venerdì 29 giugno 2007

Lezione di giornalismo. Maurizio Belpietro

Il caso Visco-Speciale è davvero esemplare perché insegna a tutti – anche a noi del Giornale – qualcosa da non dimenticare: se il potere si fa arrogante e minaccioso, la stampa non deve mai farsi intimidire. I nostri lettori ricorderanno le accuse che dal centrosinistra furono lanciate al Giornale perché osò raccontare la storia delle pressioni di Visco sul comandante generale della Guardia di Finanza. Liquidarono la nostra inchiesta come «spazzatura» da catalogare alla voce «è una campagna orchestrata contro il governo». Autorevoli esponenti della procura di Milano (che per prima si era occupata del caso, archiviandolo per mancanza di «potenti» indizi) spiegarono che si trattava di un’inchiesta giornalistica dettata dalla «campagna elettorale in corso». Bene, poche settimane dopo, l’onorevole professore e viceministro dell’Economia Vincenzo Visco finisce sotto indagine a Roma per «abuso d’ufficio e minacce» nei confronti del Comandante delle Fiamme Gialle Roberto Speciale. L’inchiesta è in corso, Visco ha parlato per due ore e mezzo esponendo la sua verità e non sarà certo il Giornale a tradire il suo spirito garantista per un Visco qualsiasi. Fino a prova contraria, come Corona, come Ricucci, come Fiorani, deve essere ritenuto innocente. Ma una cosa vogliamo far notare a chi sputava sentenze sul nostro lavoro giornalistico: il caso Visco-Guardia di Finanza meritava di essere raccontato e soprattutto indagato dalla magistratura.

giovedì 28 giugno 2007

E lo show propaganda diventa un Carosello. Luca Telese

http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=188857&START=0&2col=

La scenografia del Lingotto per il discorso di Valter Veltroni.

