giovedì 25 settembre 2014

Il 25 per cento del Pd spiegato a Bersani (se serve anche con i disegnini). Claudio Cerasa



Il Foglio - Prima o poi qualcuno dovrà spiegare a Pier Luigi Bersani che non ci fa una grande figura a dire a Matteo Renzi ehi bimbo, devi portare rispetto alla vecchia ditta perché se tu fai tanto il ganzo in America con Bill Clinton e gli amici suoi il merito è del mio 25 per cento che ho conquistato lo scorso anno e senza il quale oggi non saresti a Palazzo Chigi con i tuoi amici toscani.
Senza volerci dilungare troppo qualcuno che vuole bene a Bersani dovrebbe spiegare all’ex segretario che rivendicare con orgoglio di aver preso il 25 per cento alle ultime politiche, 8,6 milioni di voti ottenuti, 4 milioni di voti persi rispetto al 2008, circa lo stesso numero di elettori raccolti dal Pds nel 1996 (7 milioni e 800 mila), 3 milioni di elettori in meno rispetto a quelli conquistati un anno dopo dal suo successore alla guida del Pd alle europee, fare tutto questo significa non aver capito quasi nulla su ciò che è successo, a sinistra, il 25 febbraio del 2013.

Proviamo a riepilogarlo: il capo di una coalizione che avrebbe dovuto stravincere le elezioni smacchiando senza difficoltà il giaguaro è riuscito nella non facile impresa di far arrivare il principale partito della sinistra al livello più basso della sua storia recente (peggior risultato dal 1963), regalando un’autostrada a un partito guidato da un buffone travestito da giustiziere e costringendo il suo partito, che avrebbe dovuto vincere agevolmente le elezioni, ad allearsi con lo stesso giaguaro che avrebbe dovuto essere smacchiato. Verrebbe da sorridere se la questione non fosse invece terribilmente seria. Non c’è nulla di peggio, per un leader come Renzi che tende ad accentrare il potere decisionale delle sue politiche di governo, che avere a fianco dei leader di minoranza interna che non capiscono che il modo migliore per ripetere il capolavoro del 25 febbraio è quello di non prendere coscienza di un fatto elementare che potremmo sintetizzare utilizzando poche parole: alle ultime elezioni abbiamo ottenuto più voti rispetto ai nostri avversari ma ne abbiamo ottenuti così tanti in meno rispetto a quelli che avremo dovuto ottenere (per via della nostra clamorosa mancanza di identità e per via della nostra propensione a delegare a qualcuno esterno al partito il compito di rappresentare i vari strati della società) che l’unico modo corretto per ricordare quell’esperienza elettorale è inquadrarla sotto un’unica voce: un fallimento.

Nel dibattito finora molto ideologico sulla riforma del lavoro bisogna dire che la parte più sindacalizzata del vecchio Pd a vocazione bersaniana sta mostrando di non aver capito la lezione del 25 febbraio: accusare il segretario del Pd di essere un inguaribile liberista, “di destra”, che non ha altro interesse se non quello di umiliare i sindacati è un discorso che si tiene solo ragionando con vecchie e arrugginite categorie del passato – quelle di chi per molto tempo ha pensato che per la sinistra la parola “lavoro” dovesse coincidere necessariamente con la parola “sindacato” (in questo senso chiedete per credere a Pier Luigi Bersani quanti sono i sindacalisti ex Cgil che ha scelto di piazzare in commissione lavoro nel momento in cui è nata la legislatura – vi diamo un aiuto: 11 su 24). Ed è un discorso, poi, che mostra tutti i limiti di una sinistra incatenata che prova – disperatamente – a cercare un nuovo collante culturale senza però trovare niente di meglio da fare che utilizzare una formula che non ha mai portato bene ai progressisti: dipingere il proprio avversario come se fosse un nemico giurato o, peggio, un inguaribile corpo estraneo, ovviamente da eliminare al più presto. Difficilmente la minoranza del Pd riuscirà a ottenere qualcosa da Renzi sul dossier della riforma del lavoro (il 29 settembre la direzione del Pd voterà a favore della proposta del governo, poi il testo andrà in Aula e non saranno molti i parlamentari democratici disposti ad andare contro il voto della direzione del partito) ma la partita sul Jobs act, più che sui contenuti relativi ai provvedimenti parlamentari, per la minoranza del Pd sarà utile da seguire per capire come si andrà a strutturare l’alternativa al renzismo nel Pd.

Le strade sono due: costruire una sinistra a vocazione non vendoliana e alternativa al grillismo capace di considerare il 25 per cento come il punto più basso della propria storia politica, o andare all’inseguimento di Renzi scopiazzando le idee di Grillo e Rodotà. Dire che la sinistra che ha perso le primarie non deve in nessun modo pensare di influenzare l’agenda a chi le ha vinte è un po’ da arroganti. Dire invece che la sinistra che ha perso le elezioni non deve avere la spocchia di fischiettare di fronte ai 4 milioni di voti persi un anno e mezzo fa è invece il modo migliore per permettere alla stessa sinistra di avere un proprio futuro: anche a prescindere poi da quale sarà il destino di Renzi e dei suoi amici toscani.

(LSBlog)

Il pil degli agnelli. Davide Giacalone



Dicono sia difficile che gli agnelli s’entusiasmino per la pasqua. Beati loro, perché da noi ci sono quelli che si rallegrano per la rivalutazione del prodotto interno lordo, indotto dai nuovi criteri (Sec 2010) e comprendente varie attività criminali. Osservate la soddisfazione con cui si dice che migliora il deficit e riflettete su quanto si debbano invidiare i giovani ovini diffidenti.

Avevamo già avvertito (fine agosto) sui rischi di quel riconteggio. Che non riguardano i numeri, ma il modo in cui li si legge. Fummo facili profeti: quelli che parlano di diminuzione della pressione fiscale sul pil, che negli ultimi tre anni sarebbe di 0.9, 0.8 e 0.5%, meriterebbero un ricovero urgente. Il maggiore pil non porta un solo centesimo aggiuntivo di gettito fiscale, perché o si tratta di cose già diversamente contate (come la ricerca o gli investimenti militari), oppure di cose che fanno marameo al fisco.

Siccome, però, l’aumento del pil porta un aumento dei contributi all’Unione europea, a essere precisi la pressione fiscale, per quanti pagano, aumenta. Già, ma diminuisce il deficit, quindi, evviva, siamo sotto il 3%! Manco per idea, perché ha un senso calcolare la percentuale di deficit (o di debito) rispetto al pil solo per misurare la sostenibilità fiscale del relativo costo. Se metti nel conto quel che non paga ti prendi in giro per i fatti tuoi. E ti prendi in giro anche sul crimine: 300 milioni di contrabbando di sigarette si fanno al confine est dell’Italia, mentre le stime fissano a quel livello il totale nazionale. Dite che da Napoli è sparito?

Fin qui, lo avevamo detto. Ma la cosa che non avevo immaginato, e che trovo drammaticamente spassosa, è che i nostri fratelli tedeschi si dimostrano assai più furbi, non pubblicando i criteri con cui stimano l’economia nera e la sottovalutano alla grande. Così ottengono di far crescere il loro pil più di quello altrui, in termini assoluti, ma meno in termini relativi, con il risultato di diminuire il distacco (con tutte le polemiche che quello comporta) e diminuire il peso percentuale dei loro contributi all’Ue. Noi dovremmo credere che il Paese in cui si può fare tutto in contante è anche quello che ha meno nero? Signori, siamo al capolavoro: farsi battere da un teutonico in organizzazione e disciplina, ci sta, ma farsi battere in estro e gioco delle tre carte, è un oltraggio.

I fratelli francesi, invece, adesso hanno due pil: uno per tenere i conti veri e l’altro per darlo alle autorità europee. Perché va bene fare finta di avere più ricchezza utilizzabile di quella fiscalizzabile, ma non è saggio raggirarsi da sé soli. Sicché tengono due conti.

