giovedì 22 giugno 2006

“Nessun italiano può sentirsi degno di essere tale se domenica non sarà andato a dare il proprio sì alla riforma Costituzionale che darà a questo paese più democrazia e libertà.” S.B.

Pera: alle urne in un clima di democrazia violata. Anna Maria Greco

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Votiamo "sì" perché la Costituzione del '48 non è sacra e la sinistra non è la sola autorizzata a modificarla

mercoledì 21 giugno 2006

Un azzurro imiti il ghanese. il Foglio

Perché non è affatto normale scusarsi per una bandiera d’Israele alzata

Facciamo a capirci: se si brucia la bandiera d’Israele non è obbligatorio scusarsi, se la si espone, sì? Strano, no? Succede che un calciatore del Ghana che gioca a Tel Aviv, per ragioni sue, decide di festeggiare un gol della squadra sollevando con un compagno un piccolo stendardo con la stella di David, sì, insomma, la bandiera del paese che lo ospita e che non disputa questi Mondiali perché la Nazionale non ha superato, ovviamente per colpa dei francesi, le qualificazioni a Germania 2006.
Finimondo al Mondiale per una bandiera innalzata. I compagni processano l’audace ghanese, la stampa araba lo insulta, la Federazione nazionale e internazionale lo costringe alle scuse e a fare la figura dell’ingenuotto che non si è reso conto di quale terribile offesa ha arrecato. Appunto, quale offesa? Ci dichiariamo subito ingenuotti politici, piuttosto che riconoscere un’offesa in un gesto comunque bello come alzare (e non per bruciare) una bandiera. Offesa a chi? Eppure la stampa continentale e italiana racconta la vicenda con assoluta normalità, come se fosse del tutto ovvio che se un giocatore espone la bandiera d’Israele reca forte offesa, gravissima. Quale offesa? A chi? E se avesse festeggiato innalzando la bandiera – poniamo – canadese? Sarebbe successo lo stesso finimondo? Fare un gesto – d’affetto o politico che sia poco importa in questo caso – che manifesta simpatia per un’altra bandiera non vuole dire non amare la propria. Non è nello spirito dello sport e del Mondiale – visti soprattutto dalle anime belle – avvicinare i popoli, invece che allontanarli? La legge della fratellanza è uguale per tutti, o no?
A quanto pare no, per Israele bisogna sempre e comunque fare un’eccezione. Perché se il capo di un regime fondamentalista e quasi atomico vuole cancellare Israele dalla mappa, va capito, in fondo non lo pensa, e comunque bisogna parlarci. Se un giocatore di calcio alza la bandiera d’Israele, va costretto alle scuse, in fondo non sa quello che fa, e comunque bisogna impedire che qualcuno lo rifaccia. Non sarebbe male che un azzurro rifacesse quel gesto.

Essere liberali. Valentina Meliadò

(...)Il punto è che essere liberali non è facile; noi, per diffondere le nostre idee, abbiamo solo noi stessi. Non possiamo contare su ideologie totalizzanti o spiegazioni esaustive del mondo; non consideriamo chi non la pensa come noi come un danno per la società; non ci riteniamo portatori di verità rivelate una volta e per sempre; non siamo insensibili agli insegnamenti ed ai richiami della Storia; non consideriamo la violenza una necessità; non abbiamo complessi e frustrazioni da far scontare alla collettività; non siamo portavoce di diritti che esulino dai rispettivi doveri; accettiamo la responsabilità personale e non riteniamo la società colpevole di tutti i nostri mali; pensiamo che più si tutelano le libertà del singolo individuo, il suo diritto a realizzarsi e a perseguire – nell’ambito delle leggi e delle regole vigenti – il suo legittimo interesse, più l’intera società ne trae beneficio.(...)

martedì 20 giugno 2006

Il tempo di Sartori. Magna Carta

I mostri sacri e i grandi maestri non ci fanno di solito alcuna impressione. Specie quando la loro fama è autoproclamata e fatta valere dalla voce grossa e da cattive maniere.
Per questo teniamo in poco conto le invettive di Giovanni Sartori e di norma sorvoliamo sul suo baccaiare contro questo e contro quello, sulle sue piccole e grandi bugie, sulle sue gaffes.
C’è un tratto di toscana irascibilità nei suoi modi di fare che funziona in tivvù e che qualche volta lo rende persino simpatico.
Poi ci sono le volte che Sartori si mette contro se stesso, contro il suo curriculum di studioso, contro la sua storia, e allora ci viene voglia di dirglielo chiaro. Definire i firmatari dell’appello di Magna Carta per il Sì al referendum come ”nani e ballerine” e sostenere che i costituzionalisti che lo hanno promosso sono “di seconda e anche terza fila” ci sembra al di fuori di qualsiasi canone di discussione e fa torto prima di tutti a lui stesso.
Non ci muove dunque una volontà di replica – nessuno dei chiamati in causa ha bisogno della nostra difesa - ma solo la mesta considerazione degli effetti di un’intelligenza che declina.
Sartori accusa i firmatari dell’appello di essere “irrilevanti”, perché in massima parte “non sono costituzionalisti” e quindi sono “competenti in altro”, senza rendersi contro che l’accusa gli si ritorce contro, essendo anch’egli non un costituzionalista bensì uno scienziato politico.
E che gli manchino molti dei fondamentali lo dimostra un episodio accaduto domenica scorsa in una trasmissione televisiva. Con aria severa e ispirata, Sartori, in contraddittorio con un costituzionalista di seconda o terza fila, afferma che l’aver tolto dalla Costituzione – come secondo lui propone la riforma – l’autorizzazione del Presidente della Repubblica ai disegni di legge governativi è un fatto gravissimo, perché questo è un potere che i Presidenti hanno sempre esercitato [sic!], impedendo così che approdassero alle Camere progetti di legge del Governo inadeguati o pericolosi. A ben guardare si capisce che il professore confonde il rinvio presidenziale di una legge alle Camere con l’autorizzazione di un disegno di legge governativo.
Contro Magna Carta, Sartori vanta le meraviglie dell’appello dell’Astrid per il No al referendum perché firmato – come dice Bassanini - dal 90 per cento dei costituzionalisti italiani. Ma i costituzionalisti italiani sono oltre 1000 (1083 stando alla classificazione del Ministero dell’Università) e l’appello Astrid è stato firmato da 179 docenti, i conti dunque non tornano. Ma, aggiunge Sartori, ci sono anche gli ex presidenti della Corte Costituzionale, forse dimenticando con quale meccanismo automatico e un poco scandaloso, si diventa presidenti della Consulta in Italia.
Certo Sartori è ascoltato, vezzeggiato, adulato, presente in ogni possibile trasmissione radiofonica o televisiva. Ma per questo deve ringraziare la tribuna che gli offre il Corriere della Sera. E’ lo stesso meccanismo che fa anche di Enzo Biagi un grande pensatore.
Non basta aver insegnato alla Columbia e scritto in passato libri di valore per mettere in fila i costituzionalisti italiani. Non basta essere stati grandi una volta per credere che tutti intorno siano dei nani. E non basta stare sempre in tv per dirsi esperti di ballerine.
Noi non sapremmo in che “fila” collocare il professor Sartori e neppure se “nani e ballerine” apprezzerebbero la sua compagnia. Ci è però rimasto impresso un giudizio che di lui diede Angelo Panebianco in un articolo per la rivista Liberal di qualche anno fa, ma che ancora (anzi, più di allora) calza alla perfezione. «Suscita perplessità il fatto che Sartori, facendo leva sulle sue conoscenze comparate, ritenga di poter definire sic et simpliciter “ignoranti” tutti coloro che non condividono le sue proposte. (…) Colpisce il modo eccessivamente dogmatico con cui si pretende di imporre il marchio della scienza sulle sue personali preferenze.(…) Non credo, sinceramente, che alle concezioni ingegneristiche di Sartori, il tempo riserverà la stessa attenzione e la stessa fama che sicuramente riserverà alla sua teoria politica».
Non lo crediamo anche noi, perché il tempo, si sa, è galantuomo.

