domenica 30 settembre 2007

L'invasione dei nomadi. Alberto Ronchey

Annunciato dalla Conferenza di Firenze sull'immigrazione, ora è atteso un piano governativo per contrastare le ondate di reati che destano allarme sociale, rapine, furti, scippi, risse, insediamenti abusivi e aggressivi dell'immigrazione clandestina. L'insicurezza collettiva, di fatto, non è imputabile solo alla criminalità nazionale, mafia, camorra, sacche d'illegalità urbane o suburbane. Anzi, oltre alla criminalità nazionale, non è più sostenibile quella d'importazione. Secondo un rapporto del Viminale a Montecitorio, 36,5 su cento reati commessi nel 2006 sarebbero imputabili a residenti stranieri, 19,4 per cento immigrati clandestini. Ma ora si discute in particolare sui rom, che non sono più immigrati clandestini, bensì cittadini comunitari dopo l'ingresso della Romania nell'Ue. Non si possono respingere, ma solo espellere all'occasione per motivi di ordine pubblico. «Dalla Romania — come ha segnalato però il ministro Amato — è in corso un vero e proprio esodo». In Italia, sarebbero già moltitudini e arrivano ancora. Alle origini, furono allevatori di cavalli nelle steppe eurasiatiche, poi giostrai, calderai ambulanti, o anche violinisti di strada. Le loro doti artistiche, passionali e spontanee, furono apprezzate fino a costituire un vero e proprio genere, la celebre commedia tziganka, spettacolo tradizionale al teatro «Malyj» di Mosca. Eppure, non poterono né vollero integrarsi mai nelle nazioni che li ospitavano.

Montanelli, forse il solo cronista che per una volta fu ammesso a viaggiare nei loro carrozzoni tirati dai cavalli, ricordava sul Corriere: «... Nel '39 mi trovavo in Albania, dove conobbi un ebreo greco del Cairo che faceva l'impresario di violinisti tzigani andando a scoprire talenti nelle loro randage tribù. Costui, facendomi passare per il suo assistente, ottenne un posto anche per me in una carovana da Còrizza fino a Salonicco attraverso Macedonia e Tessaglia... In quel viaggio imparai sulla vita degli zingari molte cose, ma soprattutto una. L'inutilità di spiegargli il motivo per il quale eravamo inseguiti spesso a fucilate da contadini e pastori, che poi era uno solo. Rubavano tutto quello che trovavano per le strade, agnelli, galline, farina, attrezzi... Ma non si rendevano conto di ciò che facevano perché il concetto di proprietà non era mai entrato nei loro cervelli...». Ora, più di mezzo secolo dopo, saranno un po' diversi. Eppure Achille Serra, già prefetto di Roma, qualche mese fa dichiarava: «Visito personalmente i loro campi... Le donne non si vedono, forse perché sono sulla metro a scippare borsette, gli uomini dormono perché forse hanno lavorato di notte svaligiando abitazioni». Precisava, s'intende, di non voler generalizzare, ma concludeva insistendo sul pericolo che verso quegli stranieri l'insofferenza della gente raggiunga «forme di razzismo alle quali guardo con terrore» ( Repubblica, 19 maggio). Già intorno ai campi nomadi si ripetono aspri conflitti. Da una parte, ruberie di automezzi, ciclomotori, benzina, denaro dei parcometri, persino panni stesi. Dall'altra parte, incursioni di rappresaglia imputabili anche alla primaria xenofobia razzista dell'inconsulta violenza. Il piano governativo in discussione, che include fra le misure d'emergenza più poteri a prefetti e sindaci, ripropone un quesito al quale non è facile rispondere. Fino a che punto, in Italia come altrove, si può davvero integrare oltreché ospitare qualsiasi flusso d'immigrazione? (Corriere della Sera)

venerdì 28 settembre 2007

Zero politica economica. il Foglio

E’ notevole la differenza fra la ma­novra di quest'anno, che procede in modo stanco e rinunciatario, e il baldanzoso approccio di quella scor­sa. Allora il governo Prodi la fece precedere da un decreto fiscale che tas­sava pesantemente gli immobili, sta­biliva norme di schedatura di tutti i movimenti bancari e conteneva an­che alcune liberalizzazioni, che apparivano come un segnale di guerra con­tro le corporazioni. Poi venne la Fi­nanziaria lacrime e sangue da 32 mi­liardi, fitta di dure, punitive soluzioni fiscali in abiura di tutto ciò che aveva fatto Giulio Tremonti.

Quest'anno è un'altra solfa. Dovreb­be essere una Finanziaria leggera da dieci miliardi di euro, fatta un po' di extragettito da crescita economica, e un po' di tagliuzzi e risparmietti. Comunque vada a finire, comunque si metta a posto il puzzle dei dettagli, e il negoziato proporzionalista degli olivieridiliberti che tanto per far casino di maniera vogliono colorarla di un po' di ideologismo (tassazione delle rendi­te finanziarie e più redistribuzione della ricchezza, please), comunque va­da a finire, dunque, è sempre più evi­dente che Romano Prodi e Tommaso Padoa-Schioppa non hanno più una li­nea di politica economica. Faranno piccole concessioni e diranno piccoli no, ma non decideranno nulla, sapen­do di non poterlo fare. Ne verrà fuori una Finanziaria grigetta inadatta a contrastare il rallentamento congiun­turale o a segnalare un barlume di vi­talità politica, che non c'è più.

Pansa: la casta rossa dei bastonatori. il Giornale

http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=209272

Alla vigilia dell'uscita de "I gendarmi della memoria", Pansa racconta delle intimidazioni, delle violenze e delle rappresaglie di cui è stato oggetto.

giovedì 27 settembre 2007

Myanmar: sms fa il giro del mondo, "domani tutti in T-Shirt rossa". Adnkronos

Roma, 27 set. (Adnkronos) - Una maglietta rossa da indossare domani per testimoniare solidarieta' ''ai coraggiosi amici'' della Birmania. E' l'invito che sta girando in queste ore freneticamente sui cellulari di tutto il mondo, Italia compresa. "In support of our incredibly brave friends in Burma: may all people around the world wear a red shirt on Friday, September 28. Please forward!" (''A sostegno dei nostri amici incredibilmente coraggiosi in Birmania: venerdi' 28 settembre indossiamo tutti quanti, in tutto il mondo, una maglietta rossa. Fai girare il messaggio''), e' il testo dell'sms che ricalca un analogo messaggio che si puo' leggere anche su molti blog in internet.

mercoledì 26 settembre 2007

Perché nessuno dice che i militari Birmani sono comunisti? Blog Noi porgiamo l'altra guancia

Perchè nessuno dice che i militari Birmani sono COMUNISTI ?
Ma porco cane, c' è una rivolta anticomunista in atto, contro un regime comunista bieco e sanguinario, che da anni incarcera dissidenti, che non ha avuto neanche pietà dei propri morti durante lo Tsunami, non comunicando nè lista nè numero dei morti, e non ha voluto praticamente aiuti dall' Occidente.
Un regime COMUNISTA tant' è che nello stemma ufficiale c' è la Stella e la Ruota Dentata ; e come in tutti i paesi comunisti ha da sempre il cambio della propria moneta al nero.
Il Generale Ne Win, fin dal colpo di stato del 1962 attuò subito leggi come la nazionalizzazione delle industrie, la soppressione dei partiti e del libero mercato. Per anni il paese fu chiusissimo rispetto all' esterno. Il mio primo viaggio risale al 1984 : solo sette giorni la durata del visto, dove si legge:

Embassy of the SOCIALIST Republic of the Union of Burma.

Dopo la rivolta del 1988 che provocò migliaia di morti, con la destituzione di Ne Win, ben poco è cambiato. La Birmania è attualmente, a causa del regime comunista, uno dei paesi più poveri al mondo, mentre quando, col nome di Burma, era una Colonia Inglese(alla faccia di quelli che parlan male delle colonie...),era un paese floridissimo, costruttore di mobili in teck ed altri legni pregiati (posseggo da vent'anni un tavolo da pranzo dell' Epoca Vittoriana)e senza il comunismo avrebbe conosciuto un notevole sviluppo. Grazie alle meraviglie naturali e dei propri templi, il Paese potrebbe avere una grande forza grazie al turismo, che viene però contrastato dal regime comunista.
Ma da giorni tutti i telegiornali continuano a martellarci solo ricordando che c' è una Giunta Militare al potere. Perchè non equipararla al Regime dei Colonnelli Greci o al Cile di Pinochet, così si fa prima, e la maggior parte delle persone che non hanno mai visitato la Birmania penseranno al solito regime militar/fascista.
Eppure il golpe di Jaruzelski in Polonia dovrebbe far capire che ci sono militari comunisti. O no ?
Dunque, sia chiaro una volte per tutte:

IN BIRMANIA C'E' UN REGIME COMUNISTA !

In Italia, dove i media non lo ricordano, il regime comunista si sta facendo strada ogni giorno...(Vandeaitaliana)

Bush marcia al fianco dei monaci buddisti. il Foglio

La visione libertaria dell’America su Birmania, Darfur, Cuba e Zimbabwe.

Con il discorso di ieri all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in cui ha annunciato nuove sanzioni contro la giunta militare che opprime la Birmania con il suo “regime di terrore”, il presidente degli Stati Uniti George W. Bush ha messo di nuovo sotto il naso degli antibushisti irrevocabili il solito problema. Il presidente mantiene quello che promette, e quello che promette e mantiene sono cose buone e necessarie, nel vecchio senso filosofico “che non potrebbero essere altrimenti”. Al momento della sua seconda investitura, nel gennaio del 2005, tutti si attendevano da lui un discorso di accettazione giocato su uno schema di funzionamento sicuro, metà retorica buona per ogni stagione e metà rivendicazione prudente dei risultati raggiunti fino ad allora (suffragio universale in Iraq e in Afghanistan, reti inviolate sul fronte della sicurezza interna). Poteva tenersi al riparo di una linea difensiva inattaccabile. Il presidente scelse invece il rilancio, con un discorso d’inizio mandato che è diventato il più radicale manifesto libertario degli ultimi decenni. Un discorso che secondo Peggy Noonan, ex speechwriter di Ronald Reagan, sarà ricordato come “The liberty speech”, il discorso della libertà. Questo fu il passaggio più impegnativo, che fece rizzare i capelli sulla nuca dei cosiddetti realisti: “La politica degli Stati Uniti è quella di cercare e di sostenere la crescita dei movimenti democratici in ogni nazione e in ogni cultura, con l’obiettivo finale di porre fine alla tirannia nel mondo”. Capito il presidente petroliere, conservatore, figlio di papà? “Sostenere la crescita dei movimenti democratici in ogni nazione”. Premio finale: la fine della tirannia nel mondo. Due anni e mezzo dopo, Bush procede sullo stesso binario. Stesso mandato, stessa visione, stessa marcia condivisa idealmente con le colonne di monaci rasati che guidano la protesta in Birmania, come l’ha chiamata il presidente con il vecchio nome cancellato dalla giunta militare. Un paese dove i dissidenti politici consumano il tempo della loro pena ai lavori forzati, sul ciglio delle strade e sugli argini in terra dei fiumi o chiusi in gabbie per cani nella prigione di Insein (secondo il rapporto di Amnesty International). Dove la pena per i reati di pensiero parte dai dieci anni di carcere, solo per avere scritto una lettera con contenuto non autorizzato o per avere fatto volantinaggio. Dove l’esercito costringe la popolazione a fuggire dai villaggi, brucia le case e uccide chi tenta di farvi ritorno. Dove la maggioranza degli pseudoministri appartiene alle forze armate. Ora, dice il presidente americano, arrivano sanzioni più dure contro il regime e contro chi lo sostiene finanziariamente e anche un bando sui visti dei responsabili delle violazioni più plateali dei diritti umani. Avviso per la militanza antibushista. Il presidente della libertà George W. Bush ha citato anche Darfur, dove il suo pressing è già decisivo, Cuba e Zimbabwe.

La casta e la rabbia. Luigi la Spina

Perché gli italiani sono così furibondi nei confronti della loro classe politica? Perché quando Grillo parla, su Internet, in tv o nelle piazze, l’adesione è così entusiastica e contagiosa? Perché il libro di Stella e Rizzo, La casta, ha avuto un così meritato successo? Queste domande hanno già avuto molte risposte, alcune convincenti, altre meno, ma certamente non tali da esaurire il mistero per cui, in apparenza all’improvviso, i nostri concittadini sono diventati così intolleranti di fronte all’arroganza del potere, ai privilegi del ceto politico, alle piccole e grandi furbizie di chi li governa.

Eppure, il popolo italiano è stato abituato, da secoli, a sbuffare ma a pazientare davanti ai soprusi di chi li comanda. Le classi dirigenti italiane, inoltre, al di là delle nostalgie di chi, per età o per smemoratezza, tende a edulcorare il passato in una mitica «età aurea» del costume pubblico, non si sono mai distinte per alto senso civico. La domanda, perciò, ritorna insistente: perché la demagogia di un bravo comico, la capacità investigativa e la piacevolezza della scrittura di due ottimi giornalisti hanno trovato una così pronta e incendiaria accoglienza nell’opinione pubblica?

