mercoledì 31 luglio 2013

Jena
31/07/2013 - Jena

Berlusconi

jena@lastampa.it
Cresce l’ansia nel Pd.

lunedì 29 luglio 2013

Silvio rimembri ancor chi ti fregò lo "Zibaldone". Massimiliano Parente

Arriva la traduzione in inglese dell'opera di Leopardi. È stata finanziata da Berlusconi con 100mila euro, ma tutti si dimenticano di dirlo. Del resto, il poeta non è un'olgettina...


Ha ragione Pietro Citati, scrivendo, ieri sul Corriere della Sera, che «mancava alla cultura di ogni paese una figura essenziale: Leopardi». Mancava soprattutto lo Zibaldone in lingua inglese, un'opera fondamentale del pensiero occidentale che adesso, dopo cinque anni di duro lavoro, esce finalmente negli Stati Uniti e in Inghilterra.
Citati i nomi di chi ha reso possibile un simile progetto li cita uno per uno: il professor Franco D'Intino, Michel Caesar, il Centro Studi Leopardiani, il ministero degli Esteri, l'editore americano Farrar, Straus and Giroux. Che insieme sono una massa di ipocriti, salvo Citati, forse solo disinformato, perché la vera storia è un'altra, talmente emblematica del malcostume italiano che Leopardi l'avrebbe citata come modello negativo nel suo discorso sui costumi degli italiani.
Ve la racconto io, anche perché c'entro in prima persona. A maggio 2007 fui contattato proprio dal professor Franco D'Intino, stava portando avanti la traduzione dello Zibaldone e aveva bisogno di soldi. Gli chiesi quanti soldi, rispose centomila euro. Non glieli dava né il ministero degli Esteri, né il Centro Studi Leopardiani, e quest'ultimo anzi, aveva pressoché bloccato tutto il lavoro. Non glieli dava neppure la Farrar, Straus and Giroux, anzi Jonathan Galassi pretendeva non solo che fosse pagata la traduzione ma perfino le spese di stampa. Stavano andando avanti con le collette online, spiccioli. A quest'ora sarebbero ancora a pagina dieci.
All'epoca facevo solo lo scrittore, e non scrivevo in esclusiva su nessun giornale, però mi venne un'idea e la proposi a D'Intino: perché non facciamo una campagna per chiedere a un imprenditore, un De Benedetti, un Montezemolo, un Armani, di finanziare proprio questa colossale impresa di prestigio culturale internazionale? Girai l'idea all'Espresso, dal quale proprio in quei giorni avevo ricevuto una proposta di collaborazione. Ma dopo settimane di riunioni risposero no, per Daniela Hamaui non era «abbastanza pop», testuali parole. D'Intino sempre più depresso, io gli dissi di non perdere le speranze, qualcosa mi sarei inventato.
Quindi provai con Libero, diretto da Vittorio Feltri, parlandone con il capocultura Alessandro Gnocchi, e mi dettero subito carta bianca: fai quanti pezzi vuoi, è una cosa troppo importante, se vuoi andiamo avanti anche per un mese. Alla faccia della destra ignorante, pensai. Tra parentesi nacque in quel momento la mia collaborazione in esclusiva con Libero e poi con il Giornale, con la stessa carta bianca.
Non fu una campagna lunga, durò appena un appello, in cui esposi la situazione. Non passarono due giorni e con mia grande sorpresa mi telefonò Gianni Letta, e non da Palazzo Chigi bensì da Recanati, dove era andato per verificare il progetto. Mi informò che Silvio Berlusconi era intenzionato a finanziare la traduzione dello Zibaldone, senza se e senza ma. «Quanti soldi servono?». «Centomila euro». «Bene». Trascorsero altri tre giorni e Letta mi richiamò, chiedendomi su quale conto dovesse far pervenire il bonifico di Berlusconi, e al contempo D'Intino mi pregò di non mandare il denaro al Centro Studi Recanati, sarebbe finito chissà dove. Detti quindi a Letta il numero di conto del Leopardi Centre, raccomandandomi di tenere fuori il Centro Studi di Recanati, e dopo una settimana arrivò il bonifico di Silvio Berlusconi a D'Intino, i centomila euro richiesti.
Tutto l'italico, vomitevole schifo ha inizio da quel momento. Neppure il tempo di festeggiare e D'Intino mi telefonò in lacrime: il Centro Studi Recanati, e perfino l'Università La Sapienza, lo stavano isolando perché aveva accettato i soldi di Berlusconi. Obiettai che era assurdo, ma lui continuava a frignare, la sua carriera rischiava di finire. Addirittura? Allora, a malincuore per Leopardi, gli consigliai di non prenderli. Invece i soldi se li tenne, e l'équipe si mise al lavoro. Tuttavia il nome di Berlusconi continuò a non comparire nel sito del Leopardi Centre, neppure a distanza di anni, solo una vaga dicitura: finanziamenti privati. Richiamai D'Intino per avere spiegazioni. Per mio principio, Berlusconi aveva finanziato a fondo perduto e senza nessuna richiesta o clausola, gli bastava andassero avanti. La risposta di D'Intino fu surreale: avevano perso la password. Sebbene il sito continuasse a essere aggiornato.
Ora finalmente esce lo Zibaldone, e salta fuori che proprio chi ha ostacolato l'impresa se ne prende il merito e viene citato da Citati. Il sottoscritto, tra l'altro, non è stato neppure informato della pubblicazione, immagino neppure Berlusconi. Non essendo Giacomo un'olgettina non interessa a nessuno, non sarà abbastanza pop. Anzi, le olgettine sono un modello etico di gratitudine e lealtà in un'Italia di ingrati approfittatori. Di certo se Leopardi fosse vivo sputerebbe in faccia a tutti.

giovedì 25 luglio 2013

Ora lo dice anche il Garante: Raitre megafono della sinistra. Andrea Indini

Gubitosi aveva negato l'evidenza. Ma adesso l'Agcom interviene contro l'Annunziata e Floris: le trasmissioni In mezz'ora e Che tempo che fa sono usate come una vera e propria passerella per i vertici della sinistra. Il Pdl: "Ora riequilibrio"


Non che ci fosse il bisogno dell'imprimatur del Garante. Che la Rai, e in particolar modo Raitre, funga da megafono per la sinistra è un dato di fatto. Basta fare un rapido zapping da un talk show all'altro, da un telegiornale all'altro, da un salotto all'altro per respirare l'aria che tira.

Da In mezz'ora a Ballarò, da Che tempo che fa all'Arena. È un turbinio di militanza rossa. Nemmeno la grande migrazione a La7 di Michele Santoro, Marco Travaglio, Vauro e compagnia bella ha dato un po' di respiro agli studi di viale Mazzini. Tanto che oggi l'Agcom è arrivato a lanciare un appello netto ai programmi di Lucia Annunziata e Fabio Fazio affinché garantiscano "una maggiore presenza di esponenti del Pdl" nel ciclo 2013-2014. Nella speranza che, una volta invitati, non vada a finire come quando la direttrice dell'Huffington Post si è trovata davanti al segretario del Pdl Angelino Alfano e, presa dal livore, ha definito tutti gli eletti del Pdl "impresentabili".

In seguito all'esposto del capogruppo del Pdl alla Camera Renato Brunetta, il consiglio dell’Autorità per le garanzie nelle Comunicazioni ha pubblicato l’esito dell’istruttoria avviata per "verificare il rispetto dei principi di parità di accesso e pluralismo politico" nei programmi In mezz’ora, Che tempo che fa e Ballarò nel ciclo di programmazione 2012-2013. Se da una parte ha giudicato la trasmissione condotta da Giovanni Floris "non lesiva dei principi di pluralismo", dall'altra l'Authority ha ordinato ai vertici di viale Mazzini di riequilibrare gli altri due programmi garantendo una maggiore presenza di esponenti del Pdl. Basta dare un'occhiata ai numeri per capire che Raitre viene usata come una vera e propria passerella per gli esponenti della sinistra. Se si prendono in esame tutte e 29 le puntate della trasmissione domenicale della giornalista campana, emerge un'impressionante "impar condicio": ben quattordici sono state dedicate a un ospite democrat.