Nell’ovile italico si festeggia: sfangati i conti di fine anno, senza manovre aggiuntive. Primo, aspettate a dirlo. Secondo, l’impegno era a star sotto il 2.6 non il 3%. Terzo, a parte le percentuali immaginarie, sarà bene ricordare che il debito pubblico ha continuato a crescere e, con il fiscal compact, l’impegno di rientro riguarda un ventesimo annuo del tutto. Quello è il muro verso cui si corre. Credo (spero proprio di no) di aver capito la ricetta governativa: prima dello schianto ci diamo malati. Diciamo che c’è la recessione, quindi non si può fare la cura e ci serve l’elasticità, già prevista dal trattato. Peccato che si sia rimasti i soli in recessione, quindi con colpe nostre e non solo congiunturali. E peccato che il nostro pil ricalcolato guadagni (insignificanti) posizioni rispetto a quello dei tedeschi. Con gli agnelli che si danno il cinque: e vai, che ora è pasqua.

www.davidegiacalone.it

@DavideGiac

Pubblicato da Libero

La lezione del Corrierone. Michele Marsonet


C’è qualcosa di vagamente inquietante nell’editoriale che Ferruccio de Bortoli ha pubblicato sulla prima pagina del “Corriere della Sera” il 24 settembre. Il direttore – peraltro in scadenza – del quotidiano milanese ha attaccato con violenza Renzi e il suo governo, ma il pezzo è diviso in due parti.
La prima contiene critiche e considerazioni che sono in buona parte condivisibili. Anche se la popolarità dell’ex sindaco di Firenze sembra ancora alta, siamo tutti un po’ stufi del suo stile e del modo in cui gestisce il potere. Un modo solitario e sin troppo irruente, punteggiato da continui annunci e tweet ai quali, poi, non s’accompagnano fatti concreti.

La cerchia dei fedelissimi fa fatica a contenere la fronda sempre più aperta della minoranza PD. Se finora c’è riuscita è perché i capi della suddetta minoranza non sono certo dei giganti della politica. E desta una certa impressione vedere un perdente come Bersani rivendicare dei meriti che non ha. Tralascio il conflitto con i sindacati, e con la CGIL di Susanna Camusso in primis, poiché in quel caso era evidente sin dall’inizio che sarebbe andata così.

Si può concordare con de Bortoli anche quando scrive che “la muscolarità tradisce a volte la debolezza delle idee, la superficialità degli slogan”, e che “il marketing della politica se è sostanza è utile, se è solo cosmesi è dannoso”.

Molti vanno dicendo da tempo le stesse cose, magari con stile diverso e, a volte, ben più crudo. Pure il giovanilismo del premier si sta dimostrando assai meno efficace di quanto promesso. Non è che Mogherini e Madia – per citare solo due esempi – abbiano fornito prove brillanti, a riprova del fatto che la giovane età, di per sé, non è affatto garanzia di bravura ed efficienza. E fin qui nulla di strano.

Nella seconda parte dell’editoriale, tuttavia, il direttore del “Corriere” calca la mano con alcune frasi oscure, riferite soprattutto al patto del Nazareno. Secondo l’autore tale patto finirà per eleggere anche il nuovo presidente della Repubblica, e ne consegue l’opportunità di conoscerne i dettagli per sciogliere ogni sospetto ed eliminare “uno stantio odore di massoneria”.

A sorpresa, però, de Bortoli conclude il pezzo augurando a Renzi di farcela e di “correggere in corsa i propri errori”. Ma va ben oltre, sostenendo che il politico toscano “non può fallire perché falliremmo anche noi”. E i nessi di conseguenza logica che fine hanno fatto? Come si giustifica una simile conclusione partendo dalle premesse di cui sopra?

A mio avviso è molto centrata e ben argomentata la risposta di Alessandro Sallusti sul “Giornale” di oggi. Nel notare che la stroncatura dev’essere attribuita, più che alla singola persona, al mondo che il “Corriere” rappresenta e che de Bortoli frequenta, Sallusti afferma che si è messo in moto il solito trenino dei salotti buoni e dei circoli ristretti, i quali includono anche “la sinistra al caviale”. Un mondo che non tollera di essere escluso dalle decisioni importanti e che, d’altro canto, non si perita di appoggiare operazioni che portano al governo persone senza alcun mandato popolare.

Ha quindi ragione, il direttore del “Giornale”, a terminare il suo editoriale scrivendo “da che loggia viene la predica…”. In sostanza, se Renzi deve cadere (ipotesi tutt’altro che fantasiosa), si spera che non avvenga ancora una volta su input di “Corriere” e “Repubblica”, e neppure grazie a un’inchiesta a orologeria di qualche procura.

Vi sono buone ragioni per essere stanchi del suo governo, ma ve ne sono altrettante che inducono a essere stufi di decisioni prese da circoli che non amano mostrarsi in pubblico, anche se non è poi così difficile ricostruirne la composizione.

(LSBlog)

martedì 23 settembre 2014

Matteo e il 21 settembre. Gianni Pardo



Matteo Renzi è simpatico. È un bell'uomo, ha una faccia che ispira tenerezza, tra il fanciullesco e il birichino, si esprime come se fosse circondato soltanto da vecchi amici, e se non è fisicamente in maniche di camicia, lo è sempre intellettualmente. Manca totalmente d'affettazione e per questo ciò che dice suona vero. Se qualcuno gorgheggia: "Che delizioso profumino, ho già l'acquolina in bocca", forse vuol fare un complimento alla padrona di casa. Ma chi esclama: "Accidenti, sembra buono, quello che cucinate: quando si mangia?", è difficile che stia mentendo. O, quanto meno, è un po' più difficile pensarlo.

Tutti abbiamo trovato simpatico l'ex sindaco di Firenze. Dapprima. Ma poi è venuto a galla il sempiterno problema delle dosi.
 
Prendiamo la recitazione. Un viso immobile, praticamente sempre con la stessa espressione come quello di Harrison Ford, non è la caratteristica di un grande attore. Sergio Leone addirittura disse del primo Clint Eastwood che aveva soltanto due espressioni: col cappello o senza. Ma ciò non significa che si dovesse poi apprezzare Franco Franchi, che di smorfie ai limiti del fisiologico ne faceva dieci al minuto e divertiva un pubblico di bocca buona, più sensibile alla farsa di Plauto che alla commedia di Molière.
 
Renzi sembra non avere mai saputo ciò che nel campo del buon gusto si chiama "misura". Se persino ad un genio straordinario come Cajkovskij si è potuto rimproverare un eccesso di enfasi, figurarsi quanto debba stare attento chi un genio non è. Invece l'ex sindaco, pensando di dover incoraggiare un popolo sconsolato, lo ha riempito di promesse ossessivamente ripetute, anche quando erano del tutto inverosimili, anche quando erano già smentite dalla realtà, anche quando erano grandiose e contraddittorie. Volendo essere "alla mano", come uno che non si è montata la testa perché lo chiamano "Primo Ministro", si comporta come un presentatore di provincia, come un animatore di feste di bambini che dà il cinque a tutti e sollecita continuamente l'applauso.
 
Renzi si è trasformato nell'eterna replica dello stesso spettacolo, secondo un modulo stanco e ripetitivo. Le sue promesse sono divenute il ritornello di una commedia alla cinquantesima replica. Il suo ottimismo una posa che non tiene conto della realtà, il suo sforzo di piacere il trasparente artificio di un ambizioso.
 
Così ha cessato di essere simpatico. Al vederlo apparire si può togliere l'audio, sicuri di non perdere niente. Non che il suo sforzo di migliorare l'Italia non sia lodevole, ma la distanza fra i libri dei sogni e la realtà si è fatta troppo grande. Prima ha promesso quattro riforme epocali in quattro mesi, poi, per le stesse riforme, ha chiesto mille giorni, come se prima avesse scherzato. Non si è reso conto che, con una simile disinvoltura, autorizza il prossimo a chiedersi: "Se ha potuto perdonarsi così facilmente di non aver mantenuto la parola per i quattro mesi, che difficoltà avrà a perdonarsi di non aver concluso nulla in mille giorni?"
 