lunedì 19 giugno 2006

Domande da 43 milioni di euro. il Foglio

Il “patto” saltato tra Consorte e i pm pone qualche sgradevole interrogativo

Giovanni Consorte, l’ex presidente di Unipol indagato per la scalata alla Banca nazionale del lavoro, ha reagito alla decisione dei pubblici ministeri di chiedere il sequestro di fondi suoi e del suo ex vice Ivano Sacchetti per 43 milioni, sostenendo che “c’era un patto con i magistrati”, che con quest’ultima mossa sarebbe stato violato.
La prima domanda che viene spontanea è: quale “patto”? I magistrati inquirenti hanno promesso a Consorte di non emettere ordinanze di sequestro o di custodia cautelare in cambio di confessioni o rivelazioni? Può darsi, ma questa sarebbe una (peraltro lodevole) eccezione alla prassi giustizialista, quella che basandosi sul tintinnio delle manette tendeva a ottenere, o estorcere, ammissioni e rivelazioni. Da questo interrogativo ne sorge un altro: qual è la ragione che ha indotto i pubblici ministeri a comportarsi in questo modo “anomalo” con Consorte e Sacchetti, a differenza per esempio di quel che hanno fatto ad altri banchieri?
Quei 43 milioni, si apprende, se ne stavano in vari istituti di credito da circa cinque anni, senza che i titolari, che di manovre finanziarie dovrebbero intendersi se, come dicono, hanno ricevuto consulenze milionarie, li utilizzassero in alcun modo. Ne avevano dunque la piena disponibilità o ne dovevano rispondere a terzi? Infine, ma non per ultimo, si pone l’interrogativo sulle ragioni che hanno indotto, proprio ora, quegli stessi pm a disdire il patto. Che cosa è cambiato nella posizione processuale di Consorte per giustificare questo mutamento repentino? Apparentemente proprio nulla. Si può pensare che invece sia cambiato qualcosa nei rapporti tra i magistrati e l’ambiente politico, gli sponsor di riferimento di Consorte durante la scalata a Bnl? Si tratta di domande che difficilmente riceveranno una risposta esauriente, e che proprio per questo è utile porre insistentemente. Consorte, che ovviamente va considerato innocente fino a condanna definitiva, ha rivelato l’esistenza di un “patto”, che è stato disdetto. E’ troppo voler sapere perché?

Sul cattivo Strada. Davide Giacalone

Gino Strada è riuscito, con parole semplici e sincere, a raffigurare tutta l’insipienza del pacifismo un tanto al chilo. A Kabul, rivolgendosi a Parisi, ha detto: gli aiuti medici siano da preferire a quelli militari, molti ospedali si sarebbero potuti costruire con quel che si è speso per fare la guerra. Un monumento luogocomunista.
Si sarebbero potuti fornire gli ospedali ai talebani, avendo cura, nel rispetto delle diversità culturali, di far curare le femmine dalle femmine ed i maschi dai maschi. Con l’occasione si sarebbero potuti diffondere i disinfettanti quando, applicando in modo blasfemo la legge coranica, si fossero amputate delle mani o lapidate delle adultere, perché, diciamolo, un moncherino è pur sempre meglio di una setticemia e la nostra vocazione è quella della riduzione del danno. Con lo stesso spirito pacifista ed internazionalista si potrebbero vaccinare tutti i bambini ceceni, in modo da consegnarli immuni da germi a chi provvederà a massacrarli a scuola. Avremmo anche dovuto, se avessimo avuto coscienza democratica, avviare un serio programma di prevenzione della carie presso i curdi, talché Saddam potesse gasarli senza prima far vivere loro quei fastidiosi mal di denti. E non ci pentiremo mai abbastanza di non avere provveduto alla prevenzione dell’infarto nel mentre Milosevic, inseguendo il sogno della grande Serbia, passava la livella del genocidio su cardiopatici e non. In Ruanda non abbiamo provveduto a curare i mal di testa provocati dalle roncolate con cui Hutu e Tutsi si sfondavano il cranio, e quanto sarebbe stato increscioso inviare l’esercito per bloccare la scucuzzata. Adesso, in Somalia, mandiamoci i carmelitani scalzi a magnificare i pregi dell’aspirina, nel mentre i fondamentalisti portano tutti nel buio della violenza religiosa. E se l’Iran dovesse minacciarci con la bomba atomica, replichiamo offrendoci volontari per aprire cliniche dermatologiche, così utili in caso di radiazioni vaganti.
Strada neanche è sfiorato dal sospetto che la scuola e la storia della libertà è fatta di guerre, di conquiste armi in pugno, per abbattere dittatori, carnefici, genocidi e liberticidi. Forse non sa che la libertà italiana è frutto di una guerra, anche civile. A lui basta che ci sia l’ospedale targato Emergency, dove farsi fotografare.