Radiato Radicale. Christian Rocca

Domenica prossima la rassegna stampa di Radio radicale non sarà più condotta da Daniele Capezzone, al quale tra oggi e domani sarà comunicato ufficialmente che la sua ormai abituale trasmissione di lettura dei giornali domenicali non è più gradita. Questo capiterà a due giorni dal lancio della nuova avventura politica capezzoniana, un network di cui ancora non si conoscono né nome né simbolo né proposte, ma che ai radicali di stretta osservanza pannelliana pare con ogni evidenza un’eresia.
“Non se ne può più – dice al Foglio il direttore della radio Massimo Bordin, uno che dentro il partito ha fama di difensore di Capezzone – la rassegna stampa e Radio radicale non possono diventare la cartina di tornasole del rapporto tra Daniele e il partito, sono altre le sedi e gli strumenti del confronto e del dibattito, ma Capezzone non partecipa più alle riunioni degli organi di cui è ancora membro e usa la radio per dire che è necessario superare tutti i partiti, compresi i radicali”. Così Bordin ha deciso che chiederà “a qualcun altro di leggere i giornali” a partire da domenica prossima, perché “Daniele non può condurre una campagna politica contro i radicali, costruire un network politico senza i radicali e farlo addirittura dai microfoni della radio proprio nei giorni in cui c’è la riunione del Comitato nazionale”.
Capezzone ha appreso del licenziamento dal Foglio, pochi minuti prima di un dibattito milanese con Pietro Ichino: “Mi spiace e mi addolora questa prova di zelo di Massimo Bordin, soprattutto perché proviene da una persona che stimo che in questi mesi mi ha difeso, cosa di cui non mi stancherò di ringraziarlo. A me non è stato ancora detto niente, non sento Bordin da quattro settimane, quando mi ha comunicato la cancellazione dell’intervista settimanale che solitamente seguiva la lettura dei giornali”. Fatto il riassunto delle parole di Bordin, Capezzone replica: “Mi paiono argomenti fragili, una scusa bella e buona, diciamo che la prossima volta che alla radio parleranno di bavagli, ci sarà da ridere”. Non che Capezzone non se l’aspettasse, visto che da quattro settimane conclude con un “Arisentirci a domenica prossima, speriamo”. Sei mesi fa Bordin aveva pubblicamente difeso Capezzone dall’ira pannelliana che, in diretta radiofonica, aveva suggerito al direttore di togliere lo spazio settimanale al ribelle Capezzone. Bordin disse che non era il caso e che, semmai, avrebbe dovuto essere l’editore ad assumersi la responsabilità del licenziamento. Capezzone ringraziò, ma ora secondo Bordin lo scontro interno è diventato troppo spiacevole: “Non c’è nessuna censura, tanto che sono giorni che proviamo a intervistare Daniele, ma lui rifiuta”. Sei mesi fa, racconta Bordin, Pannella “non si è imposto” e Capezzone ha continuato tranquillamente a condurre la rassegna stampa: “Ma ora ad andarci di mezzo è Radio radicale, così ho fatto lo sforzo di impormi io all’editore e di prendere la decisione. Francamente non se ne poteva più”.
In sei mesi tra l’ex segretario e il suo partito non sono state affatto rose e fiori, con Capezzone a parlare di mobbing nei suoi confronti e con Pannella (ed Emma Bonino e Marco Cappato) a sparare a pallettoni sul frazionismo capezzoniano. Bordin provava a mediare, per quanto la cosa coinvolgesse la radio: “Sono dispiaciuto – dice Bordin – anche perché l’analisi e la lettura della situazione politica tra Daniele e i radicali non è così diversa, al di là delle reciproche sgradevolezze che certo non sono mancate”.
In realtà Capezzone è sempre più scettico, per usare un eufemismo, di Romano Prodi e del suo governo, fino a essersi astenuto all’ultimo voto di fiducia, mentre Pannella e Bonino sono gli autonominati “ultimi giapponesi di Prodi”, anche se l’altro ieri proprio ultimissimi non sono sembrati, quando – con toni capezzoniani – hanno criticato la decisione del governo di cancellare lo scalone pensionistico. Capezzone incassa e rilancia: “Continuano a sbagliare analisi, si sono appellati a Prodi, come se fosse la vittima e non il problema”. Come finirà è difficile dirlo, visto che Pannella fa di tutto perché Capezzone lasci la ditta e Capezzone non si muove nemmeno con le bombe (“va detto – riconosce Bordin – che in questo Daniele è bravissimo”). Ci saranno certamente altre puntate di Casa Pannella, come sempre live su Radio radicale, in attesa della nascita del misterioso network prevista per il 4 luglio, giorno dell’indipendenza americana dagli inglesi e, forse, di quella capezzoniana dai radicali.