Annunziata insulta il Pdl

Dall'ex segretario piddì Pierluigi Bersani a Rosi Bindi, dal sindaco Matteo Renzi, che ha anche bissato, a Dario Franceschini, da Fabrizio Barca all'ex Cgil Guglielmo Epifani. Per il Pdl due sole presenze di Alfano. Una di queste macchiata dagli insulti della Annunziata. Insulti che non sono mai stati puniti dal direttore generale Rai Luigi Gubitosi. Non solo. Gubitosi aveva addirittura negato l’evidenza durante l’audizione in commissione di Vigilanza. "Del resto non ha garantito, con una condotta irrispettosa, nemmeno il diritto di replica a chi è stato oltraggiato durante i comizi televisivi della Annunziata al servizio della sinistra", ha commentato il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri invitando la Rai a "porre fine al massacro mediatico del centrodestra attuato da programmi-propaganda ben protetti e strapagati". Proprio per questo, il Pdl chiederà a breve una riunione della Vigilanza per raffrontare il negazionismo dei vertici di viale Mazzini.

"Quella di oggi è una vittoria di tutti i cittadini italiani che pagano il canone e hanno diritto a un'informazione equilibrata e completa". Brunetta ha incassato con soddisfazione la decisione dell'Agcom. D'altra parte, sono anni che Silvio Berlusconi denuncia la faziosità della televisione pubblica. Dai telegiornali ai talk show l'anti berlusconismo militante è un fil rouge che la Vigilanza non è mai riuscita a recidere. "La prima battaglia è stata vinta - ha concluso Brunetta - ora continuerò a difendere il pluralismo, la par condicio e la trasparenza che nel servizio pubblico radio televisivo devono diventare la regola e non più l'eccezione". (il Giornale)

mercoledì 24 luglio 2013

Se la dolce vita diventa reato. Marcello Veneziani

La bestiale crisi economica sta offrendo a una sinistra arcigna e punitiva il destro per condannare e proibire l'Italia frivola per il reato di dolce vita


Fabrizio Corona e Lele Mora in galera, idem la Minetti e Fede, le olgettine sotto processo, la sfilata di veline in tribunale, Miss Italia da abolire, Dolce & Gabbana sotto tiro, Briatore... La bestiale crisi economica sta offrendo a una sinistra arcigna e punitiva il destro per condannare e proibire l'Italia frivola per il reato di dolce vita. I gradi di giudizio sono i seguenti: prima la satira, poi il talk show, segue la campagna di stampa, indi la condanna istituzionale, infine il tribunale. Per dare nomi simbolici ai cinque gradi di giudizio: Crozza, Santoro, la Repubblica, Boldrini, Boccassini. O varianti tipo Fazio, Littizzetto, Il Fatto, altri tribunali e agenzie delle entrate.

Quel mondo giocondo, banale e fricchettone non piace neanche a me, non sono bei modelli di vita ma esempi deteriori di un'Italia vanesia. Però ancor meno ci piace passare dalla critica e la disapprovazione di quegli stili di vita al proposito di abolire, proibire, punire, incarcerare. In questo fanatismo triste e repressivo c'è arroganza e c'è pure viltà. L'arroganza di chi pretende d'essere giudice ingiudicabile per partito preso e per razzismo etico. Ma anche la viltà di chi non difende il senso morale e il senso del dovere, anzi ha concorso a demolirli in tante battaglie pubbliche e scelte private, dal '68 in poi, e ora bacchetta col moralismo fiscale, giudiziario e proibizionista i frutti sgraditi di quell'ondata trasgressiva, già battezzata come liberazione e diritti civili. Tanta ipocrisia immersa nell'acido giacobino. (il Giornale)

martedì 23 luglio 2013

L'onore di Mori e Obinu è l'onore dell'Italia. Giovanni Alvaro

Il bravo Gian Marco Chiocci riferendosi alla vergogna del processo svoltosi a Palermo, contro due alti ufficiali dei Carabinieri, quali il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu, ha chiuso la propria riflessione scrivendo che quanto emerso nel processo, che ha portato alla piena assoluzione dei due servitori dello Stato, spinge a domandarsi, ricorrendo alla colorita ma efficace parlata siciliana: “ma in chi minchia di paisi campamu?” (Ma in che vergogna di Pese viviamo).

Chiocci, praticamente, dà voce ad un sentire popolare che considera, in larghissima maggioranza, la giustizia italiana poco consona ad uno stato di diritto, una giustizia che soffre di malattia inguaribile aggravata da metastasi diffuse e, senza volerlo, diffonde un pessimismo pericoloso. Certo questo è il comune sentire di una opinione pubblica che giornalmente è testimone di casi, sempre più diffusi, di malagiustizia, di cittadini condannati con processi indiziari e di altri che in attesa di giudizio marciscono nelle patrie galere. Non serve a sconfiggere detto pessimismo neanche lo sfogo di Mario Mori che ha espresso la propria soddisfazione per l’assoluzione con un “c’è un giudice a Palermo”, parafrasando il famoso mugnaio tedesco che cercava giustizia a Berlino dove albergava la sua speranza dato che là, secondo lui, non poteva non esserci un giudice libero da condizionamenti insormontabili e pregiudizi inaccettabili. Ma neanche la sua assoluzione serve vuoi perché una noce nel sacco non fa rumore, ma anche perché gli inquirenti non molleranno la loro preda. Mollarla significa contribuire allo sgonfiamento della “trattativa Stato-Mafia” che, sempre più, sembra la fotocopia del famoso buco dell’ozono del quale non parla più nessuno.

Sulla trattativa vivono intere generazioni di antimafiosi che usano il loro status per carriere politiche, e schiere di ‘agende rosse’ alle quali piace essere palesemente strumentalizzate, così come sul ‘buco dell’ozono’ hanno vissuto legioni di ambientalisti e sul ‘surriscaldamento del pianeta’ vivono ancora, malgrado il massimo guru Al Gore si sia ‘ricreduto’ senza però riconsegnare il premio Nobel ricevuto. E infatti il pm Nino Di Matteo ha già annunciato che “è una sentenza che non condividiamo in nessuna parte e che sicuramente impugneremo” e lo fa senza la cautela espressa dal suo collega Teresi che sostiene essere importante conoscere le motivazioni che hanno spinto il Tribunale ad assolvere i due militari e a dare un terribile colpo ai signori dell’antimafia da convegno. Due motivi possono essere intuiti e sono la palese inattendibilità dell’oracolo pataccaro Massimo Ciancimino e del colonnello Riccio le cui posizioni dovranno essere valutate dalla Procura con le conseguenti decisioni in merito alle eventuali richieste di rinvio a giudizio per calunnia; il secondo motivo è la testimonianza del carabiniere Antonio Damiano che sbugiardò il carabiniere Riccio che aveva mentito su particolari importanti e delicati. Riccio infatti non era stato dove aveva giurato di essere stato ed aveva falsificato (come il pataccaro Ciancimino) la relazione di servizio: Provenzano non poteva essere arrestato perché non era dove Riccio giurava che fosse. Intanto godiamoci questo momento di verità stringendoci attorno ai CC Mori e Obinu a cui è stato restituito l’onore perché il loro onore è l’onore dell’intera nazione che non merita una giustizia così ingiusta e fortemente piegata a interessi di parte.

il Calcestruzzo

lunedì 22 luglio 2013

Da DG a D&G. Davide Giacalone

Domenico Dolce e Stefano Gabbana hanno fatto benissimo, dimostrando schiena dritta e onorabilità piuttosto rare. Non mi riferisco tanto alla serrata dei loro negozi, per protestare contro la follia autolesionista della giunta milanese, quanto all’appello che hanno pubblicato su diversi giornali. Si rifiutano di essere sudditi e reclamano i loro diritti di cittadini, fra i quali è compreso il rispetto dovuto, ma anche atteso dall’Agenzia delle entrate, dalla Guardia di Finanza e dalle procure della Repubblica. Che del cittadino, invece, non hanno rispetto, considerandolo suddito, e che agiscono con un contorno delirante di colpevolisti e scandalisti a mezzo stampa. Solitamente colmi di colpe e scandali. Non è facile far le battaglie di principio sulla propria pelle, ve lo dico per esperienza, ma Dolce & Gabbana non si sono tirati indietro. Bravissimi. Che siano nominati, sul campo, comandanti di una campagna di civiltà.