Referendum. Peppino Calderisi

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Le ragioni del "sì" spiegate con obiettività ed episodi emblematici

venerdì 16 giugno 2006

Due pesi e due misure. Davide Giacalone

Ci sono parlamentari della sinistra che hanno una fedina penale molto vissuta. Nel centro destra c’è chi usa questo argomento per chiederne le dimissioni, quanto meno dagli incarichi interni all’organizzazione parlamentare.
La faccenda coinvolge due piani diversi, di diritto e di politica, per poi confluire in un’unica considerazione, e contraddizione, morale.
In quanto a diritto, vale a dire in quanto alle uniche regole cui tutti sono tenuti ad attenersi, la polemica è priva di senso: quelle persone sono state elette perché prima erano eleggibili e poi le liste in cui si trovavano sono state effettivamente votate. Tutto regolare, conseguenze comprese. E non basta: un cittadino che incorre nelle maglie della giustizia, risultandone condannato, deve pagare il suo debito, ma, una volta saldatolo, non lo si può inseguire a vita con il marchio d’infamia. Per me, dunque, e lo ripeto a scanso di fraintendimenti, le posizioni di D’Elia e Farina sono legittime, e, anzi troverei pernicioso che si contestasse un tale risultato elettorale sul piano del diritto.
Ma la faccenda non finisce qui. Già, perché i due parlamentari risultano eletti in uno schieramento che ha largamente utilizzato l’arma delle inchieste giudiziarie per sostenere che chi è stato od è indagato deve astenersi dalla vita politica e civile. Sul piano del diritto (i trogloditi del giustizialismo non lo capiranno mai) l’indagato è un innocente, la cui innocenza non solo non è scalfita, ma semmai offesa dalla pubblicazione d’intercettazioni o verbali. Ora, ed è questo il punto politico, come si può aver sostenuto che fuori dalla politica devono restare gli innocenti, mentre alla politica si chiamano i condannati? E come possono quei due parlamentari, proprio i signori D’Elia e Farina, restare impassibili innanzi a questa contraddizione senza fare l’unica cosa che credo avrebbero il dovere di fare, ovvero condannare il giustizialismo forcaiolo e liberticida che si ritrovano in casa? La sorte li ha messi nella privilegiata condizione di rendere un gran servizio alla cultura del diritto e delle garanzie, se se lo lasciano sfuggire essi avranno una colpa politica che, per quello che mi riguarda, peserà più di quel che è scritto al casellario giudiziario.

Ed è polemica. Filippo Facci

Qui c'è gente che ha dubbi primordiali, e che dopo lustri seguita a trovare vacuo il 70-80 per cento delle dichiarazioni, contro-dichiarazioni, puntualizzazioni, precisazioni, reazioni, smentite categoriche o parziali, prese di distanza, comunicati, lanci e contro-lanci d'agenzia, interviste, anticipazioni di interviste, insomma il 70-80 per cento di quello che noi giornalisti chiamiamo notizie politiche e che di conseguenza inseriamo in un vortice che si autoalimenta sino a spegnersi dov'era nato: nel niente.
Non è qualunquismo: il parolame della politica italiana ha raggiunto livelli di irrilevanza mai visti prima, e per scovare una polemica importante o una notizia vera più che passione serve un rabdomante. L'autoreferenzialità della Prima Repubblica forse era anche peggio, ma il parolame non era cotanto mediaticamente sovraeccitato. Bossi ieri ha detto qualcosa, il Ccd ha risposto qualcos'altro, Fini ha aggiunto, Berlusconi ha tolto, Bertinotti boh: rimarrà qualcosa? Influenzerà qualcuno?
C'è qualcuno che pensa che potrà esserci una secessione del Nord, ora, per via di una frase pronunciata da Bossi dopo vent'anni di politica leghista, frase peraltro diversa da un'altra pronunciata qualche giorno prima? C'è qualcuno che pensa seriamente di poter guadagnare dei voti interagendo con la frase di Bossi o di perderne non facendolo? No: è puro nulla, zero, aria. E noi giocoforza a scrivere. E voi sempre meno a leggere. Perfetto.

