lunedì 28 febbraio 2011

Repubblica incosciente e irresponsabile su tutto, persino su Gheddafi. Carlo Panella

Neanche a fronte del dramma, neanche nel momento in cui la stessa sicurezza nazionale è in discussione, una certa sinistra dissennata riesce a ragionare, proporre, cercare soluzioni che rispondano ad un solo obbiettivo: difendere gli interessi nazionali. No, al “partito di Repubblica”, a Concita de Gregorio, ad Anna Finocchiaro preme innanzitutto una sola cosa: usare di qualsiasi pretesto per colpire Silvio Berlusconi. Come se la ripresa dei rapporti con Gheddafi e gli accordi con la Libia non siano state scelte strombazzate come strategiche nel 1999 da Romano Prodi presidente dell’Ue e dal premier Massimo D’Alema, che a lungo si vantò di essere stato il primo capo di governo europeo, finito il boicottaggio Onu, a recarsi a Tripoli a rendere omaggio a quello che oggi Concita de Gregorio chiama “un dittatore pazzo”. Nei paesi seri, come la Francia, maggioranza e opposizione considerano sacro l’Ėsprit Républicain, il considerare il bene della Nazione prioritario rispetto ad ogni polemica politica di bassa lega. Non così la gauche caviar italiana, che pur di colpire Berlusconi fa finta di non sapere che il Trattato di amicizia con la Libia del 2009, fu a lungo e invano ricercato dal ministro degli Esteri D’Alema (come ricordò il Pd Marco Minniti quando Berlusconi lo firmò), che però non si dimostrò capace di firmarlo, come invece Berlusconi fece. Ma non basta, oggi, pur di colpire Berlusconi, Ezio Mauro su Repubblica si scopre più “esportatore di democrazia di George W. Bush, e rimprovera al governo italiano un eccesso di prudenza e il rifiuto di “stare dalla parte dei popoli che riconquistano la loro libertà”. Ma quando Berlusconi mandava assieme a Bush e a Blair il nostro contingente per “stare dalla parte” del popoli iracheno e curdo che dimostrava nelle strade ed erano massacrati, mentre Saddam Hussein riempiva l’Iraq di fosse comuni, cosa diceva Ezio Mauro? Che quell’intervento era sciagurato. Dunque, secondo il direttore di Repubblica l’Italia dovrebbe fare oggi nei confronti di Gheddafi, quel che era dissennato fare nei confronti di Saddam Hussein. Ancora una volta, il vizio delle doppie verità che porta Ezio Mauro a non capire che l’Italia, forse domani stesso, sarà chiamata ad un intervento umanitario in Libia in cui dovrà mediare tra le parti. A non capire –con un eccesso colpevole di disinformazione- che la rivolta libica non è quella di piazza Taharir, che è anche piena di zone d’ombra, e che non è affatto escluso che un domani l’Italia debba fare parte di una forza di interposizione umanitaria tra le forze ribelli e le forze armate fedeli a Gheddafi che continuano a mantenere il controllo di Tripoli, come peraltro Repubblica continua a riferire. Quindi, prudenza, prudenza, prudenza, perché è possible che domani si imponga la necessità di un intervento europeo e italiano che operi una mediazione con una casamatta presidiata dalle forze fedeli a Gheddafi (che non solo fatte di mercenari, perché Repubblica stessa ci dice che nella piazza Verde ieri manifestavano 6-8.000 dimostranti fedeli al raìs) e il resto del paese in mano non ad un popolo puro e felice, ma anche a generali come Abdesalam Jallud che di Gheddafi è stato il braccio destro e che rappresentano “il lato oscuro della forza del regime”. Una situazione complessa in cui una sola cosa è chiara: il governo Berlusconi è l’unico paese che può garantire spazi ad una mediazione che eviti un massacro di proporzioni bibliche nel caso, che sta concretizzandosi sempre di più, che Gheddafi riesca a garantirsi il controllo di una parte consistente di Tripoli e della Tripolitania. Ma non basta, nello sforzo di polemizzare col governo italiano, Repubblica nega l’evidenza e che cioè in Cirenaica operino forze legate ad al Qaida. Ma è notizia di due giorni fa che a Derna è stato fondato un Emirato Islamico il cui leader è Abdelkarim al Hasadi, un terrorista di al Qaida, già detenuto nel carcere di Guantanamo e che un altro membro di al Qaida, Kheirallah Baraassi, sta tentando la stessa impresa a al Baida. Tutti sanno, tranne Repubblica, che la rivolta in Cirenaica vede operare (anche se non in ruolo egemonico), forze vicine ad al Qaida e che quindi anche questo spinge il governo italiano (Frattini l’ha detto a più riprese) ad un raddoppio di prudenza negli slanci e negli entusiasmi verso i rivoltosi libici.
Un' ultima osservazione: Ezio Mauro e Concita de Gregorio e i loro sodali non si sono ancora accorti che c’è un solo paese arabo immune ai venti di rivolta? Che questo paese è l’Iraq? E che questo è avvenuto solo perché vi è stata “esportata la democrazia” anche dai nostri militari, inviati dal governo Berlusconi? Ma a loro di tutto questo non importa nulla. Loro devono solo colpire Berlusconi, non proporre ricette per una saggia e preveggente politica estera. (Libero)

Signor giudice. Roberto Vecchioni

Testo della canzone "Signor giudice" di Roberto Vecchioni tratta dall'album del 1998 "Verrà la notte e avrà i tuoi occhi"

Signor giudice

Le stelle sono chiare

Per chi le può vedere

Magari stando al mare

Signor giudice

Chissà chissà che sole

Si copra per favore

Che le può fare male

Immaginiamo che avrà

Cose più grandi di noi

Forse una moglie

Troppo giovane

E ci scusiamo con lei

D'importunarla così

Ma ci capisca

In fondo siamo uomini così così

Abbiamo donne abbiamo amici così così

Leggiamo poco leggiamo libri così così

E nelle foto veniamo sempre così così



Signor giudice

Lei venga quando vuole

Più ci farà aspettare

Più sarà bello uscire

Signor giudice

Si compri il costumino si mangi l'arancino

col suo pomodorino

Noi siamo tanti siam qua, già la chiamiamo papà

Di quei papà

Che non si conoscono



Quel giorno quando verrà giudichi senza pietà

Ci vergognamo tanto d'essere uomini

così così



Sogniamo poco sogniamo sogni così così

Abbiamo nonne abbiamo mamme così così

E quasi sempre sposiamo mogli così così

Se ci riusciamo facciamo figli così così

Abbiamo tutti le stesse facce così così

Viaggiamo poco, vediamo posti così così

Ed ogni sera ci ritroviamo così così



Signor giudice noi siamo quel che siamo

Ma l'ala di un gabbiano può far volar lontano

Signor giudice qui il tempo scorre piano

Ma noi che l'adoriamo col tempo ci giochiamo

L'ombra sul muro non è una regola

Però ci fai l'amore per abitudine

Lei certamente farà quello che è giusto

Per noi che ci fidiamo e continuiamo

A vivere così così così



Sappiamo poco sappiamo cose così così

Ci accontentiamo perchè noi siamo così così

A casa nostra ci sono quadri così così

E se c'è sole è sempre sole così così

Sogniamo poco sogniamo sogni così così

E nelle foto veniamo sempre così così

Ed ogni sera ci ritroviamo così così

sabato 26 febbraio 2011

Chi corrompe, chi “denuncia”, chi chiacchiera. Massimo Frattin

Il fatto si descrive in poche righe: l’On. Gino Bucchino, eletto nella circoscrizione Nord e Centro America nelle liste del Pd, ha dichiarato in una conferenza stampa di essere stato avvicinato da un non meglio precisato giovane di Rifondazione socialista, a suo dire un intermediario di Denis Verdini, che gli avrebbe proposto di trasferirsi nel gruppo dei Responsabili, la neonata forza parlamentare creata ad hoc per riunire tutti i transfughi dell’emiciclo parlamentare che hanno abbandonato i partiti di appartenenza per appoggiare Berlusconi. Come “regalo” di benvenuto l’on. Bucchino sarebbe stato ricompensato con 150mila euro. Una cifra in linea coi costi di prestazioni arcoriane di natura non molto diversa.


Ben presto, però, la questione assume connotati da film di Totò o di Alberto Sordi. Tutti i personaggi coinvolti più o meno direttamente cadono dalle nuvole. Lo stesso Bucchino si limita a una denuncia per così dire edulcorata: niente nomi, connotazioni generiche, rifiuto della proposta con un sms... A questo si aggiungono le sardoniche battute di chi la sa lunga, come Pier Ferdinando Casini: «Perché vi stupite? Se volete vi porto altri 20 di questi esempi». E qui, più che della pièce teatrale d’autore, si avvertono sapori da commedia dell’arte con battute una più infelice dell’altra in bocca a persone che pretenderebbero di governare la Nazione.

Ma come: un esponente di spicco della politica italiana, rappresentante di centinaia di migliaia di elettori, ex presidente della Camera, è a conoscenza di 20 – venti – casi di corruzione o tentativi di corruzione di parlamentari? E non ha mai fatto i nomi? Delle due l’una: o le spara grosse per mettersi sotto i riflettori profittando dell’affaire Bucchino, o è connivente con un sistema marcio, avendo a questo punto le stesse responsabilità di chi è accusato di fare campagna acquisti fra gli scranni.

Al proposito, il coordinatore Pdl Denis Verdini, che ovviamente ha preso nettamente le distanze dalla vicenda, si dice all’oscuro di tutto. «Non so chi sia l'on. Bucchino. Non so quindi chi possa averlo contattato e avvicinato a mio nome. Quanto all'on. Casini, faccia i 20 nomi che dice. Sono qui che aspetto di leggerli». Di fronte a cotanta reazione, il segretario dell’Udc fa marcia indietro e liquida le proprie dichiarazioni come «una battuta fatta in Transatlantico». Poi indossa i panni dell’essere moralmente superiore e rammenta al coordinatore del Pdl che lui, Casini, ha «sempre usato le armi della politica e di un'etica pubblica che l'onorevole Verdini farebbe bene a rispettare». Difficile capire quali siano queste armi, detto da uno che si permette barzellette su questioni sulle quali sembra esserci poco da ridere.

Per conto suo Mario Pepe, il deputato del Pdl responsabile dei Responsabili, nega decisamente un proprio coinvolgimento e si esibisce in una gaffe degna di miglior palcoscenico: «Bucchino non è mai stato nell'elenco». Sottinteso: degli elementi delle opposizioni con cui avviare dei tentativi di contatto. «Non so nemmeno che faccia ha. E poi, perché proprio ora che la maggioranza si è già rafforzata? Che senso ha?» Bravo Pepe. Ha confermato implicitamente per assodato che esiste un elenco e che certi traffici, per rafforzare appunto la maggioranza, ci sono stati eccome.

Rasentano perfino la tenerezza le dichiarazioni provenienti da Rifondazione socialista. Il suo fondatore Filippo Fiandrotti non esita a definire Bucchino un pazzo, e a ribadire che Rifondazione socialista non c’entra nulla. Anzi, «a onor del vero non esiste neppure più. Probabilmente qualcuno usa il nostro nome per fare i comodi suoi». Quanto a capire allora chi sia questo qualcuno, sembra non esserci grande interesse. A forza di fare politica, evidentemente, si fa l’abitudine a tutto. (il ribelle.com)

venerdì 25 febbraio 2011

Caro Presidente, ha la mia solidarietà. The Frontpage

Egregio signor presidente del Consiglio,
a guardarla dal mio punto di vista la nostra distanza non potrebbe essere maggiore.

