed all’elaborazione di stupidaggini, potrebbe rendersi utile, perché visto che dall’Africa arrivano in tanti, sperando d’essere assistiti e rifugiati, la cosa più sensata è prenderli nel primo Paese convenzionato, anziché sottoporli al taglieggiamento dei criminali ed al rischio d’annegare. Quindi, scollino le chiappe dal lussuoso palazzo ginevrino, ed anziché regatare sul lago Lemanno si barcamenino in loco, rendendosi utili. Aprano dei begli uffici, o li rendano operativi, in uno od in tutti i Paesi elencati sopra, registrino le richieste, ne valutino la fondatezza ed assegnino delle destinazioni. Noi italiani prendiamo quelli che ci spettano, gli altri si rifugiano altrove.
Che fanno, invece, questi burocrati mondiali? Ci dicono: no, prima ve li prendete e poi esaminiamo. Naturale, a quel punto, che vengano tutti da noi, anche perché in Germania, in Francia, in Gran Bretagna ed in Grecia (per citare alcuni) l’immigrazione clandestina è un reato, mentre in Spagna no, ma provvedono sparando alle frontiere. Noi, invece, li soccorriamo, li facciamo sbarcare, e poi ci mettiamo mesi per capire chi sono, da dove veramente vengono e se hanno diritto all’asilo. I rifugiandi li mettiamo in albergo, come capita al Cara (centro assistenza richiedenti asilo) di Arcinazzo, vicino Frosinone, gestito dall’arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone, dove la località turistica li fa villeggiare e li cura, a spese della collettività. Il sindaco dice anche che è un affare, visto che ci lavorano una quarantina di persone, mentre il proprietario dell’albergo non crede alle sue tasche, così trasformando un’economia sana in economia assistita, con la scusa dell’assistenza. Un capolavoro. In Svizzera, dove gli straparlanti commissari alloggiano, una roba simile non la permettono neanche se gli dichiari guerra.La solare evidenza è un’altra: quei disperati sui barconi non sono perseguitati, sono morti di fame che, legittimamente, cercano una vita migliore. Solo che l’ignavia dell’Onu li consegna ai mercanti d’esseri umani e l’arroganza dell’Unhcr pretende di rifilarceli tutti perché siamo i più vicini via mare, i più esposti e quelli che non considerano reato la clandestinità. C’è un limite, e questi signori lo hanno superato.

martedì 12 maggio 2009

I rifugiati in cucina. Filippo Facci

Mi chiedo se agli occhi di uno straccione morto di fame del Ghana, semisvenuto dopo sei giorni passati a stritolarsi su un barcone stipato come San Siro, la nostra distinzione tra immigrazione clandestina e diritto d’asilo non debba sembrare solo una delle astruse fighetterie occidentali di cui siamo capaci noi che abbiamo lo stomaco pieno.
La questione è serissima, non devo neanche dirlo, ma a considerare quei bastardi degli scafisti come dei potenziali Schindler io faccio una fatica d’inferno. Il che è niente rispetto allo sforzo deliziosamente occidentale di dover poi discernere tra diritto d’asilo, rifugiati, asilo politico, rifugiati politici e profughi, discutendo poi se dobbiamo rifarci alla Convenzione Onu del ’51, a quella di Addis Abeba del ’69, alla Dichiarazione di Cartagena dell’84, alla Convenzione di Roma del ’50 o a quella di Dublino del ’97. Questo mentre l’unica distinzione che pareva chiara, quella tra chi fugge per delitti politici e chi scappa per delitti comuni, non l’ha ancora capita nemmeno il Brasile che se la mena trattenendo l’assassino Cesare Battisti. C’è qualcosa di culturalmente razzista nell’immaginarsi una cernita come la seguente: i rifugiati si mettano di qua, i rifugiati politici di là, i profughi in lista d’attesa, quelli che hanno solo fame sorry, sono clandestini normali. A casa. (il Giornale)

lunedì 11 maggio 2009

Perché Obama può scherzare e il Cav. no? l'Occidentale

White House, la serata è di quelle importanti, l’appuntamento probabilmente più mondano e conteso della capitale americana. Il presidente degli Stati Uniti organizza un galà per l’associazione dei giornalisti che coprono la presidenza. Impossibile mancare. E infatti, c’erano proprio tutti. C’erano Robert De Niro e George Lucas, Demi Moore col giovane compagno Ashton Kutcher, Glenn Close e Ben Affleck, Sting e Steven Spielberg, Forest Whitaker, Tom Cruise e Katie Holmes...