Un altro piccolo esempio. La primavera scorsa, da Bruno Vespa, aveva promesso, entro il 21 settembre, festa di San Matteo, che avrebbe saldato i debiti della Pubblica Amministrazione. Totale, oltre 66 miliardi. Siamo al 21 settembre, di quei miliardi ne sono stati pagati 31-32 e ne rimangono ben trentacinque. E dire che il giovane fiorentino aveva detto: "Se perdo la scommessa, potete immaginare dove mi manderanno gli italiani". Da nessuna parte, caro Renzi. Per arrabbiarsi sul serio sarebbe prima stato necessario prenderla sul serio.
 
Tutti gli utili che poteva produrre la simpatia, quest'uomo li ha già ottenuti e consumati. Ora il novello Münchhausen può fare a pezzi qualche drago immaginario o vincere da solo contro gli ologrammi di cento nemici: coloro che non sono sedotti né da Harrison Ford né da Franco Franchi lo guardano con indifferenza. Molta gente aspetta ormai soltanto di vedere i fatti. È pronta ad essergli grata di qualcosa e a perdonargli di non essere riuscito a realizzare tutto quanto ha promesso. Ma per far questo, per l'appunto, non bisogna ascoltarlo: perché la sua tracotanza potrebbe indurre alla spietatezza.
 
L'overdose delle sua apparizioni, dei suoi proclami, della sua invadenza ha provocato in alcuni una crisi di rigetto. In altri non ancora - non tutti hanno la stessa finezza d'udito - ma è comunque questione di tempo. C'è soltanto da sperare che, quando il fastidio sarà generale, si abbia ancora la lucidità di non occuparsi della persona di Renzi, ma di quello che riuscirà a fare. Del resto, la pizzeria si giudica dalla pizza, non dal cameriere che ce la porta.
 
 

venerdì 19 settembre 2014

Monumento a Masipa. Davide Giacalone


Al giudice Thokozile Masipa farei un monumento. Perché nel modo in cui si è giunti alla sentenza riguardante Oscar Pistorius (non ancora completa), nel modo in cui il giudice ha costruito il suo giudizio, c’è la grandiosa superiorità culturale del sistema di common law. Un sistema nel quale non è lo Stato che giudica, perché lo Stato accusa. Il giudice è l’arbitro di uno scontro, fra due parti in cui nessuna ha maggiore legittimità o forza dell’altra. Arbitro fra la pretesa punitiva, a tutela della collettività, e la difesa dell’individuo, a tutela della libertà. Non c’è dominio, se non della legge. Certo: Pistorius ha ammazzato, così come aveva ammazzato O. J. Simpson. Ma il giudice, al contrario che nel nostro sistema, non deve dare corpo a un proprio “libero convincimento”, non deve inseguire una inagguantabile verità, deve dirigere lo scontro e accertare che le prove corrispondano alle accuse. Nella lunga disamina finale (da riascoltare, con ammirazione) il giudice Masipa ha messo in luce che “l’accusa non è riuscita a dimostrare” la premeditazione e la volontarietà. Attenzione, perché è decisivo: non che esistano o meno premeditazione e volontarietà, ma che sono state dimostrate e provate. Sicché il resto delle deduzioni logiche sono inutili. Buone per il bar, non per un tribunale.

Capisco lo sgomento di alcuni. Capisco l’amara ironia di Selvaggia Lucarelli. Ma le loro argomentazioni possono valere nel mondo del “non poteva non sapere”. Che è un mondo in cui lo Stato incarna il bene e il cittadino può essere sede del male. Pessimo mondo. Da Pretoria ci è giunta una lezione di civiltà: conta solo quel che chi accusa riesce a provare, mentre il giudice non è lo Stato, ma il solo che può impedire che il cittadino sia un suddito. Il resto è fuffa. Questo elimina gli errori? Neanche per idea, nessun sistema li azzera. Ma anche quando sbaglia, il sistema di common law lo fa in un trionfo di giustizia e diritto. Mentre da noi si tifa per il risultato, si vuole che la sentenza prenda atto della verità evidente, sebbene non provata. Capita, così, che anche quando indovina può umiliare il diritto e la giustizia.

Quel che è solare può abbagliare. E’ vero che alcuni messaggi telefonici mettevano in evidenza che l’assassino (perché tale è stato giudicato) era un geloso forsennato. Ma questo, paradossalmente, toglie credibilità alla premeditazione. Avesse agito pensandoci e volendo ammazzare, probabilmente avrebbe spedito messaggi di tono opposto. Masipa, quindi, dice che quei messaggi non provano nulla, se non “variazioni d’umore presenti in una qualsiasi normale relazione”. Considero la gelosia una forma di alterazione mentale, un sentimento d’inferiorità che può trasformarsi in aggressività maligna. Ma in tribunale si deve dimostrare il nesso fra quell’umore e l’assassinio, contando zero la deduzione psicologica. I testimoni sono tali se dicono quel che sanno e portano elementi cogenti, altrimenti sono chiacchiere. L’avere usato la pistola in un ristorante è un reato (tanto che per questo è stato condannato), ma non è la prova di una cosa del tutto diversa: avere avuto intenzione di uccidere. Dimostra che sei uno stronzo, non un premeditatore. Tutto questo era chiaro anche all’accusa che, difatti, concludendo, aveva puntato su una tesi diversa: chi spara in un bagno, ad altezza d’uomo, sa di ammazzare. Masipa argomenta: infatti lo condanno, ma non avete dimostrato quello di cui lo avete accusato.

Scrive Lucarelli: “peccato che il giudice non abbia chiarito cosa volesse fare Pistorius, se non uccidere”. Esatto, non lo ha chiarito. Perché non deve. Non è il suo mestiere. Solo i pazzi credono di possedere la verità e di poterla chiarie agli altri. Un giudice serio, in un sistema funzionante, accerta se ci sono le prove. E “l’accusa non è riuscita a dimostrare”. Tutto qui. Ed è veramente tutto.

Osservazione a latere: esiste l’omicidio, con relative aggravanti e attenuanti, non il femminicidio. Quest’ultimo è un segno d’alticcia legislazione. Se è la femmina che ammazza il maschio è meno grave? E’ grave uguale. Pistorius è maschio, bianco, ricco e privilegiato. Masipa è femmina, nera, fu povera e perseguitata. Ragione in più per farle un monumento. Mentre chi crede che, sol per questo, avrebbe dovuto sorvolare sulle debolezze dell’accusa (sostenuta da un procuratore che ha sbagliato, non dalla “giustizia”, come si dice da noi, non dal bene o da un sacerdote della verità), a quel monumento dovrebbe far frequente visita.

Dietro questa sentenza c’è la cultura di un mondo che non idolatra lo Stato e non confonde le sentenze con il buon senso comune. Quanta lontananza dai magistrati italiani che dicevano: anche se il processo non è ancora manco cominciato, la condanna pubblica è già stata emessa. Invidio i sistemi in cui i giudici si chiamano Masipa.

Pubblicato da Libero

venerdì 12 settembre 2014

Opacità mentale e sonno della ragione. Leonardo Cammarano



Se si eccettua il nostro beneamato Cavaliere, a proposito dell’Islam i due o tre lustri trascorsi hanno visto risplendere, in un mare di idiozia, solo due o tre nomi: la Fallaci, Magdi Allam ed ora la Maglie. Esile elenco. Tolti i casi citati, la situazione generale è stata, e resta, di disperante opacità mentale. Si tenta di accreditare l’opinione che sia la questione bielorussa il problema prevalente. E che Putin sia il nuovo Satana. Basterebbe invece ammettere che le faccende di confine riguardano i confinanti; che i Russi vogliono stare coi Russi (spec. in Crimea), e che la proposta di Putin, uno Stato-cuscinetto, merita attenzione. Obama dovrebbe, deve, concentrare i suoi sforzi contro “il Califfato” e convincere gli Europei ad armare i confini del continente contro l’avanzata dell’Isis. I salvataggi dei barconi, dopo. Insomma: basta chiacchiere buoniste.