Le nostre vite, innanzi tutto. Lei è un anziano e ricchissimo signore, molto giovanile peraltro, che ha deciso di impegnarsi in politica dopo una lunga vita passata a fare l’imprenditore. Io sono un uomo di poco più di cinquant’anni, sbarco dignitosamente il lunario e scrivo storie che talvolta mi pubblicano.

Ma a distinguerci ulteriormente c’è l’appartenenza politica, l’insieme di valori che nonostante tutto, ancora mi consentono di definirmi di sinistra. Lei, invece, è il campione del moderatismo, del conservatorismo e, nei fatti, della sudditanza dello Stato alla Chiesa.

Ma non solo. Lei è un pragmatico che non ha esitato ad allacciare alleanze con una forza che basa il proprio successo elettorale sul razzismo che si annida in molti allo stesso modo in cui ha intessuto alleanze strategiche con coloro che, almeno all’epoca, erano dichiaratamente i nuovi aedi del vecchio fascismo. Infatti Le è del tutto sconosciuta l’esistenza di una qualsiasi pregiudiziale che Le impedisca di ampliare la Sua compagine.

Per me, invece, certi valori sono irrinunciabili e davvero pregiudiziali: l’antifascismo e l’accoglienza di tutti gli uomini indistintamente, per fare solo due esempi.

Eppure, come si fa con gli avversari più valorosi, mi sento di esprimerle la più sincera solidarietà per l’attacco più recente che Le stanno riservando.

Certo è una solidarietà interessata, in quanto sono convinto che una magistratura onnipotente e non-responsabile sia un pericolo per tutti e quindi, nel difendere Lei dal violento attacco a cui è sottoposto, difendo anche la presunzione di innocenza dell’ultimo dei rom, ed, eventualmente, anche la mia. Ma non è solo questo. La mia educazione e la mia cultura (poca o tanta esse siano) mi impongono, già a partire dal punto di vista etico, di distinguermi dal morbo giustizialista che alimenta la canea di tricoteuses per niente disinteressate che in questo momento cercano di assassinarla moralmente prima ancora che politicamente, cercando al contempo di negare la responsabilità – che pure può esistere – di spingere l’antagonismo nei suoi confronti fino a livelli che potrebbero essere incontrollabili.

Non le voglio nascondere che saluterei con entusiasmo il giorno che La vedesse battuto per mezzo di un programma politico chiaro e con un’identità forte e definita, che senza infingimenti e tatticismi dichiarasse i propri obbiettivi e non pretendesse di accontentare tutti. Peraltro, non mi risulta che Lei sia diventato presidente del Consiglio con un golpe, e quindi quel giorno anche la stima verso i miei conterranei aumenterebbe sensibilmente. Auspico una sua sconfitta politica, quindi, per mezzo degli strumenti democratici che la Costituzione ci ha riservato, ma per nessuna ragione al mondo sono disposto ad accettare il “regalo” della sua testa da una magistratura che da vent’anni sgomita per occupare un posto che non le è proprio, quello della politica.

E mi indigna ed imbarazza constatare come siano il vuoto di proposta politica e l’assenza di strategia le falle che si vogliono colmare mediante l’adesione acritica e immediata alle tesi colpevoliste della magistratura inquirente. Divise su tutto, le forze di opposizione trovano un elemento di convergenza solo nella lotta senza quartiere a Silvio Berlusconi: come strategia per cambiare l’Italia mi sembra davvero un po’ modesta. Lei, caro Presidente, in fondo non è così pericoloso da giustificare la nascita di un nuovo Cln che, se proprio dovesse formarsi, a mio parere dovrebbe nascere per contrastare quella parte di magistratura spesso chiassosa, esibizionista ed incurante delle libertà individuali e dei diritti civili.

Mi piacerebbe che in questo momento i politici che costituiscono il riferimento delle forze d’opposizione facessero come Bartali con Coppi (se la ricorda la storica foto?), e le passassero la borraccia con l’acqua per permetterLe di proseguire quella corsa in cui, non di meno, tutti noi dovremmo impegnarci al massimo per batterLa non accettando mai, nel contempo, che fosse altro se non il nostro fiato, la nostra resistenza e le nostre gambe a battere le sue.

E allora, anche guardandola dal mio punto di vista, vedo che sul muro che ci divide, edificato da idee salde e forse eretiche, passa un ponte che sovrasta tutto e in un qualche modo ci mette in collegamento. E’ un ponte che sembra addirittura illuminato se confrontato con le nuvole grigie che attraversa, nuvole indistinte gonfie d’ipocrisia e di conformismo, di moralismo. Questo ponte possiede un nome: si chiama civiltà. Speriamo siano sempre di più coloro che, notandolo, scelgano di percorrerlo.

Distinti saluti

Roberto Bianchi – Brescia

Scaglia libero, noi no. Davide Giacalone

Silvio Scaglia è libero, noi no. Parlo di lui e del suo caso solo perché ha oggi l’onore della cronaca, perché quando ci si occupa dei tanti casi di malagiustizia patita da poveri disgraziati nessuno sta neanche ad ascoltarti, salvo poi rimproverarti di prestare attenzione solo ai casi di pochi “eccellenti”. Scaglia, dunque, è il monumento vivente all’inesistenza di giustizia, all’arbitrio con cui può essere violata la libertà personale.

Seppe di un mandato di cattura e rientrò in Italia con un volo privato. Il che cancella l’ipotesi di pericolo di fuga. La reiterazione, che va prevenuta ove si tratti di reati violenti e pericolosi per terzi, ed era comunque impossibile. L’inqinamento delle prove una corbelleria, visto il tipo d’imputazione e la consistenza cartacea delle stesse. Allora, perché la sua libertà è stata cancellata, per un anno intero? La risposta è cruda: perché nel nostro sistema non esistono antidoti allo strapotere dell’accusa.

Ora è in corso il processo. Se Scaglia sarà assolto, o condannato a pene inferiori a quella che ha già scontato, nessuno potrà mai risarcirlo. Come nessuno potrà mai risarcire una collettività che, se fosse civile, si sentirebbe sfregiata da questo caso e da ogni altro analogo. Se Scaglia sarà condannato, con ogni probabilità, non tornerà in carcere, dato che la sentenza sarà appellata, gli anni passeranno, e il tempo trascorso agli arresti dovrà essere scomputato. Sicché sarà confermato l’adagio dell’inciviltà: si va in galera prima della condanna e si esce dopo.

Il dato ulteriormente grottesco è che i giornali parlano di questo caso mettendo in evidenza le dichiarazioni di Scaglia a favore dei detenuti, annunciando il suo impegno futuro. Perché in questo straziato paese nessuno crede al diritto, nessuno s’illude che possa esistere giustizia, ma si preferisce accomodarsi nella carità, nel buon sentimento, nel volemose bene. Che è, naturalmente, l’altra faccia della medaglia di una plebe pronta a linciare quello che i mezzi di comunicazione, alimentati dalle carte di procura, indicano come il cattivo di turno.

mercoledì 23 febbraio 2011

La sinistra ha molto trattato con Gheddafi (la differenza sta nei risultati). Carlo Panella

Il carattere quantomeno ufficioso dell’agenzia Ansa dirime ogni equivoco su chi, tra centrodestra e centrosinistra, abbia titoli per vantare la primogenitura dei rapporti d’amicizia e d’affari fra l’Italia e il rais libico, Muammar Gheddafi. Il titolo di un lancio del 2 dicembre 1999 è chiaro: “Italia-Libia: Gheddafi, rapporti migliori con Ulivo al governo”. Il concetto è ribadito in tutto il testo: “I rapporti tra Italia e Libia si sono ‘consolidati’ da quando l’Ulivo è al governo. Il leader libico si è detto ‘molto soddisfatto’ del suo colloquio di oggi con D’Alema e ha affermato che ora i rapporti tra i due paesi sono ‘amichevoli’. ‘Questi rapporti sono migliorati grazie all’Ulivo e alla direzione del nostro amico D’Alema. Lo stesso incontro è stato possibile perché l’Ulivo è andato al governo’, ha ripetuto”. L’entusiasmo e la gratitudine mostrati allora da Gheddafi sono comprensibili. Massimo D’Alema è stato il primo premier europeo a visitare la Libia da quando l’Onu, nel ’92, stabilì le sanzioni per l’attentato di Lockerbie, le stesse poi revocate nell’aprile ’99. Questo record – che in diplomazia pesa – non è casuale. E non è neppure merito di D’Alema. Si deve, invece, a Romano Prodi: il 21 ottobre del ’96, dopo un incontro con Hosni Mubarak, Prodi mostrò apprezzamento per le parole del presidente egiziano sui “cambiamenti della politica di Gheddafi”, e salutò quel processo come un “punto di riferimento importante per la politica estera”.

Il 9 luglio del 1998, in piena fase di sanzioni Onu, Lamberto Dini firmò un primo trattato con la Libia, che fu lungamente discusso con Gheddafi. Quel trattato, dissero allora all’Ulivo, si basava sulla constatazione che “direttamente o indirettamente, Tripoli da tempo non è più coinvolta in atti di terrorismo”. Era un’affermazione avventata – come dimostrerà il Sismi nel 2003 – che però fece da prologo al viaggio di D’Alema del ’99 e alle numerose telefonate fra Gheddafi e Prodi, salito nel frattempo alla guida della Commissione europea.

Dopo i loro scambi, i quotidiani europei cominciarano a parlare di un possibile invito a Bruxelles per il leader libico. Le critiche costrinsero Prodi a ritirare l’invito e costarono al politico italiano un velenoso ritratto del Times. “Prodi sprizza idee in tutte le direzioni – scrissero i britannici – Se non si è ancora dimostrato un leader energico e dotato di una visione, è perché il signor Prodi è ostacolato dalla sua imperfetta padronanza dell’inglese e del francese, da un servizio stampa erratico e dal suo stile schivo”. Naturalmente, Gheddafi si dichiarò “indignato per la decisione di non essere ricevuto”, e lo stesso Prodi comprese di dovere mettere a punto un nuovo dossier sulla Libia.
La prima fase dei rapporti del centrosinistra con Gheddafi finì lì, con molta fiducia mal riposta e un sostanziale nulla di fatto. Ma nell’autunno del 2003 accadde un evento che modificò completamente la posizione della Libia e le sue relazioni con l’Italia. Il Sismi di Nicolò Pollari, in un’azione congiunta con il Mukhabarat egiziano e con il supporto esterno della Cia, scoprì una nave carica di armi di distruzione di massa diretta in Libia. Il dossier era gestito dagli stessi agenti coinvolti nel caso Abu Omar, quelli che la procura di Milano ha mandato sotto processo e ha fatto condannare. La nave provava che la fiducia concessa a Gheddafi dai governi dell’Ulivo era cieca e immotivata. Silvio Berlusconi, in accordo con George W. Bush, lavorò a una complessa trattativa che obbligò Gheddafi ad abbandonare le armi di distruzione di massa. Per questo, il Cav. fu ringraziato pubblicamente da Bush.