giovedì 15 giugno 2006

Gli scudi umani pagano. Stefano Magni

Quando la disinformazione è più potente delle bombe

C'è sempre una foto simbolica che testimonia le sofferenze del popolo palestinese. Dove c'è un palestinese che muore, che soffre, che viene ferito, che impreca contro gli israeliani, c'è sempre e subito un fotografo o un telereporter pronto a fotografarlo o filmarlo, pronto a diffondere la sua immagine in tutto il mondo. Poi, quando si viene a scoprire che le circostanze in cui quella foto è stata scattata, non erano quelle dichiarate all'inizio (ad esempio: che le sofferenze del palestinese in questione non erano causate dagli israeliani, ma dagli stessi palestinesi), le smentite non trovano più spazio. O almeno: vengono pubblicate, ma ormai l'impressione lasciata dalla prima versione è già diventata un simbolo, ben fissato nella mente dei telespettatori occidentali. Nel 2000 la foto del bambino Mohammed al Durra, ucciso in uno scontro a fuoco accanto al padre, aveva fatto il giro del mondo. È servita a poco l'indagine condotta nei mesi e negli anni successivi, in cui si dimostra che Mohammed al Durra e suo padre non sono stati bersagliati a freddo dai soldati israeliani e che, data la loro posizione, è più probabile che siano stati uccisi dai proiettili palestinesi che non da quelli israeliani. La prima impressione, secondo cui «gli israeliani ammazzano i bambini» è diventata indelebile.
Adesso si sta ripetendo lo stesso fenomeno mediatico: una bambina palestinese, dopo l'esplosione sulla spiaggia di Gaza, trova il cadavere del padre, piange e grida vendetta contro gli israeliani assassini. L'IDF sta conducendo un'indagine: si potrebbe trattare di un proiettile di artiglieria israeliana finito per errore su un bersaglio civile, invece che sui terroristi che lanciano quotidianamente i Qassam contro Sderot e Ashkelon. Ma può anche trattarsi di una strage tutta palestinese: una mina lasciata sulla spiaggia per impedire infiltrazioni israeliane, o anche uno dei razzi Qassam lanciato male. Non è da escludere nessuna di queste ipotesi, ma alla gente non interessa: la piccola Huda che urla contro gli israeliani è già un simbolo. Così come, mentre scrivo, ci sono già altri due piccoli martiri: due bambini che andavano a scuola, uccisi da un raid aereo israeliano assieme ad altri 7 palestinesi, mentre 17 sono rimasti feriti. In realtà il raid aereo israeliano ha colpito con grande precisione una katiusha palestinese, che viaggiava tranquillamente per le strade di Gaza in mezzo ai civili. Ma è ovvio che vi sia un lanciamissili che gironzola tranquillamente in mezzo alle strade affollate di una città, passando di fianco a mercatini e gruppi di scolari? Ma alla gente questo non interessa: «gli israeliani ammazzano i bambini».
I palestinesi hanno capito che la guerra di oggi è fatta anche di informazione: non si vince solo sul campo, ma anche nelle case dei telespettatori europei, lontanissimi dal campo di battaglia, ma in grado di pesare sulle decisioni della diplomazia mondiale. Hanno constatato che la loro strategia, fatta di civili usati letteralmente come scudi umani, paga di più che una battaglia vinta. Lo hanno capito da numerosi esempi precedenti: anche i vietnamiti usavano le stesse tattiche di comunicazione, così come il regime di Saddam dal 1991 in poi. Ma non li possiamo considerare «geniali» per questo motivo. L'uso degli scudi umani è condannato dalle leggi internazionali. Lanciare razzi da zone densamente popolate, fabbricare e nascondere armi in abitazioni civili, nascondere i miliziani (vestiti in abiti civili) in mezzo alla popolazione inerme, usare le immagini dei civili straziati perché sorpresi dal tiro incrociato, sono tutti crimini.
E se noi occidentali non condanniamo apertamente questi crimini, non facciamo altro che legittimarli. E questo perché lo facciamo o siamo tentati di farlo? Perché l'ideologia corrente vuole che il mondo sia diviso in oppressi e oppressori, divisi ancora secondo categorie marxiste. Indipendentemente dalla realtà, indipendentemente dal fatto che fossero loro gli aggressori. Vietnamiti, iracheni, palestinesi, rientrano tutti nella categoria degli oppressi che lottano per la loro «liberazione». E i fotografi fanno a gara per ritrarre il volto della loro sofferenza.

mercoledì 14 giugno 2006

"I mercati, se sentono il profumo del sangue, si sentono tonificati"

Lo ha detto Tommaso Padoa Schioppa durante l'audizione di oggi alle Camere.
Sarà l'odore di quel sangue e di quelle lacrime che puntualmente ci chiedono i Governi della sinistra: l'allarme risuona alto, prepariamici ad una pesante stangata.
Dopo il referendum e nell'imminenza delle ferie, il Governo Prodi si avventerà sulle nostre tasche trovando il modo di toglierci tutti i soldi possibili.
Siccome metà Italia è contenta di pagare le tasse nella errata convinzione che si riescano a stanare gli evasori, noi dovremmo ingoiare il rospo per non passare da "fiancheggiatori" di chi froda il Fisco? Neanche per sogno. Non c'è bisogno di stangate per risanare i conti e lo dice Tremonti a Televideo Rai:
Il deficit/Pil al 3,8% nel 2006 è "perfettamente raggiungibile a legislazione vigente e applicata". Lo afferma Tremonti, replicando all'intervento del ministro dell'Economia Padoa-Schioppa, alle commissioni Bilancio delle Camere. Tra le norme non applicate, l'ex ministro dell'Economia ricorda le misure sul contenimento della spesa delle Regioni e la pianificazione fiscale. Poi dice: "Rifiuto le drammatizzazioni. Non credo che i problemi siano grandi, ho l'impressione che il governo sia piccolo". Tremonti critica la scelta di aver affidato una ricognizione dei conti alla commissione Faini."C'è una certa linea d'ombra","un tasso di non credito".

L'epitaffio di Diliberto. Magna Carta

http://www.magna-carta.it/editoriali/2006_6_13_62875,02.asp

Ecco cosa siamo andati a fare in Iraq

Un governo lento. Una leadership latitante. il Riformista

Alla fine di questa settimana il governo Prodi festeggerà il suo primo mese di vita. Per allora se ne sarà andato quasi un terzo di quei cento giorni che, nei propositi di campagna elettorale, avrebbero dovuto essere spesi dal nuovo esecutivo per dispiegare la propria azione d’urto attraverso un prontuario di formule e ricette su economia, esteri, sociale. Ecco, prontuario non è proprio il termine più azzeccato. Perché, come ormai ammettono persino voci ufficiali da palazzo Chigi, questo governo non è nato pronto. È partito lento, ad andatura magari non «sciancata» come vorrebbe Eugenio Scalfari, ma certo rigida, legnosa, involuta. E qui non c’entrano le attenuanti invocate da più di un esponente dell’Unione (il successo risicato, l’ingorgo istituzionale) né vale l’obiezione che, ottenuto l’incarico, la lista dei ministri è stata portata da Prodi al Quirinale a tempo di record.
Attenzione, però, il debito di questo governo non è nemmeno quello rivendicato da certa critica, e cioè la proliferazione di ministri e ministeri, la moltiplicazione dei sottosegretari e la superfetazione degli staff. Il tema esiste, ma è tutt’altro che centrale e l’impressione è che venga brandito con uno spirito pericolosamente contiguo a quell’antipolitica patologica in una parte consistente dell’opinione pubblica nazionale.Il punto è il merito. Cos’ha deliberato finora il governo? Su quali materie c’è stato un intervento diretto, concreto dell’esecutivo che non sia solo una linea d’indirizzo, una cornice di intervento, una parola d’ordine? Sull’Iraq è stato confermato un ritiro di cui non si conoscono ancora tempi certi e modalità. In economia, la verifica sullo stato dei conti pubblici ha paralizzato per tre settimane ogni attività e, pure una volta sciolto il dubbio sulla necessità della manovra bis, il mandato del «rigore» ha mascherato il disordine di proposte e competenze, complicato per giunta dalla contraddittoria gestione del rapporto con le parti sociali, sindacati in testa.
Un esempio su tutti: a tutt’oggi del cuneo fiscale - provvedimento sui cui l’Unione ha giocato buona parte delle sue carte in campagna elettorale e che quindi doveva in teoria essere varato in scioltezza- non si sa in che misura e forme sarà tagliato in questo primo anno e la coniazione di formule come «cuneo a rate», «cuneo selettivo» (e chi lo dice a imprese e lavoratori che il taglio dei contributi non valeva per tutti?) è spia di una confusione ingiustificabile. In questo contesto, nonostante il susseguirsi di specifici vertici, seminari e workshop, la politica del governo continua a vivere di annunci, secondo un metodo molto censurato quando il centrosinistra stava all’opposizione, ma che al momento pare l’unico modo con cui i rappresentanti del governo riescono a mandare al paese segnali di vita.E Prodi? Dopo essere incappato nel vizio rimproverato ai suoi ministri, rilasciando una avventurosa (e inutile) intervista a Die Zeit, non ha ancora trovato il modo di prendere in mano la situazione. Ora, sebbene con un ritardo inatteso sui cento giorni, per il premier sta arrivando il tempo delle decisioni concrete. E nessuno, perlomeno non noi, dubita che Prodi saprà scegliere con chiarezza le vie da prendere.
Il fatto è che a questo governo, alla sua capacità di incidere davvero, di riformare il paese, di durare una legislatura, non basterà nemmeno deliberare. Quel che serve, e finora latita, è una leadership politica che accompagni ed esalti ogni mossa. Prodi è un decisionista sui generis, che ama fare di testa sua ma che spesso preferisce aggirare gli ostacoli che gli si frappongono piuttosto che affrontarli con la armi della politica. Ma un decisionismo senza leadership è inutile. Perché è la leadership, a proposito anche delle critiche di certi giornali amici, che fa la differenza tra un capo politico e un semplice «amministratore».