Obama è in formissima, lancia battute a raffica. Non risparmia nessuno: repubblicani e democratici, uomini e donne, mogli e non. E, in perfetto stile, non risparmia neppure se stesso. Chi c’era racconta che l’ironia è caustica, a tratti contundente. Tutta un’altra storia dall’era Bush. Anche la nostra Donatella Versace è al settimo cielo: “Che le cose fossero cambiate l’ho capito appena entrata. Mai visto tanti giovani. Venticinquenni, trentenni: ne sono rimasta felicemente sconvolta. C’era un atteggiamento più cordiale e rilassato. Ci siamo divertiti e abbiamo riso sino alle lacrime. Il presidente è stato incredibile e ironico e magico”. E giù gag a non finire.

Una delle battute migliori? Quella dedicata a Hillary: "Siamo stati rivali, ma oggi non potremmo essere più vicini: appena è tornata dal Messico, mi ha subito abbracciato suggerendomi di andarci", dice il presidente, alludendo al rischio di contagio da febbre suina. E ancora, rivolto a John Boehner, leader repubblicano al Congresso e patito della lampada: “Abbiamo molto in comune: anche lui è una persona di colore, ma quello suo non mi sembra naturale”. Neppure Michelle, come scrive il Corriere “vera star della serata in fucsia e a braccia scoperte”, sfugge alle battute del marito: "Sta cercando di rimarginare le divisioni della nazione, compreso the right to bare arms", che può significare sia il diritto alle braccia nude, ma anche il diritto a portare armi, tema controverso della vita pubblica americana.

Chissà perché quando Berlusconi racconta barzellette, fa battute a destra e a manca, invita i giovani a partecipare numerosi alle sue iniziative e gioca con i suoi omologhi di altri paesi è grottesco, patetico e volgare e quando lo fa Obama è incredibile, ironico e magico. E non osiamo neanche immaginare cosa sarebbe accaduto al povero Cav. se lo stesso apprezzamento fatto da Obama alla moglie Michelle l’avesse fatto lui a Veronica. Ma si sa, paese che vai Presidente (e stampa) che trovi.