Oramai l’andazzo è consolidato: l’Agenzia delle entrate contesta un’evasione e non solo la richiesta entra nella contabilità di ciò che il cittadino deve allo Stato, ma se il mirino delle cronache ti mette a fuoco sei automaticamente un evasore, e chi se ne frega se poi non è vero; Equitalia ti manda una cartella e tocca a te dimostrare di non essere in debito, nel mentre quelli si prendono i quattrini subito e te li restituiscono con comodo anche dopo che un giudice ti ha dato totalmente ragione; il pubblico ministero di turno ti manda l’avviso di garanzia e sui giornali finisci il giorno dopo come colpevole, salvo poi scoprirsi il contrario, ma con comodo, in due o tre lustri. Troppi piegano la testa, innanzi a questo scempio del diritto. E lo fanno perché molti sono gli evasori e tanti quelli che ritengono di avere qualche cosa da nascondere. Ma c’è chi ha il coraggio e la forza di non inchinarsi. Si dirà che Dolce & Gabbana se lo possono permettere. Sbagliato: semmai hanno molto da perdere. Ma non hanno voluto perdere la loro dignità di cittadini. Ancora: bravissimi.

Su un punto mi sento di non concordare con i loro avvocati, quando sostengono che il caso dei due stilisti è “più unico che raro”. E’ normale. Certo, non per quelle cifre, ma è normale. Proprio per questo il loro appello deve essere non la conclusione di un momento di sconforto, ma l’inizio di una protesta civile e consapevole, indirizzata al rispetto della legge. Per chi la infrange, ma anche per chi la osserva. Non vestendo griffato, ma antiquato, non posseggo capi D&G. Anche perché taluno potrebbe supporre una deriva megalogamica (sono le mie stesse iniziali). Ne comprerò uno, e lo porterò con orgoglio.

In quanto al moralismo sinistro della giunta milanese, alla facilità con cui si bolla di “evasore” chi non lo è e di “colpevole” chi non lo è, semplicemente allineandosi alla corrente questurina e manettara che un tempo contraddistingueva la destra estrema, mentre ora la sinistra scema, devo dire che non mi stupisce. Qualche giorno fa, dialogando alla radio con una senatrice del Pd, Laura Puppato, ella ebbe a sostenere che nella vita, di certo, non avrebbe assunto chi fosse stato condannato in primo o secondo grado, sebbene in attesa di sentenza definitiva. Tale insegnamento, disse, lo trasmetteva ai figli. Mi colpì il fatto che la senatrice non avvertiva nelle proprie parole la violazione del diritto. Dello Stato di diritto. E una ragione c’è: ricordate la canzone di sinistra, cantata da Claudio Lolli? “Vecchia piccola borghesia, per piccina che tu sia, il vento, un giorno, ti spazzerà via”. Lo sono diventati loro: borghesia piccina, ipocrita, conformista, perbenista. Falsa.

Pubblicato da Libero

giovedì 18 luglio 2013

Il caso kazako, il governo, i magistrati e l'articolo 19. Christian Rocca

Subito una doppia premessa: a nessuno frega niente dei dissidenti kazaki e dei diritti umani violati dal satrapo di Astana, nonostante il grottesco atteggiamento di alcuni giornaloni trasformatisi in organi dell’opposizione kazaka; l’unica cosa che interessa è Alfano, quindi Berlusconi, quindi l’alleanza contro natura Pd-Pdl, quindi i famosi nonché comici spiragli di un "governo del cambiamento" Sel-QuelcherestadelPD-M5S.

La polizia, e quindi il governo, dice che non sapeva che la donna fosse la moglie di un dissidente. Lo scrive il capo della Polizia Pansa nella relazione (a pagina 8). Ma un resoconto dell’Ansa del 31 maggio, poche ore dopo l’espulsione, racconta che i legali della donna avevano invece detto sia ai funzionari di polizia sia ai magistrati che si trattava della moglie di un dissidente e che certamente non avrebbero dovuto consegnarle al Kazakstan, dove avrebbero potuto essere trattate in modo disumano. Sappiamo, inoltre, che ne era al corrente la procura di Roma (era sufficiente, ha notato Luca Sofri sul Post, fare una ricerca su google per scoprire che il marito della donna kazaka non era, diciamo così, amato dal regime kazako).
Basta soltanto questo episodio a stabilire che c’è stata una violazione di legge da parte dei funzionari del Viminale, e la violazione non è stata fermata da magistrati che avrebbero dovuto applicarla, la legge.
Leggete cosa dice l’articolo 19 del Testo Unico sull’immigrazione, quello che regolamenta (e in alcuni casi vieta) le procedure di espulsione degli stranieri:

Articolo 19
Divieti di espulsione e di respingimento.
(Legge 6 marzo 1998, n. 40, art. 17)
1. In nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione.


Rileggiamo: «In nessun caso può disporsi l’espulsione verso uno stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di… opinioni politiche». Se i legali della donna, come dicono e come è ovvio, hanno fatto notare lo status del marito, l’espulsione non andava fatta e basta. Era illegale.
Certo c’è la responsabilità politica, in questo caso oggettiva, perché Alfano e Bonino e Letta dicono di non averne saputo niente se non a cose fatte, ma c’è soprattutto quella più diretta, lampante, giuridica dei funzionari del Viminale e poi dei magistrati che avrebbero dovuto garantire la legalità del processo. Che poi, un mese dopo e a scandalo sui giornali, un tribunale abbia ribaltato la sentenza non cambia le cose.
Io ovviamente non so se Alfano o Bonino o Letta sapessero che cosa stava succedendo. Loro dicono di no e al momento non ci sono elementi che li possano smentire (la prova contro Alfano per ora non c’è, anche se l’aver dirottato l’ambasciatore kazako che gli aveva chiesto un incontro sul suo capo di gabinetto invece che sulla Farnesina non depone a favore della sua prontezza di riflessi). Mi pare però bizzarro che gli alti funzionari del Viminale abbiano preso direttive da un diplomatico straniero senza curarsi di coinvolgere i vertici politici del governo o la Farnesina.
Sono stati così sciatti da non capire la portata di un possibile caso internazionale? Non hanno fatto nemmeno una ricerca su internet per capire chi stavano arrestando?
Se è così, e loro dicono sia così, sono loro quelli che si devono dimettere, tutti. Altro che «abbiamo fiducia nelle forze dell’ordine». No, non ne abbiamo per niente se alla prima richiesta di un diplomatico straniero (e che straniero), certo supportata da un mandato di cattura internazionale, si mettono a disposizione usi a obbedir tacendo come se fossero un corpo dello stato kazako. Certo, il loro operato è stato legittimato dai magistrati, ma siamo di nuovo lì: i magistrati si sono girati dall’altra parte. Nessuno, ovviamente, parla dei magistrati. Non è antiberlusconiamente corretto.

Diciamo che sono tutti responsabili del patatrac. Il governo Letta perché è avvenuto tutto a sua insaputa, e i governi che non sanno che non controllano i corpi dello Stato significa che non governano. I funzionari del Viminale che, al minimo, hanno agito in modo superficiale. I magistrati che non hanno fatto applicare la legge. Chiedere le dimissioni del solo Alfano vuol dire esattamente insabbiare il caso che, in mancanza di altri riscontri, mi pare di incompetenza, sciatteria e superficialità. Un ritratto dell’Italia, insomma.
Ma del caso in questione, appunto, non importa niente a nessuno. Importa solo colpire Alfano, quindi Berlusconi, quindi l’alleanza di governo. Pare ci siano spiragli.
PS Post corretto per attenuare la responsabilità dei magistrati. Errore mio, sorry. (Camillo blog)
ArchivioBordin Line

18 luglio 2013

Ho letto una intervista ad Antonio Ingroia sul Giornale di Sicilia a proposito del suo nuovo incarico. Come forse sapete è stato nominato, dal presidente della giunta regionale Crocetta, commissario di Sicilia e-Servizi, società partecipata della regione. Si è concretizzato quel piano B, dopo il disastro elettorale, che questa rubrica vi aveva anticipato. Ma la questione non è più tanto questa. Nell’intervista è scritto che secondo i vertici della regione in quella società è stata perpetrata “una truffa da almeno 200 milioni”. Almeno. La contromisura, par di capire, non è una denuncia a chi di dovere ma l’assunzione di Ingroia che, tutto contento, annuncia che si recherà in procura “nella nuova veste di denunciante” dopo aver messo il naso negli affari della società che già gli appaiono “più o meno sporchi”. Sorge spontanea la domanda: ma non era più logico chiudere la società e presentare un esposto-denuncia in procura ? Nossignore, “chiuderla costerebbe troppo” assicura il neo assunto. “Sono qui per rilanciarla, incrociando il mio passato da investigatore con il mio futuro da uomo politico e da amministratore pubblico”. In parole povere il futuro che si disegna Ingroia è il passato che non passa, la commistione fra politica e società partecipate da “rilanciare”, la Sicilia anni 50 dell’Ente minerario guidato da un notabile Dc. Sarebbe banale citare “Il Gattopardo”. Lì almeno per dare un volto a Tancredi ci volle Alain Delon. E Visconti. Qui basta Crozza.