martedì 13 giugno 2006

Caos sul dossier iracheno. Davide Giacalone

Il dossier iracheno è gestito come peggio non si potrebbe. Prima il caos pacifista, poi l’intervento del ministro degli esteri: ci ritireremo in modo concordato con alleati ed autorità irachene. Bene, scrissi. Aggiunse: ritirati i militari non ci saranno missioni di civili, ma aiuteremo gli iracheni.
Ovvia la prima cosa, ma in che consiste la seconda? Mistero. Fu la volta del Presidente della Repubblica, il quale ci tenne a sottolineare non solo che i militari italiani erano in Iraq in missione di pace, su specifico e preciso mandato dell’Onu, ma che a quelle missioni non ci si può e non ci si deve sottrarre. Ben detto, ma perché allo stesso uomo politico non è venuto in mente quando quelle missioni sono state decise, perché chi oggi lo applaude ieri le condannava?
Nel frattempo il governo dice che dall’Iraq ce ne andiamo, ma resteremo in Afghanistan, in Kosovo, ed in Bosnia. I nostri alleati non la prendono benissimo, ma ci lanciano subito la sfida: d’accordo, andate pure via, ma portate i vostri aerei da guerra a Kabul. Dove, per la cronaca, siamo presenti nell’ambito di una missione Nato. Pensiamoci, parliamone, dicono alla difesa ed agli esteri, ma il ministro Bonino e di parere opposto: più uomini e più armi in Afghanistan. Nel frattempo Parisi, con il nuovo berretto, corregge il tiro: dall’Iraq ce ne andiamo il più presto possibile, ed i militari non resteranno neanche nel caso ci siano dei civili da proteggere. Ma non era stato escluso che si lasciassero dei civili? Se li si lascia senza protezione li mandiamo al macello. Forse si ha in mente di chiedere agli americani di proteggere qualche Simona di turno, risultando patetici ancor prima che inaffidabili. Poi si parla anche di continuare ad addestrare la polizia irachena, ma di farlo in Kuwait, senza rendersi conto che questo moltiplicherebbe il rischio di essere attaccati, anche in Italia, perché individuati come anello debole, titubante, da spingere alla fuga.
Il tutto senza che vi sia uno straccio di riflessione sui nostri interessi nazionali. Noi in Iraq ci siamo andati, abbiamo fatto un buon lavoro, ci abbiamo lasciato dei morti e rischiamo di andarcene senza trarne profitto né politico né economico. Anzi, se il nostro ritiro dovesse malauguratamente coincidere con una ripresa di potenza e terreno del fondamentalismo assassino, possiamo scommettere che gli iracheni se ne ricorderanno a lungo. E scrivo questo, si badi, senza sentire minimamente il bisogno di citare i Rizzo, i Caruso o le Menapace, senza tirare in ballo l’estremismo antioccidentale. La materia non si presta alle spiritosaggini propagandistiche, ma il governo non può gestirla senza avere una linea univoca, ferma, scadenzata, indiscutibile. Io non la condividerò, ma sarei più tranquillo se esistesse.

lunedì 12 giugno 2006

La luna di fiele. Paolo Del Debbio

http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=96336

Il governo Prodi è già sotto attacco e in preda alle contrapposizioni dei suoi componenti