Quelle lezioni dei moralisti (senza morale). Mario Giordano

L’altro giorno, di buon mattino, mi è arrivato un sms di Giovanni Floris. Non gli era piaciuto un nostro articolo che metteva in fila le trasmissioni Tv dedicate, in una settimana, al divorzio di Berlusconi (l’Infedele di Lerner, Annozero di Santoro e, appunto, il suo Ballarò). Legittimamente rivendicava di aver avuto un atteggiamento diverso dagli altri. E per dirmelo, cominciava così: «Se aveste avuto un approccio serio...». Capito? Il solito sistema della sinistra che si sente moralmente e culturalmente superiore: non accettano una discussione alla pari. Se sei in disaccordo con loro, evidentemente, usi un approccio non serio. Sei un superficiale. Un venduto. Un mentecatto. Non si accontentano di difendere le loro ragioni: si sentono, ogni volta, in dovere di darti una lezione di etica. Magari intimandoti pure di fare l’esame di coscienza, come mi ha ordinato Gad Lerner nella lettera di qualche giorno fa. Proprio così: l’esame di coscienza. Manco fosse il mio confessore.
L’sms di Floris e la lettera di Lerner mi sono tornati in mente ieri leggendo l’editoriale domenical-liturgico di Eugenio Scalfari su Repubblica e ascoltando in Tv il nuovo leggenDario exploit di Franceschini. E ho pensato: possibile che siamo sempre allo stesso punto? La sinistra non riesce a togliersi di dosso quel vestito mentale che la porta a ritenersi migliore, sempre e comunque, di tutti gli altri. È quell’atteggiamento per cui se il Paese non li vota, evidentemente sbaglia il Paese. È quell’atteggiamento per cui non può esistere un avversario politico, perché chi sta contro di loro diventa immediatamente o un servo o un pericolo per la democrazia. È quel senso di superiorità che li ha trasformati nel simbolo dell’antipatia, come raccontava Luca Ricolfi in un fortunato saggio. Lo sanno che è un errore, lo sanno che è pericoloso. Eppure, niente da fare: non riescono a liberarsene. E così, mentre il mondo cambia, noi ci troviamo davanti sempre la stessa sinistra: quella del «senti chi parla», pronta ogni volta a salire sul pulpito per predicare bene, dimenticando che in sagrestia ha appena finito di razzolare assai male.
È la sinistra di Marco Travaglio, che fa il giustiziere delle frequentazioni altrui e poi passa le vacanze con i favoreggiatori dei mafiosi. È la sinistra di Concita De Gregorio, che s’indigna per l’uso del corpo femminile dopo aver usato un fondoschiena per far pubblicità alla sua Unità (il fondoschiena non è corpo? O con la minigonna si gode di un lasciapassare speciale?). È la sinistra di Monica Guerritore, che interpreta tragicamente la donna tradita e anti-gossip dimenticando, da Gianni Agnelli a Roberto Zaccaria, una vita passata a sguazzare nei tradimenti e nei gossip. È la sinistra di Emma Bonino, che scordando di aver trascorso la sua esistenza a difendere sesso, droga e ogni eccesso, s’improvvisa sacerdotessa del Grande Ordine Bacchettone. La Bonino Bacchettona: ma vi pare? È come dire che Lucio Dalla si mettesse a scrivere un libro intitolato: «Noi, glabri...».
Ma li avete sentiti? Tutti così moralisti, eppure tutti così giù di morale. Hanno un coraggio da leoni. La faccia come il cucù. Capaci di accusare Berlusconi di portare le veline in Parlamento, senza ricordare che loro, in Parlamento, hanno portato Cicciolina. C’è una giovane e bella come la Madia candidata a sinistra? È il rinnovamento. E se la candida il centrodestra? È la mignottocrazia. Ma mi fate capire perché? Eppure è una settimana che ci danno lezioni di morale. Fanno i maestri di etica. E s’indignano, come Santoro, evidentemente preoccupato del fatto che le giovani donne candidate dal Pdl possano essere pessime europarlamentari. Si capisce, no? Una che è bella dev’essere per forza stupida. E sfaticata. E lui, allora? Sono andato a rivedere il bilancio della sua esperienza a Strasburgo: in diciotto mesi ha totalizzato due interventi in aula, due interrogazioni scritte, nessuna interrogazione orale, nessuna relazione al Parlamento e solo una proposta di risoluzione. Non è un po’ poco? Barbara Matera, seppur assai più graziosa di lui, secondo me saprà fare meglio. Ci vuol così poco.