Basta barconi, e basta chiacchiere. Eccovi una profezia facile: se va avanti così, tra 10 anni, se saremo ancora vivi, saremo di nuovo tutti fascisti. Bisognerebbe convincere i crani vuoti che ci comandano, Napolitano & Co. e non solo, di smetterla di esternare scemenze sinistreggianti e “pappa” buonista. Queste “perdite di tempo” facilitano l’enantiodromia, fenomeno psicologico che significa (vedi Jung): se spingi troppo di qui, dopo penzoli troppo di là, e così via… fino alla tragedia. Per restare nel mezzo, dove risiedono l’intelligenza, lo spirito di giustizia e il liberalismo occorrono idee chiare e fermezza di carattere.

“Violenza”. Schopenhauer ricorda la “formica gigante australiana”: se la tagli in due, i due monconi immediatamente si avventano l’un contro l’altro finché si uccidono a colpi di mandibole e di pungiglione. Bisognerebbe aver presenti fatti del genere… ed anche il fatto che l’Isis comincia a minacciare Putin. Insomma “intelligenti pauca”, e Berlusconi era ben sveglio quando scelse l’ atteggiamento da adottare con Gheddafi. Ma qui emerse anche il suo errore: lasciò poi che il duo Obama-Sarkozy gli rompesse le uova nel paniere. Intanto Sarkozy e Obama si mostrarono quali erano: un furbo miope e un incapace ancor oggi nocivo.

Breve: sarebbe ora di smetterla, l’eccesso di errori politici ha generato in Europa il “sonno della ragione”. Le ideologie ci hanno appunto assuefatti a dormire: stare zitti o parlare da sonnambuli. E poi, “quos perdere vult amentat Deus”. Non se ne può più. Occorrere appunto carattere, e ripensando alla Fallaci ed ora alla Maglie mi sono domandato se le donne, che di carattere ne hanno ben più di noi, non capiscano le cose meglio di noi. Donne: io a Napoli avevo una portiera di qualità, donna Rosa Valore (“nomen omen”!) che mandava “affanculo” i fessi in quattro e quattr’otto, non aveva paura di nessuno… Viva la ginecrazia, se combatte così il conformismo! Ancora nella conferenza con la Malmström per il “Mare nostrum” (tra parentesi: non si poteva trovare titolo più autoironico e cretino), Alfano ha balbettato solo la propria pochezza. Vero è che oggi la Mogherini, che già si mostra sensibile più alla platea che alla sostanza delle cose (quel pacchiano citare le persone importanti per nome…!), e ieri l’Annunziata, una sorta di guardiana, stilista o “cerimoniera” della moda politica, fanno opportunamente ricredere: l’intelligenza non è questione “di genere”.

Dobbiamo smetterla di obbedire a chi ci vuole cretini. Ad es. il Corano afferma che anche per l’infedele c’è un’eternità: starsene col volto premuto su di una parete di pece ardente. Sic. E noi, invece, il meglio che sappiamo fare è dichiarare, con la sig.na Strada, “che è anche colpa nostra” (!?). Bene così!

Ma il Napolitano, ha mai sentito parlare della virtù della fierezza? Non vede che stanno prendendo in giro anche lui? Un secolo fa, la filastrocca che gabella come solidarietà e fratellanza il disarmo dell’Occidente sarebbe stata giudicata puro imbecillismo. Oggi, intimiditi dalla “presentabilità”, tutti pensano ma nessuno dice che bisognerebbe demolire le moschee, bloccare quelle in costruzione, rimandare a casa i predicatori d’odio, e vergognarsi per aver lasciato giungere le cose a questo punto. Ulteriore astrattismo: il toccasana della “conoscenza tra i popoli”. Un’altra balla: esso intorbida, non accresce tra i medesimi la comprensione. Chi vuol saperlo sa che la conoscenza ha due piani: quello alto per capire le cose importanti, quello basso per annusare alla meglio il risaputo. Per capire bisogna prima sognare, osservava Camus. Erano simpatici, gli Europei, e noi li “capivamo”, prima che imparassimo “a conoscerli”. I Tedeschi: intelligenti, musicisti, filosofi…! Caspita! Poi vai alla festa di Ottobre e trovi il “nachttopf mit kartoffeln”… I Francesi: cominci sognando Stendhal, finisci con i budelli riempiti di sangue e cipolla arrostita… Di noi Italiani taccio, per pudore. Certo, fu detto “perdona 70 volte 7, porgi l’altra guancia”. Ma il messaggio era rivolto al genere umano, non a bestie. Il “rapper” che si lascia fotografare compiaciuto con la testa sanguinante d’un decapitato tra le grinfie è una bestia, una mala bestia, e chi la pensa altrimenti ha a disposizione, per ricredersi, “l’experimentum crucis”di Cristo e di Foley: il coraggio della bontà, il sacrificio.

Tratto da zonadifrontiera

Non trattateci come sudditi. Angelo Panebianco

 
 
Corriere della Sera - È solo un paradosso apparente che i sondaggi mostrino il sostegno degli italiani per Matteo Renzi (raggiunge il 64 per cento dei consensi nel sondaggio di cui ha dato conto il Corriere domenica, e in nessun altra rilevazione scende sotto il 50), unito però a un diffuso scetticismo sulle misure del governo. Non c’è nulla di irrazionale. Anzi, il pubblico si mostra giudizioso. Si affida a Renzi perché lo riconosce come l’uomo forte del momento, colui che domina la politica e dice di sapere che cosa occorra fare per portarci fuori dai guai. In situazioni tribolate non è insensato affidarsi (provvisoriamente) all’uomo forte disponibile. Ma, al tempo stesso, gli italiani non si mostrano stupidi, non si fanno prendere in giro. Fino ad oggi il governo non è risultato molto convincente nella sua azione e i sondaggi lo registrano.
 
Proviamo a domandarci che cosa ci sia di poco convincente. Detto in modo enfatico e (non troppo) esagerato, di poco convincente c’è il fatto che non si è visto fin qui nessun provvedimento volto a restituire agli italiani i diritti di cittadinanza, nessun provvedimento che dia l’impressione di volerli trasformare da sudditi, quali per molti versi sono, in cittadini. Alcuni anni fa l’economista Nicola Rossi scrisse un bel libro (Sudditi , Istituto Bruno Leoni) che documentava il modo in cui politica e amministrazione avevano ridotto alla stato di sudditanza gli italiani, che pure, stando alla Costituzione, dovrebbero essere cittadini. Nel periodo intercorso non è cambiato nulla. E nemmeno Renzi finora ha fatto granché. Il caso della Tasi è esemplare. Come documentavano, sul Corriere di ieri, Fracaro e Saldutti, a meno di un mese dalla scadenza, più di 3.000 Comuni su 8.000 non hanno ancora fissato l’aliquota che dovrà essere versata. Una grande quantità di italiani continua ad ignorare quanto dovrà pagare. Il governo Renzi, sulla scia di Letta, ha ripetuto l’errore fatto a suo tempo dal governo Monti con l’Imu.
 
Ma perché mai dovrebbero ripartire i consumi se si impongono tasse e poi si lasciano passare mesi e mesi prima che i cittadini (pardon : i sudditi) possano conoscerne l’entità? Eppure sarebbe bastato poco. Sarebbe bastato stabilire che le inefficienze dell’amministrazione sono a carico solo dell’amministrazione. Sarebbe bastato decidere che i Comuni avevano tempo, poniamo, fino al maggio 2014 per stabilire l’ammontare dell’aliquota. Dopo di che, avrebbero perso il diritto di esigere il pagamento della tassa.
 
Sbaglia chi crede che perché ci sia crescita economica occorra che la politica sia «amichevole verso il mercato». Occorre invece che sia amichevole verso i diritti di cittadinanza. L’orientamento pro-mercato ne è soltanto una conseguenza. Chi, ad esempio, oggi vuol fare impresa è sottoposto alla tagliola e al ricatto delle autorizzazioni che l’amministrazione rilascerà a suo comodo, quando vorrà. Anche qui basterebbe poco per ristabilire il diritto di cittadinanza: il silenzio-assenso. Se l’autorizzazione esplicita non arriva entro un termine preciso, si dà per acquisita. E i funzionari che non se ne sono occupati nel tempo previsto saranno civilmente e penalmente corresponsabili di eventuali abusi.
 