venerdì 9 giugno 2006

I compagni di Sergio D'Elia. Davide Giacalone

Sul fatto che Sergio D’Elia sia stato fra i terroristi di Prima Linea, formazione d’assassini comunisti, non ci piove. Neanche sul fatto che sia stato condannato (ma non per fatti di sangue) e che abbia scontato la pena.
Eletto deputato la cosa non ha destato scalpore, né prima la candidatura, mentre autorevolmente ci si ribella all’idea che diventi segretario alla presidenza della Camera dei Deputati. Si mescolano, in questa faccenda, questioni diverse e tutte rivelatrici.
La legge è, o dovrebbe essere, uguale per tutti. Se D’Elia avesse subito un’interdizione perpetua oggi non potrebbe essere deputato, ma così non è, nulla impediva la sua elezione, i voti dei cittadini sono andati alla lista che lo candidava e la sua elezione è legittima. L’elezione in un ufficio interno alla Camera non cambia granché. Lo scandalo non è D’Elia, ma quelli che si ritrova intorno. C’è gente, a sinistra, che ha fatto carriera grazie al giustizialismo senza diritto, c’è una falange di deputati che ha gridato sulle piazze chiedendo che s’impedisse agli “inquisiti” di essere eletti, di candidarsi, di scrivere, di parlare e forse anche d’esistere (ottenendo, effettivamente, la morte di alcuni). Ora, quelle stesse persone, eleggono D’Elia, dal che discende che essi preferiscono i condannati agli inquisiti (che sono, come stabilisce la Costituzione, degli innocenti a tutti gli effetti). Non sembri una quisquiglia, non si sorrida se richiamo alla coerenza, giacché certi figuri non lo sospettano, ma la coerenza è la prima e meglio praticabile forma di morale politica.
D’Elia, durante e dopo la galera, ha fatto delle cose egregie, a cominciare dall’associazione “Nessuno tocchi Caino”. Credete che potrei scriverlo così serenamente se mi riferissi a qualche terrorista fascista? No, dovrei fare i conti con i miei stessi amici, i quali mi rimprovererebbero di aver dimenticato di quali mostruosità si macchiarono in passato, senza contare, poi, che un fascista è un fascista. Già, ma anche un comunista è un comunista, e se è con gioia che apprendiamo dei ripensamenti di taluni, è con fastidio, e talora disprezzo, che osserviamo quanti ce la mettono tutta per non fare i conti con il proprio passato.
L’onorevole D’Elia non s’impantani in lettere di precisazioni e spiegazioni, giacché si trova in Parlamento da eletto. Piuttosto si renda utile e chiarisca ai suoi compagni cos’è il diritto, aggiungendo che passi per la fede, ma nella vita civile non è meglio aver sbagliato ed essersi pentiti, e non è vero che chi più ha sbagliato meglio può dar lezione.

Lettera al direttore. Geminello Alvi

Al direttore - Ma guardi un po’ com’è finita. Ti fanno una commissione per stimare il deficit del 2006 e malgrado le ansie anzitempo esibite per la voragine dei conti, dal respiro mascellare e già difficile di Prodi, che ti scoprono? Che il deficit è al 4,1 per cento, sempre che si rispetti la Finanziaria. Esito singolare; e non soltanto perché lo sforamento di Tremonti è millesimale, neppure un settimo di quello lasciato nel 2001 dal governo di sinistra. Ma perché il 13 marzo ne erano già stati informati persino i sordi. Infatti su http://www.centrodiascolto.it/, meritorio sito Internet per sordomuti, con accurati sottotitoli, c’è il video del primo dibattito tv tra Berlusconi e Prodi. Ed ecco quanto già appunto spiegava l’allora primo ministro: “Oggi l’Ecofin ha approvato i nostri conti del 2006 con un deficit del 4,1 per cento, con un apprezzamento di diversi ministri delle Finanze, e in particolare un apprezzamento del presidente dell’Ecofin…”. Insomma in ansia di voragini finte il presente governo usa il martello per uccidere un moscerino. La commissione, e con presidente prescelto, ha ridetto quanto avevano già sentito persino i sordi. Sono strani questi prodiani. I miei migliori saluti

giovedì 8 giugno 2006

Un errore la manovra di Prodi. Danilo Giurdanella

http://www.ragionpolitica.it/testo.5855.errore_manovra_prodi.html

Basterebbe applicare la finanziaria di Tremonti per rientrare dello 0,3% di sforamento

Elogio del centrosinistra. il Foglio

La maggioranza dimostra di avere delle idee (sbagliate) e di saperle difendere

Complimenti al governo di centrosinistra. Le idee ci sono, anche se spesso molto sbagliate. Ma al di là dei giudizi di merito il punto è che la squadra dei ministri di Prodi sembra capace di realizzarle queste idee, quantomeno sembra in grado di dettare l’agenda politica italiana, non di subirla. Certo, la grande stampa è simpatetica, i poteri forti fiancheggiano, quelli intermedi parteggiano, tutto questo senza dubbio aiuta. Ma ricordatevi i primi e anche gli ultimi passi del governo Berlusconi. Pensate al balletto sulle tasse, quando è bastata l’opposizione di un Follini per mandare tutto a monte. Quasi mai il centrodestra è riuscito a guidare il dibattito pubblico nei suoi anni di governo, neanche quando è riuscito a imprimere svolte vere come in politica estera e sulla bioetica. Il pallino è comunque rimasto in mano agli avversari e al governo non restava che difendersi. Di rado il centrodestra ha fatto ciò che aveva progettato e quando c’è riuscito – dalla riforma delle pensioni a quella del lavoro a quella della scuola a quella costituzionale – i fari sono rimasti spenti, quasi non se ne è accorto nessuno se non quando l’opposizione ha deciso di dare battaglia.
Il nuovo governo Prodi non avrà la sfrontatezza guascona di Zapatero, uno che quanto a capacità di realizzare follie di vario genere è il campione mondiale, però i primi passi sono incoraggianti. “They deliver”, come dicono a Washington, questi fanno davvero ciò che dicono. In politica questa è una qualità. Il ritiro dall’Iraq, bello e pronto senza alcun tentennamento (anzi con possibile allargamento all’Afghanistan). L’amnistia e l’indulto, ecco Mastella. La grazia a Bompressi in un lampo. Fabio Mussi ha ritirato subito la firma che voleva ritirare sul no alla ricerca embrionale. Sono seguite polemiche ma la firma non c’è più. E sulla bioteca è nato all’istante un coordinamento ministeriale, criticabile ma c’è. Sui conti pubblici Padoa-Schioppa è già pronto con la manovra bis ed è già avvolto da applausi e consensi europei. Il ministro Gentiloni ha annunciato i limiti antitrust alle frequenze televisive, come da programma. E se all’inizio qualcuno è scivolato su qualche buccia di banana, per il resto non si sono lasciati sfuggire nemmeno una carica istituzionale, malgrado l’esiguo margine di maggioranza. Sono più capaci, meritano un elogio. Ma è un’aggravante, ora c’è il rischio concreto che anche il resto delle loro idee sbagliate vengano realizzate.