Le indagini sociologiche subito avviate dai principali centri di ricerca hanno colto un motivo «politico» sicuramente fondato: la delusione per gli effetti della cacciata di Berlusconi da Palazzo Chigi ha suscitato un acuto malessere in chi si era illuso che un cambio di maggioranza bastasse a risolvere almeno alcuni dei problemi che affliggono gli italiani.

La plausibilità di questa interpretazione non sembra sufficiente, però, a motivare una indignazione così estesa e profonda, l’urgenza di uno sfogo così violento, speriamo solo negli eccessi verbali, un’ipersensibilità che non ammette reazioni proporzionate ai fatti, tali da omologare, per esempio, una infrazione stradale, sia pure grave, come quella del presidente della Regione Liguria Claudio Burlando, alla più infamante motivazione di immediate dimissioni. Ecco perché la ricerca delle cause meno superficiali di questo pesante disagio italiano, forse, dovrebbe indirizzarsi anche sulle condizioni economiche, sociali, ma anche psicologiche, di due grandi categorie del nostro Paese: i giovani e la piccola e media borghesia, soprattutto quella che vive di reddito fisso. Una attenzione che, tra l’altro, alla vigilia della Finanziaria, il governo Prodi dovrebbe privilegiare per non sbagliare clamorosamente l’indirizzo dei provvedimenti di aiuto alle classi veramente in difficoltà in questo momento.

Queste parti della nostra società, innanzi tutto, costituiscono la sezione «mobile» dell’elettorato, quella che non vota sempre allo stesso modo, per fedeltà ideologica o per abitudine familiare. Quella più sensibile ai cambiamenti di umore collettivo, più abituata a esprimere, anche politicamente, la protesta. Giovani e piccola-media borghesia, inoltre, sono le vittime quasi esclusive della «grande illusione» del secolo scorso: quella per cui una maggiore istruzione dei figli avrebbe garantito una migliore condizione di vita rispetto ai genitori. Ormai il Duemila ha svelato il grande inganno: non solo la mobilità sociale è proibita dalle caste professionali e dal loro potere di perpetuazione, ma, nella grande maggioranza dei casi, solo le rendite, le pensioni e le cure dei padri e persino dei nonni consentono ai giovani di poter campare, sia pure a fatica.

Alla frustrazione dei figli, nell’ultimo decennio, si è aggiunta, ora, la paura dei genitori, perché quelle risorse che consentivano alla piccola-media borghesia italiana di integrare l’affitto e la spesa dei figli, si sono paurosamente assottigliate: rispetto al reale costo della vita, l’impoverimento delle classi medie è stato drastico. È una constatazione che si fa tutti i giorni, a partire dalle esigenze più elementari, quelle della casa, per esempio. Solo l’eredità consentirà ai figli il possesso di quella abitazione che i loro genitori avevano conquistato mediamente già dopo 10-15 anni di lavoro. Ecco perché il circolo di mutua assistenza che garantiva la sopravvivenza della famiglia borghese italiana, dalla nonna-baby sitter alla figlia badante dei vecchi genitori, rischia di spezzarsi in uno stato, magari dignitoso e silente, ma di vera disperazione.

È questo lo stato d’animo, esteso e profondo, che rende intollerabile ogni ingiustizia, ogni privilegio. Uno stato d’animo acuìto, poi, dal ricordo di recenti abitudini di vita più confortevoli, da piccoli lussi una volta considerati normali e ora divenuti proibitivi. Finché erano possibili la speranza di un futuro migliore, l’attesa del dovuto riconoscimento dei sacrifici fatti, la verifica di una competizione sociale non completamente truccata dai «jolly» che possono mettere sul tavolo coloro che sono già privilegiati, l’indulgenza poteva essere ammessa. Finché sopravviveva l’illusione «protoleghista» di poter far da soli, di poter fare a meno dello Stato, si poteva essere meno esigenti nei confronti di chi rappresenta il nostro Stato. Ora che il cortocircuito di queste speranze le ha improvvisamente spente, l’urlo di Grillo si confonde, minacciosamente, con quello disperato di tanti giovani e di tanti loro genitori. Peccato che il primo faccia tanto rumore e il secondo si estingua nell’indifferenza di tutti. (la Stampa)

La spesa pubblica non aiuta i deboli. Francesco Giavazzi

Le aperture di Fassino e le scelte del Pd.

L'intervista al segretario dei Ds Piero Fassino, pubblicata l'altro ieri dal Corriere, è un modo concreto per rispondere alla sfiducia crescente che i cittadini dimostrano verso la classe politica. Le parole di Fassino sono coraggiose: «L'Italia è frenata da un asse trasversale e conservatore. Quella destra che ha ingenerato la paura dell'Europa, dell'euro, di un mercato aperto. Ma anche a sinistra si fa fatica a capire che se è giusto essere contro la precarietà, è invece sbagliato rifiutare una flessibilità connaturata a un mercato non più racchiuso nei confini nazionali ».

«La sola parola "merito" in Italia è ancora tabù. La sinistra ha sempre pensato che il merito fosse un trucco dei ricchi per fregare i poveri, non capendo che è esattamente il contrario. È grazie al merito, al talento che il povero può annullare le differenze sociali e avere le stesse opportunità ». «La sinistra ha sempre difeso i deboli: chi è più debole se perde quel poco che ha è privo di tutto. Comprensibile una reazione istintiva di difesa che però rischia di essere velleitaria e perdente. Non è arroccandosi che si ottengono maggiori certezze». Perfetto. Ma sono disposti Piero Fassino e il Pd a tradurre queste affermazioni coraggiose in decisioni coerenti, a cominciare dalla prossima Legge finanziaria? Ecco alcuni problemi concreti. È sempre più evidente che la spesa pubblica concertata fra governo e sindacati non è il modo per difendere i deboli. L'aumento delle pensioni minime deciso a luglio (che pure Fassino nella sua intervista difende) ha favorito solo in piccola parte i veri poveri, cioè le famiglie degli otto milioni di pensionati che non arrivano a 750 euro al mese, l'80% dei quali non raggiunge neppure i 500 euro.

La quota principale dei soldi stanziati andrà alle famiglie dei lavoratori tipicamente iscritti ai sindacati, gli stessi che hanno beneficiato più di altri dell'abbassamento, da 60 a 58 anni, dell'età minima per andare in pensione con 35 anni di contributi. Famiglie certo non ricche, ma neppure tra le più povere del Paese. Anche l'abbassamento dell'età minima per andare in pensione è stato pagato dai meno fortunati. Nel prossimo decennio costerà circa 10 miliardi di euro. Di questi, quasi la metà verranno da un aumento dei contributi (fino a 3 punti di aliquota in più) dei parasubordinati, cioè tassando i «precari », che sono i lavoratori meno protetti. Come deve essere costruita secondo il Pd la prossima Legge finanziaria? Usando l'extra gettito fiscale per far fronte a nuove spese sociali— che ancora una volta non aiuterebbero i veri poveri —o per finanziare una negative income tax che restituisca denaro alle famiglie più bisognose? Il maggior ostacolo che priva i precari di un futuro è la rigidità dei contratti a tempo indeterminato.

L'assunzione a tempo indeterminato è oggi troppo rischiosa per il datore di lavoro e così i precari rimangono tali per sempre. A Milano due settimane fa Walter Veltroni si è detto favorevole alla proposta di un contratto unico (tutti precari all'inizio e tutele crescenti con l'anzianità), un'idea di Tito Boeri e Tiziano Treu che Nicolas Sarkozy sta cercando di realizzare in Francia. Cesare Damiano non è d'accordo: «Non sarò io il ministro che tocca l'articolo 18», ha detto in quell'incontro. Con chi sta Piero Fassino? Il sindacato non ha mai caldeggiato l'introduzione di sussidi di disoccupazione generalizzati (siamo l'unico Paese avanzato a non averli). Preferisce la cassa integrazione negoziata caso per caso, che dà al sindacato — e alle Unioni industriali — un motivo per esistere. È disposto il Pd a farne una priorità della prossima Finanziaria?

Le imprese, pubbliche e private, ricevono dallo Stato aiuti pari a circa il 2 per cento del Pil. La maggior parte va alle aziende del Mezzogiorno, ma non c'è evidenza che questa messe di fondi pubblici abbia mai aiutato quelle regioni a crescere. Il ministro Bersani propone di cancellarli tutti e trasferire quei fondi in investimenti in infrastrutture, a cominciare dall' infrastruttura più importante oggi nel Mezzogiorno, la certezza della legge e l'ordine pubblico. È disposta la sinistra di governo a imporre questa scelta in Finanziaria? Una conseguenza dell'assenza di meritocrazia è l'invecchiamento della nostra classe dirigente. Il Comitato dei 45 nominato per costituire il nuovo Partito democratico non include una sola persona sotto i 40 anni! Epensare che più di un terzo degli elettori ne ha di meno. L'età media del comitato—come hanno notato Vincenzo Galasso e Francesco Billari su la voce.info—si aggira intorno ai 57 anni: tutto il potere è concentrato nelle mani di cinquantenni e sessantenni, la generazione cui appartiene la maggioranza dei leader politici del nuovo partito.

Costoro hanno accettato di farsi aiutare da qualche «padre nobile» (due componenti del comitato hanno più di 75 anni), ma non hanno ritenuto necessario coinvolgere i ventenni o i trentenni, cioè coloro che in futuro dovranno votare per il nuovo partito. E quando si è trattato di nominare un nuovo membro del cda della Rai per «dare nuovo impulso all' azienda» come ha detto il ministro dell'Economia, la scelta è caduta su un manager di 77 anni. È questo il merito, onorevole Fassino? (Corriere della Sera)

Il trucchetto del prelievo "volontario". Giancarlo Lehner

Caro direttore,
il giornalismo d'inchiesta è una antica e benemerita vocazione del Giornale, ben altro delle urla isteriche dei comici. Consentimi, allora, di indicarti un'indagine a proposito dell'ultimo esproprio legalizzato da parte del governo Prodi. Le vittime, come sempre, sono i più deboli, cioè i pensionati.
Ecco il fatto: sta giungendo con «postatarget» a tutti i pensionati dell’amministrazione pubblica un dépliant dell'Inpdap. Sulla copertina c'è un nonno inconsapevole che ride beato insieme alla sua nipotina; la didascalia detta: «I servizi Inpdap non hanno età / Guida per chi è in pensione».
Tuttavia, non si tratta affatto di una guida, bensì di una cattiva azione a danno del nonno ridente e inconsapevole. All'interno, firmata da tal Giuseppina Santiapichi, nientemeno che direttore generale dell'Inpdap, si legge una letterina tesa a promuovere l'iscrizione «volontaria» alla Gestione unitaria.
La Santiapichi si dice lieta di comunicare che «a partire dal 1° novembre prossimo, Lei potrà accedere alle prestazioni erogate dalla Gestione unitaria delle prestazioni creditizie e sociali dell'Inpdap. Questo diritto, finora riservato ai lavoratori in servizio, è stato esteso anche ai lavoratori in pensione dal decreto ministeriale 45 del 2007».
La buona novella, ovvero il decreto ministeriale 45 del 2007, tuttavia, ha il verme dentro, essendo previsto, dal novembre 2007, un prelievo di 0,15% sull'importo lordo delle pensioni superiori a 599 euro al mese, in cambio di meraviglie di Francia, come «piccoli prestiti», «mutui ipotecari edilizi» ed anche, facendo le corna, assistenza, ma solo in alcune regioni e con molti se, in caso di Alzheimer.
Fin qui, nulla di drammatico, trattandosi dell'ennesimo spot lanciato per suggere tutto il sangue possibile dalle vene degli anziani.
Sopraggiunge, però, un'avvertenza banditesca: «Se Lei non intende iscriversi alla Gestione unitaria dell'Inpdap può compilare il modulo di non adesione... e consegnarlo o inviarlo per posta o tramite fax, entro e non oltre il 31 ottobre 2007, alla Sede provinciale o territoriale Inpdap che eroga la sua pensione. Se Lei, invece, vuole iscriversi non dovrà fare nulla, perché la sua adesione scatterà automaticamente il 1° novembre...».
E pensare che l'iscrizione era stata definita «volontaria».
Insomma, invertendo ogni norma costituzionale, i diritti dell'uomo e financo la logica aristotelica, il pensionato, magari impossibilitato a muoversi, si ritrova iscritto d'autorità e automaticamente ad una Gestione unitaria che incide sulla sua pensione. Se, invece, proprio non ci sta a questo diktat, deve comunque perdere tempo e denaro, compilando e recapitando il modulo di «non» adesione. Dunque, egli non può decidere di iscriversi, potendo solo scegliere di «non» aderire.
Caro direttore, codesta inversione dei parametri del libero arbitrio riguarda milioni di pensionati, milioni di cittadini italiani, i quali, magari, possono inavvertitamente gettare nel cestino questo come mille altri dépliant che ogni giorno intasano le cassette della posta, senza sapere che si tratta di uno stampato sanguisuga già applicato sulla loro pelle.
Credo che questi milioni di italiani abbiano il diritto di poter contare su Il Giornale.
Io, da parte mia, ho già dato incarico all'avvocato Pietro Federico di verificare quante e quali notizie di reato si possano ravvisare nel dépliant firmato dalla dottoressa Giuseppina Santiapichi, direttore Generale dell’Istituto Nazionale di Previdenza per i Dipendenti dell'Amministrazione Pubblica. (il Giornale)

martedì 25 settembre 2007

La "ritiritera" di Diliberto. l'Occidentale

Se si prende sul serio Oliviero Diliberto allora si fa fatica a capirlo. Ogni volta che un incidente funesta la missione italiana in Afghanistan lui è lì pronto a dichiarare: “ritiriamoci!”. Seguono un paio di interviste e qualche secondo nei tiggì dello stesso tenore. Un magro bottino messo a confronto con l’isolamento a cui si è ormai condannato anche nella sinistra.