martedì 26 giugno 2007

Due consigli a Walter Veltroni. Christian Rocca

Veltroni potrà vincere la scommessa del Partito democratico solo se metterà nel conto l’ipotesi di perderla. Se si limiterà, invece, a presentarsi al paese come la versione contemporanea di Prodi, o come il profeta ecumenico del voler tenere tutto insieme, la scommessa sarà bella che persa prima ancora di cominciare. Certo, visto il dramma dell’altra parte, Veltroni potrebbe ugualmente vincere le elezioni, ma una volta a Palazzo Chigi non ci sarebbe alcuna differenza con il paradossale governo attuale, se non la figata di avere un premier capace di parlare di telefilm americani, di jazz e di basket Nba. Per vincere la scommessa, Veltroni dovrebbe fare una sola cosa, anzi due. E dovrebbe farle subito, domani stesso, al momento dell’accettazione oligarchica della sua candidatura. Dovrebbe dire, anzi giurare, che il nuovo Partito democratico non farà alleanze elettorali con la sinistra radicale, né con i due partiti comunisti, né con i verdi ex democrazia proletaria, né con gli ex compagni mussiani che hanno lasciato i Ds per non aderire al Partito democratico. Subito dopo, dovrebbe offrire a Berlusconi un patto tra gentiluomini: io non mi alleo con gli illiberali di sinistra, tu corri senza la Lega e le frattaglie fasciste. Una cosa da paese normale, per usare uno slogan dalemiano. Viceversa non si capirebbe la novità di un progetto politico che al momento del voto, cioè nell’unico momento che conta, tornasse ad abbracciare il passato. Questo alzare la posta per vincere davvero la scommessa, Nicolas Sarkozy l’ha definita “rupture”, “rottura”, proprio quest’anno. Tony Blair l’ha chiamata “New Labour” nel 1996. La sinistra tedesca “Godesberg Program” addirittura nel 1959, mentre era il 1947 quando i democratici americani Eleanor Roosevelt, Arthur Schlesinger e John Kenneth Galbraith lanciarono gli “Americans for Democratic Actions”.Dopo i fallimenti dalemiani, Veltroni è l’unico in grado di poter far partire una rottura italiana, malgrado finora sia stato l’emblema di una politica fondata sul democristianissimo principio del “molti amici, molto onore”. La tattica piccista del “nessun nemico a sinistra”, dovrebbe essere sostituita con il principio del “tantissimi nemici, soprattutto a sinistra”. Questo non vuol dire che Veltroni debba andare oltre la sinistra, anche perché come diceva Max D’Alema a proposito del saggio “Oltre la sinistra” di Nando Adornato, “oltre la sinistra c’è solo la destra”. Deve, però, evitare che il Partito democratico diventi la realizzazione, trent’anni dopo, del Compromesso storico, una delle stagioni più fallimentari della nostra Repubblica. Oggi il Partito democratico è il tentativo di fondere la tradizione italocomunista con quella democristiana, i due principali motivi per cui siamo nella situazione disperata in cui ci troviamo. Veltroni potrà vincere la scommessa se proverà a invertire questa direzione e se inviterà gli altri fondatori a stare con lui, oppure a presentare programma e leader alternativi. Chi ha paura che senza la sinistra illiberale non si potrà mai vincere, non si rende conto di quanti consensi si potranno conquistare altrove. E poi, come canta il filosofo di riferimento di Veltroni, non è mica da questi particolari che si giudica un leader, un leader lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia.

lunedì 25 giugno 2007

La beffa del metodo Epifani. Carlo Lottieri

La frase pronunciata l’altro giorno da Guglielmo Epifani, segretario della Cgil, è destinata a restare negli annali. Impegnato in un’importante trattativa sulla riforma del sistema previdenziale, al cui sfascio i sindacati hanno dato un contributo di prima grandezza, il dirigente della principale organizzazione che raccoglie i pensionati e i lavoratori ha infatti dichiarato che “se si pensa di affrontare il tema della previdenza con la calcolatrice in mano non va bene”.La tesi è chiara: tutta la discussione sul rinvio dell’età pensionabili e sullo “scalone” andrebbe affrontata indipendentemente dagli oneri che questa o quella scelta possono far ricadere sull’economia, poiché – a giudizio di Epifani – vi sarebbero questioni sociali che travalicano la semplice logica di chi osserva l’andamento dei conti e le prospettive degli enti previdenziale. Ma tale modo di ragionare è disastroso.

Se avessero davvero a cuore le sorti dei pensionati attuali e di quelli futuri (oltre che della società nel suo insieme), i sindacati dovrebbero costantemente consultare le cifre e incessantemente picchiare i tasti della calcolatrice, come fa ogni “buon padre di famiglia” alle prese con scelte finanziarie importanti e che non voglia esporre i propri cari a difficoltà di ogni genere. Facendo qualche calcolo in più potrebbe tra l’altro scoprire che per offrire un futuro a quanti già sono anziani o lo saranno nei prossimi decenni è assolutamente necessario lavorare maggiormente (allungando l’età della pensione) e, soprattutto, introdurre meccanismi più orientati sulla responsabilità: passando dal sistema attuale ad uno a capitalizzazione.Certo i sindacalisti non usarono la calcolatrice quando pretesero (e ottennero) che un gran numero di lavoratori del pubblico impiego fossero pensionati dopo 14 anni, sei mesi e un giorno. Scelte come questa non furono isolate e ora non dobbiamo stupirci se – dovendo pagare da decenni la pensione a chi ha lavorato e contribuito così poco – ora non si è assolutamente in condizione di far vivere decentemente tanta povera gente.