Fra l’altro don Michele, quand’era europarlamentare, poteva disporre di tre assistenti personali: due interrogazioni scritte, tre assistenti personali. Non è un po’ troppo? Considerando i 144mila euro di stipendio, rimborsi e benefit, che avrebbe detto Santoro di Annozero di Santoro europarlamentare? Come l’avrebbe infilzato? Altro che casta. E casto. Quando finì il suo mandato, rientrò in Tv con una trasmissione sul degrado di Napoli. E il sindaco Iervolino mi riuscì per la prima volta simpatica perché lo stroncò in modo feroce: «Sono sinceramente sdegnata che un ex parlamentare europeo, eletto a Napoli ma che dopo la sua elezione non si è fatto più vedere e non ha fatto nulla per la nostra città, non sappia fare altro che denigrarla». Avete inteso? Prendi i voti e scappa: Santoro a Napoli non si è mai fatto vedere. Si capisce, gli elettori sono guappi. Non vestono Armani, non sono chic. Magari, non sia mai, organizzano pure delle feste dalle parti di Casoria...
Adesso il nuovo idolo della sinistra moralmente chic è la principessina Beatrice Borromeo. E così dobbiamo sorbirci le lezioncine di etica e di buon giornalismo persino da lei, la fidanzatina di Pierre Casiraghi, che come è noto è arrivata alla Tv soltanto grazie alla sua oscura gavetta e ai meriti conquistati sul campo... Ma ci faccia il piacere. Del resto, però, come stupirsi? La Borromeo che scende dalla copertina di Chi e sale in cattedra contro il gossip, s’inserisce perfettamente nella storia culturale della sinistra moralista: è Vincenzo Visco che diventa fustigatore dei costumi dopo essere stato condannato per abuso edilizio; è Padoa-Schioppa che predica il rigore economico incassando un vitalizio di 11mila euro al mese (per appena 24 mesi di contributi versati); è l’avvocato Guido Rossi che scrive saggi contro l’avidità di denaro («radice di tutti i mali») dopo aver incassato 23 miliardi di vecchie lire con una sola parcella; è Adriano Celentano che va in Tv a dire che i palazzi di ringhiera sono molto belli, tacendo sul fatto che lui vive in una megavilla sul lago. Ed è Eugenio Scalfari, naturalmente, che ieri nel suo fondo domenicale, dopo aver dato del «figurante» al direttore del Corriere De Bortoli, del «servitore» all’onorevole Ghedini e degli «yes men» al resto del mondo, sostiene che in fondo Berlusconi è assai peggio di Mussolini, dal momento che quest’ultimo «non ha mai fatto ministro la Petacci». Perfetto, no? Uno che nel 1942 esaltava su «Roma fascista» il nazionalismo di Mussolini e nel 1972 si schierava con l’Urss, celebrando la superiorità del collettivismo sulle società liberali, è quello che ci vuole, no, per dare a tutti noi una bella lezione di democrazia...
Vedete? Passano i tempi, tutto cambia, le vedove Calabresi e Pinelli s’abbracciano, le pagine di storia si chiudono. Ma c’è una cosa da cui la sinistra non riesce a liberarsi: il complesso dei migliori. Che poi diventa devastante, soprattutto per il fatto che migliori non sono. Ma questo loro sentimento è un problema: come si fa a discutere, se all’inizio della discussione loro stabiliscono che chi non è d’accordo è poco serio? O servo? O un pericolo per la democrazia? Come farà questo Paese a diventare un Paese normale se la sinistra non butta a mare questo fardello di presunzione intellettuale, questo vizio di salire sul pulpito e dividere a suo piacimento che cos’è il bene e che cos’è il male? Come si fa? Mentre m’interrogavo su questi temi, ieri, mi è capitato fra le mani un bell’articolo di Luca Josi sul Riformista, che mi ha ricordato che questa abitudine del predicare bene e razzolare male, forse, è davvero inestirpabile. In effetti essa è congenita con la sinistra. Sta nelle sue radici. Nella sua origine. In origine, infatti, c’era Marx. E voi sapete che Marx, simbolo dei lavoratori che non lavorò mai un giorno, difendeva le ragioni del proletariato ma si faceva mantenere dalla moglie aristocratica, godendone tutti i privilegi di tipo feudale. Un giorno gli recapitarono in omaggio una domestica. E lui, campione della lotta contro lo sfruttamento, lui che chiamava tutti a liberarsi dall’oppressione, che cosa fece? Si prese la domestica a servizio. La umiliò. E alla prima distrazione della moglie, la mise pure incinta. Poi chiese a Engels di mantenerla e di far finta, davanti a tutti, di essere lui il papà. (il Giornale)