Diliberto sa benissimo infatti che l’Italia ha inviato le sue truppe a Kabul in virtù di un mandato congiunto Onu, Nato, Ue. Un en plein senza precendenti. Ritirare le truppe sull’onda di un pur tragico incidente vorrebbe dire denunciare quel mandato e di conseguenza quelle alleanze, mettendo l’Italia su un diverso asse internazionale.

Neppure il governo Prodi, che pure di follie in politica estera ne ha collezionate tante, potrebbe permettersi una scelta del genere e Diliberto sa bene anche questo.

Ciò nonostante non perde occasione per chiedere un ritiro che – allo stato – non può avvenire. Diliberto dovrebbe in realtà trarre le conseguenze di questa situazione e uscire da un governo che in politica internazionale – stando alle sue stesse dichiarazioni - si pone agli antipodi delle posizioni sue e del suo partito.

Questo, dicevamo, se lo si prende sul serio.

"Magistrati, un'altra casta". Vera Schiavazzi

«È accaduto nella magistratura qualcosa di molto simile a ciò che è accaduto all'esterno, nei palazzi della politica. Gruppi legittimi ma di natura privata, cioè le correnti, decidono su un bene pubblico, la giustizia, proprio come i partiti fanno nelle istituzioni». Bruno Tinti, procuratore aggiunto a Torino, uno dei magistrati italiani più esperti sul fronte della lotta ai reati finanziari, traccia nel suo libro fresco di stampa («Toghe rotte», per Chiarelettere, prefazione di Marco Travaglio) un affresco inquietante dei meccanismi che regolano l'autogoverno della sua categoria. Quei meccanismi che avrebbero dovuto preservarne l'autonomia dai «poteri forti» e che, invece, l'hanno trasformata in una Casta, con i propri rituali, i propri compromessi e le proprie spartizioni. E che ora suscitano polemiche all'interno della stessa magistratura, dando vita a nuovi gruppi e a una proposta- choc, l'astensione, in novembre, alle prossime elezioni dell'Associazione nazionale magistrati, il sindacato che rappresenta il 93% dei giudici italiani. C'è anche un blog (www.toghe.blogspot. com), al quale lo stesso Tinti partecipa, che racconta il malessere per «il male che le toghe fanno a se stesse».

LA LOTTIZZAZIONE — «Praticamente tutti i posti di potere sono ormai lottizzati dalle correnti - scrive Tinti - . Il sistema funziona più o meno così: a fare il presidente del Tribunale di Roncofritto ci mandiamo Michele, che è dei Gialli, così loro ci votano Luigi, che è dei nostri, a procuratore di Poggio Belsito. Alle prossime elezioni del Csm possiamo quindi candidare Carmelo…». Tinti descrive nei dettagli il funzionamento dei Consigli Giudiziari, i piccoli Csm regionali che a loro volta «pre-selezionano » i magistrati che poi il Consiglio superiore della magistratura dovrà scegliere per gli incarichi direttivi. «I candidati contattano i loro santi protettori… Le lodi si sprecano, ogni corrente sostiene il suo candidato, che certe volte è espertissimo e altre non ha mai ricoperto quel ruolo ma è proprio quello che si vuole, talvolta è il più anziano talvolta il meno anziano ma molto più bravo, e così via», spiega il magistrato torinese. E sul blog si trova il resto.

I RITARDI DEL CSM — A cominciare dalle parole di Mario Fresa, presidente della Commissione trasferimenti del Csm: «L'irragionevole durata delle pratiche del Csm nei concorsi si riverbera sulla irragionevole durata dei processi». Fresa cita il caso dei posti, rimasti a lungo scoperti, al Massimario della Cassazione (è l'ufficio che raccoglie le sentenze della Corte: in genere ci finiscono magistrati giovani, studiosi e appoggiatissimi da una corrente): «È parso evidente che le divisioni riguardavano schieramenti precostituiti, a prescindere dall'esame dei profili professionali… Il metodo che veniva seguito era quello della spartizione correntizia». C'è poi la proposta - citata e criticata sempre da Fresa - di assegnare nove posti di sostituto procuratore generale presso la Cassazione «secondo una sorta di favore ingiustificato a coloro che hanno ricoperto incarichi associativi (cioè a chi ha rappresentato le correnti, ndr) .

LO SFOGO ONLINE — Sul blog i magistrati si sfogano e ragionano a voce alta: «Molti di noi immaginano - ha scritto Pierluigi Picardi, consigliere di Corte d'Appello a Napoli - che se essi lavorano in maniera pazzesca sia così un po' ovunque o credono che i casi di incapacità organizzativa o sfaticatezza siano marginali ma le cose non stanno così. Certi casi come quello di Bari dove un magistrato ha ritardi nel deposito delle sentenze anche di quattro anni ed è ancora al suo posto, non sono frequentissimi, ma se non riusciamo a colpire le situazioni più evidenti come si può immaginare di affrontare con rigore la normalità?». E ancora: «Il Csm non è in grado di decidere nemmeno su un caso clamoroso come quello di padre e figlio rispettivamente procuratore aggiunto e avvocato penalista; potrei continuare parlandovi di un Tribunale nel quale in un anno il collegio ha deciso 8 (dico otto) cause penali in tutto».Nel giugno scorso, dieci sostituti procuratori generali di Roma hanno rivolto un appello al vicepresidente del Csm, il senatore Nicola Mancino, sul modo nel quale si intendevano nominare un procuratore aggiunto e un sostituto procuratore generale nella loro città: «La discrezionalità del Consiglio si va mutando in inaccettabile arbitrio».

L'AMMISSIONE. Antonio Patrono, membro del Csm e segretario generale di Magistratura Indipendente, la corrente «di destra», ha poi riassunto così le posizioni sulla lottizzazione interna: «Noi sosteniamo che il correntismo esiste ed è un problema da risolvere tutti insieme; Magistratura Democratica e il Movimento per la Giustizia (la «sinistra» e i «Verdi», ndr) sostengono che esiste ma loro ne sono immuni e riguarda solo gli altri; Unità per la Costituzione (il «centro», ndr) sostiene che forse nemmeno esiste e comunque non è un problema… ».

«COLLEGHI, NON VOTATE» — Sul blog dei «ribelli», nasce così una proposta che non ha precedenti nella storia della magistratura: astenersi in massa dal voto per il Consiglio direttivo dell'Associazione, che sarà rinnovato tra poco più di un mese, il 12 e 13 novembre. Come scrive Stefano Racheli, sostituto procuratore presso la Corte d'Appello di Roma, «una contestazione forte», capace di «rompere col sistema» e di far sentire la voce di una base non più divisa in correnti ma organizzata «come una rete, da persone che non appartengono a nessuno e che non vogliono creare nuove appartenenze ». È presto per dire quanti accoglieranno l'appello. Ma, certo, mai come ora le vecchie correnti (e anche quelle più recenti, come «Movimento per la giustizia» e «I Ghibellini - Articolo 3») appaiono in discussione.

SERIE A E SERIE B — Le correnti e i mali interni della magistratura non sono l'unico oggetto del lavoro che Bruno Tinti ha scritto con la collaborazione di tre, anonimi colleghi. La depenalizzazione del falso in bilancio e la constatazione che la maggior parte dei procedimenti per reati finanziari non possono nemmeno cominciare o si concludono con la prescrizione occupa un capitolo chiave: «Oggi in prigione finiscono solo i poveracci e qualche spacciatore di droga, per poco tempo, e i magistrati come me rischiano la disoccupazione». «E non c'è alcuna differenza tra un governo e un altro - conclude il procuratore torinese - . Da Mani Pulite in poi, la preoccupazione è stata una sola: rendere non punibile la classe dirigente di questo paese». (Corriere della Sera on line)

Io onorevole vi spiego perché questa politica è disonorevole. Mara Carfagna

Il mercato dell’antipolitica è fruttifero: Stella e Rizzo hanno capito il momento giusto, Beppe Grillo cerca di cavalcare l’onda. Il problema della disaffezione verso la politica c’è, basta girare per strada e fare due chiacchiere con il primo che capita. E così i vari Grillo cercano di ergersi a rappresentanti di tale disagio. Il malessere può essere incarnato anche da un comico, ma le cause non possono affrontarsi con l’emotività della piazza.
La soluzione al vento dell’antipolitica (che rischia di diventare una bufera) deve trovarla la politica stessa, con un profondo e sensato processo di riforma all’insegna di due parole d’ordine: produttività e sobrietà. Se i cittadini continueranno a ritenere i loro rappresentanti nullafacenti non basterà la rinuncia a qualche benefit per placare gli animi. Serve uno sforzo maggiore, una dimostrazione di capacità decisionale. Non è possibile che trascorrano intere legislature senza riformare la Costituzione, senza metter mano a grandi questioni come sicurezza, immigrazione, tasse, scuola, università, mercato del lavoro e pensioni. E quando qualcuno ha il coraggio di dar vita a riforme forse difficili da spiegare ma certo utili al Paese – com’è avvenuto nella scorsa legislatura – c’è subito pronto un processo di controriforma che annulla tutto. È questo il terreno di coltura dell’antipolitica ed è questa la lacuna che i partiti devono colmare. Riformando partiti e sistema, garantendo partecipazione, trasparenza e rapidità nelle decisioni. Chi pensa che il problema si risolva cancellando i partiti non conosce le regole basilari della democrazia. Senza partiti, infatti, non c’è democrazia. Il problema è che oggi politica e informazione sono autoreferenziali, preferiscono parlare di primarie, litigi interni ai partiti, leggi elettorali, nuove alleanze, invece che dei problemi reali del Paese. Il tutto con scarsa sobrietà da parte di chi siede in importanti assemblee, troppe auto blu, benefit e qualche «lei non sa chi sono io» di troppo.
La gente oggi guarda il proprio portafogli e vede che lo Stato, sotto forma di tasse, gli prende quasi la metà per offrire servizi scadenti e tenere in piedi un baraccone clientelare fatto di nomine, prebende e sottogoverno. Ma anche la mancanza di serietà, stile e sobrietà di gran parte delle «uscite» che occupa la scena politica, non aiuta l’immagine delle nostre Istituzioni: oggi la dichiarazione sopra le righe è un must per chi vuole comparire su Tv e giornali. A sinistra vogliono sfruttare l’antipolitica per nascondere il non governo Prodi, la sua incapacità di decidere, le sue divisioni. Il centrodestra non può assistere inerte a questo tentativo, né può limitarsi a difendere la «categoria» dei politici, ma deve sfidare l’antipolitica sul proprio terreno, offrendo risposte chiare sui temi delle tasse chiedendo un taglio netto delle aliquote, della burocrazia opprimente, proponendo il licenziamento dei fannulloni che non producono, della giustizia inefficiente. Parimenti la politica deve creare un nuovo stile per dare un senso all’essere «onorevoli» e dare un’immagine di professionalità, serietà e competenza per ricreare quel sentimento di stima dei cittadini nei confronti delle Istituzioni. Per fare questo non basta ridursi lo stipendio. Serve una carica morale, uno spirito di missione e una riforma istituzionale che renda più facili le decisioni e più facilmente individuabili le responsabilità di chi decide. Bisogna ripartire dalle fondamenta nel nostro vivere civile. (il Giornale)

lunedì 24 settembre 2007

La verità sul terrorismo. Stefano Magni

http://www.ragionpolitica.it/testo.8335.verit_sul_terrorismo.html

"Quando si affronta la storia contemporanea, c'è sempre una significativa riluttanza ad ammettere le colpe dei regimi rossi, anche quando queste sono evidenti e dichiarate. In Italia abbiamo episodi tanto numerosi quanto assurdi di ribaltamento della frittata: il caso Moro è il più grottesco".