In quella frase di Epifani è percepibile un disprezzo dei conti e della logica economica che attesta un’irresponsabilità condivisa da ampi settori del nostro ceto dirigente. Se è vero infatti che i sindacati hanno avuto un ruolo rilevante nella gestione fallimentare dell’Inps, è egualmente fuori discussione che essi condividono tali responsabilità con molti altri: dai partiti alla Confindustria. E in quel disprezzo per le crude cifre c’è il tratto italianissimo di una demagogia tanto fatua quanto gravida di penose conseguenze.Solo guardando le cifre per quello che sono e analizzando con serietà i dati reali, invece, sarà possibile far quadrare i conti di un Paese in cui (fortunatamente) la vita si allunga sempre più, ma in cui (sfortunatamente) il numero di quanti lavorano e tengono su la baracca resta bassissimo. Se l’Italia non cresce a sufficienza, d’altra parte, è anche perché tassazione e prelievo previdenziale rendono troppo cari i nostri prodotti e poco interessante investire da noi.

Contrariamente a quanto ritengono in molti, l’economia non si occupa in primo luogo della ricchezza (tanto è vero che non vi era economia nel Paradiso terreste), ma della povertà. Una riforma delle pensioni che liberalizzi il sistema e permetta ad ognuno di accantonare il capitale necessario ad avere una vecchiaia serena è una necessità soprattutto per i ceti deboli. Peccato che Epifani non se ne avveda.