di Massimo Bordin@MassimoBordin
ArchivioAndrea's Version

18 luglio 2013

Che Lidia Ravera avesse dato di donnetta-negretta-scimmietta a Condoleezza Rice lo ricordavo benissimo, e vedrà lei come un dirigente pubblico della cultura, non dell’ortofrutta, della cultura, debba fare eventualmente i conti con quel ritrattino sgorgatole dal cuore e stampato sull’Unità. Quanto a Calderoli, ex dentista proveniente da famiglia di dentisti, padre dentista , zii dentisti, nonni dentisti, cugini dentisti, tutti rigorosamente a Bergamo (ma dentisti tutti tutti?, gli chiesi una volta, e lui: “Salvo un cugino che ha fatto il ’68 a Milano, gran testa calda, volle prendere la sua strada provocando un casino in famiglia”. E finì dove? “A Otorinolaringoiatria”), quanto a Calderoli, dicevo, nell’Alta bergamasca gira ancora il proverbio: “Se el to’ dent el g’ha ‘l taréul, te g’ha de ‘ndà dal Calderéul”. In quel sano contesto è cresciuto, l’uomo delle istituzioni. Dopodiché, sarebbe assurdo negare che si sia profuso in mille e mille scuse. E sincere. Incontrata la ministra, non le avrebbe detto se no: “Dài, qua la zampa”.

mercoledì 17 luglio 2013

L'affaire kazako. Davide Giacalone

Cerchiamo di non peggiorare le cose, cedendo alla tentazione di usare il fronte esterno per regolare conti interni. L’affaire kazako mette allo scoperto interessi nazionali rilevanti, come anche inadeguatezza del personale che lo ha maneggiato. Limitiamo i danni, circoscrivendo tre questioni: a. la sorte di una donna e della sua bambina di sei anni; b. la catena di comando ed esecutiva; c. la questione politica.

a. Non ho informazioni sufficienti sul signor Ablyazov. So, però, che quando l’occidente accolse la moglie di Sacharov (Elena) o un grande come Solženicyn, di certo non arrivarono depositando qualche miliardo in banca. Ammettiamo, quindi, per comodità di ragionamento, che il banchiere kazako sia un poco di buono. Diciamo pure pessimo. Non è una buona ragione per cedere sua moglie e sua figlia minorenne alle autorità del suo Paese. Anche se fosse un criminale, anziché un dissidente, quelle due hanno tutta l’aria d’essere ostaggi. E l’Italia, ovvero il Paese da cui s’espellono a fatica le persone, dopo procedure lunghe, non avrebbe dovuto consegnarle. E’ stato fatto, purtroppo. A questo punto abbiamo il dovere di utilizzare i buoni rapporti e i buoni affari con il Kazakistan, rinsaldati da questa triste vicenda, per chiedere che la nostra rappresentanza diplomatica abbia diretta e costante visibilità sulle condizioni di vita di quelle due persone, nel cui interesse dobbiamo reclamare e garantire adeguata assistenza legale. Nulla di meno sarebbe accettabile. Anche un capello in meno comporterebbe iniziative formali. Che non convengono a noi, ma neanche convengono al governo kazako.

b. Chi governa deve tenere presente che quando si parte ammettendo che c’è una responsabilità, ma sostenendo d’essere all’oscuro, quindi la necessità di un’inchiesta, va a finire che il livello politico ci fa una figura non ragguardevole. Funziona meglio l’assumersi le responsabilità politiche e far poi pagare gli eventuali infedeli. Chi governa deve sapere che l’Italia è una sola, sicché non serve far sapere all’universo che da noi il funzionario può agilmente fregare il ministro. Il ministro degli interni, riferendo ieri al Senato, ha detto che opererà perché ciò non accada mai più. Giusto, forse un pizzico tardivo. Questa vicenda, come altre prima, dimostra che non funziona la catena di comando, che non sono mai chiare le responsabilità e non è assicurata la circolazione delle notizie. Il che rende possibili pressioni e manipolazioni dall’esterno. Inutile nascondersi dietro a un dito: è interesse italiano mantenere buoni rapporti con il Kazakistan, con cui si spera di fare sempre migliori e più grandi affari, specie nell’approvvigionamento di materie prime per l’energia, ma questo non deve spingere a rendere tutto opaco, bensì, all’opposto, a stabilire prima fin dove s’intende spingersi nel mantenere buoni rapporti con chi non è uno stinco di santo. Il moralismo che trabocca da certi giornali e da certe famiglie politiche (le stesse che dileggiarono Sacharov e Solženicyn, del secondo sostenendo che era un nazionalista pazzo, non meritevole di protezione) non serve a nulla. E’ solo ipocrisia. Ma lo spettacolo di due ministri (interni ed esteri) giocati assieme al presidente del Consiglio consegna il ritratto di un Paese in dissoluzione. Infine: hanno agito tribunali, questure, polizia e prefetti, ma non i servizi segreti (nostri, quelli altrui sì), ovvero i meglio attrezzati alla bisogna. Questa è la fine che tocca ai paesi che abbandonano i loro agenti segreti in balia di altri poteri interni, giustizia compresa (leggi Pollari e caso Omar), così privandosi dello strumento migliore per maneggiare situazioni che imbrattano.

c. Angelino Alfano è consustanziale a Enrico Letta, più di quanto ciascuno dei due lo sia rispetto ai partiti di provenienza (e uso il plurale perché la Democrazia cristiana ha chiuso i battenti). L’ipotesi che uno dei due possa cadere e l’altro restare in piedi è inconsistente. Il Pd se ne faccia una ragione. C’era una regola, quando la Repubblica aveva ancora un’anima: è pericoloso far cadere i governi sulla politica estera. Lo scenario è cambiato, ma quella regola è ancora saggia. Certo, dovere donare il sangue per reggere in piedi un corpo con la giugulare tranciata, pronto a collassare subito dopo l’ennesima trasfusione, non è prospettiva allegra. Ma è la maledizione di questo governo delle larghe intese: dovendo fare assieme quel che separati non riescono a fare sono riusciti a stare assieme per continuare a galleggiare senza fare. Già Dante sintetizzò caratteristiche e sorti della “nave senza nocchiero”.

Pubblicato da Libero

giovedì 11 luglio 2013

Processo "diritti Mediaset"

 “Lascereste al suo posto il capo dell’ufficio acquisti dell’azienda di vostra proprietà se veniste a sapere che si fa corrompere e fa la cresta sugli acquisti?”

         La risposta negativa è assolutamente ovvia.

Ma la domanda non è provocatoria poiché è proprio sulla incredibile negazione di questo assunto che il Tribunale di Milano prima e la Corte di Appello poi, recependo in maniera acritica l’assurda tesi della Procura di Milano, con pervicacia accusatoria che connota da sempre l’agire a Milano nei confronti del Presidente Berlusconi, ha aperto e trascinato per anni un inverosimile procedimento fondato sul nulla.

         Tale processo, convenzionalmente denominato “diritti Mediaset”, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull’accusa e davvero “super partes”, sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i  contribuenti.

         Basti pensare che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro.

         Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro.

Veniamo ai fatti.

         Il gruppo televisivo fondato da Silvio Berlusconi era ed è uno dei principali acquirenti di diritti televisivi al mondo.

         Una piccola parte, di questi diritti (da 30  a 50 milioni di dollari, sul totale di quasi 1 miliardo di dollari acquistati annualmente) veniva acquistata ogni anno da tale Frank Agrama, un imprenditore americano che operava ed opera nel settore diritti da oltre 40 anni.

         Agrama, grazie ai suoi rapporti di amicizia con il Presidente della Paramount, Bruce Gordon, godeva di una sorta di esclusiva per la vendita dei prodotti Paramount sui mercati europei ed otteneva dalla stessa Paramount prezzi e condizioni particolarmente favorevoli.

         Secondo alcune testimonianze, Frank Agrama e Bruce Gordon erano soci.