All’annuncio del Colonnello seguì il primo viaggio di Berlusconi a Tripoli del 2 ottobre del 2004, quando furono poste le basi per il trattato definitivo di amicizia. Nel 2006, appena tornato al governo da ministro degli Esteri, Massimo D’Alema tentò di capitalizzare il lavoro svolto dal centrodestra. Ma fallì, come ben comprese il diplomatico italiano che, il 10 novembre del 2007, vide allibito il leader libico alzarsi e allontanarsi senza neanche salutare mentre ancora D’Alema parlava. Quello fu il loro ultimo incontro ufficiale. Si tratta di un episodio noto soltanto a pochi, che però spiega perché, nell’estate del 2009, D’Alema decise di fare un’inusuale anticamera davanti alla tenda di Gheddafi a villa Pamphili, dopo che questi aveva disdetto un incontro a Montecitorio. (il Foglio)

Quirinale contro Parlamento. Davide Giacalone

La lettera inviata dal Presidente della Repubblica, indirizzata ai presidenti delle Camere e a quello del Consiglio dei ministri, è totalmente e insanabilmente difforme da quanto stabilito dalla nostra Costituzione. Se solo disponessimo di un mondo politico non dimentico della cultura e non dedito solo alla faziosità, se solo avessimo cattedre ove siedono coscienze e non solo quiescenze, questo rilievo sarebbe oggi fatto da molte e diverse parti. Invece tutto tace, lasciando spazio al politicantismo e al conformismo tremolante.

Il Presidente della Repubblica non può mandare lettere, non può interferire con il processo legislativo, non può limitare la sovranità del Parlamento. La Costituzione descrive gli strumenti che può utilizzare, ma chiarisce anche quel che non può fare. Noi, da tempo, siamo abbondantemente fuori dal seminato costituzionale.

Il decreto legge, così detto “milleproroghe” (che già solo il nome fa orrore), fu controfirmato da Giorgio Napolitano, che ne constatò la necessità e l’urgenza. Dopo di che è passato alla competenza del Parlamento, che deve provvedere alla conversione. Il nostro processo legislativo prevede che i decreti legge, quindi norme già entrate in vigore, possano essere emendati, modificati, nel corso della conversione (si approntano poi gli strumenti per rimediare agli eventuali rapporti giuridici nati in vigenza del vecchio testo). A me non pare ragionevole, riterrei più lineare approvare o respingere quei decreti, senza poterli modificare, ma questa è un’opinione personale, restando immutata la regola. Che, oltre tutto, Napolitano conosce bene, per averla praticata da parlamentare e amministrata da presidente d’Aula. Sta di fatto che il Senato ha modificato il decreto e, con il solito cattivo andazzo, lo ha rimpinzato di norme neanche coerenti fra di loro. Il Presidente della Repubblica può, in questo caso, azionare due strumenti: a. non controfirmare; b. inviare un messaggio alle Camere, il che comporta un gesto formale e la controfirma del ministro guardasigilli. Mandare una lettera ai tre destinatari prima ricordati, curandosi di passarne immediatamente il contenuto alla stampa, non è solo irrituale, è direttamente e gravemente incostituzionale.

E, si badi bene, quello colpito non è il potere esecutivo (che s’è subito dichiarato concorde), ma quello legislativo. Quella menomata è la sovranità parlamentare. Ed è gravissimo.

Napolitano, nell’improvvida lettera, ha chiarito di non potere utilizzare il primo strumento, ovvero negare la controfirma, perché, in quel caso, il decreto sarebbe decaduto. Ma ha anche aggiunto che, da ora in poi, non si farà più di questi scrupoli. Il che rappresenta una ulteriore minaccia al Parlamento: o le modifiche ai decreti saranno concordate con il Quirinale, oppure le conversioni saranno inutili. Il governo, in un certo senso, si frega le mani, perché c’è un solo modo per assicurare al Presidente che i testi convertiti siano uguali a quelli proposti: presentarli chiusi e mettere subito la fiducia. Bel risultato, un capolavoro!

Nel merito, però, Napolitano ha ragione: il testo partorito dal Senato è un obbrobrio. Ma proprio per questo ci stava tutto un bel messaggio al Parlamento, concepito senza la stizza che trasuda da ogni parte della lettera e seguendo tutti i crismi costituzionali.

Desidero aggiungere una cosa, con presunzione e ponderazione: sono pronto a sostenere queste cose davanti a qualsiasi costituzionalista, o cattedratico vario, sicuro che nessuno potrà accampare alcuna valida tesi che porti a conclusioni diverse. Proprio per questo rivolgo ai lettori un invito, triste: guardatevi attorno, leggete, e scoprirete che queste cose, in modo così chiaro, nessuno ha il coraggio e la lucidità di dirle. E’ questo il lato davvero preoccupante, di questo lungo e straziante tramonto costituzionale.

martedì 22 febbraio 2011

«Su Libia e Maghreb solo tanta sciocchezza e demagogia». Andrea Camaiora

«Si sono accorti solo adesso dopo trent'anni che nell'area del Maghreb non c'era democrazia, mi fanno ridere questi benpensanti che gioiscono delle cosiddette rivoluzioni e delle cadute dei cosiddetti dittatori». Il Predellino prova a ragionare con Souad Sbai, osservatrice privilegiata del mondo musulmano, di cosa stia accadendo in Libia e di cosa sia accaduto prima in Tunisia e poi in Egitto.

Intervista di Andrea Camaiora a Souad Sbai

Onorevole Sbai, non le pare un po' superficiale questa stampa italiana ed europea che gioisce per la caduta dei dittatori senza domandarsi cosa avverrà dopo?

Certo! Tutti sottovalutano che questi Paesi hanno collaborato per anni con l'Occidente, assicurando sviluppo ai propri popoli pur con tutte le storture tipiche di regimi non democratici. Anche io dico "elezioni e poi riforme", come fanno i benpensanti, in particolare i benpensanti che siedono alla Casa Bianca, ma occorre badare dove conducano queste presunte rivoluzioni. Se vanno verso il modello Marocco, ad esempio va bene. A me però pare che vi sia un disegno esterno che punti a spalancare le porte ai movimenti estremistici che questi tanto deprecati regimi avevano arginato. Esiste poi l'annoso problema dei due pesi e delle due misure.

Scusi, in che senso?

Semplice. Il Pd scende in piazza per la libertà del popolo libico per puro spirito antiberlusconiano. Che tristezza vedere un grande partito ridotto a questo! Dov'erano i dirigenti del Partito democratico quando i giovani tunisini venivano massacrati? Quando in Egitto tornava al-Qaradawi a infiammare l'estremismo? Quando vengono torturati migliaia di eritrei nei campi profughi vicino al Sinai? Che amarezza vedere che nessuno di questi signori ha mosso un dito quando in Iran Ahmadinejad faceva arrestare, sotto minaccia di impiccagione, i due leader dell'opposizione e sopprimeva nel sangue le manifestazioni per la libertà.

Quando tutta la comunità iraniana in Italia chiedeva aiuto, anche solo con parole di sostegno. Io non li ho visti davanti all'ambasciata iraniana la scorsa settimana. Ora si svegliano per il popolo libico solo perché riconducono simbolicamente la figura di Gheddafi a quella di Berlusconi. Strumentale oltre che risibile come iniziativa, quella di oggi visto che i popoli hanno eguali diritti e non si può pensare che uno possa essere massacrato e l'altro no, senza dire una parola in proposito. Non ci possono essere secondi fini nell'appoggio a chi combatte per la libertà.

La piazza del Pd è lo specchio di un'opposizione incapace di vedere oltre il suo becero antiberlusconismo, destinata a mancare inevitabilmente ogni obiettivo. Come quello di capire che se la Libia cade in mani sbagliate per noi è la fine, con una marea umana che si riverserà sulle nostre coste. È una piazza ciecamente strumentale che blatera contro Berlusconi e Gheddafi, ma non si fa mai l'unica domanda giusta: cosa possiamo fare noi per aiutare il nord africa di oggi a non finire in mano ad un certo oscurantismo totalitarista ed estremista?

Che cosa possiamo fare?

Americani ed europei devono svegliarsi! Per assicurare nell'alveo dell'occidente Stati come l'Italia e la Grecia fu varato il piano Marshall. Invece la politica di Obama è stata dialogare con tutti, magari preferibilmente con gli estremisti anziché con i moderati, che andavano sostenuti efficacemente.

Secondo lei c'è un rischio concreto di una deriva islamista?

Sta scherzando? Certo che c'è! Le porte sono spalancate all'estremismo. D'altra parte nessuno si preoccupa del rientro di al-Qaradawi in Egitto, roba da matti! Si tratta di un nemico dell'umanità, altroché Ahmadinejad! Tutti sottovalutano il rischio rappresentato dai Fratelli Musulmani, sostenendo l'idea che siano altra cosa rispetto ad Al-Qaeda. Vedremo! Per adesso l'unica autentica rivoluzione sociale e culturale cui abbiamo assistito è quella del popolo tunisino.

Dunque lei contesta l'immagine della caduta del Muro di Berlino per questi Paesi?

La contesto totalmente. Non c'entra nulla, è un'immagine buona per i salotti radical chic italiani e francesi, che preferiscono parlare di Ruby. Che tristezza vedere la tv di Stato ignorare ciò che accade in Egitto, Tunisia, Iran, Algeria, Libia. Che ci stanno a fare Anno Zero e Ballarò? Dell'argomento si occupa solo il solito Lerner, ma per far cosa? Propaganda! Si accosta l'immagine di Berlusconi a quella dei dittatori, bell'esempio di giornalismo!

E invece cosa bisognerebbe dire?

Bisognerebbe capire le ragioni delle proteste e degli scontri. Bisognerebbe guardare alla realtà e dire che il regime libico, con tutti i suoi limiti, ha ad esempio relativamente tutelato la libertà religiosa che non vige certo in Iran e Algeria. Bisognerebbe spiegare ai benpensanti che non è così semplice il dopo Mubarak e il dopo Gheddafi. In Libia, ad esempio, la struttura gerarchica è stata sempre tribale, non esistono associazioni. Una cosa è il quadro tunisino, dove esiste una classe dirigente e anche una opposizione, un'altra è la Libia.

D'altra parte di che ci stupiamo: se un personaggio come Sergio Romano, che dovrebbe conoscere la politica estera, scrive su il Corriere che non c'è rischio di derive estremiste che vuole che le dica? Non è un pericolo un predicatore dell'odio come al Qadarawi?? (il Predellino)

lunedì 21 febbraio 2011

Giudichesse. Davide Giacalone

La trave (rosa) è conficcata nel globo oculare italico, ma tutti guardano la pagliuzza, oramai persi nell’allusione da caserma o nell’ipocrisia da santuario. Che siano tutte donne, i cinque magistrati da cui dipende l’ennesima azione penale contro Silvio Berlusconi, è significativo, ma non scandaloso. E’ scandaloso, invece, che siano cinque colleghe. Non farci caso significa essersi rassegnati a rimanere un Paese incivile. La colpa di questo scandalo ricade, certamente, sulla corporazione dei magistrati, avversaria d’ogni riforma seria, capace di farci somigliare ai sistemi giudiziari che funzionano, ma la responsabilità ricade per intero sulle spalle del legislatore, che da lustri cincischia, parla, non conclude e se la fa sotto. Anzi, da ultimo, per mostrarsi equanime, s’è messo a sbracare anche verso la corporazione (nemica del mercato) degli avvocati.