Quant'è inClemente. Davide Giacalone

L'indulto era inutile e dannoso, e i dati confermano oggi il nostro giudizio di allora. Inutile, perché non avrebbe risolto l'affollamento. Dannoso, perché mentre più della metà dei detenuti è in attesa di giudizio con quello si liberavano solo i condannati. Le cose sono andate esattamente come previsto: le carceri sono sovraffollate come se niente fosse stato, la giustizia è ferma come allora.Il ministro Mastella non perde occasione per ricordare che quel provvedimento fu un'iniziativa parlamentare, votata anche da gran parte dell'opposizione. Ha ragione. Ora dice anche che ha funzionato, dato che la recidiva è scesa dal 48 al 42 per cento. Più che avere torto straparla. Intanto quella percentuale si riferisce al totale dei recidivi, mentre le cifre assolute rendono meglio l'idea: di 26.572 condannati rimessi in libertà, 6.194 sono stati trovati a delinquere, e siccome stiamo parlando di gente che scontava la pena, è evidente che non si tratta di reati minori. Questo sarebbe un successo? Se gli va di festeggiare non dimentichi che siccome il 92 per cento dei processi che si concludono con una condanna prevedono una pena inferiore a quella che l'indulto cancella, ne deriva che i tribunali italiani, che già funzionano in modo incivile, stanno svolgendo inutilmente la quasi totalità del loro lavoro. Propongo un brindisi.Quando la politica si occupa di giustizia predilige concentrarsi sulla carriera dei magistrati. Giammai separate, com'è in tutto il mondo civile, riguardano più magistrati che in ogni altra parte d'Europa, che, naturalmente, ci costano più che altrove. In cambio ci procurano il più alto numero di condanne per violazione dei diritti umani. Ma per Mastella, si sa, l'importante era avere l'applauso della magistratura politicizzata, che ha meritatamente ottenuto smontando quel poco che il suo predecessore aveva fatto. Ora chiede che il Csm tolga dalla procura di Catanzaro chi indaga su lui stesso e su Prodi. La severità di quell'organo d'autogoverno è una barzelletta, la sua inutilità disciplinare dimostrata. Se agirà in fretta e con fermezza farà il paio con il tribunale che ha condannato in pochi giorni chi tagliò le cime allo yacht dove si trovava Mastella: la giustizia è inClemente e celere solo in certi casi. Guercia, più che cieca.

L'eterno mito della diversità. Ernesto Galli della Loggia

Questione morale e identità della sinistra.

Non è solo questione di antipolitica. Si ha l'impressione, infatti, che quello che sta accadendo in queste settimane, e che ha avuto un momento esemplare nella seduta di giovedì al Senato, sia qualcosa di più profondo, che viene da lontano. E cioè sia l'ultimo atto di quella disintegrazione del quadro politico e degli attori della prima Repubblica di cui fu un simbolo quindici anni fa Mani pulite. Allora, nel '92-'93, il terremoto risparmiò per varie ragioni la sinistra di tradizione comunista. Tra queste c'era principalmente il fatto oggettivo che essa aveva avuto responsabilità certo minori nella gestione, e dunque nella degenerazione affaristica, del potere. Aveva anch'essa una grossa colpa, ma di ordine tutto politico: con il suo radicalismo aveva mantenuto il sistema bloccato, privo di alternative. La storia le concesse quindi, benignamente, una inaspettata occasione: le «abbuonò» il radicalismo che ancora la pervadeva concedendole di arrivare a quel governo a cui, con il Caf in piedi, non sarebbe certo mai arrivata. Oggi possiamo dire che quell'occasione la sinistra ex Pci l'ha clamorosamente sprecata. Essa non capì allora, e non ha capito per tutti questi anni, che, in quanto promossa dalla storia a sinistra riformista di governo senza esserlo, il suo primo compito e il suo primo interesse dovevano essere quelli di diventarlo davvero. E cioè di condurre una grande battaglia di rottura culturale rispetto al proprio stesso passato per cancellare dal suo popolo la mentalità radicale, e dunque potenzialmente sempre incline al massimalismo di vario tipo, che fin lì l'aveva caratterizzata.
Mentalità fatta da un conglomerato di idee, di sentimenti, di pulsioni diverse. Per esempio che il governo diverso dal nostro non può che fare leggi orribili le quali vanno subito cancellate; che la richiesta di galera per i delinquenti e di vie silenziose di notte è «di destra»; che l'avversario politico ha una qualità morale differente e in ogni caso neppure comparabile con la nostra; che ogni modifica alla legislazione del lavoro che non ha il placet sindacale è per ciò stesso un attentato alla libertà; che le tasse colpiscono i ricchi e, dunque, «facendoli piangere» non sono mai troppe; che nei confronti degli immigrati clandestini o dei giovani dei centri sociali la legge e l'ordine sono una semplice option, e via di seguito. Invece con questo ammasso di idee, di sentimenti e di pulsioni, radicate da decenni nel popolo di sinistra, nel loro stesso popolo e in qualche misura anche in loro stessi, nella loro identità politica, i dirigenti della sinistra che pure si diceva riformista i conti, in questi quindici anni, hanno accuratamente evitato di farli. Sono rimasti prigionieri di quella che è stata la vera, paralizzante maledizione della cultura di tradizione comunista: il continuismo. Bisognava mantenere la finzione del cammino ininterrotto e soprattutto coerente da Gramsci a Romano Prodi, che tra vini vecchi e otri nuovi, o viceversa, non ci fosse alcuna incompatibilità. Quindi al massimo «svolte», ma mai l'idea che fosse necessario affrontare a muso duro il passato dicendo, anzi gridando, chessò: «Nel '48 De Gasperi ha salvato la libertà del Paese», ovvero «era giusto, come voleva Craxi, mettere i missili a Comiso » ovvero ancora «la questione morale di Berlinguer era una strada che politicamente non portava da nessuna parte»; e magari aggiungere: «Guardate, cari amici e compagni, ammazzare o essere complici degli assassini forse è peggio che rubare». Invece nulla. A loro parziale attenuante i dirigenti della sinistra ex Pci possono peraltro osservare, e ben a ragione, che né i cattolici democratici né la sinistra non ex Pci, entrambi loro alleati, non li hanno mai incalzati in questa direzione.
Anzi: i primi sono arrivati spesso a scavalcarli strizzando l'occhio a estremismi e estremisti vari (vedi Prodi con Rifondazione), e la seconda ha sempre e solo badato a cercare di egemonizzarli intellettualmente facendosi ogni volta forte delle loro contraddizioni per impartirgli le lezioncine del caso nei suoi sussiegosi articoli di fondo. Il moralismo intinto di demagogia con il quale il popolo di sinistra oggi si avventa feroce contro i Ds, contro il centrosinistra e il suo intero personale politico, è l'altra faccia del radicalismo lasciato così a lungo indisturbato a prosperare. In politica le cose si tengono sempre tutte. Il radicalismo ideologico, in quanto rifiuto del compromesso, della medietà, dell'idea che il mondo non è tutto nero o tutto bianco, essendo cioè rifiuto delle cose così come abitualmente sono (e non possono non essere), è fatto apposta per alimentare l'idea della obbligatoria «diversità» antropologico- morale. Che per essere di sinistra si debba essere «diversi» è l'altra faccia dell'idea che chi non è di sinistra è per ciò stesso moralmente dubbio. Alla «questione morale» si permette così di divenire la vera identità politica della sinistra, mentre la linea politica perennemente in agguato si riduce ad essere il moralismo dei demagoghi.

sabato 22 settembre 2007

Contromano

Se dobbiamo far cadere il governo rimestando nelle infrazioni di Burlando, non arriveremo mai al dunque.
Il "governatore" della Liguria si è confuso, grazie anche ad una segnaletica carente quanto imbrogliona, ed ha imboccato una svincolo contromano: quando si è reso conto dell'errore si è fermato, poi è arrivata la Polizia, che ha compilato il verbale, e quanto prima si vedrà revocata la patente per il periodo previsto dal codice della strada, più relativa sanzione.
Fine della trasmissione. Nessun favoritismo, niente "lei non sa chi sono io", niente sconti e nessun privilegio di casta.
La Repubblica avrà ragioni valide, ancorché inconfessabili, per attaccare l'ex ministro dei Trasporti, ma la stampa di centrodestra sarebbe meglio si occupasse di cose più serie e non facesse da cassa di risonanza al quotidiano di De Benedetti.
E per cose serie mi riferisco al problema giustizia, sotto tutti gli aspetti: dalla lentezza, alla protervia di certa magistratura, alla scarsità del personale e alla mancanza di certezza della pena.
Sarebbe più serio occuparsi della polizia che, a quanto si dice, ha mezzi inutilizzati per mancata manutenzione e mancanza di fondi per il carburante.
Problemi come la delinquenza, l'immigrazione clandestina, il degrado delle città, l'aumento del costo della vita, la sanità e la scuola, hanno più "succo" dello stile di guida di Burlando.
Lasciamo che la sinistra si laceri con le faide interne, noi abbiamo così tanto materiale che la prossima campagna elettorale è già fatta per metà.

Che stronzate! Christian Rocca

Che stronzate! Scusate se comincio così, ma scrivo questo articolo come voi-che-non-avete-idea-di-che-cosa-siano-i blog pensate siano scritti i blog. Stiamo calmini, eh. Il tema del dibattito, dunque, sarebbe questo: Beppe Grillo sbraita sul suo sito e i grillanti sono esseri orrendi, quindi i blogger sono dei ragazzetti brufolosi con occhi arrossati e senza vita sentimentale oppure dei trogloditi frustrati e forse anche impotenti. Sto forse negando che esistano esemplari di tale specie? No, per niente: se esistono nel mondo reale, ci sono anche in quello virtuale.
Voglio soltanto dire che accusare la blogosfera per i contenuti del sito di Beppe Grillo non è un semplice fare di tutta l’erba un fascio (espressione, nel caso di specie, scelta non a caso), ma è come prendersela con il concetto di autostrada soltanto perché Claudio Burlando trova più comodo imboccarla contromano. Il mezzo sarà anche il messaggio, come diceva quello, ma voi ve la prendereste con la Tim se un abbonato di Vercelli insultasse al cellulare l’ex fidanzata trasferitasi con l’amante a Busto Arsizio? Al tempo del popolo dei fax, era il popolo o il fax che faceva orrore? Ecco, il blog è una specie di telefono o di telefax che non squilla e non stampa. E’ lì, se vuoi alzi la cornetta o prendi il fax. Sennò, non disturba. Discutere di che cosa si dica solitamente al telefono o di cosa mediamente si scriva sui fax mi pare bizzarro. Volete davvero organizzare un coltissimo V-day contro il telefono e il telefax? Accomodatevi, ma secondo me confondete i blog con i forum, fenomeno che popolava la rete ben prima dell’avvento dei blog.
Altra obiezione, quella che mi pare la più stramba, malgrado provenga nientedimeno che dal Boston Globe, ancorché ripresa dall’Herald Tribune. Ecco, già questo. L’Herald Tribune riprendendo l’articolo di Steve Almond (Stefano Mandorla con la traduzione di Google) non ha fatto altro che la stessa operazione che la gran parte dei blogger compie quattro o cinque volte il giorno e che consiste nel riprendere, segnalare, proporre ai propri lettori un articolo comparso altrove. Questo fanno i blog di informazione. Mettono in circolazione notizie e articoli e video e musica non conosciuti, poco reperibili o altrimenti invisibili. Prendono un link dal Miami Herald o dal Chicago Tribune e lo segnalano a uno che sta ad Abbiategrasso. Punto. I blogger bravi non pretendono di fare i giornalisti (ammesso che non lo siano già), non cercano di fare scoop, non hanno bisogno di verificare nulla, perché le verifiche sono state già fatte, sort of, da quelli con il tesserino corporativo vidimato da Ciccio Abruzzo. E s controllano, può anche capitare che forniscano un servizio, costringendo i giornalisti cartacei a spararle meno grosse.
Ancora. Non c’entra un fico secco “la gerarchizzazione delle informazioni” che manca sui blog. Credete che i blog siano Il Riformista? I blog sono tematici, la gerarchizzazione è nella loro ragione sociale. Ok, ci sono anche parecchi blogger che prima di andare a nanna pretendono di essere grandi autori. Ma, dico, avete letto i diari americani di Claudio Magris, dico Claudio Magris, sulle pagine culturali, dico pagine culturali, del Corriere della Sera, dico Corriere della Sera? Tra i blog che frequento io, nessuno li avrebbe mai pubblicati.
Quello del giornalista è un mestiere più facile del blogger. Fare il giornalista è sempre meglio che lavorare, diceva quell’altro. Ma fare il blogger non si può dire che sia sempre, proprio ogni notte, meglio che dormire. Oggi in America i più grandi giornalisti hanno un blog, un blog vero, e sono pagati per scriverci. Una cosa che da sola chiude la discussione su rispettabilità & professionalità, ma anche sull’unica critica sensata che abbia mai sentito sulla blogosfera, quella che qualche anno fa, credo ispirata da Giampiero Mughini, fece Guia Soncini: ma chi ve lo fa fare di scrivere gratis?
I grandi quotidiani, settimanali e mensili d’America ospitano decine di autorevolissimi blog (il New York Times 33, l’austero New Yorker una mezza dozzina), fonti strepitose di notizie e informazioni. Nessuno di questi blog è simile a quelli dei giornali nostrani, tristi luoghi dove l’inviato di grido un giorno sì e tre no stancamente scrive quattro o cinque righe di pensierucci personali. Per chiudere: se avessi scritto questo articolo su un blog, anziché sulla carta, avrei fornito i link a conforto della mia tesi. La considero una prova della superiorità mediatica dei blog. (il Foglio)