         Agrama acquistava ogni anno da Paramount l’intera produzione dei film e delle fiction e poi li vendeva, singolarmente o a pacchetti, ai vari operatori europei assumendo su di sé il rischio dell’acquisto globale della produzione Paramount.

         Fininvest prima e Mediaset poi, per acquisire i prodotti Paramount, tra i migliori sul mercato americano, dovevano quindi, necessariamente, trattare sempre e solo con Agrama.

         A conferma di questo un nuovo amministratore di Mediaset cercò di aggirare questa situazione trattando direttamente con Paramount. Il risultato fu che, quell’anno Paramount cedette tutti i suoi prodotti alla RAI anziché a Mediaset.

         I magistrati milanesi non si arrendono a questa realtà e ipotizzano addirittura che la causa dell’esclusiva di Agrama sarebbe stato il fatto che Silvio Berlusconi sarebbe socio occulto di Agrama e che avrebbe diviso con lui gli utili delle vendite Paramount.

 

Risulta invece incontestabilmente dagli atti che:

A) Silvio Berlusconi ebbe a conoscere il signor Agrama (due o tre incontri soltanto) agli albori della TV commerciale negli anni ’80 non avendo avuto successivamente alcun rapporto con lui.

 

B) Dai conti correnti di Agrama sequestrati dai PM milanesi si evince incontestabilmente che tutti i guadagni provenienti dall’attività commerciale di Agrama sono rimasti nella sua esclusiva disponibilità e che mai somma alcuna è stata trasferita a Silvio Berlusconi.

 

C) Nel corso degli anni, Agrama ebbe a versare ad alcuni dirigenti di Mediaset ingenti somme di denaro in “nero” (in un caso addirittura 4 milioni e mezzo di euro) per far sì  che l’azienda acquistasse  l’intera produzione annuale di Paramount.

 

D) Tutti i testimoni ascoltati hanno categoricamente escluso che Silvio Berlusconi si fosse mai occupato dell’acquisto di diritti televisivi.

 

E) Tutti i testimoni hanno confermato che dal gennaio 1994, data della discesa in campo nella politica, Silvio Berlusconi dopo essersi dimesso da ogni carica, si è totalmente distinto ed allontanato dalle aziende da lui fondate.

 

         E’ evidente quindi che Silvio Berlusconi, che era proprietario al 100% di Mediaset e che anche dopo la quotazione in borsa ne era il principale azionista e il principale beneficiario degli utili, mai avrebbe avuto interesse ad acquistare prodotti Paramount in eccedenza rispetto alle esigenze di Mediaset per poi dividere una piccola parte dell’utile con Agrama e mai avrebbe acconsentito al pagamento di tangenti in “nero” a propri dirigenti per agevolare Agrama.

         Gli sarebbe stato sufficiente una semplice telefonata ai suoi sottoposti per ottenere l’acquisto dei diritti esitati da Agrama senza che questi dovesse pagare alcuna tangente, secondo l’accusa per il 50% di pertinenza di Berlusconi.

         Sorge evidente una domanda: quale imprenditore avrebbe continuato a mantenere come responsabili dell’Ufficio acquisti, (un ufficio che trattava i prezzi e acquisiva annualmente venti volte il pacchetto dei diritti Paramount e cioè “diritti” per quasi un miliardo di dollari all’anno,) dei dirigenti corrotti che pensavano al loro interesse e non a quello dell’azienda, che anzi avrebbero potuto procurare ingenti danni patrimoniali all’azienda?

         La risposta è assolutamente scontata: nessun imprenditore con la testa sulle spalle, avrebbe mai tollerato per più di un minuto la permanenza in azienda di tali personaggi.

         Ancora: il Collegio del Tribunale di Milano, era presieduto dal dott. D’Avossa, giudice già ricusato poiché in altro processo riguardante proprio il Gruppo Fininvest si era espresso affermando che era fatto notorio che in tale gruppo si utilizzassero fondi “neri” ed aveva perciò condannato i dirigenti imputati, che poi furono invece assolti in Appello e in Cassazione per insussistenza dei fatti.

         Ancora: la Presidente della Corte d’Appello che ha incredibilmente confermato la sentenza di condanna del Tribunale aveva manifestato pubblicamente la sua disapprovazione nei confronti del Governo Berlusconi.

         Ancora: i fatti ipotizzati dall’accusa sarebbero accaduti nella prima metà degli anni ‘90 e quindi sono risalenti nel tempo di oltre 20 anni.

La Magistratura, anziché prendere atto dell’intervenuta prescrizione ha invece, con tesi assolutamente pretestuosa, sostenuto che la compravendita dei diritti aveva continuato a produrre i suoi effetti in tutti gli esercizi di bilancio in cui gli stessi diritti avevano trovato  utilizzazione, ancorché fossero stati integralmente pagati all’epoca dei contratti primigenii risalenti agli anni ’90 ed interamente ammortizzati nei bilanci aziendali.

Questi i teoremi accusatori che sono stati protratti all’infinito solo per poter arrivare a condannare il nemico ideologico e politico Silvio Berlusconi.

         Ma ciò che rende ancor più assurda tutta questa vicenda è rappresentato dal fatto che i magistrati milanesi, contro ogni logica, non hanno tenuto conto di due precise sentenze della Corte di Cassazione, che con decisioni passate in giudicato hanno statuito l’insussistenza di quei fatti e comunque l’estraneità di Silvio Berlusconi alla gestione di Mediaset proprio negli anni in questione.

         In qualunque altra sede giudiziaria, dunque, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma eravamo a Milano.

9 luglio 2013

 

 

 

I processi di Silvio Berlusconi


Dati relativi a procedimenti penali riguardanti Silvio Berlusconi ed esponenti del Gruppo Fininvest.


La più grande campagna di persecuzione giudiziaria che sia mai stata organizzata ed attuata in una democrazia.


 
Alla data odierna sono stati avviati 108 procedimenti penali, relativi a soggetti e società del Gruppo Fininvest.

 
Questi procedimenti hanno coinvolto 112 soggetti fra manager, dipendenti e collaboratori del Gruppo Fininvest.

 
L’assistenza legale ha dovuto impegnare, dal 1994 ad oggi, 133 legali e 69 consulenti.

 
Dal 1994 ad oggi, con riferimento a 63 procedimenti, sono state celebrate complessivamente più di 2.500 udienze  fra udienze preliminari, incidenti probatori ed udienze dibattimentali.

 
Dal 1994 al 1996 sono state richieste 35 misure cautelari a carico di 26 soggetti fra dirigenti, dipendenti e collaboratori del Gruppo Fininvest; in 13 casi non è stato poi neppure disposto il rinvio a giudizio.

 
Dal 1994 ad oggi, presso il solo Gruppo Fininvest sono stati effettuati, da parte della Polizia Giudiziaria e della Polizia Tributaria, circa 488 accessi per perquisizioni, sequestri e acquisizioni documentali, nel corso dei quali è stata asportata o esaminata una quantità enorme di documenti aziendali, stimabile in oltre 2.000.000 di pagine.

 
Sono stati effettuati accessi e richiesti riscontri presso oltre 30 banche in Italia e numerosissime banche all’estero, e sono stati oggetto di minuziosi esami e ponderose relazioni da parte della Guardia di Finanza e dei consulenti del PM circa 100 conti correnti e almeno 170 libretti al portatore in Italia e un numero non calcolabile di conti correnti all’estero.

 
Ad oggi risultano archiviate o prosciolte 118 posizioni e risultano emesse 82 sentenze di assoluzione.

 
Dal 1994 ad oggi sono stati versati dal Gruppo Fininvest, fra imposte e contribuiti, oltre Euro 9.100.000.000,00.

 

Dati aggiornati al 26/06/2013

Lodo Mondadori: dichiarazioni di Marina Berlusconi

Nell’attesa della sentenza della Corte di Cassazione sulla vicenda relativa al Lodo Mondadori, Carlo De Benedetti e le sue grancasse mediatiche si stanno dando un gran daffare: tentano di nascondere ancora una volta la verità dei fatti, continuano a raccontare una versione di questa vicenda che con la realtà non ha nulla a che vedere. Evidentemente sperano che, a forza di ripeterle, queste macroscopiche falsità finiscano per apparire un po’ meno false. Per questo, di fronte a una manipolazione del genere, non si può tacere, non si può non ricordare come stanno davvero le cose.