Se il governo cominciasse ad «elargire» agli italiani diritti di cittadinanza avrebbe forse più successo di quello fin qui ottenuto con gli ottanta euro, riuscirebbe a fare ripartire l’economia. E forse i consensi di cui Renzi gode oggi nel Paese non risulterebbero effimeri, passeggeri.
 
(LSBlog)
 
 

giovedì 11 settembre 2014

Er governo Rutelli. Claudio Cerasa




Che poi uno passa intere giornate a studiare. A sfogliare i libri di storia. Ad azzardare paragoni. A ricordare i successi del New Labour, gli anni della Terza Via, i trionfi dell’Spd, il faccione di Gerhard Schröder, il sassofono di Bill Clinton, il ciuffone di Tony Blair. E poi, invece, sfogliando la margherita del governo e ovviamente del Pd, è tutto più semplice ed elementare. E te ne accorgi quando passeggi per Palazzo Chigi, e osservi le facce, ricordi i nomi, le storie, i percorsi, gli intrecci, le origini, e quindi unisci i puntini. Matteo Renzi. Luca Lotti. Graziano Delrio. Lorenzo Guerini. Dario Franceschini. Lapo Pistelli. Roberta Pinotti. Persino Filippo Sensi. Persino Giuliano Da Empoli.

Unisci i puntini, dunque, e ti allontani dalla Germania, dall’Inghilterra, dagli Stati Uniti, e ritorni in Italia, ti avvicini a Roma e allora pensi che in fondo, ok, ci possono stare i parallelismi con Blair, gli accostamenti con Schröder, le brillanti narrazioni sulla nuova Terza Via (salvo, per pietà, non citare quanto valgono nelle rispettive nazioni i partiti neo socialisti che sognano di scrivere con Renzi una nuova stagione del blairisimo). Ci sta tutto, d’accordo. Ma a guardar bene per capire con un sorriso l’origine più lineare del governo Renzi forse non bisogna prenderla così alla lontana. Forse basta rimanere in Italia, a Roma. Perché Matteo Renzi, in fondo, lo ha scoperto lui, quando il premier era presidente della provincia e quando lui era il capo del partito oggi – comunisti chi? – più rappresentato al governo. Perché Luca Lotti in qualche modo lo ha cresciuto il suo partito, e lui ricorda ancora quando, giovanissimo, l’attuale braccio destro di Renzi – “Il Luca” – lo andava a prendere in macchina alla stazione per fargli girare Firenze. Perché Filippo Sensi, portavoce di Renzi, fu anche il suo portavoce, quando lui fu sindaco di Roma e anche ai tempi della margherita. Perché Dario Franceschini, oggi ministro dei Beni culturali, azionista forte del governo, ai tempi, prima di prendere un’altra strada, era, negli anni della Margherita, il coordinatore della sua segreteria.

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lunedì 8 settembre 2014

Rivalutare Berlusconi. Michele Marsonet










Più passa il tempo e più appare evidente che all’Italia fa male il ridotto peso politico di Silvio Berlusconi. L’uomo ha, come tutti sanno, grossi difetti, e su questi hanno insistito da tempo immemorabile gran parte dei mass media, la maggioranza della magistratura e avversari di ogni tipo. Si è tuttavia dimenticato – troppo spesso – che possiede anche grandi pregi.

Comincio col dire che il primo è indubbiamente il carisma, elemento indispensabile per ogni leader che aspiri a giocare un ruolo di primo piano nella scena politica. E non solo in quella italiana. Si veda per esempio il caso di Barack Obama. Pur essendo a capo della maggiore potenza mondiale, l’attuale Presidente americano è costantemente in affanno poiché non riesce ad aggregare consenso attorno alla sua figura. Il rispetto, peraltro assai scarso, che gli viene tributato dipende soltanto dal ruolo che ricopre e molti, sia in America sia altrove, contano con ansia i giorni mancanti alla scadenza del suo mandato (che restano, purtroppo, ancora troppi).

Il carisma di Berlusconi è stato sbertucciato in ogni modo. In fondo nessuno osa dire che non esista, ma lo si è da più parti ridotto all’abilità nella comunicazione mediatica lasciando intendere che, tolta quella, c’è il vuoto.

Penso che adesso parecchi detrattori si stiano ricredendo. Non parlo ovviamente di quelli che opportunamente sono stati definiti “antiberlusconiani teologici”. Con loro non c’è niente da fare perché adottano un punto di vista tipico dei fondamentalisti islamici e dei pasdaran iraniani. Essere contro di lui è un atto di fede che non ammette deroghe, troncando ab initio qualsiasi possibilità di discussione.
I
l fatto è che l’uomo di Arcore trasuda carisma in tutto ciò che fa, e finora non s’intravede nel centro-destra alcuna figura in grado di prenderne il posto. Alcuni hanno tentato salvo poi scomparire o andare a sbattere contro risultati elettorali modestissimi. Se si pensa che Berlusconi ha rivoluzionato completamente il panorama politico italiano imponendo di fatto un bipolarismo prima inesistente, e che è riuscito a realizzare un progetto – lo sdoganamento dell’ex Msi – da quasi tutto ritenuto impossibile, asserire che il suo carisma è da operetta significa negare la realtà dei fatti.

Lo stesso discorso vale per la politica estera. L’opinione di gran parte dei commentatori (quelli che a sinistra vengono giudicati autorevoli) e dei suoi nemici era che si basasse sui rapporti personali di amicizia – e anche di stima – che il nostro era riuscito a intessere sia nelle vesti di capo del governo sia come leader dell’opposizione. Ed è così, in effetti. Quella di Berlusconi era una vera e propria ragnatela che gli consentiva di parlare in modo diretto con quasi tutti i leader mondiali (alcuni dei quali nel frattempo scomparsi), traendone spesso benefici per il Paese.

Il fatto è che è proprio questo il modo migliore di condurre la politica estera di una nazione. Alzare il telefono e parlare direttamente con l’interlocutore, oppure organizzare viaggi improvvisi per discutere faccia a faccia dei problemi sul tappeto, è mille volte più efficace delle visite ufficiali e dei canali diplomatici tradizionali. E la ragnatela di cui sopra, nonostante tutto, esiste ancora come si è visto in questo periodo drammatico con crisi assai pericolose che si susseguono l’un l’altra. Naturalmente, per poterlo fare, occorrono statura e notorietà globali, qualità che, ahinoi, mancano a chi gestisce ora le nostre relazioni internazionali.

E’ ormai assodato che Berlusconi fu costretto a dimettersi a causa di una sorta di complotto estero, e in questo caso a Obama va riconosciuto il merito di non aver voluto prendervi parte. Lo hanno narrato con dovizia di particolari Giulio Tremonti e altri in vari libri e articoli. Pur “disarcionato” in quel modo, tuttavia, il Cavaliere non ha smarrito il senso di responsabilità dando una mano agli avversari quando era il caso di farlo per il bene del Paese (mentre gli altri, con lui, si erano comportati nel modo esattamente opposto).

Ho detto in precedenza che non si vedono figure che possano prenderne il posto alla guida dello schieramento moderato, ed è questo il vero guaio. Ha 78 anni, ma resta comunque più lucido tanto di coloro che lo circondano, quanto di quelli che se ne sono andati sperando di rimpiazzarlo dando vita a partiti e partitini diversi. Vista la situazione, non resta che augurargli di restare ancora a lungo sulla scena. L’alternativa non c’è.

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mercoledì 3 settembre 2014

Riina live. Davide Giacalone


Solo nel mondo dei matti può sembrare normale che un capomafia, sottoposto al regime di carcere duro e isolamento, talché non può avvicinarsi ai familiari e non può telefonare alla moglie, parli poi dalle prime pagine dei giornali, come se anziché in carcere fosse nella casa del Grande Fratello. E per chi amasse il video, oltre che l’audio e la trascrizione, c’è anche quello, facilmente rintracciabile in rete. Solo nel mondo degli falsi può capitare che le sue parole vengano rilanciate avvertendo: dice queste cose per confermare d’essere il capo della mafia, sono messaggi ai suoi compari e complici. Bravi, e perché lo stiamo aiutando? Solo nel mondo degli ipocriti si prende in parola un criminale, quando fa l’elenco di quelli che vorrebbe eliminare, ma si dubita delle sue parole quando potrebbero scagionare gente sotto processo. Dice Totò Riina: con Nicola Mancino non ho mai avuto contatti. Partono le interpretazioni: ha voluto dire che li ebbero altri mafiosi. Non solo lo si aiuta, ma gli si suggeriscono anche le battute.