Famiglia (allargata) Cristiana vede nelle toghe al femminile una “nemesi”. Pensiero sottile e allusione raffinata: dato che ti accusano di puttaneggiare, beccati la vindice severità delle donne. Ora, per la verità, sarebbero donne anche le mondane, molte delle quali dotate di sincera vocazione. Ma questo è un dettaglio. Il fatto è che incaricare un collegio giudicante della “nemesi” equivale a insultarlo, disprezzandone la serenità, svillaneggiandone la preparazione giuridica ed esaltandone il ruolo storico e sociale. A questi forsennati del giustizialismo (a senso unico) è forse inutile far notare che dove la giuria è popolare, come negli Stati Uniti, dove, quindi, esprime il sentire comune, la difesa ha il diritto di scartare dei giurati, considerandone la possibile prevenzione contro l’imputato. Da noi, invece, il giudice dovrebbe dar voce alle leggi, sicché si può ricusarlo solo in determinate condizioni d’incompatibilità. Il fritto misto dei due sistemi è indigeribile, oltre che incivile.

Detto ciò, sarebbe sciocco non volere notare quel che occhi non prosciuttati vedono con chiarezza: la giustizia si sta femminilizzando. Nella quarta sezione penale del tribunale di Milano c’è un solo magistrato maschio, ed è donna anche la responsabile della cancelleria. Possiamo, se volete, raccontarci la favoletta che così s’è agguantata la vera parità fra i sessi, ma se non vi sentite pronti per il festival della falsità sarà meglio dirsela tutta: la magistratura si tinge di rosa per la stessa ragione per cui si riempì di meridionali, perché è una carriera burocratica e garantita, non esposta alla competizione qualitativa e una buona alternativa all’assenza di mercato professionale. Non è affatto un caso che le tre giudici siano coetanee, siano entrate in magistratura lo stesso anno e contemporaneamente siano arrivate all’attuale incarico, al punto che il compito di presiedere deve essere assegnato per anzianità di nascita, calcolata in settimane. Tanta uniformità non è il baluardo dell’indipendenza, ma la fortezza della mediocrità. A questa si aggiunge il più macroscopico sfregio: la colleganza fra accusatori, giudici dell’indagine, giudici di merito, giudici del ricorso e giudici della procedura.

Ma, lo ripeto, il compito di porre rimedio è del legislatore, perché l’autoriforma è una via di mezzo fra la presa in giro e il trionfo corporativo. Se i parlamentari continueranno a piegarsi ai ricatti, supponendo di salvare così la pelle di qualcuno e offrendo in cambio la collettiva dannazione di un Paese senza giustizia, non avranno che i frutti di sempre: la peggiore giustizia del mondo e anche una collezione di condanne penali. Giuste o ingiuste, a quel punto, sarà irrilevante.

domenica 20 febbraio 2011

Karima denunci i pm: l'hanno diffamata. Vittorio Sgarbi

In difesa della donna. Non avrei mai pensato, avendo la madre, la sorella, la donna che ho e, non diversamente da loro, tutte le donne della mia famiglia, le nonne, le zie, e poi le insegnanti (al liceo, le mitiche Basteri e Bertozzi) di dovere un giorno parlare in difesa della donna. Mai l’ho vista così umiliata. Venerdì scorso, all’ambasciata d’Italia presso la Santa sede ho incontrato una donna intelligente, Emma Fattorini che, dichiarandosi contro il dilagante moralismo, è riuscita a scandalizzarsi della presenza di Sara Tommasi a Sofia, considerarla una depensante, liquidandola come una prostituta e, conseguentemente, giudicando me puttaniere.

Mi dispiace non esserlo ma difendo la categoria. I miei incontri con puttane professioniste sono stati pochi ed esemplari. Ho imparato molto da loro, mai cliente. Per tutte ricordo Luisa, puttana 75enne in via Veneto. Arrivava con la sua Mini Minor e recensiva le mie presenze in tv meglio di qualunque critico televisivo. Ho reagito all’insulto della Fattorini che ha dovuto ammettere di avere esagerato. Ma oggi vedo che il moralismo inquina anche le conversazioni più intelligenti, per un ingombro di moralismo che sembra discendere dalle vicende giudiziarie del premier. Ma questo atteggiamento non viene dalla realtà dei rapporti e neppure dalla oscena esibizione di pornografie vere e presunte sui giornali.
Proprio venerdì sul Corriere ho letto l’incredibile articolo dal titolo «Auto in regalo ad alcune ragazze. Le verifiche della procura». Vi si legge di «accertamenti sulle autovetture di proprietà di sei ragazze» e sui «pagamenti in favore di concessionarie operate da un conto corrente intestato a Giuseppe Spinelli». E perché queste verifiche? Perché ai Pm preme piuttosto riscontrare che questi doni, come un’analoga vettura promessa a Ruby, fossero offerti a donne che l’indagine documenta presenti alle notti di Arcore e sostiene si siano prostituite con il premier. Prostituite? Dovrò ricordare allora che molti anni fa da una donna che amavo e che mi amava ricevetti in dono una Jaguar senza affatto prostituirmi, e che trovo insultante scambiare un dono per la prova della prostituzione. D’altra parte questa è la «notizia criminis», e da qui parte tutto.

Ho dato così mandato al mio avvocato di verificare la possibilità di un esposto contro la Procura di Milano per abuso d’ufficio, proprio in relazione all’applicazione della polizia giudiziaria per accertamenti la cui finalità è tendenziosa e diffamatoria. Chi ha avuto in dono l’automobile è, per la Procura di Milano, una puttana. Parimenti ho chiesto di verificare la legittimità di un esposto sulle false dichiarazioni del procuratore Bruti Liberati relative alla regolarità degli atti della questura di Milano per affidare Ruby a Nicole Minetti. Se tutto fu regolare perché si è aperta un’inchiesta? E chi è, e quale vantaggio ha avuto, il concusso? Ancora ho chiesto al mio avvocato Gianpaolo Cicconi di mettersi a disposizione di Ruby per promuovere un’azione penale per diffamazione contro Ilda Boccassini e i suoi colleghi. Leggo infatti che la ragazza ha intenzione di chiedere un risarcimento per essere stata «trattata come una prostituta da tutti i media italiani e stranieri». Evidentemente, è suo buon diritto non considerarsi una puttana. Non vedo chi dovrebbe stabilirlo. La donna interessata, come abbiamo spiegato molte volte, non è una puttana. Ma sarebbe sbagliato chiedere i danni ai giornali. Coloro che, aprioristicamente e con infondata presunzione, hanno considerato Ruby una puttana, sottoponendola a 17 interrogatori con una evidentemente straordinaria pressione psicologica per una minorenne, sono i magistrati di Milano che hanno espresso in nome di un inqualificabile moralismo disprezzo per la donna e insensibilità per una ragazza considerata immatura e psicologicamente fragile. Da loro viene l’impulso. Da loro la «notizia criminis».

Che, in quanto notizia, fa notizia. Il processo è stato acceso a tutela della parte lesa, che è Ruby. Ma essa è uscita illesa dalle mani di Berlusconi e con lui non si è sentita considerata prostituta. È invece lesa dalla Boccassini, e dalla inchiesta ha ottenuto un grandissimo discredito e una diffamazione dalla quale si sente offesa. In tal senso è parte lesa e deve chiedere di rivalersi sui magistrati che hanno voluto trattarla come una prostituta. Da cos’altro «lesa» se non da questo? Anche a me accadde quando fui considerato mafioso in un’inchiesta aperta da quattro magistrati a Catanzaro e archiviata 8 mesi dopo per intervento di Pierluigi Vigna. Pretendevano di diffamarmi. Furono travolti. Così oggi vedo con certezza parte lesa dalla procura di Milano Ruby che ha tutto il diritto di frequentare un uomo per diverso interesse senza essere considerata puttana, chi dovrà e potrà stabilirlo? Rispetto a un uomo potente attenti a non confondere le puttane con le cortigiane. Nella politica è pratica comune. Puttane tutti i parlamentari?

Ma se i gesti hanno un significato, suggerirei a Berlusconi di regalare un’automobile, magari una Mini, a Ilda Boccassini. L’irreprensibile magistrata potrebbe rifiutarla, ma dovremmo escludere che il gesto generoso nasconda l’intenzione di pagarla per le sue prestazioni. Allo stato attuale sappiamo soltanto che i due si conoscono. Se sono rose fioriranno. (il Giornale)

venerdì 18 febbraio 2011

Il Grande Questurino. Davide Giacalone

Si dovrebbe organizzare, per tutti gli italiani, un corso collettivo di diritto e procedura penale, in modo da potere meglio apprezzare i colpi di scena e le sfumature del reality in voga da anni, un format da far impallidire il Truman Show, un’idea che umilia il Grande Fratello, sia nella versione televisiva che in quella culturalmente più quotata e orwelliana: il “Grande Questurino”. I processi, oramai, si fanno in presa diretta, con il pubblico che conosce le carte dell’accusa quando ancora nemmeno è stata formulata, con i bar intasati dalle quattrocento pagine trasmesse dalla procura per richiedere una inutilissima perquisizione (tant’è che poi chiedono il giudizio immediato senza neanche averla fatta), con le agenzie che diffondono il decreto del gip. E non è giusto che tutto questo accada senza che il pubblico sia messo nelle condizioni di gustare, fino in fondo, i distinti sapori che compongono la pietanza (avvelenata). Quindi, sulle orme del mitico Alberto Manzi, si parta con le lezioni appropriate: “Non è mai troppo presto”.

Sarebbe, almeno, più divertente. Per esempio: quando il Corriere della Sera pubblica integralmente il citato decreto (leggibile solo da esperti), annunciandolo come “le prove”, il pubblico potrebbe contestare il fatto che se le prove preesistono al processo quest’ultimo si prospetta come un’inutile perdita di tempo. Sarebbe come se si commentasse un romanzo di Agata Christie titolando: “ecco l’assassino”, non appena entra il maggiordomo. Saremmo tutti sicuri che si tratta di un pessimo libro, o, più probabilmente, di un pessimo titolo. Inoltre, ove la conoscenza delle cose giuridiche e dei numeri relativi alla giustizia fosse un po’ più diffusa, sarebbe interessante spiegare perché non si fanno né indagini né processi laddove esistono denunce specifiche e vittime che si ritengono tali, mentre si va come dei fulmini in una intrigante vicenda che ha una singolare caratteristica: le vittime non si ritengono tali e nessuno ha presentato denuncia.

Oramai non dico più neanche che i processi non si devono fare in piazza, prendo atto che si fanno solo lì. Solo che, anche in questo caso, un minimo di forma non guasta, altrimenti va a finire come le partite a calcio che facevamo fuori da scuola, senza le porte e con i libri a far da pali: si contestava l’esistenza stessa del gol. Sicché, cerchiamo d’essere sinceri con noi stessi: l’idea che un presidente del Consiglio possa essere fatto fuori mediante una formale interdizione dai pubblici uffici è delirio allo stato puro. Dovrebbero opporsi le opposizioni, perché è come dire che solo legando i piedi all’avversario riescono ad arrivare primi. Non si tratta di affermare la prevalenza della legge, o di far venire prima il valore del consenso popolare (che già discuterne è dimostrazione d’inciviltà), ma di non rottamare definitivamente il buon senso. Al tempo stesso, non prendiamoci in giro: quel tipo d’accuse hanno una valore più morale che penale e, quindi, la sentenza popolare non solo precede quella penale, ma è già stata emessa. Chi guida il governo non ci fa una bella figura e l’idea di telefonare in questura è una via di mezzo fra un gesto sconsiderato e una zingarata monicelliana, modello “supercazzola prematurata, come se fosse antani”. Osservo che il chirurgo, in quel caso, restava un virtuoso del bisturi, ma è ragionevole che i pazienti, nel nostro caso gli elettori, abbiano tutto il diritto d’esprimere la propria opinione e decidere se far continuare, o meno, l’andazzo.