venerdì 8 maggio 2009

Onu, rifugio per straparlanti. Davide Giacalone

L’Onu, in un sol colpo, riesce a schierarsi dalla parte dei mercanti d’esseri umani, difendendone l’infame commercio, a favorire lo sfruttamento della miseria ed intromettersi nella politica di sicurezza di un Paese democratico, supponendo, assai a sproposito, di potere dare lezioni. Sono bastate poche parole per chiarire al mondo quanto sia negativo abbandonare le Nazioni Unite ad un folto manipolo di burocrati, fra i quali s’annidano non pochi politici giubilati. Al palazzo di vetro si sono spartiti tutto, anche il cimitero degli elefanti.
E’ capitato, per la prima volta, che dei barconi di disperati siano stati trattati come sempre si dovrebbe: intercettati in mare, soccorsi, aiutati e riportati esattamente da dove erano partiti, sulle coste libiche. Questo non perché noi italiani si sia contrari ad accogliere immigrati, ma perché, come ogni Paese civile del mondo, non crediamo che la cosa possa avvenire in modo illegale. L’operazione è positiva, perché se si facesse sempre così non si bloccherebbero i flussi migratori regolari, ma si toglierebbe spazio agli schiavisti, a quei criminali che ricattano dei disperati portandoli, come bestie, nel nostro Paese (quando non li gettano in mare), separandoli dalle loro famiglie, per poi utilizzarle come ostaggi: o ci dai i soldi che ci devi, e non c’importa se per procurarteli dovrai delinquere, oppure capiterà loro del male. Se i barconi potessero essere fermati tutti, gli sconfitti non sarebbero quanti vogliono venire qui a lavorare, ma quelli che lucrano sulla clandestinità.
Rispetto ai Paesi che, alla frontiera, sparano sui clandestini, abbiamo dimostrato più umanità e più diplomazia. Aspettavamo il plauso, è arrivata la reprimenda. Tal Antonio Manuel de Oliveira Guterres che, quale alto (si fa per dire) commissario, dirige il reparto Onu per i rifugiati (Unhcr), ha perso la sua occasione per tacere. A dir suo, infatti, l’operazione è da condannarsi giacché fra quei migranti clandestini poteva trovarsi qualche “rifugiato”, che avevamo il dovere di accogliere. Il “rifugiato”, secondo la convenzione internazionale del 1951, è colui il quale è costretto a fuggire dal proprio Paese perché in pericolo, creato da discriminazioni per ragioni di razza, religione od opinione. Oppure è colui che si trova in pericolo all’estero, per le medesime ragioni, e chiede d’essere rimpatriato. Si da il caso, però, che su quei gusci non erano imbarcati cittadini libici e, pertanto, chi si fosse trovato in quelle condizioni avrebbe potuto farlo presente anche dalla Libia. La quale, è vero, non ha firmato la convenzione, ma non ha alcuna voglia né interesse a tenersi rifugiati altrui.Se, invece, porto tutti i clandestini sul nostro territorio nazionale e, poi, domando chi di loro intende “rifugiarsi” mi rispondono tutti in coro. Salvo accertare che è rarissimo ne ricorrano le condizioni. Quindi il commissario portoghese ha detto la stupidaggine della giornata, confondendo clandestini con perseguitati. Ha anche aggiunto, però, che sia lui che l’Onu sono molto preoccupati per l’atteggiamento e la politica del governo italiano, dipinti come ostili all’umanità. Ed è a questo punto che ci si domanda: ma chi è, ‘sto Oliveira Guterres? Risposta: l’ex primo ministro portoghese, nonché ex presidente dell’internazionale socialista. Un politico che continua a far politica, collocato dove si trova per toglierlo da dove si trovava.
L’Onu ha due possibilità: liberarsene o continuare a perdere credibilità, attaccando chi agisce nella legittimità ed ospitando i carnefici i cui cittadini vorrebbero rifugiarsi all’estero.

giovedì 7 maggio 2009

La colpa di Berlusconi per i maestrini di sinistra: non è snob come loro. Maria Giovanna Maglie