Al direttore. il Foglio

- Dopo Otto e mezzo di giovedì sera sul clima ho chiaro che: gli agenti federali sono “chiacchere e distintivo” (De Niro-Al Capone), i politici sono “chiacchere e televisione” (Grillo), e i climatologi di scuola ambientalista sono “chiacchere e modellistica” (Franco Prodi). Tutti gli studenti di ingegneria sanno che i modelli al computer senza verifiche sperimentali sono garbage in, garbage out. Infatti prevedere con modelli sul clima che il riscaldamento globale del pianeta sarà tra un secolo 1 o 5° C (International Panel on Climate Change Onu) equivale a dire che un adulto ha una aspettativa di vita che oscilla tra 100 e 500 anni. Accipicchia e acciderba! Il grande matematico Von Neuman – ideatore del calcolo al computer – ironizzava così: datemi tre parametri liberi nel modello e vi creerò l’elefante, datemene un quarto e lo farò volare. E poi, troppe inesattezze non degne dello scienziato Franco Prodi: che la CO2 è il principale gas serra, mentre tutti gli studenti di ingegneria sanno che è il vapore acqueo di gran lunga il più importante (2/3 circa è la superficie terrestre coperta da mari e oceani, e di vapore in aria ce n’è tanto); che la sorgente principale di gas serra nell’atmosfera non è l’uomo bensì lo scambio di massa con gli oceani e le terre emerse, i vulcani e le emissioni animali, peti compresi; che al Polo Nord i ghiacci si riducono ma al Polo Sud sono in aumento, che la nuvolosità gioca un effetto notevole sul riscaldamento in arrivo sul terreno e nessuno proprio nessuno la sa prevedere. E via enumerando. A proposito, ha fatto bene a tenersi vicino un maglioncino queste sere d’estate. Anch’io l’ho trovata freschetta. Scriviamo un modello?
Francesco Floris, Cagliari

venerdì 21 settembre 2007

Basta Rai. Davide Giacalone

I clamori politici cesseranno, la Rai resterà lì. Uguale a se stessa. Dice Padoa-Schioppa che il problema sono le ingerenze politiche. Ma va là? Ficcante e preciso, il signor ministro. Originale e coraggioso. Sono solo quaranta anni che si ripete questa banale ovvietà, ma allora lui si concentrava sul “Bracco Baldo Show”,
mutuandone anche la fisionomia. Aggiunge che Fabiani non risponderà ai suoi ordini. Ne stia sicuro, Fabiani risponde agli interessi di Veltroni e Prodi. Il primo perché vuol far sapere ai riottosi compagni che senza il suo benestare potranno essere ripresi, al più, dai videocitofoni. Il secondo perché, accontentando il primo, conta di campare un po' più a lungo. Lui, il Padoa-Schioppa, è solo il signore ripetutamente scelto per andare in Parlamento a difendere gli atti politicamente illegittimi, benché non illegali.
Prima delle elezioni Prodi sostenne che la Rai si doveva privatizzarla. Ora anche D'Alema dice che una rete è più che sufficiente per il servizio pubblico. Bravi, giusto. Ma ho una curiosità: come si conciliano queste riflessioni con il disegno di legge presentato dal governo? Lì la Rai resta com'è, solo che la lottizzazione la si fa sporcando ancora più mani, coinvolgendo gente culturalmente blasonata ma che, provvidenzialmente, non ci capisce nulla. E come si combinano quelle volontà privatizzatici con la proposta accentratrice di Veltroni, che già non è compatibile con la Gentiloni, e che presto sarà la guida del partito dove tutti quanti dovrebbero ritrovarsi? Alle due domande c'è una sola risposta: sono parole dette così per dire, nella sostanza non cambia nulla.
Il guaio di questo disgraziato Paese non è solo quello di avere un governo perdigiorno e policromo, dove ciascuno dice quello che gli pare e nessuno decide alcunché, ma c'è anche un'opposizione che quand'era al governo lasciò le cose come stavano, concentrandosi sugli amministratori, e che, oggi, non ha una proposta seriamente alternativa da contrapporre. Così la politica muore e ci s'occupa solo di Fabiani, che è stimabile persona, smaniosa di chiudere in bruttezza.
Ripeto: vendere la Rai sarebbe un bene per il mercato dell'informazione, per la libertà di competere, per la buona salute morale della politica e per le casse dello Stato. Forse troppo, per poterci sperare.

Un centrodestra minimalista nella battaglia contro il carico fiscale. Marco Bertoncini

Di fronte all’impopolare, testarda ostinazione di Romano Prodi nel non procedere a riduzioni fiscali, delude l’atteggiamento del centro-destra. Se c’è una battaglia facile, immediata, redditizia, è quella contro il carico fiscale. Due soli esempi bastano a rilevarne il valore: l’effetto trascinante operato dalla sparata berlusconiana anti-Ici e la perdita secca registrata nei consensi dal centro-sinistra ogni volta che si è messo a indicare (litigando) quali settori avrebbe tenuto immuni dall’incremento tributario (o dalla reintroduzione dell’imposta di successione). Insomma: il centro-destra avrebbe a disposizione una bandiera da sventolare, che invece trascura.

Viene lasciato alla Lega il ruolo di unico alfiere di quella che è chiamata rivolta o rivoluzione fiscale. La Lega, a sua volta, come sempre alza alquanto la voce, ma stringi stringi anch’essa è rimasta invischiata in una pania dalla quale nessuna formazione del centro-destra sembra riuscirsi a liberare. Il centro-sinistra, a sua volta, ci si trova naturaliter per visione politica e pregiudizio ideologico. Si tratta dell’errata concezione che sia necessario abbattere le spese prima di procedere a qualsiasi taglio tributario. Correlativamente, c’è la visione del carico fiscale come dovuto in nome della solidarietà. Corollario di tali posizioni è il chiudersi nella denuncia degli sprechi pubblici, che esistono e che vanno duramente perseguiti, ma la cui soppressione totale, quand’anche fosse possibile, non inciderebbe in maniera decisiva sulla spesa.

Il centro-destra inorridisce all’ipotesi di battersi contro l’imposizione in sé e per sé. Teme di passare per affamatore dei poveri o sostenitore degli evasori. Non ha il coraggio di sostenere che occorre procedere a vigorose sforbiciate di tutti i tipi di tributi, diretti, indiretti, statali, locali: la Lega si svilisce in un assurdo tentativo di difendere come giuste le tasse per gli enti periferici, laddove non è la destinazione che va combattuta, bensì l’imposizione in sé stessa. L’ex Cdl non vuole far propria la lotta per la libertà dal fisco, proponendo il passaggio alle scelte private per gl’immani carichi previdenziali e sanitari, che finiranno col travolgere l’economia italiana. No: il centro-destra con timidezza contesta singoli provvedimenti o singole mancanze del centro-sinistra, ma non affronta il problema.

L’opposizione, invero, sfrutta due grandi vantaggi. Gode dell’impopolarità di esponenti in primo piano, come Tommaso Padoa-Schioppa (autore di un “elogio delle tasse” che un’opposizione intelligente gli farebbe pagare politicamente parola per parola) e Vincenzo Visco (di cui la stessa Unione conosce la draculesca fama). Inoltre trae profitto dalla totale incapacità del centro-sinistra di condurre una politica tributaria che non sia vessatoria (i giornali di martedì scorso erano un tracollo d’immagine per Prodi, ridotto a garantire che non ci sarebbero stati incrementi fiscali, affermazione peraltro smentibile già dalle operazioni in corso sull’Ici). Però, come si vede, sono condizioni negative del governo, non politiche positive proprie. Come sempre, il centro-destra si avvantaggia degli errori e dell’incapacità altrui, ma non opera positivamente da parte propria. (ItaliaOggi)

giovedì 20 settembre 2007

Rubano ai figli per dare ai padri. Davide Giacalone

Il raduno bolognese, consacrato alla protesta generalizzata, è stato annun­ciato e sostenuto da stampa e televisio­ne.

Poi il labbruzzo della politica è divenuto tremulo quando ci si è accorti che le parole forti erano niente rispet­to alla forza del rifiuto e della piazza.

Della manifestazione convocata, da un meritevole Capezzone per sabato prossimo, invece, non parla nessuno. Lì si protesta con­tro un fatto specifico: si prendono soldi ai più giovani ed ai meno garantiti, per darli a chi già ha altri privilegi. Si prende ai figli per dare ai pa­dri.

Quando se ne accorgeranno, le proteste che oggi definiamo "antipolitica" saran­no ricordate come garbata critica. In tutta Europa l'età pensionabile sale, da noi la si è fatta scendere. O gli altri sono scemi o qui qualcuno ci rimette: i gio­vani. Li si prende in giro dicendo che si deve combattere il precariato, in realtà si toglie al loro salario per trasferire ric­chezza a chi va in pensione aven­do lavorato troppo poche ore per troppo pochi anni. Si fa credere che il lavoro dipenda dalle leggi che vincolano l'impresa, mentre quelle servono solo a finanziare la baracca corporativa che con­segna potere ai sindacati e clien­tele alla politica.

Il lavoro, per esserci, ha bisogno dell'e­satto contrario. In Francia Sarkozy dice che si deve lavorare di più per reggere lo Stato sociale, che si devono cambiare criteri di rappresentanza e finanzia­mento dei sindacati, che si deve incre­mentare l'assicurazione sanitaria inte­grativa. Per questo avvia incontri con le parti sociali, che devono durare due set­timane. Da noi si parla per decenni, e alla fine una politica sempre più esan­gue cede ai sindacati facendo finta che siano rappresentanti dei lavoratori. Il moralismo senza etica e la condanna in piazza quel che fa in privato può creare imbarazzo, specie ad una politica senza forza morale e ideale. Ma la rab­bia generata dall'impoverimento sarà devastante.

Il prossimo 22 non so quanti saremo a manifestare, ma se la gara fosse fra idee e non fra masse, fra proposte e non fra proteste, allora quel giorno sarebbe l'oc­casione per acchiappare la politica per i capélli ed evitarle d'affogare nella costosa inutilità. Si dica, ai tanti giovani che non ci saranno, che rimettere le mani nella politica, non rassegnarsi, è un loro interesse. (Libero)

Adesso. Jena

Se da anni vi chiedevate a cosa servisse un’inutile e costosa istituzione quale il Parlamento europeo, adesso lo sapete: a salvare D’Alema.(la Stampa)

mercoledì 19 settembre 2007

Nel Paese dei furbi il premier è re. Giordano Bruno Guerri

«Gli italiani non sono meglio della classe politica che li rappresenta», ha detto Romano Prodi a Porta a porta. Anche se fosse vero, è inaccettabile l'assunto del capo del governo per cui, siccome la classe politica è fatta da italiani e eletta da italiani, deve per forza condividere pecche e vizi nazionali. «Io mi giro intorno», ha detto ancora, «e vedo concorsi truccati, figli che fanno lo stesso mestiere dei genitori...». E poi, via via, chi può evadere evade, i furbi la fanno sempre franca ecc.. D'accordo, ma questo non autorizza i politici a fare altrettanto e la classe politica deve essere migliore di chi l'ha eletta. Se per Prodi è normale che i suoi colleghi di governo e di Parlamento siano arruffoni e cialtroni, avidi voltagabbana, mediocri se non nel mangiare a ufo, di conseguenza immagino, per fare un esempio concreto, che Prodi giudichi normale, lecito, giusto, che i politici approfittino della loro posizione per acquistare o affittare case a prezzi di favore, visto che - se potesse - farebbe altrettanto la totalità degli italiani. Sono dichiarazioni da far venire i brividi, perché giustificano tutto e assolvono tutti indicando nel popolo l'unico colpevole. Se è come ha detto Prodi, non si capisce più perché la sinistra si sia sdegnata e si sdegni tanto con Berlusconi, che sarebbe in politica esclusivamente per fare i propri interessi personali. Non lo farebbe «qualsiasi italiano»?

Con le sue dichiarazioni spericolate, Prodi ci dice che non vale più, o non è mai esistito, il patto non scritto ma inviolabile sul quale si basa il sistema democratico-rappresentativo: i cittadini eleggono i loro rappresentanti perché legiferino e amministrino la cosa pubblica al meglio delle loro possibilità, nell'interesse di tutti e accantonando gli interessi personali. Ci si aspetta insomma che chi viene eletto, se non è migliore degli elettori, lo diventi per senso di responsabilità verso il ruolo che occupa; per un senso di dirittura etica e morale, di intima onestà che la carica dovrebbe accrescere e non annullare. Tanto più con l'attuale, e sciagurata, legge elettorale che non permette più ai cittadini di esprimere una preferenza per questo o quel candidato.