Solo che, appunto, l’esito del giudizio penale punta ad espropriarli di quel diritto, consegnando l’affilato strumento nelle mani di gente che si dice essere tanto per benino, ma che: primo, è chi l’ha detto? e, secondo, hanno mani tremolanti. Io, ad esempio, scapperei in pigiama.

Vogliamo continuare con “Il grande questurino”? ci siamo stufati di considerarci civili, ci piacciano i feuilleton giudiziari, abbiamo preso le case degli italiani per delle cancellerie di tribunale? E va bene, tanto questa roba mi fa orrore da lustri, ma nessuno pone rimedio. Solo che, allora, organizziamo il televoto. Non, si badi, in sostituzione delle elezioni (quelle restano, come rito inutile, tanto chi è scelto per governare viene poi impallinato dalle procure, come capitò anche al governo Prodi, ricordate?), ma quale strumento per far valere l’opinione della giuria popolare. Fra i votanti se ne estrae a sorte uno, che va a presiedere il tribunale, nel processo successivo.

Sì, lo so che avete capito: sto scherzando. Il guaio è che, invece, c’è chi lo fa sul serio.

martedì 15 febbraio 2011

Ma l'Italia è davvero berlusconiana? Luca Ricolfi

Da quando nella politica italiana è entrato Silvio Berlusconi, ossia dal 1994, la cultura di sinistra ha sviluppato un suo peculiare racconto dell'Italia. Secondo questo racconto chi vota a sinistra sarebbe «la parte migliore del Paese», mentre la parte che sceglie il centrodestra sarebbe la parte peggiore, evidentemente maggioritaria.

La teoria delle due Italie scattò subito, nel 1994, allorché la «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto fu inaspettatamente sconfitta dal neonato partito di Silvio Berlusconi.

E da allora mise radici, costruendo pezzo dopo pezzo una narrazione della storia nazionale al centro della quale vi è l'idea di una vera e propria mutazione antropologica degli italiani, traviati fin dagli anni 80 dal consumismo e dalla tv commerciale. Una narrazione che, nel 2001, si arricchirà di un nuovo importante tassello, con la teoria di Umberto Eco secondo cui gli elettori di centrodestra rientrerebbero in due categorie: l'Elettorato Motivato, che vota in base ai propri interessi egoistici e a propri pregiudizi contro stranieri e meridionali, e l'Elettorato Affascinato, «che ha fondato il proprio sistema di valori sull'educazione strisciante impartita da decenni dalle televisioni, e non solo da quelle di Berlusconi». Due elettorati cui non avrebbe neppure senso parlare, visto che non si informano leggendo i giornali seri e «salendo in treno comperano indifferentemente una rivista di destra o di sinistra purché ci sia un sedere in copertina».

Vista da questa prospettiva, la vittoria del 1994, come tutte quelle successive, non sarebbe un incidente di percorso, ma l'amaro sbocco di processi di degenerazione del tessuto civile dell'Italia iniziati molti anni prima. Uno schema, quello dell'Italia traviata dal consumismo e dai media, apparentemente nuovo ma in realtà già allora vecchio di trent'anni. Era stato infatti Pasolini, molti anni fa, a denunciare - ma senza disprezzo, e con ben altra umanità - la «scomparsa delle lucciole», immagine con cui soleva descrivere la dissoluzione dell'umile Italia fin dai primi anni 60, con l'estinzione delle culture popolari sotto l'incalzare del benessere e delle migrazioni interne.

Insomma, voglio dire che è mezzo secolo che «alla sinistra non piacciono gli italiani», per riprendere il titolo del saggio con cui, fin dal 1994, lo storico Giovanni Belardelli (sulla rivista «il Mulino») fissò la sindrome della cultura di sinistra, incapace di darsi una ragione politica dei propri insuccessi, e perciò incline a dipingere l'Italia come un Paese abitato da una maggioranza di opportunisti, di malfattori, o di ignavi. E tuttavia ora, forse per la prima volta, qualcosa si sta muovendo. Qualcosa, molto lentamente, sta cambiando. Non già nei piani alti della politica, nelle segreterie dei partiti, nei palazzi del potere, bensì fra la gente comune, e fra le energie più giovani del Paese. Roberto Saviano, ad esempio, l'altro giorno al Palasharp, alla manifestazione per chiedere le dimissioni del premier, ha sentito il bisogno di dire: «Smettiamo di sentirci una minoranza in un Paese criminale, siamo un Paese per bene con una minoranza criminale». Se Saviano ha sentito il bisogno di esortare il popolo di sinistra a «smettere di credere» di essere una minoranza, vuol dire che quella credenza ancora c'è, sopravvive, nelle menti e nei cuori: una sorta di «pochi ma buoni», una rabbiosa riedizione del «molti nemici, molto onore» di mussoliniana memoria.

La sindrome della «minoranza virtuosa» è tuttora molto radicata nella cultura politica della sinistra. Ma anche qui, persino fra i politici di professione, qualcosa si sta muovendo. L'alibi dell'indegnità degli italiani comincia a scricchiolare. Matteo Renzi, sindaco di Firenze, rimproverato da un po' tutti i suoi compagni di partito (compreso il giovane «rottamatore» Pippo Civati) per essersi contaminato incontrando Berlusconi ad Arcore, ha risposto ai suoi critici più o meno così: se vogliamo vincere non possiamo partire dall'assunto che l'altra metà degli italiani, quella che non ci vota, sia costituita da cittadini irrecuperabili, dobbiamo rispettarli e conquistarli.

Saviano e Renzi hanno ragione. Così come hanno ragione quanti, in piazza o non in piazza, non si stancano di ripetere che l'Italia non è quella che emerge dai festini di Arcore e dalle intercettazioni, o quella che la cultura di sinistra si figura ogni volta che l'esito del voto punisce i progressisti. L'Italia non è berlusconiana quanto si pensa sul piano del costume (un recente sondaggio di Mannheimer certifica che il sogno di una carriera nel mondo dello spettacolo attira effettivamente solo 1 ragazza su 100). Ma non lo è neppure sul piano del consenso elettorale. Contrariamente a quanto molti credono, il berlusconismo - inteso come fiducia incondizionata nei confronti di Berlusconi - è sempre stato un fenomeno marginale. Fatto 100 il corpo elettorale, il voto al partito di Berlusconi non è mai andato oltre il 20%, e il sostegno esplicito al leader, espresso in un voto di preferenza (come alle ultime Europee), si aggira intorno al 6%. Per non parlare del trend più recente, che mostra un Pdl che attira circa il 18% del corpo elettorale, e un premier che ottiene la sufficienza da meno di un cittadino su tre.

Se questa è la realtà, occorre che la sinistra faccia un serio esame di coscienza. Che provi a inventare un altro racconto degli ultimi trent'anni. Un racconto senza alibi e autoindulgenze, un po' più rispettoso degli italiani e un po' più abrasivo su sé stessa. Perché se l'Italia non è, né è mai stata, il Paese moralmente degradato tante volte descritto in questi anni. Se il consenso al leader Berlusconi non è mai stato plebiscitario. Se i suoi fan non sono mai stati tantissimi. Se oggi 2 italiani su 3 non danno la sufficienza a Berlusconi, e appena 1 su 20 lo promuove a pieni voti. Se, a dispetto di tutto ciò, i sondaggi rivelano che il giudizio dei cittadini sull'opposizione è ancora più negativo - molto più negativo - di quello sul governo. Beh, se tutto questo è vero, allora vuol dire che i problemi politici dell'Italia non stanno solo nei comportamenti del premier e nelle insufficienze del suo governo, ma anche nella difficoltà dell'opposizione di trovare, finalmente, un'idea, un programma e un volto che convincano quella metà dell'Italia che non è berlusconiana ma, per ora, non se la sente di votare a sinistra. (la Stampa)

Quella "Italia migliore" con la bava alla bocca. Marcello Veneziani

Questa piccola storia è l’esempio per­fetto in miniatura di quel che sta suc­cedendo in Italia. Lucera, Teatro Gari­baldi, domenica scorsa. Ho una lectio sull’unità d’Italia, il teatro è pieno ma non si può cominciare perché suona l’al­larme antincendio e ogni volta che lo spengono riprende. Tardiamo, rischio di non parlare, invertiamo il program­ma, prima il concerto. Finalmente l’al­larme cessa. Parlo. Alla fine, gli organiz­zatori mi dicono che hanno beccato un uomo e una donna che azionavano l’al­larme per impedirmi di parlare, perché, a loro dire, «non sono gradito a Lucera».

Chi lo stabilisce il gradimento? Non il pubblico che è numeroso e caloroso nei miei confronti, né il Comune, la polizia, il tribunale. Lo decidono due cretini di sinistra che si arrogano di parlare nel no­me della verità e della città e di decreta­re chi ha diritto e chi no di parlare. In precedenza qui sono venuti scrittori di sinistra come Odifreddi e Boldrini ma nessun cretino di destra è andato a boi­cottare l’incontro. Si vede che il cretino di destra è garbato, e se uno non gli pia­ce, non va a teatro. I due cretini di sini­stra se ne fregano dei diritti della mag­gioranza del pubblico, se ne fregano che la sinistra ha potuto parlare in liber­tà, se ne fregano di quel che dirò, magari criticandomi dopo avermi ascoltato. No, vogliono impedirti di parlare, rifiu­tano a priori che tu esista, e non poten­do eliminarti, ti negano la parola.