Destra e sinistra, pari (non) sono. Paolo Guzzanti

Sono molto soddisfatto. La questione della destra e della sinistra ha generato un dibattito e un putiferio. Ho letto tutto e ho trovato sempre intelligenti anche le cose che non condividevo.
Adesso cerco di spiegare meglio quel che cerco mettendo zizzania. Cerco di far saltare la diga delle parole e far vincere la piena delle idee e della libertà.
Sì, fra liberalismo e socialismo c’è antitesi. Ma ormai sui libri vecchi e ammuffiti. Il socialismo è morto, mentre il corpo del comunismo mondiale è ancora lì che opprime a Cuba, in Venezuela (fase iniziale del bossolo), in Corea del nord, Cina, Vietnam, frazioni di Africa.
E poi c’è l’illiberalismo strutturale del mondo islamico che per definizione è nemico della libertà individuale e che vorrebbe la pelle sia di Magdi Allam che di Salman Rashdi.
Io ho sempre pensato che in Italia la sinistra è immangiabile e improponibile perché è ad egemonia comunista, post comunista e para comunista e io provo per il comunismo la stessa tenerezza che provo per il nazismo.
Ma la sinistra si trincea dietro idee e propositi “buoni” (a chiacchiere). E tradizionalmente, caro Ursus, la sinistra è per definizione progressista e la destra per definizione conservatrice.
Non è naturale che la destra sia progressista e la sinistra conservatrice.
MA è esattamente quel che accade in Italia dove la sinistra è reazionaria, tutela gli interessi dei super garantiti e opprime quelli dei non garantiti, vuole imporre tasse (mentre tradizionalmente dovrebbe essere la destra a volere più tasse e i cordoni della borsa stretti) e stritola chi lavora.
Allora, mi sono detto, visto che quel che accade in Italia è innaturale, rovesciamo il tavolo.
Diciamo che noi, oltre ad essere la destra dei principi liberali, siamo anche la vera sinistra che in Italia non c’è e che non nascerà mai per la tara comunista.
Ho pensato (da anni: una volta ne discussi a brutto muso con D’Alema): scippiamogliela.
Dicono che loro sono di sinistra perché sono buoni?Ma noi siamo più buoni.Noi vogliamo la felicità di tuttiperché vogliamo la felicità di ciascuno.
Ma qui saltano su a piripicchio le allergie parolaie: “Io di sinistra? Mai! piuttosto la morte”.E lì fiscHi e pernacchie.
Errore: noi vogliamo sottrarre alla sinistra i suoi gioielli, le sue parole che nella sua bocca sono bugiarde ma che nella nostra diventano vere.
Veltroni ha capito da un pezzo tutto ciò: ha capito che per fare una sinistra bisogna lavarla con l’acido muriatico dal comunismo. Ne è convinto. Chi pensa che bari, sbaglia e sbagliando farà prendere una cantonata anche agli altri.
Pensare che il nemico, l’avversario sia sempre un pezzo di merda in malafede, è stupido e non porta da nessuna parte.
Controprova: avete vsto il nostro idolo Sarkozy?Ha imbarcato nel governo i più bei fichi del bigoncio socialista e due o tre ministre arabe e africane, fra cui la mia passione sfrenata, che è Rashida Dati, già portavoce di Sarkò ed ora ministro della Giustizia.
In Italia la tradizione di destra è inquinata dalla questione fascista.
E dico inquinata perché il fascismo fu un fenomeno di SINISTRA (Lenin ADORAVA Mussolini e Mussolini ADORAVA Lenin e persino Stalin, cui voleva lasciare, negli ultimi giorni di Salò, tutto il patrimonio della RSI: lui che con la bandiera rossa aveva guidato la settimana rossa per non far partire le tradotte e le navi che portavano i soldati alla guerra di Libia) emigrato scomodamente a destra ma sempre portandosi dietro un rancore profondo per la borghesia, per i valori della borghesia, puntando sempre su un’Italia proletaria e in divisa che era la proto-copia della vagheggiata e successiva Italia comunista.
La maggior parte dei fascisti passarono nel Pci (Zangrandi e il lungo viaggio attraverso il fascismo),le Case del fascio diventarono Case del Popolo ela Romagna nerissima diventò la Romagna rossissima.
Che voglio dire?
Che il fascismo non è un buon esempio per la destra, anche senza scomodare la guerra demenziale con i nazisti (alleati con i comunisti fino all’Operazione Barbarossa), la pugnalata alla Francia già sconfitta e via discorrendo. No, nulla che venga dal fascismo è per me buono per il futuro, tranne una lezione: che quando la democrazia affoga nel suo stesso pantano, emergono uomini forti con idee ancora deboli, mentre noi amiamo le idee forti e nette fin dall’inizio: verità, libertà individuale, trionfo dell’individuo singolo, affermazione potente e vincente dei valori della Borghesia, vittorie dell’Occidente sulla barbarie, vittoria della democrazia parlamentare sulla tirannide comunque si chiami.
In Italia non ci sono veri conservatori perché c’è poco da conservare (salvo la famiglia allo sfascio) e tutto da riformare.
Dunque siamo riformatori rivoluzionari, e per questo siamo concorrenti diretti nei confronti della sinistra e dobbiamo strappare alla sinistra il pane che mangia,la terra su cui cammina,le parole dalla bocca,dobbiamo sfiancarli,disorientarli,zittirli,sostituirli,annientarli sul piano idealee della forza della morale.
Maria Venera, Fabrizio, amici, non arrampicatevi sugli alberi.Noi siamo la destra perché siamo talmente liberi da rubare anche la sinistra come la secchia rapita.Noi siamo così giocosi che possiamo far fare le capriole ai nostri avversari nel rigor mortis, noi ridiamo e loro bestemmiano e insultano.Se invece noi bestemmiamo e insultiamo, siamo perdenti.
Noi siamo meglio di loro.Noi siamo più buoni,più generosi e quasi semprepiù colti e intelligenti di loro,e abbiamo valori più fortie l’onestà sulla fronte e negli occhi.
Non abbiate paura delle parole,non abbiate paura mai.Noi siamo qui per fare la Rivoluzione Italianae io per aiutarvi a vincerla.