Punto primo: non è vero, come lamenta De Benedetti assieme ai suoi megafoni, che la Mondadori gli fu portata via corrompendo un giudice. La sentenza della Corte d’Appello di Roma che annullava il Lodo fu emessa da un collegio di tre giudici. Uno di loro venne successivamente ritenuto colpevole di corruzione, al termine di un procedimento molto controverso che vide anche due assoluzioni. Gli altri due giudici, mai sfiorati dal sospetto, interrogati hanno ribadito più volte di aver studiato l’intera causa  e di aver totalmente condiviso il verdetto, in piena consapevolezza. Quella della Corte romana era quindi una sentenza non inquinata e assolutamente giusta, conforme al diritto. Per il verdetto, peraltro, la Cir rinunciò al ricorso in Cassazione e non chiese successivamente la revocazione, che era l’unica strada per un eventuale annullamento.

Punto secondo: dalla spartizione della Mondadori De Benedetti non subì affatto, come lui continua a sostenere, un “danno drammatico”. Ottenne invece solo benefici. Basta andare a rivedersi le sue dichiarazioni dell’epoca, estremamente soddisfatte. La spartizione venne infatti imposta dalla politica alla Fininvest, che dovette rinunciare alla Grande Mondadori, mentre De Benedetti ebbe una parte molto rilevante dell’azienda, sia sotto il profilo economico che del peso politico: la Repubblica, l’Espresso e i quotidiani locali della Finegil.

Punto terzo: siamo stati condannati in primo e secondo grado dalla magistratura milanese, e sottolineo milanese, con due sentenze molto più che ingiuste e assurde. Due sentenze in totale contraddizione tra loro, perché il giudizio d’appello ribalta completamente il verdetto di primo grado, ma sfidando ogni logica riesce ad arrivare alle medesime conclusioni: imporci quello che rappresenta un autentico esproprio giudiziario, per una somma,  564 milioni di euro, macroscopicamente inaccettabile. Basti pensare che è pari a cinque volte il valore azionario della quota Fininvest nella Mondadori. E, pur in assenza di una sentenza definitiva, di questa somma da ormai due anni non possiamo disporre: non è difficile comprendere quale danno, questo sì evidente e concreto, tutto ciò abbia rappresentato e rappresenti per le nostre aziende, a maggior ragione in un contesto economico complesso come l’attuale. Appaiono grotteschi, se non in malafede, quanti fanno notare la riduzione dell’entità della condanna in appello. In realtà neppure un euro da parte nostra era ed è dovuto, perché per la Cir non ci fu alcun danno.

Punto quarto: non occorrono tante parole per sottolineare l’inquietante anomalia rappresentata dal fatto che proprio la magistratura milanese ci abbia condannato a finanziare il gruppo De Benedetti, cioè il gruppo che si è dato un’unica missione: quella di cancellare mio padre dalla scena politica.

Chi esamini i fatti con imparzialità, non può non rilevare quanto grave e inaccettabile sia l’ingiustizia subita dalla Fininvest. Attendiamo la sentenza di Cassazione con la fiducia di chi sa di essere totalmente dalla parte della ragione e di averlo dimostrato in modo incontrovertibile. Attendiamo la sentenza per capire se esiste ancora una Giustizia degna di questo nome in questo Paese. 





mercoledì 10 luglio 2013

Roulette russa. Davide Giacalone

E’ una roulette russa. Sbaglia chi crede che la sola tempia esposta sia quella di Silvio Berlusconi. E’ da irresponsabili considerare il prossimo 30 luglio una normale scadenza giudiziaria. La sorte processuale riguarderà una sola persona, ma la pistola è puntata verso un intero equilibrio politico e istituzionale. Solo gli accecati dalla faziosità possono non vederlo.


Ieri sono successe tre cose significative. La prima: la mattina il Corriere della Sera ci ha informati che quel processo penale (diritti Mediaset) poteva non concludersi in cassazione, giacché in parte prescritto a settembre, quindi prima del previsto giudizio, ergo da rinviare all’appello. Escluso che la fonte della notizia fosse la difesa dell’imputato (che sostiene la sua innocenza), è sembrata una voce da cassazione fuggita. La seconda: nel pomeriggio arriva la notizia che il giudizio è fissato per fine luglio, quasi a volere dar ragione, ma evitare la sorte immaginata nell’articolo. Che la cassazione arrivi a sentenza prima delle prescrizioni è cosa buona, che i suoi calendari siano così giornalisticamente tempestivi è singolare. La terza: le dichiarazioni dei politici sono arrivate già scontate, ma il compassato avvocato Franco Coppi ha detto: troppo in fretta, siamo esterrefatti.

Eliminare un leader politico per via giudiziaria è molto pericoloso. Pretenderne l’immunità, facendosi scudo dei voti, è inaccettabile. Nessuno dei due valori e pericoli è inferiore all’altro, per questo alla roulette non saremmo dovuti arrivare. La via d’uscita, lo scrivemmo, era (è?) nelle mani del Quirinale: il senatore a vita non partecipa più alle elezioni e non decade, il leader politico viene sottratto alla gara, la gara non ha più un dominatore, mentre l’imputato va incontro alla sua sorte, divenuta privata. Quando manca il coraggio delle soluzioni i problemi s’incattiviscono. E ci siamo.

Attrezzare le barricate o approntare i festeggiamenti è la reazione di tifoserie incoscienti. Se la pallottola c’è, salta tutto, perché viene meno la libertà del consenso alle larghe intese (i ministri di centrodestra diventerebbero ostaggi ininfluenti). Se la pallottola non c’è più che il trionfo della giustizia si vedrà il trionfo del suo uso politico. Ci sono venti giorni per rimediare. Arrivarci senza rete è temerario.

Pubblicato da Il Tempo

martedì 9 luglio 2013

Perché l'Italia va in rovina. Marcello Foa

Seguo da tempo Marco Della Luna: è un intellettuale coraggioso, un libero pensatore con cui si può essere o meno d’accordo ma che nessuno può accusare di conformismo o di secondi fini, men che meno di piaggeria nei confronti del potere. E’ uno dei pochissimi che si permette il lusso di dire sempre quel che pensa e di proporre analisi originali, pungenti, sovente scomode che fanno sorgere interrogativi aprendo la mente.

Mi ha colpito molto una frase del suo ultimo articolo, pubblicato dal sito capiredavverolacrisi. Commentando l’esultanza di Enrico Letta che sostiene di essere stato premiato dall’Unione europea, Della Luna descrive la cultura dominante della classe politica:
Non è previsto che si verifichi se il modello economico-finanziario adottato sia stato confermato oppure confutato dai fatti e se e le ricette prescritte abbiano avuto gli effetti promessi oppure siano state smentite. Quello che conta è il rapporto di approvazione-disapprovazione con l’Autorità, non di successo-insuccesso con la realtà.
La visione scientifica e laica è opposta: non esiste alcuna Autorità a priori (al di sopra dei fatti), invece si mettono a confronto i diversi modelli economico-finanziari delle diverse scuole, e si controlla, nel breve, medio e lungo periodo, le conferme e le smentite che i dati di fatto hanno dato a ciascun modello.
In poche parole Della Luna, che ha studiato psicologia, descrive con straordinaria precisione il paradigma dominante da anni in questo Paese e che accomuna quasi tutti i politici e la maggior parte dei media. Non importa che le cose vadano bene o male, importa che l’Autorità Suprema ci accordi o no la sua approvazione.

Era questa la logica che sorreggeva il premier Monti, il quale ancora oggi, dopo i danni immensi da lui inferti all’economia italiana che grazie alle sue amorevoli cure è sprofondata nella peggiore crisi dal Dopoguerra ad oggi, non si capacita della propria impopolarità e anzi lamenta di essere capito solo all’estero.

Enrico Letta esca dalla stessa scuola, appartiene, sebbene a un livello più basso, agli stessi ambienti, assorbe le stesse logiche del suo predecessore. Come, ieri, Prodi che fece di tutto per far entrare l’Italia da subito nell’euro, come, oggi, Napolitano che si premura di non deludere la Ue, il Fmi, la Banca Mondiale ovvero quell’Autorità Suprema oggi onnipotente.