Come fanno i giornali di sinistra che fingono che tu, di destra, non esista. Quei due cretini non sono isolati. Ricevo ogni gior­no insulti da cretini di sinistra, per posta elettronica, sui blog, sul sito del Giorna­le , perché non la penso come loro e dun­que sono un venduto; disprezzano pure i miei libri senza averli mai letti. Mi odia­no perché sono di destra e non della de­stra al loro servizio, ma considero prefe­r­ibile questa specie di centrodestra ai lo­ro compagnucci. Ecco, quei due cretini sono un campione perfetto di molta sini­stra di piazza, di stampa, di toga, di nien­te. Con la bava alla bocca e al cervello. Fate un monumento allo Stupido Igno­to, di sinistra; simbolo dell’Italia che Eco giudica migliore. (il Giornale)

lunedì 14 febbraio 2011

Chi ha paura di Cicciolina e della Minetti? Annarita Digiorgio

Di fronte a una macchina raccogliclic, priva di ragionamenti politici, che colleziona immagini di donne che dicono basta, su un sito, repubblica.it con la homepage regolarmente intasata da boxini di donne seminude, e che per le sue markette da decenni cerca di farci credere di voler combattere Berlusconi e la sua visione del mondo, balcanizzando adesso persino lo scontro uomo donna e, come Concita De Gregorio, volendo difendere il corpo della donna dopo aver sponsorizzato il proprio giornale infilandolo nella tasca di una minigonna, io dico Asta.
Asta che vuol dire pene. Pene, culo, vagina: carne, parti del corpo come le altre. Come le braccia per fare il pane, gli occhi per cucire i vestiti, il cervello per studiare. O questi valgono meno di culo e vagina? Perché la dignità è a rischio per cinquemila euro in una notte e non per gli 800 in un mese a Mirafiori con pausa di dieci minuti? Come se la stessa retribuzione per una serata ad Arcore fosse sfruttamento e per un anno all’Esselunga no.
Repubblica.it per informare dell’alto numero di badanti italiane titolava “è tornato il lavoro da donna”. Cosa stabilisce cosa sia un lavoro da donna rispetto ad un altro? Natalia Aspesi pur avendo firmato l’appello ha scritto su Micromega: “Credo che essere un puttanone debba dare tante soddisfazioni… Non lo so, io non lo sono stata purtroppo.
Per essere un puttanone prima di tutto bisogna essere bellissime, io ero bruttarella”. Allora sapete che c’è? Penso che ci voglia del talento, delle capacità, un po’ di merito anche per farsela pagare. Libero mercato: a una domanda, corrisponde un’offerta. Non è un reato fare sesso.
Persone consenzienti possono farne come, quando e quanto vogliono, con soldi o senza. Non ledono la libertà di nessuno, e non violano nessuna legge. E questa è l’unica asta che divide ciò che è morale da ciò che non lo è. E anche il limite della maggiore età è necessario, ma convenzionale, ché non è che a 18 anni e un mese si sa come guidare una macchina e a 17 e mezzo no.
In uno stato liberale non esistono reati senza vittima, neanche di sesso, e quindi il sesso non ha niente a che fare con dignità e morale, tranne nei Paesi in cui la legge è dettata dalla religione, in cui si sorveglia sulla castità delle donne o se ne mutilano i genitali. Ma questo, appunto, è da Stato etico.
Io non contesto chi manifesta, non ho una morale da imporre agli altri. Ma non condivido il loro appello a dire basta ai comportamenti che “stanno inquinando la convivenza sociale e l’immagine in cui dovrebbe rispecchiarsi la coscienza civile, etica e religiosa della nazione”.
Io non difendo la coscienza religiosa della nazione, lotto per uno Stato laico. E in uno Stato laico non si dovrebbero attribuire ai politici funzioni pedagogiche e moralizzatrici. Quanto a me non ho bisogno di mettere sul mio profilo Facebook la foto di Maria Goretti come avrebbe voluto Berlinguer, e neanche di Brigitta Bulgari.
Aveva ragione Ferrarotti: “Bisogna trovare un lessico e non lasciarlo espropriare con la Madonna da un lato e Cicciolina dall’altro”. La mia dignità per fortuna non è intaccata nè da Arcore, nè da chi va in piazza per difendere l’etica della nazione.
E’ solo che entrambe le cose mi sembrano un po’ misere. Come quelli che vanno al Palasharp a dire che loro leggono Kant. Ottima lettura, e poi? Neanche mi convince la spiegazione della Perina: che il problema è solo che con questi mezzi le ragazze arrivano poi in Parlamento. Ma perché qualcuno per caso si è mai chiesto come ci è arrivato Gasparri o Calearo? Iva Zanicchi chiedeva ieri sera a Gad Lerner di non invitarla più in trasmissione perché lei non è una politica seria, è una cantante; ma lui regalandole rose rosse: “Continuerò a farlo, sei una gran signora”.
Che differenza ci passa (fino a processo concluso) tra la Zanicchi e la Minetti? L’avvertita Alda D’Eusanio scrisse nel 1978 un intelligente istant book, Chi ha paura di Cicciolina? Chi ha paura della Minetti? Se non ora quando? (l'Opinione)

Far causa allo Stato. Davide Giacalone

“Farò causa allo Stato”, ha detto il presidente del Consiglio. Ma si è mai visto un capo del governo che far causa allo Stato? Sì, si è visto: Massimo D’Alema. Ne aveva il diritto e aveva anche ragione, perché ottenne un risarcimento pari a novemila euro (si trattava del procedimento relativo a presunte tangenti delle coop rosse, durato troppo a lungo e, quindi, lesivo per gli indagati). Quei soldi non li pagarono i magistrati responsabili della perdita di tempo, li pagammo noi contribuenti. E non finisce qui, perché la legge che regola tale faccenda, detta Pinto, dal nome del proponente (già ministro di Romano Prodi), fu approvata all’inizio del 2001. Vale a dire che la gestazione coincise con il periodo in cui D’Alema governava e si concluse nel mentre a palazzo Chigi si trovava Giuliano Amato. La maggioranza che la volle era di sinistra. Fosse capitato ad altri, utilizzando il latinorum dei beoti, la si sarebbe definita “ad personam”.

Le persone, invece, non c’entrano un bel niente, perché quella pessima legge, come subito la definimmo,
serviva ad evitare d’essere buttati fuori dal Consiglio d’Europa, visto che eravamo già stati messi in mora essendo il Paese più condannato per violazione dei diritti umani. Il diritto in questione era quello ad avere un processo equo e in tempi ragionevoli. Anziché rimediare al problema, consistente in processi iniqui e di durata irragionevole, quel Parlamento in procinto d’andare a casa decise d’impedire agli italiani di rivolgersi a Strasburgo, inventando un ulteriore grado di giudizio interno. Risultato, da noi previsto: le Corti d’appello sono state ingolfate da ricorsi interni; non si rispettano neanche i tempi di questo giudizio; lo Stato è in vergognoso ritardo con i pagamenti e si può fare ricorso alla Pinto contro i tempi lunghi della Pinto. Un obbrobrio.

Cui se ne aggiunge un altro. Chi si scandalizza perché Silvio Berlusconi intende “far causa allo Stato” ha dimenticato il precedente di D’Alema, ma tutti e due messi assieme hanno dimenticato il dovere dei legislatori e dei governanti: offrire ai cittadini una giustizia funzionante. Così come hanno dimenticato che ai ritardi inammissibili e ingiustificabili non si porrà mai rimedio se non chiamando i responsabili a pagare, mentre, al contrario, si lascia che a farlo per loro siano i contribuenti. La qual cosa, oltre tutto, tradisce la volontà popolare, espressa nel 1987, in occasione di un meritorio referendum promosso dai radicali: l’80% degli italiani votarono a favore della responsabilità civile dei magistrati, ma il Parlamento provvide a spostarla dalle loro spalle a quelle dell’erario. In via teorica lo Stato potrebbe poi rivalersi su chi ha creato il danno (che è violazione di un diritto fondamentale), ma non procede, per due ragioni: a. perché i magistrati sostengono che non si è mai in grado d’individuarlo con certezza; e b. perché a far valere il danno erariale dovrebbe essere la Corte dei conti, ovvero un organismo a sua volta condannabile per la medesima violazione. La corporazione delle toghe, pertanto, con la complicità di una politica eternamente sotto pressione e ricatto, ha fatto marameo alla volontà popolare.

Qui è lo scandalo, non nel fatto che governanti, ex governanti e sempre legislatori facciano “causa allo Stato”. Ed è uno scandalo dal quale non si uscirà mai se non ridando un pizzico di dignità alla politica e reintroducendo quell’immunità parlamentare che aiuti i tremebondi eletti a non considerarsi dei camerieri della corporazione. Ci vuole un mese, tutto compreso, per porre rimedio. Un mese per cancellare ventiquattro anni di tradimento della volontà popolare. Un mese che scorrerà invano, umiliando la politica a farsi rimorchiare dalle carte di procura.

giovedì 10 febbraio 2011

"I veri anti democratici? I nemici di Berlusconi". Maurizio Caverzan

Piero Ostellino denuncia un clima simile a quello che c'era all'inizio degli anni Venti: "Pur di cacciarlo violano la Carta".

«Non sono un berlusconiano, non l’ho mai votato e non lo voterò. Sono trent’anni che non voto, lo può anche scrivere. Io sono solo un vecchio liberale che non si identifica. E tanto meno vuole essere coinvolto nel canaio di questi ultimi mesi». Piero Ostellino è stato tra i primi a aderire alla manifestazione pro-Berlusconi di sabato prossimo al Teatro Dal Verme di Milano lanciata sul Foglio da Giuliano Ferrara per anticipare quella promossa per domenica dalle donne al grido «Se non ora quando?».

Si prepara un fine settimana infuocato, ma lei ha già scelto da che parte stare...

«Se, come leggo e sento dire, ogni mezzo è lecito per cacciare Berlusconi, per un liberale come me il problema non è difendere Berlusconi, ma la democrazia. La democrazia, ha detto Karl Popper, è il solo sistema dove si possono cacciare i governanti senza fare ricorso alla violenza. Per cambiare i governanti la nostra Costituzione prevede la sfiducia in Parlamento, il ricorso a elezioni anticipate e l’accusa di attentato alla Costituzione da istruire nei confronti dei governanti stessi. Dunque, se Berlusconi è un pericolo per la democrazia i mezzi per cacciarlo ci sono e sono democratici. Ma quando si dice che ogni mezzo sarebbe lecito, si è fuori dalla Costituzione. È stupefacente che coloro i quali si dichiarano democratici duri e puri siano pronti a contraddire la democrazia pur di far fuori Berlusconi. Alla sua difesa dalle accuse della magistratura provvederanno gli avvocati. Ma se si attenta alla democrazia penso sia un mio dovere di liberale intervenire».

Più che il puritanesimo di coloro che inalberano il primato della virtù, la turba la volontà di cacciare il premier con ogni mezzo?

«Mi turba l’idea che dei rivoluzionari integerrimi - a parole - pensino che il voto popolare non conti e che gli italiani che hanno votato centrodestra non sappiano qual è il loro bene, ma spetti a una minoranza vociante stabilire quale esso sia».

Analisi perfetta se non ci fossero ipotesi di reato, tutte da provare, e comportamenti discutibili.

«Non voglio neppure entrare nelle ipotesi accusatorie della magistratura. Di fronte alla prospettiva di cacciare con ogni mezzo un presidente del Consiglio eletto democraticamente direi le stesse cose anche se si trattasse di un capo di governo di centrosinistra. Ora di fronte a questa degenerazione dell’opposizione è venuto il momento di difendere le istituzioni, non le persone che le presiedono».

Ora però lo scontro è molto personalizzato...

«Suggerirei a tutti di ripassare un antico proverbio inglese: i gentiluomini parlano di principi, la servitù di persone. Sarebbe opportuno abbandonare lo schema berlusconiani e antiberlusconiani, e cominciare a parlare dei principi che riguardano la gestione delle istituzioni e i problemi del Paese. A riguardo conviene richiamare la Teoria dei distinti di Benedetto Croce in base alla quale i comportamenti del presidente del Consiglio riguardano la sfera della politica, mentre solo i comportamenti del capo del governo che violasse la Costituzione o le leggi ordinarie dovrebbero riguardare la sfera del diritto. Non facciamo confusioni - sempre rifacendoci a Croce - fra Etica, Politica, Diritto».

Tutti buoni motivi per vederla sabato «in mutande ma vivo», secondo lo slogan ferrariano...

«Certo, io parteciperò e non ho esitato un istante a dare il mio consenso all’iniziativa di Giuliano Ferrara. Penso che una manifestazione sui principi debba essere un segno forte che ogni spirito libero e indipendente debba dare al Paese. Per la stessa e opposta ragione non mi piace la manifestazione del giorno successivo in quanto trovo scandaloso che si usi la donna per ragioni politiche - abbattere l’attuale governo - dopo averne esaltato giustamente l’autonomia e l’indipendenza soggettive proclamando “il corpo è mio e lo gestisco io”».