martedì 6 giugno 2006

La sinistra e il "male di vivere". Aurora Franceschelli

Ora che la sinistra ha la possibilità di operare alla guida del Paese e di stabilire l'indirizzo politico di governo emergono in modo più netto le sue contraddizioni viscerali. Che significa stare a sinistra oggi? Significa nascondersi dietro la retorica della Resistenza come ha fatto ieri Epifani? Ebbene sì, il leader della Cgil, durante un convegno di industriali svoltosi a Varese, in un momento di difficoltà in cui gli veniva contestato dalla platea il fatto che la Cgil non si sia ispirata sempre, durante la sua storia, ad una «cultura dei doveri», ha dichiarato, arrampicandosi sugli specchi: «Ricordate che furono gli operai che nel 1943 difesero le fabbriche dai nazisti». Il problema della sinistra è rifuggire la realtà, mascherando l'anacronismo della propria idea politica dietro il velo, ormai trasparente, di un'ideologia che affonda le sue radici nel passato, ma che non racchiude in sé alcuna progettualità per il futuro. L'unico obiettivo imperante era battere Berlusconi: questo era il traguardo e, una volta tagliato - seppur per poche migliaia di consensi - tutta la retorica politica che prima aveva un senso, perché strumentale, pare svanire; pare improvvisamente svaporare, insieme ad essa, una realtà, quella tragica dipinta dalla sinistra, che rischiava di inghiottire la società in un sonno profondo.
Sono significative, a riguardo, le considerazioni di chi, di questa cultura del declino, si è fatto portavoce convinto sulle pagine di Repubblica: Ilvo Diamanti fa un'analisi della società italiana nella quale mette a nudo tutti gli artifici di cui si è avvalsa la sinistra per conquistare il potere, artifici che ora potrebbero ritorcersi contro. L'editorialista di Repubblica ammette che la retorica declinista sia stata concepita come funzionale ad un progetto, sconfiggere il centrodestra; la definisce una vera e propria «tecnica politica», atta ad accrescere il malessere dei cittadini. La sinistra, ispirandosi alla tecnica machiavellica secondo cui il fine - il potere - giustifica i mezzi, ha finito per conquistare formalmente l'obiettivo, ma pagandolo a caro prezzo: quello che era lo strumento, la diffusione e il radicamento nella società del cosiddetto «male di vivere», non ha fatto altro che sovvertire la realtà. Per dirla con le parole dello stesso Diamanti: «E' probabile che la retorica del declino racconti un paese, almeno in parte, immaginario». In realtà l'espressione «in parte» è riduttiva. La metà del Paese, fortunatamente, non è caduta nella trappola del disfattismo ad ogni costo: ha creduto in Berlusconi e al suo progetto, un progetto di ricostruzione avviatosi in cinque anni, a cui ha rinnovato la sua fiducia e il suo consenso, che non sono stati erosi dall'ampio universo mediatico sinistrorso.
Il problema della sinistra è che ora non può più affidarsi a questa tecnica politica: è questo che si legge tra le righe dell'articolo di Ilvo Diamanti. «L'Italia indulge nella retorica del declino e della pauperizzazione. Ma senza crederci davvero. Per inerzia o per artificio». La realtà che emerge, dati alla mano, è ben diversa: l'Italia è uno dei paesi europei dove vi è la più alta percentuale di possessori di casa, l'industria vede accrescere le sue esportazioni e il suo fatturato e le piccole e medie imprese si sono aperte coraggiosamente alle sfide della globalizzazione. Una metà dell'Italia ha ancora fiducia nel futuro, è per questo che ha rinnovato la sua scelta politica per il centrodestra.
L'articolo di Diamanti è uno specchio dei timori che si riflettono, ora che il potere c'è, nell'emisfero della sua sinistra: una sinistra che non vuole perdere l'unica rotta comune che fino ad ora l'ha accompagnata (l'antiberlusconismo), ma che non è in grado di far emergere un progetto alternativo a quello di Berlusconi, o meglio, confonde questo progetto con il desiderio, soprattutto presente nelle sue componenti radicali, di fare tabula rasa di ciò che il più acerrimo nemico ha costruito in cinque anni. L'odio indotto dalle sinistre, che ha fatto calare sull'Italia una cappa di declino, che l'ha adombrata a metà, non porta a niente, è un sentimento da cui scaturisce la volontà di disfare, di distruggere. Qual è il risultato? Diamanti fornisce la sua interpretazione, finalmente critica: la predicazione della sinistra, intrisa di declinismo, ha comportato un «guaio»: adesso essa deve fare i conti con «gente chiusa in se stessa, che non crede nella meritocrazia e si limita all'autodifesa». Altro che politica riformatrice! Questa è pura sindrome di conservazione, è desiderio di guardare al passato: le parole di Epifani sono simbolo della volontà di rivivere anacronisticamente i residui ideologici del passato, di fuggire il presente e di non pensare al futuro.
Il centrodestra ha proposto il modello di una società che vuole avere il coraggio di andare avanti, di assumersi le responsabilità di scegliere e di indirizzare la propria vita. La sinistra, già ai primi passi di Governo, non fa altro che scivolare indietro. Il titolo dell'articolo di Diamanti, «Una società semichiusa che ha paura del futuro» è espressione di questo stato d'animo. E' questo che vogliamo? La regola dell'alternanza ci dà la possibilità, attraverso un opposizione seria, di erodere un potere fine a se stesso e non concepito come strumento per far progredire il Paese. E' nostro dovere opporci con determinazione ad un modello che non ha più ragione di essere, che si rigenera con l'inganno. Sempre ai danni della società.

lunedì 5 giugno 2006

Il decalogo della riforma costituzionale

Promemoria per cominciare a parlare di referendum e per votare "SI".

I Viene ridotto il numero dei parlamentari: da 950 a 773, con significativo risparmio per le finanze pubbliche.
II Saranno i cittadini, e non più i palazzi della politica, a scegliere maggioranza parlamentare, coalizione di governo e primo Ministro: è il premierato.
III Non più due Camere identiche, l'una doppione dell'altra. Ora il Senato sarà federale ed avrà una sua funzione specifica: rappresentare le esigenze delle Regioni. La Camera si occuperà di quelle dello Stato.
IV Semplificato il procedimento legislativo. Non più lunghi e ripetuti passaggi di testi fra le due Camere, ma ciascuna Camera approverà le leggi nelle materie di propria competenza. Il risultato sarà la riduzione dei tempi e dei costi per le casse pubbliche.
V La legge dovrà stabilire limiti al cumulo delle indennità parlamentari con altre entrate.
VI I regolamenti parlamentari dovranno tutelare i diritti delle opposizioni: ora questo non è previsto.
VII L’ordinamento evolve in senso federale, come sta avvenendo in molti Stati moderni: viene riequilibrato il riparto delle competenze tra Stato e Regioni per garantire migliori servizi ai cittadini, senza compromettere l’unità del Paese. Alle Regioni vengono devolute particolari funzioni in materia di istruzione, sanità e polizia locale. Tutte avranno le stesse opportunità, senza penalizzazioni per alcune aree rispetto ad altre e senza la differenziazione tra le Regioni, prevista dalla riforma del 2001. Si avrà quindi un federalismo equo, solidale ed equilibrato.
VIII Tutte le leggi regionali dovranno rispettare il criterio dell'interesse nazionale, non più previsto a seguito della riforma del 2001.
IX Sulle modifiche alla Costituzione sarà sempre possibile chiamare i cittadini ad esprimersi, mentre ora ciò non avviene se tali modifiche sono state approvate dalle Camere con la maggioranza dei due terzi.
X Aumentano le garanzie per i comuni e le province, gli enti più vicini ai cittadini: potranno ricorrere alla Corte costituzionale in caso di lesione delle proprie competenze.