Nessuno di questi illuminati leader sembra cogliere il senso del dramma profondo che sta scuotendo il Paese, degli imprenditori costretti a chiudere e talvolta a suicidarsi per la disperazione, dei giovani costretti a emigrare.
Conta uniformarsi al Dogma dell’Autorità Suprema. Senza mai premurarsi se così fanno davvero l’interesse del Paese, senza mai dubitare. E se quel che ne consegue è tragedia, pazienza. Per loro è un mistero che loro stessi non riescono a spiegarsi e che, temiamo, nemmemo li tocca…
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(il Giornale)

giovedì 4 luglio 2013

Quando la giustizia rende meno liberi. Giampaolo Rossi

Era il 2001. In un bar al centro di Roma si parlava delle elezioni politiche appena vinte da Berlusconi e dal centrodestra. Interlocutori, due intelligenti amici di sinistra: analisi sensate, lucide, tutto sommato in grado di mediare prospettive diverse all'interno di una dimensione politica in cui chi vince e chi perde è, comunque, parte di un gioco democratico di alternanza e di lealtà nazionale.

Ad un certo punto sopraggiunge l'ospite imprevisto: il fine intellettuale del Manifesto, conduttore di trasmissioni radiofoniche, con occhialetti gramsciani d'ordinanza e riccioli ribelli un po' datati. Pensando di essere "tra compagni" e non immaginando che al tavolo sedeva un infiltrato della reazione, se ne esce con la frase fatidica: "questi rischiamo di tenerceli 10 anni. Speriamo ci pensino i magistrati". Un brivido attraversò gli altri due interlocutori, non tanto per la gaffe, quanto perché capirono subito il pericoloso abisso di idiozia nel quale l'intellettuale stava gettando anche loro.

A dodici anni di distanza, l'idea che la magistratura debba supplire l'incapacità della sinistra di contrastare i propri avversari politici, è più diffusa di quanto si pensi e ha accompagnato l'involuzione di un mondo che, dalla morte di Berlinguer, non ha saputo esprimere un leader credibile né una classe dirigente. Il fatto che intellettuali, politici ed elettori di sinistra, concepiscano i magistrati non come un potere indipendente dello Stato e garante della Costituzione, ma come alleati politici di cui servirsi quando occorre, è qualcosa che fa accapponare la pelle.
Il problema è serio e trascende Berlusconi e suoi guai giudiziari.

E' uno dei segni dell'immane debolezza di un Paese stretto tra la conservazione immutabile di una Costituzione antifascista che ha dato al potere giudiziario un'autonomia ed un'impunità che non ha eguali nelle democrazie occidentali e l'ipocrisia che ha trasformato il diritto in morale e il ruolo della magistratura in slancio inquisitorio.

Pietro Sansonetti, spirito libero di una sinistra non conformista, ha detto che il verdetto di Milano contro Berlusconi sentenzia un potere della magistratura rivendicato con una forza tale che ricorda "le Brigate Rosse quando parlavano di potere incontrastato".

Non tutti hanno il coraggio di Sansonetti, ma a sinistra, sottovoce, molti (politici e non) iniziano a chiedersi cosa succederà dopo Berlusconi; se eliminato lui non toccherà a loro. Ad immaginare che lo sconfinamento di una magistratura senza più limiti, alteri definitivamente l'equilibrio tra poteri in cui la separazione non è più uno strumento di bilanciamento ma la supremazia di uno (quello giudiziario) sugli altri due (il legislativo e l'esecutivo).

Berlusconi, al netto delle sue responsabilità e del fallimento di quella "rivoluzione liberale" che ha predicato e mai realizzato, appare come la vittima sacrificale, il capro espiatorio necessario a purificare la coscienza di un paese stritolato nel suo moralismo ipocrita: dopo la sentenza Ruby, il primo ad affermare che "sarebbe decoroso che Berlusconi abbandonasse la vita pubblica", è stato Nichi Vendola, che fu fotografato a pranzo con il magistrato che poi l'avrebbe giudicato. Comportamenti che per alcuni sono oggetto di censure, per altri scivolano via come niente; come per quei giornalisti d'inchiesta che vanno in vacanza con i magistrati di cui poi raccontano le indagini.

Arroganza e sfrontatezza sono il rivolto psicologico di chi si sente garantito per via giudiziaria e protetto per via mediatica ma rivelano scarsa immaginazione e misera visione storica. Tra l'intellettuale del Manifesto e il dimostrante che davanti al tribunale di Milano canta "Bella Ciao" alla notizia della sentenza contro Berlusconi sono passati 13 anni, ma solo apparentemente. I sorrisini ironici e soddisfatti della Presidente della Camera Boldrini e di Livia Turco esprimono un epilogo: il sogno di vedere il nemico politico sopraffatto per via giudiziaria placa la frustrazione accumulata negli anni e giustifica l'idea di essere antropologicamente superiori, da parte di una sinistra che non capisce che la mostruosità creata renderà tutti molto meno liberi.
© Il Tempo, 2 Luglio 2013

(Il blog dell'Anarca)

martedì 2 luglio 2013

La bulimia del candidato. Ernesto Galli Della Loggia

Sei mesi fa l'Italia era completamente innamorata di Matteo Renzi: con lui il Pd avrebbe di sicuro vinto le elezioni alla grande. Ma pure oggi, e anche domani, egli rappresenterebbe un candidato di certo fortissimo in qualunque nuova elezione.
Le cause della popolarità del sindaco di Firenze sono notissime. All'Italia vecchia e immobile del sempre eguale, all'Italia dell'insipida chiacchiera politica per addetti ai lavori, dell'arabesco concettuale avvitato su se stesso, egli contrappone con la sua figura un Paese giovane, voglioso di muoversi e di mettere nuovamente alla prova le proprie energie, di tentare vie nuove. Che parla senza usare mezze parole.

Certo: egli è anche uno portato ad andare a volte oltre il segno, a mostrare un po' troppa disinvoltura e ambizione, a strafare e magari anche un po' a straparlare. Ma al quale tutto si può perdonare grazie a quanto di positivo e di nuovo rappresenta. Perché alla fine, per la maggioranza degli italiani Renzi è questo: la promessa di un cambio di passo, di una rottura, di una reale diversità; una ventata di aria fresca. Per un Paese in crisi non è davvero poco.

Proprio da questo punto di vista appare sostanzialmente incomprensibile quanto egli sta facendo da tre mesi, accettando - e anzi, si direbbe, addirittura sollecitando - di essere coinvolto nelle manovre di un partito, il Pd, che è sì il suo partito, ma che per tantissimi versi è il suo contrario. Un partito vecchio, conteso da anziani oligarchi e quarantenni ribelli ma dell'ultima ora, laddove Renzi è, come che sia, simbolo di una gioventù vera che non ha avuto paura di uscire allo scoperto; un partito campione di conformismo e di omologazione culturale laddove Renzi si fa forte (pure troppo!) della propria spregiudicatezza; il partito di quelli per antonomasia «politicamente corretti» mentre Renzi proprio da costoro è detestato.

È singolare che oggi egli si faccia tentare dall'idea di diventare il segretario di un partito del genere. E dunque s'infili in una trafila quotidiana di trattative e di manovre, di interviste e di dichiarazioni, che hanno il solo effetto di consumarne terribilmente l'immagine. Pur nell'ipotesi che riuscisse a fare il segretario e si andasse entro breve tempo - diciamo un anno - alle elezioni, Renzi, tra l'altro, si troverebbe davanti a un'alternativa comunque scomodissima: o fare la campagna elettorale alla testa di un partito ancora pieno di Rosy Bindi, di Finocchiaro, di Cuperlo e compagnia bella, e magari con un D'Alema passato inopinatamente dal ruolo di Grande Rottamato a quello di Lord Protettore, dunque un partito che sarebbe la smentita vivente di ciò che invece è il suo segretario; ovvero alla testa di un partito da lui appena epurato e rovesciato come un calzino, ma proprio per questo in una difficile fase di riassestamento, ancora né carne né pesce e presumibilmente pieno di rancori più o meno sotterranei. Certo uno strumento inadatto a uno scontro elettorale.

Ma se le cose stanno così non sarebbe assai più conveniente per il sindaco di Firenze stare ad aspettare sotto la tenda? Dopotutto il Pd sa bene che se vuole davvero vincere un'elezione politica altri candidati oltre lui non ci sono (essendo francamente incredibile che a Largo del Nazareno ci sia qualcuno che pensa di convincere gli italiani a farsi governare da Fassina o da Civati). È solo a Renzi che il Pd può ricorrere. E a quel punto egli sarebbe in grado di imporre agevolmente le sue condizioni: sia per il programma che per la composizione delle liste. Quelle condizioni di rottura e di novità che di fronte al deserto e al vecchiume della Destra egli ha saputo rappresentare e in cui il Paese non vuole cessare di sperare.
(Corriere della Sera)

Chi rilascia la patente di impresentabile? Salvatore Tramontano

Non si è ancora capito quale sia il peccato di Daniela Santanchè. La deriva bacchettona del Pd sta ormai arrivando al non senso.
 