Ricorda altri momenti in cui il Paese è stato così frontalmente spaccato?

«No, non lo ricordo. Ma ho certezza di questo: che se io allora avessi avuto l’età non avrei esitato ad armarmi, a salire in montagna e a combattere, anche a costo della vita, il nazifascismo. Sarà colpa mia, ma non avverto la stessa necessità di fronte alla denuncia di coloro i quali sostengono che oggi noi vivremmo in uno stato analogo di dittatura».

Dal Palasharp al Dal Verme, si fronteggiano libertari e azionisti, realisti e moralisti. Non c’è un clima da scontro finale?

«Credo che siamo ad una svolta. Anche se non nei termini drammatici di allora, questa situazione mi ricorda quella vissuta dall’Italia nel 1922. A seguito dei disordini che turbavano il Paese molti si illusero che rinunciando temporaneamente alle garanzie democratiche, il fascismo potesse rappresentare un fattore di stabilizzazione esauritosi il quale sarebbe stato possibile ripristinare lo Stato di diritto. Fu un errore. Anche nell’illusione che si tratti di una rinuncia temporanea, non c’è ragione che possa giustificare l’abdicazione allo Stato di diritto. L’Italia si tenne il Duce per vent’anni. Oggi, ancorché in assenza di un potenziale Mussolini, rischiamo di sfasciare le nostre istituzioni e di degradare la nostra Repubblica. Ha ragione il presidente Napolitano a raccomandare a tutti di abbassare i toni perché teme gli effetti che una contrapposizione così frontale può avere sulla stabilità del Paese».

Che cosa ne conclude: per il ruolo istituzionale che ricopre Berlusconi è immune da responsabilità?

«Se Berlusconi ha commesso dei reati spetterà alla pubblica accusa accertarli e al libero dibattimento nella sede di un tribunale pervenire ad una sentenza. Ma Berlusconi non è solo il Cavalier Silvio Berlusconi. È anche il capo del governo italiano, che ha il dovere di mantenere un comportamento consono innanzitutto al ruolo istituzionale che ricopre e in secondo luogo nei confronti di tutti gli italiani che rappresenta dal momento in cui è stato eletto. Una volta che si fosse concretamente provato che tale comportamento è stato non solo disinvolto ma disdicevole, il giudizio non potrebbe che essere estremamente severo. E si tratterebbe di un giudizio non solo morale ma anche politico, al quale anche coloro che lo hanno votato sarebbe bene si attenessero». (il Giornale)

mercoledì 9 febbraio 2011

In mutande ma vivi. E' ora di smascherare il pulpito indecente da cui predicano i puritani. Giuliano Ferrara

Ma siamo sicuri che non ci sia un pezzettino d’Italia indisponibile come noi a darla vinta ai puritani del Palasharp e di Repubblica? Possiamo riunire in un teatro milanese gente per cui il partito dei pm militanti, delle intercettazioni e delle pornogallery, dello spionaggio ad personam e dell’ipocrisia moralistica is unfit to lead Italy, come disse un tempo l’Economist di Berlusconi? Siamo in mutande, ma vivi. E con William Shakespeare, che conosceva vita e passioni del mondo meglio di Eco e Zagrebelsky, possiamo ben dire quel che dice il suo immortale sonetto 121.

“E' meglio esser vili che esser ritenuti tali, / perché il non esserlo produce lo stesso quell'accusa; / e si perde un lecito piacere non perché sia vile, / ma perché da altri è così pensato. / Perché mai falsi occhi corrotti di altri / dovrebbero intromettersi coi capricci del mio sangue? / E, per i miei vizi, perché più viziose spie / dovrebbero giudicare male quel che io ritengo un bene? / No, io sono quel che sono: e quelli che se la prendono / con le mie colpe non fanno i conti con le loro. / Posso essere onesto e loro possono esser falsi, / ma i miei fatti non vanno giudicati dai loro sospetti; / a meno ch'essi non arrivino a questa pessima conclusione: che tutti gli uomini sono cattivi e trionfano nel proprio male”.

Siamo una piccola comunità di lettori. Forse dobbiamo di nuovo mobilitarci come possiamo e sappiamo. Con l’obiettivo di smascherare una minoranza etica rumorosa, ricca, compatta, sicura di sé, che vuole ripulire l’Italia in nome di criteri fondamentalisti e totalitari. Le minoranze etiche spesso sono rispettabili. Vedono quello che non vede l’uomo comune impigliato nella vita quotidiana. Nel nostro passato seppero essere eroiche, testimoniarono in molti modi l’idealismo introvabile nei “costumi degli italiani” e nel loro “stato presente” che dura dai tempi di Leopardi, da due secoli almeno (un paginone all’interno parla di questo). Ma questa minoranza etica è diversa dalle altre. E’ mossa da orgoglio, da superbia, da interessi consolidati e visibili. E fa un uso smodato della morale, fino a ferire il significato, la forza residua e l’autonomia della politica repubblicana. Della stessa democrazia liberale, alla quale oppongono un inaudito idolo virtuoso che chiamano Costituzione.

Dicono che il presidente del Consiglio si comporta male, e magari non si è comportato meravigliosamente bene in parecchie occasioni. Ma è questo il problema? Siamo convinti di no. Il problema è che vogliono mettergli le mani addosso per evidenti ragioni politiche alimentate da spirito facinoroso e da avversione antropologica a un’Italia popolare rigettata e odiata; ma non basta, dichiarano di voler “andare oltre” Berlusconi, bandiscono una crociata puritana in cui arruolano anche i tredicenni, allagano ogni spazio informativo gridando alla libertà di stampa conculcata, parlano con disprezzo del denaro di cui hanno piene le tasche e le menti, si intromettono nei capricci dell’altrui sangue senza fare i conti con le loro colpe, agitano il corpo femminile come un simbolo di vergogna. Spiano, intercettano, guardano dal buco della serratura e stanno inculcando in una generazione di italiani il disprezzo per la politica. Una minoranza etica degna del suo nome dovrebbe sapere distinguere tra conflitti politici e funzionamento delle istituzioni.

Questi virtuosi talebani, che però rischiano niente e hanno un mondo da guadagnare, devono essere messi in discussione da un’Italia che non si sente superiore e non pretende per sé il crisma della purezza virginale. Perché non diamo vita a una campagna di passione e denuncia pubblica? Che ne dite? Vi sentite di far parte di una minoranza che non ha niente da insegnare ma non accetta prediche da pulpiti privi di decenza e di senso del limite? (il Foglio)

La manifestazione contro il neopuritanesimo ipocrita si svolgerà con lo stile fogliante solito al teatro Dal Verme di Milano sabato 12 febbraio alle 10:30. E’ indetta dal Foglio, si sta sulle spese, non parleranno bambini piccoli che leggono Kant la sera, come al Palasharp, saremo serissimi e autoironici, divertiti e accigliati, pacati e irresponsabili. Molta gente ha la tendenza a prendersi troppo sul serio, ci vuole qualcuno che dica cose serissime ed esprima ésprit républicain ma con una qualche disponibilità verso la vita.

Giove benedica Pannella. Davide Giacalone

Marco Pannella è un fuoriclasse della politica. Un grande. Ci sono questioni fondamentali sulle quali ci ritroviamo, come questioni non meno fondamentali che ci dividono. Una cosa è sicura: un governo che dovesse dipendere dall’alleanza con lui è un morto che cammina. Per poco, perché provvederà immantinente a fargli lo sgambetto. Trovo entusiasmante che lo si porti, in doppiopetto blu, a giurare per diventare ministro. Trovo deprimente che si accetti, quale ministro, la sua ennesima controfigura. In ogni caso la sorte è già segnata: o scasserà tutto di persona, o richiamerà il chierichetto in sacrestia, oppure, quale unico papa anticlericale in circolazione, provvederà alla scomunica ove il nominato s’affezzionasse alla poltrona e volesse restarci oltre la volontà del padre.

La grandezza di Pannella si misura in due cose. La prima è la pertinacia, la cocciutaggine e la coerenza con cui riesce a tenere posizioni di minoranza. Di questo gli siamo tutti debitori. Non è vero (come lui dice sempre e come molti, oramai, credono) che gli si deve la legge sul divorzio e quella sull’aborto, ma è vero che ha meriti notevoli nella laicizzazione della nostra vita collettiva (e qualche colpa nell’avere nebulizzato i già polverizzati laici). La seconda cosa è la capacità ipnotica. Ricordo che il governo di Giuliano Amato ebbe un supplemento temporale d’agonia grazie alla convergenza di Pannella, che ottenne in cambio una conferenza stampa nel corso della quale l’ex esecutore delle volontà craxiane, quindi anche della battaglia contro la droga, si disse favorevole alla legalizzazione degli spinelli. La cosa era talmente ridicola e fumosa da lasciar supporre che se ne fossero consumati diversi. Naturalmente cadde, dopo avere ceduto un pezzo ulteriore dello già scarseggiante onore. E serva di lezione.

Non credo che imbarcare la pattuglia radicale nel governo Berlusconi sia una buona idea, per ragioni politiche. Quei parlamentari sono stati eletti dalla sinistra, in alternativa e antagonismo al centro destra. In un sistema maggioritario (quale è il nostro, sebbene bastardo) ci può stare che parlamentari della minoranza vadano con la maggioranza (e viceversa), ma non a sostituire quelli già defluiti. Vale a dire che se i nuovi arrivati sono determinanti accettarli significa negare la legittimità stessa della legge maggioritaria. E la cosa singolare è che, più prima che dopo, sarebbe lo stesso Pannella ad incaricarsi di spiegarlo, chiedendo una riforma elettorale in senso uninominale e maggioritario (magari!). Con il che, si sarebbe al capolinea, visto che quel sistema farebbe esplodere l’alleanza con la Lega.

Il Pannella trasgressivo, sessualmente randagio e ambidestro (lo racconta lui, non mi permetterei di riprenderlo se riferito), incompatibile tanto con il matrimonio quanto con la famiglia, è lo straordinario Pannella migliore. Che Giove lo benedica. Ma è anche quello di cui meno ha bisogno una maggioranza che si sdraia a baciar pantofole papaline non appena giungono a tiro ed è guidata da un leader che se proprio non ha arruolato mondane (che non è un reato) ne ha raccattate non poche con l’inequivocabile vocazione. E’ un terreno sul quale essere accusati dalla Bocassini può risultare meno difficoltoso che essere difesi da Pannella.

La sinistra, ripescando il più oscurantista bacchettonismo comunista (i comunisti non sono mai stati libertari), attacca il presidente del Consiglio brandendo l’arma del moralismo senza etica. L’elettorato di centro destra, come la gran parte degli italiani, non si scompone, ma vorrebbe poter parlare delle riforme fatte e funzionanti, che non abbondano e di soldi, che scarseggiano. L’eventuale alleanza con Pannella, pur migliore del raccattar voltagabbana, non risolve neanche uno di questi problemi.

martedì 8 febbraio 2011

La strage dei fratellini. Non tutti possono piangere i bimbi rom. Paolo Granzotto

La morte dei bambini nel campo nomadi alle porte di Roma è davvero «una tragedia veramente orribile», come ha detto il sindaco Gianni Alemanno. Ma non più orribile di altre di identica, drammatica portata solo perché le vittime sono quattro piccoli rom. Però è questo, il voler dare alla tragedia una portata esorbitante addossandone poi la responsabilità a una parte politica e alla società «razzista» in generale, ciò che si propongono le prefiche della sinistra col loro vile, ipocrita piagnisteo.