Scrivere queste cose può essere rischioso. Avverto i lettori che devo già fare i conti con una querela (per un intervento radiofonico, Rtl 102.5), presentata da un magistrato che non ho nominato e altri che non sapevo esistessero. Mi chiedono 600mila euro, affermando che le mie parole sono sconcertanti al pari di quelle di Riina (boom!), che aveva promesso la morte a taluni inquirenti, perché avvertii il pericolo che quelle del mafioso potessero essere diffuse da magistrati. Magari per mettersi in luce o far carriera. Già, peccato che quando uscirono le prime intercettazioni il ministro della giustizia, allora Anna Maria Cancellieri, corse a chiarire che non erano certo esondate dal Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), dipendente da quel ministero. E peccato che qualche tempo dopo il giudice dell’udienza preliminare di Catania abbia rinviato a giudizio un magistrato, proprio per la diffusione di quel materiale. Immagino non per altruismo informativo. Oh, intendiamoci: per me resta valida la presunzione d’innocenza. Spero che possa essere assolto. Come spero che, se colpevole, non sia solo condannato, ma anche buttato fuori dalla magistratura.

Fatto è che dalle prime immagini e parole (diffuse con i sottotitoli, per i non ablanti l’idioma di Trinacria) si è passati al diluvio. Il costume siculo, consustanziale alla disciplina mafiosa, prevede che “una parola è picca e due sunnu assai”. Qui c’è un pezzo da novanta affetto da logorrea, pronto a indicare chi sparò a chi e a rivendicare per sé il ruolo di catticatticattivissimo. E il mondo dei matti pubblica e diffonde.

Non sono in grado di stabilire quale sia la rilevanza processuale di quelle intercettazioni ambientali, posto che vengono depositate a chili nel fascicolo del processo sulla presunta (spero non mi querelino, per questo “presunta”) trattativa Stato-mafia. A occhio esterno, al momento, l’unica cosa pertinente è a favore di uno degli imputati. Ma i processi si deve conoscerli dall’interno, sicché mi taccio. Ciò che si può dire, però, è che la dottrina secondo cui ogni documento depositato è automaticamente a disposizione delle redazioni, con l’aggravante che essendo pacchi di roba c’è sempre una guida che aiuta a trovare i passi salienti, ha portato alla perdizione. Così il processo penale diventa un piacere al mafioso, contribuendo al suo delirio d’onnipotenza.

Muto, è il mafioso della tradizione. Diarroico, questo macellaio analfabeta. Analfabeta e minchione, se non suppone di avere a che fare con un provocatore, criminale come lui, ma al servizio della sbirraglia. O analfabeta e furbacchione, se intuendolo lo usa. Nel qual caso son minchioni gli altri, che diffondono. Sta di fatto che blaterando indica avversari sostanzialmente mediatici, come se la mafia puntasse ad avere un alto indice di gradimento televisivo. E indicandoli finisce con il maledire un prete molto attivo, benedicendo il papa. Ed ecco subito gli esegeti: disse quelle cose prima che Bergoglio condannasse i mafiosi. Perché, c’era qualche dubbio che lo facesse? Che, magari, invitasse a processioni con inchini sempre più espliciti? Roba dell’altro mondo. Un mondo nel quale l’isolamento cementificato, il terribile 41 bis, si traduce in comizio amplificato. Quel mondo è il nostro. Purtroppo.

Pubblicato da Libero

martedì 2 settembre 2014

Tutte le bischerate di Renzi. Mario Sechi


Il Foglio - Vedi quelli della “Costituzione più bella del mondo”. E dici: meglio Renzi. Vedi quelli del “golpe e della svolta autoritaria”. Meglio Renzi. Vedi l’ancien régime del para-Stato manovrare nell’ombra. Meglio Renzi. Vedi il piccolo establishment rivendicare il diritto inalienabile di spolpare l’osso. Meglio Renzi. Leggi Scalfari, senza mai un’autocritica. Meglio Renzi. Leggi Travaglio, a caccia del nemico a prescindere. Meglio Renzi. Vedi i renzisti in tweet e moschetto. Meglio Renzi.
Il problema è che poi vedi Renzi. E allora tutto il “meglio” del premier fiorentino finisce in un mare di bischerate che si stanno accumulando e cominciano a essere una cosa grave ma non seria, un pasticciaccio brutto, un gaddiano gnommero da sberreta’ che emerge continuamente nei miei pensieri, il dilemma del renzismo, del suo (sempre Gadda fu) “rammollimento” iperveloce, un groviglio, un gomitolo di rovi, un intrico di tutto e il contrario di tutto alimentato dallo stesso presidente del Consiglio. Lo gnommero.

Non mi sfugge la necessità del governo Renzi – lo sostengo e non oso immaginare una sua caduta – ma il suo destino dipende da “causali” (ancora lui, l’ingegnere) che si stanno gonfiando come un gigantesco soufflé dimenticato nella cucina di Palazzo Chigi. Prima o poi, scoppia. E lo chef? Sembra sempre da un’altra parte, impegnato in un reality sui cuochi, davanti alla telecamera, come un Cracco qualsiasi, a illustrare i futuri estrosi piatti da impadellare, mentre il semplice pranzo del Paese sta bruciando. Meglio Renzi, ma se la cucina va a fuoco, che facciamo? Meglio scrivere subito, a futura memoria. Raccontare la genesi dello gnommero renziano, il suo avvolgimento pazzo e lo svolgimento possibile, non prometeico e senza banalità faunistiche, gufismi che non hanno la nobiltà letteraria della categoria del gattopardismo.

Il renzismo allora, quando comincia? Non quello della rottamazione (altra storia, altro ritmo) ma quello di governo, lo gnommero da sberreta’ che ho/abbiamo davanti. Entra in scena il 24 febbraio di quest’anno al Senato. Dichiarazioni programmatiche del Presidente del Consiglio. Matteo Renzi fa il suo ingresso a Palazzo Madama, sede della rottamanda istituzione e svolge un discorso lunghissimo, verboso, lontano dall’asciuttezza di stile e contenuto che avrebbe dovuto dare un primo decisivo senso alla rivoluzione renziana. Niente, Matteo finisce il suo intervento. Drin, squilla il telefono: “Vedi? E’ un bluff”. Drin, di nuovo: “Te l’avevo detto che non è capace”. Aridrin: “Sei ancora convinto che meglio lui degli altri?”. Drin. Drin. Drin. Destra, sinistra centro, agnostici, tipi da bar, milionari, poveri, borghesi, popolani, rentier, nerd e panettieri, sono amici e conoscenti che hanno l’hashtag fisso #iononcredoinrenzi e io ribatto come voglio e posso un “basta, siete degli inguaribili peggioristi, non vi va bene mai niente”, ma ho la sensazione che qualcosa non giri per il verso giusto nel “cambiare verso”. E mi ritrovo in pieno nelle parole dette da Giuliano Ferrara a Sky Tg24: “Il discorso mi ha fatto venire il latte alle ginocchia”. Vabbè, la sera ascolto Francesco De Gregori e provo a convincermi che “il ragazzo si farà, ha le spalle strette e giocherà con la maglia numero sette”. Sì, dài, meglio Renzi. E poi ha le palle e prima o poi le tira fuori, d’acciaio eh, mi raccomando.
E poi il 18 gennaio ha incontrato Berlusconi e stretto il Patto del Nazareno, e si chiude (forse) la stagione della caccia all’uomo e dell’odio elevato a standard politico, ha una squadra di governo giovane, sì commetteranno degli errori, ma vivaddio basta con il regimetto che ha le ragnatele addosso. Ci sta tutto, anche l’inizio da spaccone che non spacca, su che dormo tranquillo. Meglio Renzi.