domenica 24 giugno 2007

Ai lettori di "ItalianiLiberi". Ida Magli

Avrei voluto, in questi giorni in cui i traditori che governano i popoli di Europa hanno preso come al solito delle decisioni che riguardano la nostra libertà, la nostra indipendenza, il nostro futuro (che è un non-futuro) senza minimamente preoccuparsi di chiedere il nostro parere, ed anzi trovando le “uscite“ più astute e più utili per non doverci dare conto di nulla, avrei voluto, dicevo, esporre a tutti coloro che mi leggono, con chiarezza e con tutte le precisazioni indispensabili, quello che sta succedendo. Vi chiedo scusa, invece, di non essere riuscita a farlo. Non ci sono riuscita, anche se l’ho desiderato con tutte le mie forze, perché, all’improvviso, ho avuto il senso di una solitudine insuperabile, invincibile; il senso dell’inutilità del messaggio che ripeto da tanti anni senza alcun risultato. Soprattutto ho capito – ed è la prima volta, ve lo assicuro - perché sceglievano il silenzio coloro che durante le battaglie del Risorgimento si lasciavano impiccare allo Spielberg gridando soltanto: “Viva l’Italia!”, senza aggiungere neanche una parola.
Sì, l’ho capito. Ma vi rendete conto che sono stati soprattutto i governanti italiani, da Napolitano a Prodi a D’Alema, a volere a tutti i costi che si raggiungesse qualche conclusione, un Trattato comunque che cancellasse quel po’ di libertà e di indipendenza di cui ancora godono gli Stati; che sono stati i governanti italiani a incoraggiare la Tedesca e il Francese (mi rifiuto di chiamarli capi di governo) a trovare un accordo con quegli irriducibili patrioti che sono i “piccoli gemelli polacchi”, poverini, con quell’eterno guastafeste che è il Britannico, amato sì quanto vi pare, ma pur sempre uno che guarda prima di tutto alla indipendenza della propria patria! Perdonatemi se questa sera non so andare avanti. Domani, dopodomani al massimo, parlerò di tutto, esporrò un qualche piano che ci dia ancora qualche speranza. Oggi non posso. Ripeterò, per fare coraggio a me stessa, prima ancora che a voi, le parole che Giuseppe Garibaldi ha inciso fin da quando ero bambina nel mio cuore:
“Non riconosco a nessun potere sulla Terra il diritto di alienare la nazionalità di un popolo”.

sabato 23 giugno 2007

Il siluramento che divide. Raffaella Viglione

Storace (An) e Nitto Palma (FI) a favore. Contro gli azzurri Stracquadanio e Jannuzzi.

“L’opera del capo della polizia è riconosciuta sia in ambito nazionale, sia internazionale. Quanto alla durata del suo mandato, devo riferire che lo stesso dottor De Gennaro lo aveva messo a disposizione contemporaneamente alla nascita del mio Governo”. Con queste parole pronunciate dal Presidente del Consiglio Prodi, durante il question time alla Camera, mercoledì era stato dato l’annuncio della destituzione del capo della Polizia indagato per i fatti del G8 di Genova del 2001. Il ministro Mastella sollecitava che la sostituzione si compiesse solo dopo un’intesa maggioranza-opposizione, affidando a De Gennaro “una responsabilità operativa”. L’ex presidente della Repubblica Cossiga e il l’ex premier Berlusconi si chiedevano “A quando le mani sull’Arma dei Carabinieri?”. Per Di Pietro la scelta è stata sbagliata per tempi e modi.