In casi simili deve prevalere la partecipazione e il sentimento di pietà, su questo non si discute. Ma escludere a priori una anche marginale responsabilità di «mamma Liliana» e «papà Mirko» che per recarsi al fast food lasciarono i quattro bambini soli - in una baracca di legno, cartone e lamiera dove ardeva una stufetta se non addirittura un falò -, escluderla per poter addossare l’intera colpa della tragedia alla «latitanza delle istituzioni» (cioè del governo, cioè di Berlusconi) e a un sindaco «incapace di gestire la politica dell’accoglienza» (così Vannino Chiti, commissario del Pd nel Lazio), è né più né meno che sciacallaggio. La politica dell’accoglienza: diciannove anni di amministrazione capitolina della sinistra di Vannino Chiti hanno forse mostrato, nella pratica, non a parole, quale sia la retta politica dell’accoglienza? O si vuol far credere che migliaia e migliaia di zingari si sono accampati a Roma solo a partire dal 28 aprile 2008, data dell’insediamento di Gianni Alemanno? Esempio di esemplare politica dell’accoglienza è forse il rogo nel campo nomadi a Livorno, città saldamente in mano alla sinistra, dove nell’agosto 2007 morirono tra le fiamme quattro fratellini?

Non è la «maledetta burocrazia» denunciata da Alemanno la sola responsabile del persistere dell’«emergenza nomadi». Conta, in modo preminente, l’ipocrisia buonista e solidarista, gli sdilinquimenti salottieri per il multietnico e il multiculturale che precludono, agitando lo spauracchio del razzismo, ogni iniziativa. La Germania di Angela Merkel e l’Inghilterra di David Cameron hanno, quasi all’unisono, annunciato l’abbandono delle aspirazioni alle società multiculturali dimostrando che il multiculturalismo si risolve in un danno, grave, per la società essendo deleterio sia per la comunità ospite sia per quella ospitante. La Merkel e Cameron, non certo eredi di Goebbels o di Oswald Mosley, hanno dovuto ammettere ciò che era un’evidenza lampante, e cioè che il multiculturalismo rappresenta il più serio ostacolo all’integrazione.

Eppure, affrontando il problema e, anzi, l’emergenza rom, da noi si seguita a insistere sulle bellurie del contrasto culturale. «È nella loro cultura», si dice degli zingari, e dobbiamo non solo rispettarla, ma anche apprezzarla e amarla. È nella loro cultura l’accampamento e dunque la baraccopoli; è nella loro cultura lo scansare il lavoro continuativo; è nella loro cultura la mendicità (aggiungendo, come non bastasse, che essa rappresenta il retaggio della antica e virtuosa cultura della condivisione dei beni, chiedi e ti sarà dato); è nella loro cultura, che non contempla il concetto - ovviamente culturale - della proprietà privata, l’appropriazione indebita; è nella loro cultura di cittadini del mondo, liberi come il Mistral, non adattarsi a leggi, regole e consuetudini che non siano le loro.

È evidente che con questi presupposti non dico risolvere, ma dare un ordine alla migrazione e al conseguente soggiorno continuativo dei rom diventa difficile, molto difficile. Perché lo smantellamento dei campi abusivi diventa un oltraggio anticulturale e c’è subito chi ricorre al Tar. E così la richiesta di affidamento di bambini cenciosi, sballottati da madri questuanti allo scopo di impietosire il passante. O la semplice pratica del censimento, subito denunciata (al Tar) come violenta intromissione nella privatezza di gente che al solito, libera come il vento, non conosce il concetto culturale dell’anagrafe. Ruspe. Di questo si ha bisogno per far fronte all’emergenza.
 
Ruspe e ferme richieste al governo romeno di collaborare nei rimpatri perché non ci son santi: non abbiamo - e non avevano i governi Prodi o D’Alema o Amato o Ciampi - risorse e strutture per dare accoglienza alle decine di migliaia di zingari che sciamano in una Italia che grazie alle sue pulsioni e isterie multiculturaliste è evidentemente ritenuta - sennò starebbero a casa loro - Paese della cuccagna. (il Giornale)

lunedì 7 febbraio 2011

De Benedetti a Milano, comparsata da 800 milioni. Alessandro Sallusti

Più che fare paura, l’assalto di ieri ad Arcore suscita com­passione. Un pu­gno di ragazzotti e signori patetici mai cresciuti che giocano per un paio d’ore all’intifada. Quale diritto avrebbe violato Silvio Berlu­sconi, quale sopruso avreb­be compiuto nei confronti del popolo sovrano? Nessu­no, e in effetti tra le tante pa­role d’odio riversate nei suoi confronti non una de­nuncia, un abuso, un solo centesimo di euro sottratto alla comunità. Questi fru­strati in cerca di emozioni forti non hanno nulla a che fare con i rivoluzionari ai quali si ispirano. Sono mol­t­o più simili agli ultrà del cal­cio, quelli che intonano i co­ri razzisti contro Balotelli per vedere l’effetto che fa, che sfasciano tutto e mena­n­o tutti a fine partita soltan­to perché la squadra del cuore le ha buscate.

Gli scontri di ieri hanno mandanti precisi che si guardano bene dallo spor­carsi le mani o rischiare in piazza una manganellata. Sono i signori che sabato hanno aizzato la piazza con­tro Berlusconi al caldo del Palasharp di Milano e che hanno assistito alle cariche nelle loro case lussuose, sor­seggiando champagne ser­vito da filippini sottopagati e in molti casi in nero. Tra questi c’è sicuramen­te Carlo De Benedetti, l’edi­tore di Repubblica, che sa­bato ha tenuto a battesimo il nuovo movimento-parti­to di Saviano e soci. In molti si sono chiesti come mai De Benedetti, uno che ha am­messo di aver pagato tan­genti e commesso falso in bilancio, fosse in prima fila ad applaudire i giustiziali­sti. Le risposte possibili so­no due. La prima: era gratis, cosa non ininfluente per chi lo conosce. La seconda: tra pochi giorni il Tribunale di Milano dovrà decidere se confermare o no il risarci­mento di 800 milioni di eu­ro che un giudice, quello con i calzini azzurri per in­tenderci, gli ha concesso nella causa da lui intentata contro la famiglia Berlusco­ni sulla vicenda del passag­gio di proprietà della Mon­dadori. Va da sé che farsi ve­dere pubblicamente come sponsor del duo Boccassini-Saviano può agevolare la benevolenza della corte.

Cosa non si fa per ottene­re ingiustamente e con l’aiuto dei giudici 800 milio­ni. Come non capirlo. Che se poi, seguendo il suo esempio, fuori da Arcore ci fosse scappato il morto du­rante gli scontri, pazienza. Sicuramente i parenti non avrebbero visto neppure un euro di solidarietà. Ma Repubblica avrebbe dato dei fascisti a Berlusconi e al­la Polizia. (il Giornale)

mercoledì 2 febbraio 2011

Il braccio violento dei magistrati. Alessandro Sallusti

Il braccio violento della magistratura ieri ha col­pito noi del Giornale . Una bravissima colle­ga, Anna Maria Greco, è sta­ta svegliata da poliziotti in­viati da una pm di Roma. Gli uomini della Procura so­no entrati nella sua camera da letto, l’hanno fatta spo­gliare e hanno eseguito una perquisizione corporale. Sotto la sua biancheria cer­cavano le fonti di una noti­zia, quella che la cronista ha portato e pubblicato sul Giornale nei giorni scorsi. Come mai tanta ferocia? Semplice, la notizia non ri­guardava Berlusconi, non svelava segreti personali di qualche politico di centro­destra, ma interessava Ilda Boccassini, la pm di Milano impegnata nella caccia al premier sul caso Ruby.

Par­liamo non di gossip, ma di atti giudiziari, quelli del pro­cesso cui fu sottoposta la Boccassini anni fa perché sorpresa in atteggiamenti imbarazzanti in luogo pub­blic­o con un giornalista di si­nistra. In un Paese dove i pm foraggiano regolarmen­te giornalisti amici, alla fac­cia del segreto istruttorio, non è possibile pubblicare notizie che la casta delle to­ghe non voglia. Anche se ve­r­e dalla prima all’ultima pa­rola. Quello di ieri non è stato soltanto un attentato alla li­bertà di stampa.

È stato un atto di violenza privata ordi­nato da una donna, la pm di Roma,contro un’altra don­na in nome di un’altra don­na (la Boccassini). Cioè la giustizia trasformata in un fatto personale, una squalli­da e vigliacca vendetta, per­petuata con l’uso della for­za dello Stato. Questa pm non è un magistrato, si com­porta da mascalzona che abusa del suo potere: fa toc­care una donna giornalista, fa sequestrare i computer di suo figlio, curiosa nella vi­ta degli altri senza motivo. Che cosa pensava di trova­re la maestrina del diritto? Un indizio sulle fonti delle nostre notizie? Povera illu­sa, lei e quegli arroganti di Repubblica che due giorni fa hanno aizzato, per nome e per conto della Procura di Milano, i magistrati a darci la caccia indicando la possi­bile talpa all’interno del Csm. Roba da radiazione dall’Ordine dei giornalisti, che ovviamente non ci sarà perché fra prepotenti ci si protegge. Ormai siamo alla dittatu­ra delle Procure.

Che deci­dono che cosa si deve pub­blicare sui giornali. Via libe­r­a a tutto quello che può in­fangare Berlusconi e il suo governo, nulla che possa gettare un’ombra su lorsi­gnori. La Boccassini amo­reggiava con un giornalista in luogo pubblico e per que­sto è finita sotto processo? Che cosa pretendevano, di tenerlo segreto? Mi spiace per loro, non è stato così e non sarà così in futuro. I ma­gistrati hanno già tante im­munità, non saremo noi a rendere il loro scudo tom­bale. Scriveremo tutto ciò che riusciremo ad accertare, e penso anche molto presto. Ci arrestino, se credono, questi pm senza senso del­lo Stato che continuano a chiudere gli occhi davanti allo scempio perpetuato ogni giorno dai giornalisti amici. Non mi meraviglie­rei visto che ieri sono arriva­ti a indagare un ministro, Frattini, per un discorso pronunciato davanti al Se­nato, pur di tentare di salva­re la faccia all’amico Fini. Se così siam messi, della magistratura non possia­mo avere più né rispetto né fiducia. (il Giornale)

I due dell'apocalisse democratica

Mentre l'ammucchiata anti-Berlusconi proposta da D'Alema ha già perso un pezzo e mezzo, dopo il no secco di Di Pietro e la solita spaccatura dentro Fli, Bersani non si è fatto mancare nulla perdendo le primarie anche a Cagliari.
Insomma, l'accoppiata D'Alema-Bersani - la mente e il braccio dell'agognata riscossa del Pd - sembra, più che una falange politica, una riproposizione grottesca di figure letterarie come Don Chisciotte e Sancho Pancia o, in modo forse più calzante, di personaggi dell'avanspettacolo come i fratelli De Rege. Da quando ha ripreso in mano le redini del partito, infatti, la strana coppia non ne ha mai azzeccata una.