Passa un mesetto, c’è Renzi in tv a tutte le ore, ti dà il buongiorno con Twitter e la buonanotte con i tg della Rai già renzizzati senza gentile richiesta del premier, scrivo con divertimento quel che succede durante la settimana per Il Foglio, il segretario fiorentino semina il panico nel sottobosco ministeriale e delle partecipate dello Stato, quello del “Franza o Spagna basta che se magna”. Sì, ho la strana sensazione che stia elevando il gufismo a paradigma politico, il suo lessico comincia ad essere monocorde, ma in fondo tout va. Meglio Renzi. Drin! Rispondo. “Guarda che il tuo caro leader vuole mettere il capo dei vigili urbani di Firenze a Palazzo Chigi”. “Dài, è una cazzata”. Ma la fonte è quella che io definisco “tripla A”. Mai una sòla in vent’anni di cronaca politica. Verifico. Tutto vero. Di cosa deve occuparsi la signora Manzione? Capo del dipartimento affari giuridici e legislativi. E cosa fa quell’ufficio? Coordina l’attività del governo, tiene i rapporti con la Corte Costituzionale, Avvocatura dello Stato, Corti Internazionali, è il fondamentale consulente giuridico dell’esecutivo. Il capo dei vigili urbani di Firenze… ma che cazzo sta pensando il nostro caro leader? Sento arrivare la tempesta. E’ la classica scelta di un leader che non si fida dell’alta burocrazia, dà l’impressione di cercare fedeltà prima che competenza. La fedeltà… Mi viene in mente Gordon Gekko: “Se vuoi un amico, prendi un cane”. Massì, comunque meglio Renzi. Tuoni e lampi si manifestano il 10 aprile quando esce la notizia che la Corte dei Conti non digerisce la nomina della Manzione e sputa l’osso. Non avrebbe i requisiti. La verità è che perfino l’atto di nomina è un pasticcio. Ne serve un altro. A Palazzo Chigi riscrivono tutto. E la Corte dei Conti dà il via libera alla nomina all’inizio di maggio. Osso ingoiato. Si ricomincia, ma quel nocciolino resta indigeribile per l’alta burocrazia. E si vedrà. Tivù tivù per dare agli italiani del tu e spiegare e forse piegare. Renzi la sera del 9 maggio compare su Rai2, a “Virus”, e confessa: “Me l’hanno fatto penare, ma ora la Manzione è qui”. Canta vittoria. Lo osservo mentre lo dice e penso, maddeché, d’ora in poi ogni atto che esce dalle stanze del governo e finisce nelle mani dell’alta burocrazia sarà oggetto di speciale attenzione. Vedrai, caro Matteo, che traffico di timbri e pareri tra un ufficio e l’altro. Altro che vigilessa. Pazienza, andiamo avanti, cambiamo verso, ‘che resta sempre meglio Renzi.

E poi c’è l’onda lunga, il 25 maggio si vota per le Europee, il premier va in giro per l’Italia e fa il pienone ovunque. E’ il suo momento, spinge sulla comunicazione, deve riempire il forziere di voti, chissenefrega della macchinina brum brum del governo. Il 9 maggio Renzi twitta le foto dei cedolini con gli 80 euro che il ministro Padoan gli ha appena consegnato. Ah, la propaganda. Strike. L’11 maggio è a Monfalcone per il business navale di Fincantieri, poi al raduno degli alpini (foto retrò del capo, in studiato bianco e nero), sempre lo stesso giorno comunica di non essere interista, ma Zanetti è fico, il 12 maggio informa le masse che si discute la riforma del terzo settore (please, cambiate nome a questa cosa), il 13 maggio scoppia il casino dell’Expo che poi risolverà con la nomina del magistrato Raffaele Cantone. In toga we trust. La sera Renzi va a “Ballarò” e litiga con Giovanni Floris, lui spiega che “niente paura. Il futuro arriverà anche alla Rai. Senza ordini dei partiti”, l’altro si sposterà in zona Urbano Cairo, a La7. Il 14 maggio il premier va a Napoli, Palermo e Reggio Calabria. Fa sempre il pieno. Il 15 maggio mette una pezza per Electrolux, mentre il Pd ordina l’arresto del suo deputato, Genovese. Sempre in toga we trust. E’ al rush finale, Renzi vola a Cesena, Pesaro, Modena, Reggio, Napoli, Bergamo, Bari, Olbia e Roma “dove tutto è cominciato”, viaggia in Vespa e va a “Porta a Porta”. Spietato, chiude la campagna elettorale con una conferenza stampa a Palazzo Chigi sugli 80 euro. Una macchina da guerra elettorale. E infatti il 25 maggio Renzi raccoglie la sua – e non del Pd - grande vittoria alle Europee. Lui twitta: “Un risultato storico”. Clap. Clap. Clap. Perfetto. E il governo? Perbacco, con la vigilessa, ma fermissimo al semaforo. Servono manovre diversive, un’arma di distrazione di massa. Eccola. Da questo momento Renzi comincia un’escalation fatta di liberazioni di ostaggi, foto opportunity in similpelle obamiano, e retorica gufista. Un’autocelebrazione da Instagram che non promette nulla di buono. Sì, perbacco, meglio Renzi, ma qualcosa si sta incartando di brutto nella liturgia renziana, nel suo cerchietto poco magico che parla solo toscano e aspira tutto come un bidone. C’è lontano come un rumore di ferraglia, il Novecento che, in fondo, è ancora là, ruggisce, dice che la fabbrica, il lavoro, l’occupazione, la produzione, le tasse, il duro mestiere del governo con i suoi grattacapi burocratici, la scrittura delle leggi, non sono cose che si risolvono con le slide e i tweet geneticamente modificati da un paio di startuppari che l’impresa ce la raccontano, ma guai a farla loro.

La fase liberiamo tutti e facciamoci un selfie comincia il 26 maggio, quando Renzi annuncia online: “Ho appena dato il via libera: un aereo della Repubblica italiana parte per il Congo per riportare i bambini adottati bloccati da mesi #acasa”. Linguaggio da Commander in chief. Il resto viene direttamente dal manuale del perfetto pierre: photo-book volante di Maria Elena Boschi con le sublimi treccine e gli splendidi bambini. Una volta, dài, ci sta. No, si replica. Poche ore dopo, altro blitz: “Ho appena comunicato a Giovanna Motka che suo figlio Federico, sequestrato da oltre un anno, sta rientrando e sarà in Italia domani #acasa”. Gimme five, subcomandante Renzi. Il primo giugno l’action movie è ancora in tutte le sale: “Don Giampaolo e Don Gianantonio saranno #acasa stanotte. Bentornati e un abbraccio alle loro comunità e ai loro amici”. Tweet e retweet della Mogherini, sacerdoti a casa. Amen. No, tutti fermi sui banchi ‘che la messa liberatoria non è finita. Il 24 luglio Matteo gioisce: “Una ragazza che ha partorito in catene per le propria fede, oggi è libera. L'Italia è anche questo. La politica è anche questo #meriam”. Tutti in pista per l’atterraggio. Flash. Clic. Tweet. Nel bel mezzo della fase da commando speciale, compare un Renzi a pedali: “Mamma mia, Nibali #chapeau” (Tour de France, 24 luglio); un Renzi africano (video sul jet di Stato, 4 minuti e 5 secondi su YouTube incorporato nel profilo Twitter, 23 luglio); un Renzi autobiografico con la foto della sua caotica scrivania di Palazzo Chigi (8 luglio); un Renzi da Grande Slam che retwitta il cinguettìo del profilo ufficiale di Wimbledon sulla vittoria di Sara Errani e Roberta Vinci (5 luglio). E i gufi? Nidificano, cribbio, il 28 luglio e…toh! Svolazzano quando si citano i conti pubblici, l’economia, la materia incandescente di qualsiasi governo. Renzi, nuovo stratega del Mediterraneo: “I gufi, le riforme, i conti non mi preoccupano. La Libia sì invece. Ma sembra impossibile parlare seriamente di politica estera #piccinerie”. E ora al lavoro, pancia a terra altrimenti niente vacanze, fannulloni, c’è il Senato da demolire. Agosto affonda così, come il sommergibile del Capitano Nemo, il Nautilus. Talmente potente da essere scambiato per un mostro marino, una creatura degli abissi. Dopo molte avventure, diventerà la bara di Nemo. Ma ora è tempo di navigare, perché “Noi andiamo avanti, con metodo e decisione #sbloccaitalia #lavoltabuona” twitta il Capitano Renzi il 1° agosto. Metodo? Il punto interrogativo mi resta in testa come un rumore di piatti rotti durante una cena a lume di candela, ma basta con le stoviglie e meglio Renzi. L’8 agosto il Senato vota il suo ridimensionamento e penso che, in fondo – sempre più in fondo – Renzi questo l’ha fatto e “nessuno potrà più fermare il cambiamento iniziato oggi”. Quattro letture, nel frattempo io leggo i dati dell’economia e il governo mi sembra in alto mare.