Se quel patto tacito non viene rispettato, i cittadini sono gli ingannati, non i responsabili della disonestà e dell'inefficienza della classe politica. Proprio mentre Prodi se la prende con Grillo e con gli italiani (colpevoli anche di non donare abbastanza sangue: quando se ne dona in Parlamento?), non fa che giustificare l'iniziativa populista del primo e l'ira dei malgovernati. Gli italiani, già di per sé individualisti e anarchicheggianti, hanno bisogno di avere un minimo di fiducia in chi li governa. Le dichiarazioni di Prodi suonano a morto, per questa fiducia.

martedì 18 settembre 2007

La politica migliora se aiuta la cultura. Marcello Dell'Utri

http://www.ildomenicale.it/articolo.asp?id_articolo=816

"Se nel 1994 Berlusconi fece uscire i partiti italiani da un dibattito invecchiato e sterile, adesso è il momento di dare corpo a un nuovo progetto culturale che possa sostenere il futuro del Centrodestra. Tenendo presente che nel mondo liberale l’appartenenza non implica omologazione bensì autonomia di pensiero".

Caso Microsoft: concorrenza o potere. Alberto Mingardi

http://liberalizzazioni.blogspot.com/

La sanzione alla società di Bill Gates vista da un'angolazione diversa.

Buonsenso a sinistra. Luca Ricolfi

Che succede a sinistra? Chi ricorda che cos’era la sinistra, inclusa quella riformista, prima dell’estate 2007, non crede ai propri occhi e alle proprie orecchie.

Fino a ieri, se invocavi interventi delle forze dell’ordine contro clandestini, nomadi, tossicodipendenti, prostitute, lavavetri eri un razzista, un leghista, un fascista, o come minimo una persona rozza, priva di un’adeguata cultura civica: oggi non più, e non capisci perché. Fino a ieri, se ti azzardavi a dire che nella scuola ci vorrebbe un po’ più di severità e un ritorno ad alcuni capisaldi tradizionali (come la grammatica, lo studio a memoria, le odiate nozioni) eri guardato con commiserazione, e bollato come reazionario, retrogrado, nemico della modernità e del progresso: oggi non più, e non capisci perché.

Fino a ieri, se dicevi che occorre abbattere la pressione fiscale, venivi irrimediabilmente crocefisso come berlusconiano, furbastro, evasore fiscale: oggi non più, e non capisci perché. Fino a ieri, se eri un ammiratore di Beppe Grillo ti davano del qualunquista, e a lui riservavano ogni sorta di contumelia, tipo sfascista, populista, antipolitico, qualunquistello: oggi non più, e non capisci perché.

Nel giro di poche settimane la sinistra è cambiata, ma non ci sta spiegando che cosa le è preso. Il raptus iconoclasta che ha colpito i suoi dirigenti è evidente, ma restano poco chiare le ragioni di un voltafaccia così repentino e spettacolare. Perché vi state liberando di tutti i vostri tabù?

Una ragione, probabilmente, è la paura. È possibile che i dirigenti del Partito democratico abbiano capito quale abisso il governo Prodi sia riuscito a scavare fra la sinistra e il Paese, e stiano tentando di recuperare voti sintonizzandosi con gli umori profondi dell’elettorato, specie quello del Nord. Se è così si illudono: la gente non è stupida, e sa distinguere i cambiamenti genuini, frutto di una vera maturazione politica, dai cambiamenti decisi a tavolino, dettati da furbizia e calcolo. Quel che andava fatto vent’anni fa, quando la caduta del Muro di Berlino aprì una nuova stagione politica in Europa, non può essere fatto credibilmente in pochi mesi, sotto la spinta dei sondaggi. La sinistra che i riformisti stanno affannosamente propinandoci sa troppo di ingegneria sociale: chi ha sempre diffidato della sinistra riconosce al volo l’artificio, chi è sempre stato di sinistra non riesce a riprogrammarsi in così poco tempo, e finisce per sentirsi ingannato e tradito. Proprio perché sono decise a tavolino, senza una lunga e severa discussione pubblica, le novità che Veltroni e i suoi ci stanno apparecchiando hanno un inevitabile sapore Ogm, di organismo geneticamente modificato: il Partito democratico sarà pure una creatura perfetta, ma le sue parole d'ordine sono troppo nuove e tardive per non apparire il frutto di un esperimento di laboratorio.

Ci sono però, forse, anche altre ragioni - più rispettabili e più serie - che guidano la recente raffica di dietrofront. Può darsi che alcune cose, nell’immobile e spesso autocompiaciuta cultura della sinistra, stiano cambiando davvero. Una prima cosa che sta cambiando è il rapporto della sinistra con il senso comune. Alcune delle idee che la sinistra va affermando, e che appaiono scandalose a tanti intellettuali, sono di puro buon senso. Che a scuola si vada essenzialmente per studiare, che i fannulloni vadano licenziati, o che la legge debba valere per tutti (compresi gli «ultimi»), possono sembrare idee di destra solo per l’ostinazione con cui sono state combattute per tanti anni, e possono apparire innovazioni rivoluzionarie solo per la spocchia con cui la cultura di sinistra ha sempre disprezzato i (presunti) pregiudizi delle persone semplici. Checché ne pensino i militanti più puri e duri, non è la sinistra che sta andando a destra, ma la rivoluzione del buon senso che sta travolgendo la sinistra.

Ma c’è anche un’altra cosa, forse, che sta cambiando a sinistra. Poco per volta, lentamente ma ineluttabilmente, ci si sta rendendo conto che i deboli «non sono più quelli di una volta, e che ormai né i partiti di sinistra né i sindacati difendono i veri deboli». In materia pensionistica, i diritti dei giovani vengono calpestati a favore dei privilegi dei cinquantenni. Nelle politiche del lavoro i diritti dei disoccupati, dei lavoratori in nero, dei precari sono sistematicamente subordinati a quelli degli occupati forti (dipendenti pubblici e delle grandi imprese). Nell’istruzione l’abbassamento degli standard penalizza i ragazzi dei ceti più umili, mentre i figli di papà possono tranquillamente rifarsi grazie alle risorse famigliari. Sul territorio la tolleranza per la microcriminalità protegge i prepotenti e mette a rischio i soggetti più vulnerabili (donne e anziani). Per non parlare dell’immigrazione, dove l’incapacità di espellere i criminali e i clandestini rende la vita più difficile innanzitutto agli immigrati onesti.

Chi sono i veri deboli? Questa è la domanda cui - a sinistra - non si riesce più a dare una risposta condivisa. (la Stampa)

lunedì 17 settembre 2007

Cossiga "avverte" De Benedetti. Giorgio De Neri

Polemica: se continua a farmi attaccare parlo di certi traffici con l'Urss.

Per un "sardus pater" di temperamento come Francesco Cossiga è sempre stato leggere per due settimane di seguito gli attacchi personali riservati a lui dal settimanale "L'Espresso", e ripresi con clamore dal quotidiano "La Repubblica", entrambi posseduti da Carlo De Benedetti, è cosa da far venire il sangue agli occhi. E le reazioni mediatiche sono in diretta proporzione. Così se la prima volta quando si era parlato della casa venduta da un ente a suo figlio a prezzo agevolato si era limitato a scrivere una piccata lettera al "Giornale", ieri, dopo l'ennesimo affondo della stampa scalfarian-debenedettiana alla sua figura, è passato direttamente all'insulto e alla minaccia. L'imprecazione è tipicamente romana: "Adesso Carlo De Benedetti mi ha rotto i co......!”. La minaccia però è di quelle da far paura a chiunque perchè chiama in causa la pregressa e presunta infedeltà atlantica dell'allora capo della Olivetti.

“Spero che non vi siano altri attacchi dell’Espresso e Repubblica, noti ‘avvelenatori di pozzi’ - dice infatti Cossiga al "Velino" - perchè sarei fortemente tentato di aprire una cassaforte elettronica datami dal governo per custodire documenti top secret di cui mi è stata autorizzata la detenzione tra cui, ma forse ricordo male, alcuni appunti del Dipartimento di Stato Usa e della Cia americana che tratterebbero traffici di materiale strategico proibito da precise norme della Nato tra l’Olivetti, allora di sua proprietà, e l’Unione Sovietica in tempo di guerra fredda. E pensare che il ministro degli Affari esteri di allora, l’amico Gianni De Michelis, e io che ero presidente della Repubblica, durante il nostro viaggio a Washington lo difendemmo a spada tratta pur sapendo di mentire". La vicenda dell'insider industriale a favore dell'Urss, sempre smentita dall'interessato, era venuta fuori anche nella Commissione Stragi e poi in quella Mitrokhin. E se Cossiga decidesse di attuare le proprie minacce, il rischio per l'Ingegnere è quello di passare alla storia come la quinta colonna dello spionaggio sovietico nella borghesia industriale italiana. Cosa che potrebbe comportare non poco imbarazzo anche ai giornalisti di "Repubblica" visto che un paio di loro sono stati recentemente epurati per avere passato articoli del duo Bonini-D'Avanzo a quello strano personaggio del Sismi che era Pio Pompa.(l'Opinione)

Ferrero si vergogna. Anche noi (di lui). Maria Giovanna Maglie

Ci stiamo abituando a tutto, ma al fondo c'è la fine di una democrazia, per imperfetta che sia, c'è Itabia, perdonate l'ossessione da Cassandra sul nostro futuro di consegnati agli islamici che fomentano l'odio. Se così non fosse, Paolo Ferrero, ministro della Solidarietà sociale, sarebbe costretto immediatamente alle dimissioni, e qualche prestigioso giudice togato starebbe valutando come e quanto il ministro dei clandestini, rifondarolo, cassintegrato, obiettore, abbia violato il patto assunto con il presidente del Consiglio, Romano Prodi, e nelle mani del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Invece il Consiglio dei ministri gli ha scodinzolato dietro, a partire dal ministro dell'Interno, e tra poco saremo invasi da clandestini che nessuno saprà come piazzare né come mantenere.
Mi sentirei di citare l'articolo 93 e il 95 della Costituzione, solitamente tanto cara alla sinistra italiana, forse perché nel suo articolo numero 1 ne perpetua un arcaico leninista potere: «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro», quando, se solo dicesse «fondata sull'individuo», ci libererebbe tutti dal male. L'articolo 93 recita che il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, prima di assumere le funzioni, prestano giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica.
Il 95 aggiunge che il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l'unità di indirizzo politico ed amministrativo, promovendo e coordinando l'attività dei ministri. I ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri. Non sarà certo la prima volta che il governo Prodi dimostra il contrario, un gallinaio di indecenti beccate, e personaggi che non ritengono di rispondere al patto sottoscritto ma Ferrero ha fatto di più e di peggio, ha tradito il patto con la nazione.
Veniamo alle pubbliche dichiarazioni del ministro, Paolo Ferrero, che era ospite della Camera del Lavoro di Milano. «È ora che gli immigrati facciano sentire la loro voce e diano vita ad una manifestazione per spiegare fortemente le loro ragioni». «È giusto che siano incazzati come delle bestie». Rifondarolo, cassintegrato, obiettore, raffinato nell'eloquio.
Agli immigrati che abbiano problemi speciali dei quali lamentarsi contro le istituzioni italiane, fa una bella propostina autogestita: «Verranno pubblicate a mie spese sui maggiori organi di informazione. Inoltre li invito a denunciare alla magistratura chi, come ambasciate o consolati, mette dei vincoli al rinnovo dei permessi di soggiorno». Meglio del capo dell'Ucoii.
«In realtà il problema dei permessi di soggiorno - aggiunge Ferrero - è di competenza del ministero degli Interni e non mia, ma la situazione è così assurda perché da una parte c'è la destra che pianta casino, e dall'altra l'Unione che ha paura di essere sconfitta. A volte mi vergogno di far parte di questo governo, ma anche se me ne andassi la situazione non sarebbe di facile soluzione ed è per questo che rimango e continuerà la mia battaglia all'interno. Ci sarà chi parlerà di un conflitto, ma non vedo altra strada che questa». Un ministro che si vergogna del governo del quale fa parte, ma decide di restarci come infiltrato della controparte, voi come lo definite?
«Per il ruolo che ricopro non posso commentare le proposte di un ministro», così il presidente della Camera Fausto Bertinotti, a Parigi per la festa del Pcf, una specie di cadaverino del comunismo, ha risposto a chi gli chiedeva commenti sulle esternazioni di Ferrero. Le ha chiamate proposte.
La verità, come la pensano gli immigrati, è che Ferrero sta cercando di attirarli alla manifestazione del 20 ottobre, così avrà un po' di disperati da manipolare, coloro che non ha regolarizzato, quelli che attendono una sanatoria da quando questo governo è salito al potere. Forse il ministro ha dimenticato che il centrodestra ha avuto il coraggio di regolarizzare 800mila immigrati, dando loro una dignità nel nostro Paese? Lui preferisce far entrare chiunque e non garantire nulla a centinaia di migliaia di clandestini, per poi portarli in piazza contro l'Italia. Io dico che andrebbe fermato.(il Giornale)

Il grande errore. Angelo Panebianco

Riforme non fatte e protesta antisistema.