La vicenda ieri è approdata in Senato, dove la Cdl ha chiesto che il governo riferisse in aula, e durante la seduta le posizioni all’interno dell’opposizione si sono rivelate differenti. E’ stato il senatore di An Storace a intervenire per primo: “Chiedo che la Presidenza si attivi per ottenere un’informativa da parte del presidente del Consiglio o del ministro dell’Interno a proposito della destituzione del capo della Polizia. L’intenzione del Governo - ha proseguito Storace - non a caso resa nota contestualmente alla diffusione della notizia dell’iscrizione dello stesso De Gennaro nel registro degli indagati per l’inchiesta sul G8 di Genova, sarebbe giustificata dalla durata settennale del suo mandato, che però non è stabilita da alcuna norma di legge”. E poi la conclusione: “La decisione di destituire il capo della Polizia, che secondo i mezzi di informazione deriverebbe da un diktat delle forze politiche di estrema sinistra, ha creato sgomento tra i cittadini e tra gli appartenenti alle forze dell’ordine che, dopo la nota vicenda riguardante il generale Speciale, la nomina di un ex terrorista a collaboratore di un Sottosegretario di Stato per l’interno e l’intitolazione di una sala del Senato a Carlo Giuliani, hanno avuto un’ennesima e preoccupante conferma del modo di agire del Governo e dell’attuale maggioranza”.

Gli ha fatto eco l’azzurro Nitto Palma per il quale: “L’opposizione dubita che si tratti di un normale avvicendamento e che esso avvenga con il consenso dell’interessato. La realtà – ha dichiarato Palma - è molto semplice. Il preannuncio di licenziamento avviene - chissà perché - contestualmente alle notizie concernenti un avviso di garanzia emesso dall’autorità giudiziaria di Genova nei confronti del prefetto De Gennaro e - chissà perché - contestualmente alla fuoriuscita di verbali quali, ad esempio, l’esame testimoniale reso dal prefetto De Gennaro nella istruttoria a Genova, che non ci risulta essere allegato al fascicolo del processo. In questo modo si consente all’autorità giudiziaria di scandire i tempi della politica e, attraverso i propri atti, di decidere del destino degli uomini. Con questa azione si è mortificato un uomo delle istituzioni. Anche di questo voi risponderete al Paese”. Di diverso avviso il collega Giorgio Stracquadanio (Dca-Pri-Mpa) il quale non condivide le osservazioni dell’opposizione sulla sostituzione del capo della Polizia, anche perché: “Il mio giudizio su De Gennaro coincide con quello negativo espresso in diverse occasioni dal senatore Cossiga. E’ probabile, infatti, che le violenze di Genova siano state scatenate per mettere in difficoltà il Governo di centrodestra. Non condivido alcune delle considerazioni fatte dai miei colleghi dell’opposizione e, a differenza loro, ritengo che il Governo abbia fatto bene a rimuovere il Capo della polizia”.

Secondo il senatore Lino Jannuzzi: “Si è verificata una cosa incredibile perché avendo giustamente cacciato il capo della Polizia De Gennaro, alcuni esponenti di Forza Italia hanno espresso la loro solidarietà al malfattore cacciato, a cominciare dal senatore Pisanu, ex ministro degli Interni. Io ho scritto molti articoli contro De Gennaro e sono rimasto esterrefatto oggi mentre Nitto Palma protestava mettendo sullo stesso piano la questione del generale Speciale con quella di De Gennaro, ma forse Nitto Palma parlava a titolo personale e non a nome del partito. Quando ci sarà il dibattito in aula ho intenzione di intervenire su questo episodio. Anche se io non mi spiego perché Prodi avendo presa, una volta tanto, una decisione sacrosanta, sia andato a preannunciarla in aula. Avrebbe potuto mettersi d’accordo con Berlusconi sul successore, con il tramite di Gianni Letta, come peraltro si farà e si è sempre fatto. Dopo di ciò Prodi avrebbe dato la notizia con una nota da Palazzo Chigi. Proporrò di mettere una targa o in Senato o alla Camera per ricordare il giorno della destituzione come il giorno della liberazione, ci siamo liberati dal boia. De Gennaro è il gestore dei pentiti, il capo della polizia dei pentiti, cioè quello che ha messo in piedi tutti i falsi processi contro metà della classe politica italiana. Basti inoltre ricordare quanto ha detto su di lui Cossiga”.

Le querele del compagno C. il Foglio

Consorte non è Greganti.
Il ruolo di capro espiatorio non gli si addice.