Nella serata televisiva che forse segnerà il suo maggior successo di pubblico e, obtorto collo, perfino di critica, Silvio Berlusconi a un certo punto ha raccontato di essere arrivato a Napoli un po’ in anticipo per una riunione politica che aveva in serata. «Quando il padre di Noemi mi ha detto che loro erano riuniti per festeggiare la ragazza e che il ristorante era a soli tre minuti dall’aeroporto di Capodichino, io ho verificato e avendo un’ora di tempo sono andato lì», ha continuato il premier, spiegando di essere arrivato con otto auto, tra polizia e scorta: «Sono entrato e subito sono partiti degli applausi. Di fronte a tutta quella gente non ho potuto non fare campagna elettorale e quindi ho iniziato a fare foto con tutti, dai familiari ai gestori del ristorante. Ma io mi chiedo come sia possibile pensare che se fosse stato un incontro piccante ci sarebbero state tutte quelle foto, e soprattutto io sono andato in un posto dove c’erano familiari, amici e i genitori». Interviene allora da Milano Ferruccio de Bortoli, che da neo per la seconda o terza volta direttore del Corriere, si sente intitolato a esprimere le palpitazioni e i turbamenti stiffy dell’alta borghesia lombarda, e fa notare che un capo del governo non dovrebbe andare a feste di nozze e compleanni, insomma che dovrebbe evitare il contatto con il popolino. La risposta è semplice: «Se non andassi ai matrimoni, rinuncerei a essere me stesso. Io parlo con i camerieri, i tassisti, i commessi. Ho un grandissimo rispetto per le persone umili». È così, piaccia o no, Dio sa quanto gli fa torcere le budella, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, delle élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso all’approcciarsi del cittadino comune. Quello di Silvio Berlusconi è per loro un modo insultante di esistere, di avere successo e di fare il leader, e avranno anche le loro ragioni, ma è il modo che convince, piace, ispira fiducia a un’ingombrante maggioranza di elettori italiani. Siamo un paese pop, votato a volgarità e ostentazione di immagine? Può darsi, ma il moralismo della scuola steineriana appartiene ancora una volta a pochi, e la pratica sacrosanta di opposizione politica non può nutrirsi di questi predicozzi, né tantomeno di presunte superiorità morali residue, invece di individuare un terreno serio di durissima palestra. Dario Franceschini, leader del partito che non c’è, ed è un vero peccato che un partito democratico non ci sia, è ridicolo quando dichiara che Berlusconi è alla frutta. Berlusconi dice il vero quando, come martedì sera a Porta a porta, replica che «la sinistra e la sua stampa non riescono ad accettare la mia popolarità che è al 75 per cento. Fanno solo attacchi personali fondati su calunnie». Dare del pop, del populista, del peronista, a un personaggio come il premier è patetico anche perché mai l’uomo si è presentato come diverso da sé e dalla propria natura. Il suo modo di essere può incantare o farlo detestare, ma è lineare e coerente. Il fastidio o l’apprezzamento spesso dipendono dalla libertà di pensiero e dal pregiudizio. Non a caso una delle cose più snob e fesse le ha scritte su un giornale amico, Il Foglio, Stefano Di Michele, certo la persona sbagliata per la bisogna: «Berlusconi ha tutto a favore, tranne se stesso. Si possono avere i miliardi, il potere - e persino i capelli - e mancare lo stesso di misura, di senso dell’opportunità, di gusto». E Veronica? «Veronica (detta “la signora” dal consorte: che finezza!) ha fatto bene due anni fa e ha fatto benissimo adesso». Diversa l’analisi di Peppino Caldarola, uomo di sinistra, che sul Giornale ha scritto di recente: «L’immediatezza e la forza del messaggio sono, se così posso dire, una forma di democrazia. Poi la stampa controllerà, l’opposizione farà il suo lavoro, gli elettori valuteranno, ma afferrare il problema dal lato suo più complicato è una modernizzazione rilevante dell’agire politico. Si procede “per acta” e non per parole d’occasione. Sosteneva Eraclito che il destino dell’uomo è il suo carattere. Nel caso di Berlusconi, il suo carattere è ottimista e fantasioso. Anche un non berlusconiano deve ammetterlo».
Caldarola si riferiva alla decisione lampo di portare la riunione del G8 all’Aquila, nell’Abruzzo colpito dal terremoto. Il presidente del Consiglio ha dimostrato agli abruzzesi che la partecipazione del governo alla tragedia non era solo un fatto episodico e retorico, non era solo propaganda. Ci andrà il mondo da loro, non saranno dimenticati. Se con questa mossa Berlusconi si è tolto di mezzo anche il fastidio dei no global, li voglio vedere a far casino in Abruzzo, tanto di guadagnato.
Il leader è lo stesso che due anni fa a San Babila, in un momento di crisi politica, salì sul predellino di una Mercedes e annunciò la nascita del nuovo partito. Alcuni alleati lo irrisero e lo spacciarono per matto, anche nella sua corte ci fu chi ironizzò, com’è andata si è visto. È andata così da quando in un anno orribile che era il 1993 fece dal niente Forza Italia e salvò il Paese dalla gloriosa macchina da guerra di Occhetto e anche dalla Procura di Milano. Il costo, altissimo, era già stato pagato, ma quel soviet l’abbiamo scampato.Silvio Berlusconi che piangeva e abbracciava tutti sul serio il giorno dei funerali dei morti del terremoto in Abruzzo mi ha ricordato vividamente un altro grande della politica, Bill Clinton. Tornava a far campagna elettorale in uno Stato sperduto dopo quattro anni e si ricordava delle persone, le stringeva, chiedeva come fosse finita quella storia della pensione o dell’assicurazione. Perché era così, pop, è sopravvissuto, a furor di popolo contro l’establishment schierato, a uno scandalo privato che avrebbe stroncato qualsiasi altro presidente americano. I popoli sono saggi. Sanno riconoscere un politico che li sceglie da un altro che li sopporta. (il Giornale)