Se si sprecano le occasioni, prima o poi la storia si vendica, presenta il conto. Nella società disgregata, «a coriandoli», secondo la felice definizione di Giuseppe De Rita, convivono, senza contraddizione, cinismo, rassegnazione, cupo pessimismo e movimenti di protesta anti sistema di crescente intensità. Ciò è il frutto del «Grande errore »: il mancato rinnovamento dello Stato negli anni Novanta. Per un certo periodo le conseguenze del grande errore non vennero comprese da molti. Ma nel momento in cui, dal conflitto orizzontale, fra Berlusconi e i suoi nemici, si passa al conflitto verticale, fra settori significativi dell'elettorato e la classe politica, quelle conseguenze diventano drammaticamente evidenti. Dio non voglia che ciò preannunci un nuovo ciclo di violenza.

Nei cinque anni del governo Berlusconi, la disgregazione, comunque in atto, rimaneva nascosta ai più. La società era tenuta insieme da un grande collante: l'odio. Per mezza Italia, al governo c'era l'Uomo Nero, il Caimano. Lo scontro fra le fazioni era feroce. Prima che due politiche, nel Paese si scontravano (credevano di scontrarsi) due antropologie. Era facile, allora, per metà del Paese, attribuire ogni male, grande o piccolo, al ruolo malefico dell'usurpatore, dell'Uomo Nero. Ora che l'Uomo Nero non governa, il conflitto orizzontale ha perso intensità. E la prova deludente del governo di centrosinistra ha modificato la struttura del conflitto: allo scontro orizzontale fra Berlusconi e gli altri si è sovrapposto lo scontro verticale fra settori rilevanti dell'elettorato, soprattutto di sinistra (vedi gli applausi per Beppe Grillo al Festival dell'Unità) e la classe politica. Non potendosela prendere solo con il governo per il quale, in maggioranza, hanno votato, quegli elettori spostano il tiro sul Sistema.
Nei primi anni Novanta, con la fine della Guerra fredda e i conseguenti effetti dirompenti sulla politica italiana, si aprì una «finestra di opportunità» che non fummo capaci di sfruttare a fondo. Non ci fu il passaggio dalla Repubblica dei partiti allo Stato repubblicano. Cambiò il sistema elettorale, venne l'elezione diretta di sindaci e Presidenti di Regione. Ma non fu intaccata l'architettura complessiva. Non ci fu realmente una «Seconda Repubblica».

Per oltre 40 anni i partiti politici erano stati i supplenti, i sostituti funzionali, delle istituzioni statali: la «partitocrazia» al posto dello Stato. A quel sistema dei partiti, quando morì, non subentrarono istituzioni pubbliche rinnovate (un forte governo, amministrazioni pubbliche snelle ed efficienti, eccetera). Ne paghiamo il prezzo. Senza più partiti radicati e forti e con istituzioni sempre inadeguate, sprovviste di autorevolezza, e quindi deboli, la democrazia si trova priva di ancoraggi. Da qui le spinte centrifughe e disgreganti. In mancanza di meglio si tenta ora la strada della ricostituzione dei partiti (il Partito democratico, forse la Federazione della destra). In un Paese di fazioni, si cerca, almeno, di ridurre il numero delle fazioni. È una buona cosa perché la frammentazione fa comunque male.

Ma, forse, è troppo poco. Persino i politici se ne rendono conto e dopo essere stati responsabili del grande errore riprendono l'infinita danza intorno alle «indispensabili» riforme istituzionali da fare. Senza considerare che le parole della politica non servono a costruire consenso e a indicare mete quando sono state logorate per il troppo uso. Ci vorrebbero leader veri, capaci di rischiare, ma il sospetto è che i leader siano stati sostituiti dagli uomini dello spettacolo.( Corriere della Sera)

sabato 15 settembre 2007

Università del degrado. Davide Giacalone

Punire chi ha fatto mercato dei test per accedere all'università, licenziare (e togliere dalla cattedra) quanti hanno scritto le domande bislacche o con risposte sbagliate, ma, prima di tutto, rendersi conto che il valore legale del titolo di studio ci restituisce università dequalificate e professionisti di basso livello. Dice Mussi che chi ha sbagliato deve pagare, il guaio è che l'errore più grosso lo commettono quanti, come lui, continuano a credere che le nostre università possano sopravvivere con un modello sociale oramai morto.
Perché c'è gente disposta a pagare trentamila euro pur di passare il test d'ammissione? Quell'investimento è fatto da famiglie di medici, dentisti ed altri professionisti che desiderano lasciare al pargolo zuccone l'avviata azienda paterna. Fra il dire ed il fare c'è di mezzo la necessità d'avere il titolo di studio. Non di sapere qualche cosa di cardiologia o di non scambiare le radici di un dente con le rape, ma il pezzo di carta che abilita all'eredità. Questo è il modello sbagliato che spinge alla devianza. In un libero mercato delle professioni solo dei dementi spenderebbero dei soldi per avere un pezzo di carta, e, del resto, c'è anche chi ne spende per farsi nominare cavaliere o nobile da ordini del piffero. In un mercato in cui, per restare alla sanità, a spendere sono i privati o le loro assicurazioni non ci sarebbe spazio per risaputi incapaci. Dove alla professione s'accede per solo titolo ed i soldi sono in gran parte pubblici, capita quello che è capitato a Gigi Sabani: vada tranquillo, è solo stanchezza.Il numero chiuso è una buona cosa, anche perché evita che persone senza speranza perdano tempo. Ma lasciarlo amministrare con questionari che contengono strafalcioni o richiedono memoria sportiva, è un crimine. Più sono non pertinenti le domande più cresce il mercato della corruzione. E quando il mondo degli “arrivati” si presenta, a quanti devono partire, con il volto dell'ignoranza e della viscida furbizia, che razza d'italiani credete si selezionerà? Comunque la si gira, questa è una storiaccia. Un ennesimo cammeo raffigurante un Paese che degrada ed asseconda la difesa dei privilegi. La casta non è solo quella dei politici. Siamo un Paese di caste, miserabili. Con le annesse, non promettenti, rivolte plebee.

venerdì 14 settembre 2007

La Storia non sono loro. il Giornale

Tanti di noi, se sentono riparlare di terrorismo e di Brigate rosse, hanno un principio di colica: e non è un cedimento al perdonismo, è proprio stanchezza fisica, voglia e tentazione di credere che gli anni di piombo siano davvero lontani, illusione e desiderio di sperare che il messaggio l’abbiano infine compreso tutti: che erano assassini o imbecilli, chiuso, si guarda avanti. Poi, però, un giovedì sera, apprendi che il settimanale francese Nouvel Observateur ha chiesto ai suoi lettori che cosa rappresentino per loro le Brigate rosse, e la risposta del 68 per cento di essi è stata questa: «Sono degli eroi». Un attimo di allibimento e poi capisci perché i francesi hanno difeso i Cesare Battisti e perché le Fanny Ardant hanno mitizzato i Renato Curcio. Capisci che non c’è neanche da prendersela tanto con loro, perché la loro ignoranza è solo lo strascico di propagande e deliri collettivi che da oltreconfine non hanno avuto alcuna necessità di rielaborare. Per loro è un vecchio film d’essai proiettato a Venezia. Ma quale oblio: risvegliarsi dal torpore, e tornare a stanare quei tanti deficienti che ancora predicano, per impiccarli almeno al loro passato, d’un canto ridiventa un dovere.

Bilancia commerciale in attivo? Chissenefrega. Carlo Lottieri

http://www.opinione.it/pages.php?dir=naz&act=art&edi=194&id_art=5814&aa=2007

E' da sfatare il luogo comune che si guadagni solo se si esporta.
Al direttore - Dalla Conferenza sui cambiamenti climatici si è appreso che la temperatura media negli anni recenti è aumentata in Italia ben quattro volte più rapidamente che nel resto del mondo. Nel conoscere questo dato credo che chiunque in Italia ma, appunto, anche nel resto del mondo, capisca l’assoluta inesattezza e non credibilità climatico-meteorologica di quella che pare un’idiozia, che non sarebbe apparsa tale se si fosse parlato, almeno, di Europa mediterranea. Infatti è difficile credere che l’aumento della temperatura, in rapporto ai 150 milioni di chilometri quadrati di tutte le terre emerse, si sia concentrato esclusivamente, e con una precisione da laser, proprio solo su questa nostra minuscola penisola che supera di poco i 300 mila chilometri quadrati. O i raffronti non sono stati fatti con precisione, o gli autori dello studio non conoscono la vastità della terra o il Belpaese, già con troppi altri guai, è proprio sfigato.
Gabriele Barabino, Tortona (Al) (il Foglio)

giovedì 13 settembre 2007

Conferenza sul clima inutile parata, Pecoraro Scanio vero responsabile dei problemi ambientali. Benedetto Della Vedova

Occorre una svolta: se ne faccia carico il centro destra. No al monopolio ideologico ideologico della sinistra.

Organizzando un’inutile parata che mischia catastrofismo, sensazionalismo e approssimazione scientifica, il ministro Pecoraro Scanio nasconde quelli che sono i veri problemi ambientali che nei prossimi mesi rischiano di mettere in ginocchio il nostro paese. La denuncia dell’a.d dell’Enel sul rischio black out è un vero e proprio atto di accusa nei confronti di un ministro e leader di partito, cioè Pecoraro Scanio, che si fa vanto di bloccare la costruzione di rigassificatori e centrali elettriche.

Accanto a ciò è difficile dimenticare le responsabilità di un ministro e leader di partito che grazie alla politica dei No ha contribuito a rendere la sua regione, agli occhi di tutto il mondo, una discarica a cielo aperto.
Occorre una svolta, per una politica ambientale responsabile, che non sia pregiudizialmente anti-tecnologica e anti-mercato. Ed è doveroso che a farsene carico sia il centro-destra, contestando il monopolio ideologico della sinistra. Per favorire questo lavoro programmatico, che vede impegnato il Dipartimento ambiente di Forza Italia, i Riformatori Liberali hanno presentato nelle scorse settimane un concorso di idee per la politica ambientale del centrodestra (http://www.riformatoriliberali.it/azzurroverde/).
L’ambiente è un tema che i cittadini avvertono con un vero senso di urgenza e che una coalizione liberale ha il dovere di affrontare con serietà non solo sul piano tecnico e di governo, ma anche – come insegna il leader conservatore inglese David Cameron – sul piano della comunicazione politica e del rapporto con l’opinione pubblica.

Ultim'ora! I ghiacciai si stanno sciogliendo da diciottomila anni. il Foglio

Dopo mesi di workshop a tema in diverse città, slogan che forse estremizzava­no la situazione (immagine di una strada in campagna col segnale "Attenzione: attraver­samento cammelli"), frasi epiche del tipo "Prendiamo in mano il nostro destino" o "E' il momento di decidere", è cominciata ieri la prima Conferenza nazionale sui cambia­menti climatici, voluta dal ministero del­l'Ambiente e organizzata dall'Agenzia per la protezione dell'ambiente e per i servizi tec­nici. I toni iniziali sono volutamente da tra­gedia: si parla di riscaldamento globale, da cui deriveranno fame, povertà, malattia, de­vastazione e catastrofi. Il delitto è stato com­piuto, e come in un giallo mediocre si capi­sce fin dalle prime battute chi è l'assassino: l'uomo. "La natura non è impazzita": sono le emissioni di CO2 (causate dalla "politica di rapina e dominio della natura che un lungo ciclo economico ha perpetrato" ha detto Fausto Bertinotti aprendo i lavori) a far sali­re la temperatura, a far sciogliere i ghiacciai, a scatenare gli incendi estivi (sospiro di sollievo dei piromani), a ridurre l'Adriatico a una palude (complici anche le fritture dei piccoli pesci detti bianchetti, sic!) e a farci andare verso un mondo con milioni di "pro­fughi ambientali". La prima parola d'ordine è allora "adattamento" al clima che cambia, strettamente legata alla seconda, la "mitiga­zione" di questi effetti con la riduzione delle emissioni. In Italia, dice il ministro, "la tem­peratura negli ultimi cinquant’anni è au­mentata quattro volte di più del resto del mondo" (ma il riscaldamento non era globa­le? o in Italia è più globale che altrove?). "L'energia del futuro è il sole" ha concluso. Ieri è uscito il libro "L'illusione dell'ener­gia dal sole" (edizioni 21° Secolo) del professor Franco Battaglia dell'Università di Modena, scienziato considerato "scomodo" per le sue idee sul riscaldamento globale. Sul tema della conferenza Battaglia dice al Foglio che in effetti "vi è largo consenso tra i dati che la temperatura media globale sia aumentata (se pur non in modo costante e monotono) a partire da circa il 1750, quando cioè si era nel minimo della piccola era glaciale'". Una delle relazioni della Conferenza sosteneva che questo aumento sia dovuto so­prattutto a cause umane e che (con una sicu­rezza del 95 per cento) da circa quarant'anni sia causato dalle emissioni di gas serra. "E' impossibile" sostiene Battaglia. "Nel 1750 l'industrializzazione era assente e la popola­zione mondiale era meno di un miliardo. Ancora nel 1940 l'industrializzazione era quasi assente (ad esempio, il numero di auto nel mondo nel 1930 era la metà di quello oggi in Italia). Dal 1940 al 1975 la temperatura glo­bale diminuì fino a far temere, a metà degli anni Settanta, un'altra piccola era glaciale: ma in quel periodo, più precisamente dopo il 1950, si era in pieno boom demografico e industriale". Molti ritengono che parte della soluzione del problema si avrebbe con l’applicazione del protocollo di Kyoto. Quanto c'è di vero m questa affermazione? "Nulla: il protocollo prevede la riduzione delle concentrazioni di CO2 del 2,5 per cento a livello globale (5 per cento dei soli paesi industria­lizzati). Questo significa immettere 19,5 giga-tonnellate di CO2 anziché 20 in una atmosfe­ra che, di suo, ne contiene 3.000. Come spe­rare di far dimagrire Michael Moore negan­dogli la bustina di zucchero nel caffè del mattino. C'è poi da aggiungere che tutti que­sti discorsi si basano su simulazioni talmen­te imprecise che per un raddoppio di con-centrazione atmosferica di CO2 danno varia­bilità di temperatura media globale tra 1,5 e 11,5 gradi in più". Il problema non è quindi l'emissione di gas serra? "Se fosse tutto vero e la causa fosse la CO2 antropica, allora i go­vernanti sono degli assassini perché dovreb­bero dichiarare che bisogna smettere di fab­bricare automobili, distruggere quelle esi­stenti, smettere di bruciare gas e carbone e costruire migliaia di centrali nucleari. Solo così le emissioni si ridurrebbero di quell'80 per cento necessario ad affrontare, forse, il presunto problema". Se allora, secondo il professor Battaglia, il problema non è antro­pico, viene il sospetto che vi siano interessi diversi dalla tutela dell'ambiente dietro a questo allarme. "Gli interessi di chi vende pannelli fotovoltaici e turbine eoliche, che sono tecnologie totalmente fallimentari in ordine alla produzione di energia elettrica. Le faccio un esempio. Per produrre l'energia che produce un reattore nucleare in un anno (3 miliardi, chiavi in mano) bisogna installa­re 6.000 turbine eoliche (6 miliardi) oppure investire 60 miliardi in pannelli fotovoltaici. Sa qual è la beffa? Che il reattore nucleare non ha bisogno delle turbine eoliche o dei pannelli, ma questi hanno comunque biso­gno del reattore nucleare (o a carbone o a gas) perché quando il sole non brilla o il ven­to non soffia deve essere pronto a partire un reattore convenzionale, pena il black out".