Mario Draghi il giorno prima ha lanciato un messaggio in bottiglia a quelli che le riforme le annunciano ma non le fanno, parla di cessioni di sovranità, ma Renzi invece di cogliere la palla al balzo fa un pasticcio e gioca all’autoscontro con l’unico che può dargli una mano. Esibisce i muscoli al posto del cervello. Rimedia il testacoda in curva con un incontro privato il 12 agosto in Umbria, a casa di Draghi. C’è scritto “RISERVATO” grande così sulla porta, ma la cosa spiffera qua e là, il Corriere dell’Umbria ci fa un titolo e lui, il premier, invece di stare quatto e silente ‘che è pieno di volpi nordiche in giro, conferma come un pivello. A Berlino cominciano a fumare gli ingranaggi. Il Nautilus imbarca acqua. E Nomfup alias Filippo Sensi, il suo portavoce, l’11 agosto manda in rete una cosa che mi sembra una premonizione: “O capitano, mio capitano”. Se n’è andato Robin Williams e l’attimo sarà pur fuggente, ma io ricordo bene una splendida professoressa - talmente bella da essere il più grande incentivo a frequentare la biblioteca - che mi raccontò di quei versi scritti da Walt Whitman nel 1865 per l’assassinio di Abramo Lincoln: “O stillanti gocce rosse / Dove sul ponte giace il mio Capitano. / Caduto freddo e morto”. Renzi retwitta, senza scaramanzie, forse non ha mai letto Whitman e poi chissà com’era la sua prof. Vede Napoli, neanche a dirlo, visita una start-up, saluta il Papa (foto), Gela, Termini Imerese e “buon ferragosto”. Ecco, immagino, ora tira un profondo respiro, parla con la moglie e, diamine, ci pensa, sì che ci pensa. Tutti i dati economici fanno schifo, serve una reazione vera, perché non parli? Manco fossi Michelangelo di fronte alla Pietà. Niente da fare. Gli annunci continuano, il 19 agosto è la volta delle “linee guida della scuola” che poi spariranno insieme al ministro dell’Istruzione Stefania Giannini. Poi vola in Iraq e anche là, purtroppo, diventa tutto un selfie, un tweet, un bagno di folla e bambini con una serie di spericolate analisi geopolitiche. Pazienza, meglio Renzi, in fondo lui in Kurdistan c’è. Però ora basta, dài, fermati un po’ a pensare. Guerra. Pace. E ammore. Il 20 agosto esce un servizio su Diva e Donna, tutte le vacanze di Renzi in posa con la sua signora, un ritratto innaturale, così goffo da risultare un sublime, incartato, nonsense tipografico del ridicolo. Drin! “Lo vedi? E’ peggio di Berlusconi!”. Macché, quella era una narrazione pop-rock di un tipo italiano, il self-made man di Daniel Defoe adattato al ritmo latino, questo è un fenomeno che comincia ad apparirmi diverso, nuovo sì, ma di caratura e durata ancora da definire. Renzismo uguale berlusconismo? No, ragazzi, Berlusconi è l’originale e non c’è matrice, nonostante l’era della tecnica, non è riproducibile. Meglio Renzi? Calma e gesso, agosto non è finito e infatti eccolo qui, il 22 agosto, lo statista che si fa la doccia gelata. Ok, per me è una buona notizia, siamo al fondo, da questo momento comincia la risalita, ne sono sicuro, daje, mejo Renzi. Incontro al mare uno dei più grandi imprenditori italiani, globalizzato, pieno di iniziativa e buon senso, è innamorato del nostro Paese, è un patriota. Gli dico: Renzi ha attaccato i capitalisti dei salotti, i soliti noti. Forse pure lei c’è in mezzo. Lui risponde: i capitalisti non si scelgono a tavolino, sono quelli che hanno i capitali e li usano per fare impresa. Se sa l’indirizzo di un salotto, me lo dia, io non ne conosco ed è finita pure Mediobanca. Touch down.

Mentre Renzi si fa la doccia gelata, Mario Draghi – l’unico che nella copertina del ‘Conomist tira via l’acqua dalla barca europea che affonda – al meeting dei banchieri centrali di Jackson Hole fa un discorso che apre a una stagione diversa, meno austera e più riformista. L’unico che lo capisce è Napolitano che lo cita in un comunicato prima del consiglio dei ministri del 29 agosto. E lo capisce anche Angela Merkel che secondo indiscrezioni ha telefonato a Draghi in pieno assetto da combattimento. E lei, ovviamente, a differenza di Renzi, non conferma un colloquio privato. E’ la diplomazia, bellezza. Non la nostra. E questo accade dopo il ritorno in ufficio di Renzi, il 25 agosto, intwittato pure quello alle 6 e 20 del mattino con una fota di Palazzo Chigi ancora in penombra: #ciaovacanze.

Che dire? C’è molto Alberto Sordi in tutto questo, è il carattere italiano, un cabarettismo che emerge sempre, soprattutto quando la situazione appare tragica. Vabbè dài, l’importante è che lavori. Meglio Renzi. C’è un consiglio dei ministri il 29 agosto, Napolitano è tutta l’estate che riceve, vede, consiglia. Sarà tutto a posto, uno immagina così per professione di ottimismo e mejorismo renziano. Rien va plus, il consiglio dei ministri è un mezzo disastro. Lo Sblocca Italia un pasticcio senza coperture, riscritto all’ultimo minuto. La Scuola delle centomila assunzioni a piè di lista finisce in archivio e si vedrà che farne, la riforma della Giustizia è una supercazzola a cui mancano le cose serie e vent’anni di guerra nucleare tra politica e procure della Repubblica oggi in dissesto ideologico. Renzi è costretto a rimangiarsi i tweet con le anticipazioni mirabolanti, mentre piovono dall’Istat dati economici da Armageddon e lui, il premier, dice chissenefrega delle virgole tanto io so’ er più e c’è un carretto di gelati a Palazzo Chigi per rispondere ai gufi di Londra. Buone notizie? Sono un patriota, viva la Mogherini Lady Pesc e bravo Renzi a tenere duro e basta francesi, tedeschi e inglesi, siamo italiani. Dio, manca la canzone di Toto Cutugno “lasciatemi cantare/sono un italiano” e un cavallo bianco con in sella Roberto Benigni all’Ariston di Sanremo. Alla fine della fiera della vanità, la realtà è che questi sono stati i sei mesi più surreali che ricordi dall’esordio di un governo e la mia fiducia è diventata un punto interrogativo, non sulla pochezza degli oppositori del presidente del Consiglio, sulle camarille, sui biscazzieri d’alto bordo, i consiglieri di basso stampo, i cervelloni che sono cervelli spenti. No, il problema è un altro, quello che abbiamo noi italiani che ancora ci crediamo e pensiamo che il Paese possa davvero cambiare. E’ la realtà che fa toc toc alla porta. E’ lunedì, piove, ho pagato l’affitto e il gas e mi viene in mente D’Annunzio: “Settembre, andiamo. E’ tempo di migrare”. Meglio Renzi?