martedì 5 maggio 2009

Mannino: un'assoluzione clamorosa, ignorata dai giornali. Lino Jannuzzi

La settimana scorsa sono state depositate le motivazioni della sentenza con cui la seconda sezione della Corte d’appello di Palermo ha assolto il 22 ottobre dell’anno scorso l’ex ministro dell’Agricoltura e del Mezzogiorno Calogero Mannino. Il “Giornale di Sicilia” ha dedicato alla notizia mezza pagina (solo a pagina 9) ma nessun quotidiano a diffusione nazionale se ne è occupato seriamente (soltanto un paio vi hanno dedicato una decina di righe). Eppure le motivazioni sono clamorose: “Assoluta inconsistenza del compendio probatorio dell’accusa ogni qualvolta si è provato ad approfondirne i contenuti e specificarne i contorni”; “manifesta vaghezza e genericità” delle accuse dei ‘pentiti’; “apodittico ed empiricamente inafferrabile il preteso contributo dell’imputato al rafforzamento dell’associazione mafiosa”; “oltremodo evanescente, dunque insussistente il presunto patto politico-mafioso”; “non è stato individuato dall’accusa un solo atto amministrativo a firma del Mannino, né è stata addotta prova alcuna di interventi e pressioni si soggetti inseriti in ruoli rilevanti”.

Tutto questo a conclusione di una vicenda che è durata ben 15 anni: Mannino è stato avvisato di reato nel febbraio del 1994; è stato arrestato il 13 febbraio del 1995, è stato tenuto in galera nove mesi e rinchiuso in casa agli arresti domiciliari per un altro anno e due mesi; il processo di primo grado è stato il più lungo processo per mafia celebrato a Palermo, è durato più di cinque anni e mezzo, con 300 udienze, 400 testimoni, 25 ‘pentiti’ oltre 5mila pagine di atti processuali, fino all’assoluzione “perché il fatto non sussiste” pronunciata nel luglio del 2001; il processo d’appello cominciato nell’aprile del 2003 si concluse con una condanna a cinque anni e quattro mesi per concorso esterno in associazione mafiosa nel 2004; le sezioni unite della Cassazione annullarono la condanna con rinvio nel 2005; il secondo processo d’appello, che per cominciare ha dovuto attendere il pronunciamento della Corte Costituzionale (che ha bocciato la legge che prevedeva che bastasse l’assoluzione in primo grado per chiudere la partita) si è concluso con l’assoluzione soltanto il 22 ottobre dell’anno scorso. E tutta la vicenda con una caratteristica che non ha precedenti (e difficilmente potrà avere repliche) nella storia giudiziaria della Repubblica italiana e di qualsiasi altro paese del mondo: per i due anni dell’inchiesta iniziale, per i cinque anni e mezzo del processo di primo grado, per i due anni del primo processo d’appello, per i due anni di attesa per l’annullamento della Cassazione, per la sospensione, per tutto il tempo del secondo processo d’appello, l’accusa contro Mannino è stata sostenuta sempre dallo stesso magistrato, che ha fatto in tempo a fare le indagini preliminari, il processo di primo grado, il primo processo d’appello dopo tre anni, e si è trovato persino pronto, dopo altri tre anni, a sostenere l’accusa nel secondo processo d’appello, dopo l’annullamento e la sospensione.

Pare che ciò sia consentito dal nostro ordinamento giudiziario: un magistrato, lo stesso magistrato può dedicare 14 anni della sua vita a inquisire e a chiedere la condanna dello stesso imputato. Quattordici anni per arrivare a concludere ciò che il Procuratore generale della Cassazione, nel chiedere l’annullamento della sentenza di condanna, ha così definito: “Nella sentenza di condanna di Mannino non c’è nulla. La sentenza torna ossessivamente sugli stessi concetti, ma non c’è nulla che si lasci apprezzare in termini rigorosi e tecnici, nulla che possa valere a sostanziare l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Questa sentenza costituisce un esempio negativo da mostrare agli uditori giudiziari, di come una sentenza non dovrebbe essere mai scritta...”.