E la questione del vicepresidente della Camera è lo specchio di un partito con il vizio di attribuire patenti morali, come se fosse una chiesa. È una sorta di talebanismo laico che come Bibbia o Corano usa le simpatie di Repubblica. È la storia che si ripete: il Pd che decide che qualcuno non è presentabile. Quello che si fatica a capire è perché. Visto che non ci sono motivi giudiziari alla fine tocca arrampicarsi sugli specchi. È antipatia? È troppo berlusconismo? È eccesso di presenzialismo in tv? È ostinazione nel difendere le proprie idee? È essere una donna con i tacchi? O essere una donna con le palle? Capite che queste obiezioni non reggono. È partigianeria? È rispondere a tono alle critiche? Tutti presunti difetti che non hanno impedito a Rosy Bindi di occupare la stessa poltrona. La pasionaria bianca avrà molte pecche ma nessuno ha mai considerato il suo ruolo da vicepresidente una bestemmia. La Santanchè è una tifosa? La Bindi peggio. Alla sinistra sta antipatica? Bene. A destra molta gente trova urticante la signora Boldrini, ma non è una buona ragione per battezzarla come impresentabile. Non è obbligatorio votarla. Nessun problema. Quello che però sta diventando il sintomo di una malattia è il vizio di mettere etichette. A quanto pare nel Pd e dintorni non riescono a farne a meno. Stanno arrivando al paradosso che, siccome non va bene a loro, una persona diventa eticamente inferiore, una da bannare, da marchiare, da distruggere. Il meccanismo è sempre lo stesso. È un coro che diventa infamia. È far passare una considerazione soggettiva come verità assoluta, senza dare spiegazioni. È colpire con un anatema gli avversari politici più fastidiosi o, semplicemente, meno disponibili ad abbassare la testa. Il Pd perdona solo chi sta a destra con un po' di vergogna, con il senso di colpa, per sventura. Se uno mostra tutto l'orgoglio berlusconiano va allora punito. Va raccontato come impresentabile. Anche nel Pdl ci sono parlamentari che non si amano tra di loro, o che non amano i candidati alle varie poltrone. È una questione di concorrenza politica interna. Ci sta. Non è un bene del partito, ma almeno c'è una ratio.
La questione della vicepresidenza a Montecitorio, capite, non è più politica. Non è un problema di moderazione o di larghe intese. È qualcosa di più meschino. È la demonizzazione dell'avversario scomodo. È un gruppo di sacerdoti livorosi che si arroga il diritto di scomunicare chi con troppo orgoglio difende la propria diversità. È il peccato di berlusconismo aggravato. Ma fino a che punto si può governare con politici figli di questa cultura intollerante? Come si può governare con gente che fa le larghe intese per il bene comune ma poi disprezza i suoi partner di governo? È arrivato il momento per il Pd di fare scelte non ipocrite. Adesso hanno deciso di votare scheda bianca. Ed è un'altra vigliaccheria pilatesca. Se non vogliono governare con il Pdl facciano cadere il governo Letta. È più onesto. È più dignitoso. È più chiaro.
(il Giornale)

lunedì 1 luglio 2013

Allarme in banca. Davide Giacalone

Non per fare l’allarmista, ma sono allarmato. Il sommarsi del satanismo fiscale italiano e delle idee europee sui fallimenti bancari (in Italia rilanciate con superficialità estrema e trionfalismo a capocchia) gettano una luce spettrale sui nostri conti correnti. La materia è complessa, ma i tecnicismi servono solo a renderne inaccessibile la comprensione. La sostanza è che i correntisti, quindi tutti i cittadini che abbiano una anche solo minima attività economica o un lavoro o risparmi, sono chiamati a rimetterci nel caso in cui la loro banca fallisca. Significa che i soldi non sono più al sicuro. Si obietta: vale solo per i depositi superiori a 100 mila euro. Non è così: non solo il rischio diventa collettivo, ma impostando le cose in questo modo lo si rende concreto. Cipro non ha insegnato nulla.

L’accordo raggiunto a Ecofin (ministri dell’economia e della finanza dell’Unione europea) stabilisce che prima dell’intervento dei fondi europei, gestiti dall’Esm (meccanismo di stabilità europeo), in caso di fallimenti bancari devono prima risponderne i privati. Concetto giusto, cui mi piacerebbe aggiungessero il management, magari anche con restituzione dei premi milionari che sono soliti autoattribuirsi. Ma chi sono i “privati”? qui c’è la trappola. Sono: a. gli azionisti, vale a dire il capitale di rischio (giusto); b. poi gli obbligazionisti, vale a dire quanti prestarono alla banca il loro denaro, in cambio di un tasso d’interesse prestabilito (giusto, un po’ meno, ma ancora giusto); c. i correntisti con depositi superiori a 100 mila euro. E questo non è solo ingiusto, ma devastante. Capace di rovinare anche chi ha depositato solo 100 euro.

Tale previsione si basa su un principio classicamente accettato, ma concretamente falso, ovvero quello secondo cui chi apre un conto corrente crede di mettere i propri soldi al sicuro, in una banca, avendone sempre l’immediata disponibilità, ma, in verità, li sta prestando all’istituto di credito, con la promessa di averli indietro non appena lo chieda. Se presti troppo al soggetto sbagliato, quindi, è una tua colpa. E paghi. Solo che il presupposto è falso, giacché avere un conto corrente non è più una scelta, ma un obbligo. La stessa campagna contro l’uso del contante presuppone l’essersi piegati a quell’obbligo. Perché dovrei correre un rischio avendo fatto ciò cui lo Stato mi ha obbligato, oltre tutto minacciandomi di sanzioni anche penali? Poco male, si crede, perché la cosa riguarda solo i ricchi. Falso: intanto perché anche i ricchi sono sottoposti a quell’obbligo e l’essere ricchi non dovrebbe essere una colpa (se la ricchezza è accumulata lecitamente); poi perché un ricco onesto, che paga le tasse, i soldi per l’F24 li tiene sul conto corrente, sicché si suppone, nuovamente, che debba pagare per avere voluto adempiere a un obbligo imposto dallo Stato; ma, ed è questione decisiva, se comunico che sopra i 100 mila non c’è sicurezza il solo effetto che ottengo è l’immediato trasferimento di quelle somme verso banche e paesi che non comportino rischi, il che equivale a vedere immediatamente fallire tutte le altre banche, con travolgimento anche dei correntisti minuti. A Ecofin hanno messo in piedi una trappola mortale.

Se un cittadino o un’azienda hanno ottenuto un prestito da un milione e, in attesa di utilizzarlo, decidono di acquistare un’obbligazione di quella stessa banca, in virtù del trappolone Ecofin, in caso di fallimento, succede che il milione che ho investito lo perdo in buona parte, ma il milione di debito devo pagarlo tutto, e con gli interessi. Alla medesima banca. Una follia.

Quel meccanismo non funziona perché si ostina a non volere prevedere un prestatore di ultima istanza, vale a dire una banca centrale che copra il rischio non per le banche male amministrate, ma per i cittadini incolpevoli. Non coprendo quel rischio si dischiude l’abisso del rischio sistemico, vale a dire dell’implosione generale.

C’è un aspetto positivo, negli accordi di giovedì scorso, e consiste nel sottrarre alle autorità locali il controllo sulle banche che chiedano aiuto, attribuendolo alla Bce. Può bastare? No, per niente. Primo, perché i tedeschi non hanno ancora detto in modo chiaro che sottometteranno a questa regola le loro Landesbank. Secondo, perché in virtù del trappolone riusciranno ancora a nascondere la pericolosa sottocapitalizzazione delle loro grandi banche, visto che non pochi depositi lasceranno le banche spagnole, italiane o francesi, per riversarsi nelle filiali spagnole, italiane e francesi di quelle tedesche. Così procedendo non facciamo che covare un disastro incalcolabile.

Spero tanto di sbagliarmi, come spero che quell’accordo sia rivisto. Ma circondato da superficialità imperdonabili, sentendo parlare governanti che sono dei marziani, pur non amando l’allarmismo non posso che dirmi allarmato.

Pubblicato da Libero