giovedì 1 giugno 2006

Di notte tutte le vacche sono nere

Forza Italia non è un partito, non ha radicamento nel territorio, non ha dibattito interno, non ha organi elettivi, non ha sedi e non ha strutture: in compenso è il primo "partito" in Italia.
I D.S. con tutto il loro apparato, i centri sociali, le cooperative, i sindacati, i patronati, le feste dell'Unità ed il volontariato, nemmeno si avvicinano ai numeri di F.I.
Perché?
La risposta è articolata, ma si può ridurre ad un nome e cognome: Silvio Berlusconi.
La forza di un messaggio di libertà, la lotta al grigiore del comunismo, la rivalutazione dell'individuo, il ripudio della violenza, l'amore per la giustizia, la riscoperta del privato e il sogno di un'Italia più bella e più ricca, hanno entusiasmato milioni di persone che si riconoscono nel loro leader.
Ma quando il messaggio alto si scontra con la politica di tutti i giorni e si spegne nelle lotte per il potere, l'elettore di F.I. si ritrae, si defila e non gradisce. A livello locale, purtroppo, gli amministratori sono visti come le vacche di notte: tutte nere.
Solo il Capo riesce a dare serenità, solo per il Capo ci si mobilita, solo il Capo è dalla nostra parte.
Allora urge un partito, dal basso, organizzato, elettivo, che sappia discutere e proporre, che sappia seguire, ma anche anticipare il Capo: c'è tanta voglia di farsi sentire, di essere ascoltati e di fare il tifo.
Facciamo il partito delle Libertà: facciamolo domani, chi c'è, c'è.

I numeri dietro la propaganda. The Right Nation

http://ideazione.blogspot.com/2006/05/i-numeri-dietro-la-propaganda.html

Consiglio la lettura del post ai compagni. Le nostre fonti sono il Ministero degli Interni, le vostre le bacheche dei centri anziani.

Allarme conti pubblici, solita bufala mediatica. Giancarlo Colombo

Pochi giorni fa una società privata di rating economico e finanziario, la Fitch ha gettato l’ennesimo allarme sui conti pubblici italiani. Siamo alla fine di maggio 2006 e la portavoce del Commissario europeo degli Affari economici e monetari dichiara che l’Italia deve applicare con rigore la finanziaria di quest’anno ed adottarne una per il 2007, che segua lo stesso percorso di consolidamento. Insomma dopo Eurostat, Ecofin, Eurogruppo e Commissione Europea alla fine dei primi cinque mesi del 2006 siamo alle solite. Basta una ipotesi di sospetto di allarme, per far crescere i dubbi, i problemi, non solo sulla tenuta dei conti pubblici ma sulla loro regolarità amministrativa.
Dove porti questo gioco al massacro nei confronti del Paese non ho altri modi per dirlo, che segnalare con data certa che il Commissario Almunia ancora una volta per mezzo della sua portavoce ha dichiarato che la Finanziaria 2006 è, se osservata con professionalità, lo strumento principe per mantenere quella ripresa economica che si è manifestata nel 2005, e che l’Istat con i consuntivi di fine marzo 2006 ha certificato. E l’Istat non li ha certificati in base a supposizioni, ma in base a consuntivi di maggior fatturato estero ed interno, di maggiori ordini e quindi di maggior produzione.
Da questo circolo virtuoso nasce un maggior Pil e quindi maggiori introiti per lo Stato che deve essere messo in condizione di far rientrare il rapporto debito/Pil nei parametri dei trattati europei senza deflazionare la ripresa per timore di un’inflazione. Un equilibrio dinamico che il precedente governo era riuscito a creare e che ha bisogno, non negli interessi di questo o quell’esecutivo, di essere portato avanti. E poi non è neanche possibile che una qualunque società privata Fitch possa inficiare senza dare le quantità monetarie a suo dire sub judice, la credibilità del nostro Paese. Certo è facile in campagna elettorale dire “tutto va male madama la marchesa” ma poi alla riprova dei fatti e delle certificazioni comunitarie dire: dobbiamo cambiare perché tutto vada meglio. Tutti abbiamo letto “il Gattopardo” e ne abbiamo tratto la lezione che non si può cambiare tutto perché tutto resti uguale.
Vogliamo cambiare la Finanziaria 2006, seguiamo almeno quanto il neo senatore Ds Angelo Polito e il vicepresidente europeo Tajani hanno dichiarato. E cioè che in base al mandato europeo per procedere nel campo penale ci vogliono le prove e non i sussurri e grida, aggiungo io. E quello che va bene per i risvolti dell’agire umano nel penale va bene in economia. E se i conti pubblici fossero taroccati come le insinuazioni di Fitch lasciano intendere, quale sarebbe la Corte di giustizia davanti alla quale processare i responsabili? Ma per favore smettiamola di immaginare scenari disastrosi per poi andare a cercare i sospetti e gli indizi. Voglio solo aggiungere che ne va di mezzo la credibilità di chi dà fiato a queste bizzarrie e non certo il Paese che lavora e produce nel campo dei servizi e dei beni durevoli, strumentali e di consumo. Altrimenti ci facciamo male da soli con una serie di autogol da far rimpiangere il mitico Comunardo Niccolai. Occupiamoci piuttosto di trasporti, energia pulita e rinnovabile, energia nucleare, e perché no di ricerca e innovazione e magari dei risparmi da non penalizzare con nuove imposte avendole già pagate al momento del percepimento, tipo l’accantonamento del Tfr.