Per Battaglia, quella di giornali e televi­sione è "un tipo di informazione al 95 per cento falsa. Si pensi a quando dicono che so­no aumentati i fenomeni naturali catastrofi­ci. Non è vero: se ad esempio si osservano i venti più potenti uragani che hanno colpito l'America negli ultimi 150 anni, si vede come dieci sono stati nella prima metà di questo periodo e dieci nella seconda metà". Ma è vero che tra qualche anno non scieremo più? Che i ghiacciai si stanno sciogliendo? "Lo stanno facendo da diciottomila anni", con­clude Battaglia, "dalla fine dell'ultima era glaciale. Non c'è prova della responsabilità umana di questo scioglimento: qualunque ri­scaldamento scioglie i ghiacci".

mercoledì 12 settembre 2007

Il patto stracciato. Ernesto Galli della Loggia

Sulle qualità personali di Fabiano Fabiani per svolgere l'incarico di membro del Consiglio d'amministrazione della Rai-tv che il governo gli ha affidato ieri non si possono avere dubbi. Fabiani ha alle spalle una carriera collaudata di manager di successo, è persona di cultura, di conoscenze, di esperienza: chi meglio di lui dunque? E così pure non c'è dubbio che la sua nomina corrisponde a un obiettivo interesse politico della maggioranza, perlomeno di quella sua parte che si riconosce nel progetto del Partito democratico. Infatti, poiché la designazione di Fabiani, come dicono in molti, contribuirebbe a saldare un'intesa tra Prodi e Veltroni, essa aiuta senz'altro la nascita del nuovo partito neutralizzando i pericoli per la stabilità del governo che la nomina del sindaco di Roma alla testa del Pd potrebbe in teoria rappresentare. Tutto bene dunque? Per nulla, invece, proprio per nulla dal momento che qui non è questione solo di persone o di convenienze politiche. È questione — anche e soprattutto — di regole, e da questo punto di vista la nomina di Fabiani appare quanto mai criticabile. Fino a ieri la Rai costituiva uno dei pochi ambiti in cui si era riusciti a stabilire un accordo di tipo istituzionale tra maggioranza e opposizione sulla base del mutuo rispetto di un comune modus operandi. Che si riassume in due parole: la maggioranza del Cda alla maggioranza parlamentare, la presidenza dello stesso Cda scelto di comune accordo ma nelle file dell'opposizione, e infine come Direttore generale una figura di garanzia indicata dalla maggioranza ma con il placet più o meno esplicito della minoranza.

Questo accordo di fatto—ripeto, volto ad assicurare un funzionamento passabilmente tranquillo e condiviso di istituzioni pubbliche chiave, e uno dei pochissimi all'uopo esistenti — questo accordo è oggi carta straccia, perché con la nomina di Fabiani la maggioranza ha deciso di prendere per sé tutto quello che c'era da prendere: Cda, Presidenza eDirezione generale. In tal modo il centrosinistra ha ripetuto oggi ciò che già fece alla fine dell'ultima legislatura in cui ebbe la maggioranza, era il 2001, allorché approvò per pochi voti nientemeno che una modifica della Costituzione. Riconobbe sì, poi, di aver sbagliato, ma il suo comportamento odierno cancella quel pentimento, lo fa apparire quasi strumentale, e getta una grave macchia sulla sua immagine politica. Che fine hanno fatto tutte le promesse di governare in modo diverso dalla destra, in modo non fazioso, in nome di valori politici diversi? Con il gesto compiuto ieri si proclama in realtà l'indifferenza a qualsiasi regola di buona creanza istituzionale (con danno per tutto il Paese) e, cosa ancora più grave, si autorizza domani il centrodestra a fare altrettanto.

Quale credibilità potranno avere le proteste contro una Casa della libertà che—come sicuramente è nelle pulsioni almeno di una sua parte, e come è già accaduto—occupasse domani ogni spazio occupabile accaparrandosi tutte le nomine governative? Chi oserà firmare un manifesto o un appello contro Berlusconi o chi per lui quando Prodi e il suo governo non sono stati da meno? Da questo punto di vista, per finire, colpisce assai negativamente che tra i tanti cultori del bene pubblico che militano nell' Unione (politici e non: ci mettiamo anche tanti giuristi e intellettuali vari) nessuno abbia avuto finora qualcosa da ridire su un tema di tale importanza. Per meglio dire nessuno tranne uno: il segretario dello Sdi Boselli. È giusto rendergli il merito dovuto, ma alla fine è la sua voce soltanto quella che abbiamo ascoltato. Bisogna ammettere che è un po’ poco.( Corriere della Sera )

martedì 11 settembre 2007

Occupazione totale. Paolo Guzzanti

Quando si dice che non ci sono parole vuol sempre dire che le parole ci sono. In questo caso le parole sono: disonesta prepotenza, sfacciataggine spudorata, violazione delle regole: il governo Prodi, nella allegra persona del professor Padoa-Schioppa, ha sostituito un Consigliere d’Amministrazione della Rai, il professor Angelo Maria Petroni di centrodestra, mettendoci Fabiano Fabiani di centrosinistra. Conosco Fabiani e ne ho stima come persona, ma il fatto non investe i nomi ma le regole. Non so se i lettori hanno presente in che cosa consiste il gioco della Rai: alla minoranza parlamentare va la minoranza del consiglio d’amministrazione e il Presidente della Rai. Alla maggioranza va la maggioranza che basta per comandare, ma non per esercitare la dittatura. Noi vogliamo aggiungere l’anomalia perenne di RaiTre e del Tg3 che seguitano ad appartenere, a 15 anni dalla fine della guerra fredda, ai successori del Pci il quale li ebbe come diritti feudali consociativi per il fatto che, poveretto, non poteva entrare nei governi democristiani. Un terzo del servizio pubblico pagato da tutti è tuttora proprietà privata e indebita, ma nessuno fiata. In compenso da ieri la Rai è sotto occupazione.
La Commissione Vigilanza Rai, che teoricamente dovrebbe esercitare il potere dell’editore parlamentare, è stata presa a schiaffi da Padoa-Schioppa che si è rifiutato di presentarsi al secondo piano del Palazzo di San Macuto per spiegare i motivi per i quali aveva licenziato l’ottimo professor Petroni, e per garantire che avrebbe nominato un altro consigliere scegliendolo dalla stessa area dell’opposizione. Il furbone del quartierone ha prima svillaneggiato il Parlamento e poi si è incamerato il posto di un consigliere di centrodestra: addio a pesi e contrappesi. Vorrei dire finora a Silvio Berlusconi che guai se al prossimo giro non prenderà a calci nel sedere questi qui facendogli toccare con mano che cosa succede quando si crea un precedente violando le regole. A sinistra molti sono preoccupati: il socialista Boselli ammette che è stata fatta una carognata e prevede dolori per la sacrosanta reazione del centrodestra. Il nostro uomo a Palazzo Chigi Romano Prodi intanto fa finta che sia stata premiata la «professionalità». Che giocatori di tre carte da bar di periferia: si tengono il presidente diessino che gli abbiamo votato noi (io ero lì) e scippano un consigliere dell’opposizione, ma lo fanno per pura bontà. Ormai l’occupazione da parte di questo governo pallido malato rabbioso e perverso è completa: dopo i servizi segreti, polizia e guardia di finanza, anche il servizio pubblico televisivo è presidiato dai carri armati come nei veri colpi di Stato. Sono stati bravissimi: preventivamente hanno rincoglionito gli italiani con l’antipolitica, la casta e Beppe Grillo che osanna Bin Laden e dice che le parole di Ahmadinejad sono opera degli ebrei del Mossad, mentre insulta Marco Biagi. La Rai da ieri trasmette soltanto le loro marce militari chiamate palinsesti.

lunedì 10 settembre 2007

L'Italia, un paese di boschi. Statali. Davide Pettenella

http://www.lavoce.info/news/view.php?id=10&cms_pk=2885&from=index

Gli incendi devastano il nostro paese non solo perché il patrimonio forestale è stato abbandonato, ma anche perché serve a fare aumentare gli addetti e la burocrazia della forestale. Poi, come in Sicilia, queste strutture vanno in vacanza proprio nei mesi degli incendi.

Golpe in Rai, rimosso Petroni. il Giornale

Dopo mesi di insistenze, ricorsi e tira-molla alla fine il governo ha sfrattato la maggioranza di centrodestra dal Cda della Rai. Il consigliere in quota Udc Angelo Maria Petroni è stato desostituito dal ministro del Tesoro, Tommaso Padoa-Schioppa. Al suo posto Fabiano Fabiani. "L’assemblea degli azionisti della Rai -informa una nota di Viale Mazzini - si è riunita oggi con all’ordine del giorno la revoca di un consigliere e la nomina di un nuovo consigliere. Il ministero del Tesoro e dell’Economia, azionista di maggioranza con il 99.55% del capitale sociale, era rappresentato dall’avvocato Mario Stella Richter. L’assemblea, su proposta del ministero, ha deciso di revocare il mandato di consigliere di amministrazione di Rai spa ad Angelo Maria Petroni e ha nominato consigliere Fabiano Fabiani", conclude la nota.
Landolfi: "Spoil system" La nomina di Fabiano Fabiani nel Cda Rai è "spoil system fuori stagione" per il presidente della Commissione di Vigilanza Rai, Mario Landolfi. Commentando la nomina di questa mattina di Fabiani al posto di Angelo Maria Petroni, Landolfi dice: "La nomina di un prodiano come Fabiani al posto del professor Petroni nel Cda Rai conferma che siamo in presenza di una autentica emergenza democratica". Per il presidente della Vigilanza "non esistono altri termini per descrivere un atto di spoil system fuori stagione, che viola apertamente la lettera e lo spirito della legge vigente".
Gasparri: "Sciopero del canone" "Il bandito Padoa Schioppa ha colpito ancora. Dopo l’atto criminale contro Speciale, una nuova illegalità commessa da questo violatore di qualsiasi norma. La rimozione di Petroni pone fine ad ogni possibile confronto o dialogo fra i due schieramenti". Lo afferma Maurizio Gasparri, dell’esecutivo di An. "Come si fa a dialogare con dei banditi? Peraltro è stato ripescato dagli archivi della partitocrazia - dice - un vecchio boiardo esecutore di ordini altrui per vocazione e tradizione. Un atto vergognoso nei confronti del quale non soltanto andranno messe in campo tutte le iniziative politiche e legali di contrasto, ma al quale si deve rispondere non pagando il canone per il 2008. È un atto dovuto di fronte ad un’autentica emergenza democratica attuata da lestofanti dell’informazione quali quelli che governano oggi il paese. Speriamo ancora per poco. Rattrista il rinnovato silenzio del presidente della Repubblica - conclude - che parla delle regole quando gli fa comodo, ma tace di fronte alle malefatte dei suoi compagni, dimostrando in modo singolare di interpretare il suo ruolo di garante. Attendiamo al varco anche Petruccioli".