Sarà per questa ragione, per non scandalizzare gli uditori giudiziari e i giovani che studiano giurisprudenza, che i giornali hanno evitato di parlarne? (il Velino)

L'Unità fa come il Pci. Lodovico Festa

“Centrosinistra// Vittoria schiacciante a Trento” Dice un titolo dell’Unità (5 maggio) Anche i quotidiani hanno un loro dna. Dal suo, l’Unità diretta dalla De Gregorio tira fuori un titolo così, uguale uguale a quelli di “una volta” che quando il Pci andava male in tutta Italia, strillavano: Grande avanzata a Pioltello! Forlì non si piega! Strepitoso trionfo a Gela! (l'Occidentale)

Diffamazione. Jena

Berlusconi accusa la sinistra di aver organizzato un tranello a Veronica e la sinistra lo querela per diffamazione: «Non siamo così intelligenti». (la Stampa)

domenica 3 maggio 2009

Ma che ci fa l'intellettuale al bar di Tonino? Michele Brambilla

Dove sono finiti gli intellettuali di sinistra? Nelle liste che il Pd ha appena presentato per le elezioni europee non c’è neppure l’ombra della formidabile armata di penna e di pensiero che per decenni era stata una delle due anime (l’altra era la classe operaia, essa pure in buona parte emigrata verso altri partiti) del Partito comunista. Non c’era praticamente uomo di cultura, un tempo, che non fosse comunista. Pavese, Moravia, Calvino, Vittorini, Asor Rosa, Argan, Eco, la Ginzburg. Non è che tutti fossero organici. Parecchi, semplicemente, fiancheggiavano. Però, stavano tutti da quella parte lì. Chi non stava da quella parte lì, non era un intellettuale.

Oggi, nelle liste del Pd, l’unico sarebbe il giornalista David Sassoli, ammesso che si possa definire intellettuale un giornalista, cosa di cui dubitiamo fortemente, appartenendo noi stessi alla categoria (dei giornalisti, s’intende: non degli intellettuali). Coloro che in qualche modo hanno il diritto di fregiarsi del titolo di «uomini di cultura» hanno scelto l’Aventino, oppure sono finiti con Di Pietro. Nell’Italia dei Valori sono ufficialmente candidati Gianni Vattimo, Nicola Tranfaglia, Giorgio Pressburger. E anche chi non si candida ma, appunto, fiancheggia, sta con Tonino: dal milieu di MicroMega a quello di Annozero.

E qui sta uno dei più insondabili misteri dei nostri giorni. Che cosa ci può trovare, un intellettuale ex di sinistra, in un uomo come Di Pietro? Non è che vogliamo denigrare il leader dei Valori: ciascuno è libero di pensare che possa dare un suo utile contributo all’Italia. Non sono in discussione le posizioni politiche, ma le affinità elettive. L’intellettuale (di sinistra, ripetiamo: ma è superfluo sottolinearlo) è sempre stato un animale da salotto e da Capalbio: buone maniere, sfoggio di cultura, citazioni erudite. Longanesi diceva che quella è gente che crede di essere di sinistra perché mangia il pesce con il coltello.

Gente che ha tutto un suo vocabolario, se deve dire che il dopo-crisi è già cominciato dice che «come dicono i francesi, l’après-crise a commancée»; oppure gente che si racconta in terrazza «amo fatto er corteo», essendo Roma, molto più che Milano o Torino, il suo habitat naturale. Come si troveranno costoro alla masseria, oppure al bar di Tonino, è cosa che ci sfugge. Il bon ton, per quel mondo, è molto più di una forma: è una sostanza. Così come ci sfugge che cosa possano trovare, sul piano delle idee, in un uomo che non ha altra idea se non quella di rivendicare per sé una patente di immacolata onestà, e per gli altri di impunita disonestà.

Vedremo quanto durerà questo inedito fidanzamento. A occhio, ci pare che certi discorsi Di Pietro non li capisca. Anche l’intellettuale, diceva sempre Longanesi, non capisce: ma non capisce con grande autorità e competenza. (il Giornale)

venerdì 1 maggio 2009

Jesus Chrysler Superstar

(Il Valletta abruzzese che sa uscire dall'angolo)
Firmato l'accordo con Detroit. Bancarotta temporanea dell'azienda americana, i torinesi entrano subito col 20 per cento. «Momento storico per l'industria italiana». (titolo da il Riformista)