Quella che oppone l’attuale presidente dell’Unipol, Pierluigi Stefanini, al suo predecessore Giovanni Consorte, sembrerebbe una bega aziendale, anche se dai toni inusitatamente aspri. Dopo il fallimento della scalata di Unipol alla Banca nazionale del lavoro, com’è noto, Consorte, che ne era stato l’anima, fu estromesso dalla presidenza della compagnia assicurativa rossa. Il nuovo presidente insistette perché si dimettesse anche da dipendente dell’Unipol e approfittò delle sue condizioni di salute per costringerlo ad accettare il diktat. Questo almeno sostiene Consorte, che ha denunciato Stefanini per violenza privata, reato derubricato dalla magistratura bolognese, che ha dovuto aprire un fascicolo sul caso, a estorsione. Il caso in sé sembra delimitato a una controversia aziendale, ma è abbastanza evidente che il comportamento non acquiesciente di Consorte, che non accetta di fare, assieme al suo ex vice Ivano Sacchetti, il capro espiatorio di una vicenda complessa e tutt’altro che esaurientemente chiarita, potrebbe avere conseguenze che vanno ben al di là della compagnia bolognese. La scelta di partecipare alla scalata bancaria, che naturalmente non è affatto un reato, fu assunta ripetutamente in vari organismi collegiali sia della compagnia sia dei suoi principali azionisti, che sono le grandi cooperative di consumo. Tutti sanno che senza un appoggio politico non si sarebbe arrivati ad assumere queste decisioni, com’è peraltro confermato dalla testimonianza di Antonio Fazio sui colloqui che aveva avuto con dirigenti dei Ds. L’idea di ridurre tutto, almeno nel discorso rivolto ai militanti, in una scorribanda spericolata dovuta all’imprevidenza, nel migliore dei casi, di Consorte, avrebbe potuto reggere, e a fatica, soltanto in presenza di un atteggiamento remissivo e di fatto omertoso del diretto interessato. Ma Consorte non ci sta a lasciar passare l’idea che l’Unipol, le cooperative di consumo, il loro partito di riferimento fossero vittime innocenti delle sue scelte solitarie. Si attendono le prossime puntate.

venerdì 22 giugno 2007

Chi ha vinto, chi ha perso e dove. Istituto Cattaneo

Mi pare interessante "rileggere" questo studio pubblicato all'indomani delle elezioni politiche di aprile 2006.

La riduzione dei voti non validi e l’accentuazione della dinamica bipolare ha portato più voti sia a destra che a sinistra.
La crescita del centro-sinistra è stata quattro volte maggiore di quella del centro-destra.
Il centro-sinistra avanza soprattutto nel Mezzogiorno, il centro-destra soprattutto nel Triveneto.

L’Istituto Cattaneo di Bologna ha effettuato alcune elaborazioni dei risultati del voto appena conclusosi per determinare quanto la Casa delle Libertà e l’Unione abbiano riscosso maggiori o minori consensi rispetto alle precedenti elezioni politiche (Camera) del 2001. Fra i risultati più importanti si possono citare:
- Rispetto ai quasi 3 milioni di voti non validi espressi nella parte proporzionale del voto alla Camera del 2001, nelle elezioni alla Camera del 2006 i voti non validi sono circa 1,2 milioni, il che significa che i voti validi sono cresciuti di molto (si può stimare un aumento di voti validi di circa 1 milione) per effetto della riduzione nel numero di schede nulle (–650 mila) e delle schede bianche (–1,25 milioni).
- Si osserva un forte ridimensionamento delle “terze forze”, cui nel complesso sono stati destinati appena 173 mila voti1, con un calo di quasi 1,2 milioni di voti rispetto al 2001. Nonostante questo ridimensionamento delle liste “altre”, alla luce dei risultati alla Camera (dove centro-destra e centro-sinistra sono separati da appena 25 mila voti) esse hanno avuto un effetto determinante sull’attribuzione del premio di maggioranza. Particolarmente cruciale il ruolo del non coalizzato Progetto Nord-Est di Panto, che ha raccolto oltre 92 mila voti (concentrati soprattutto in Veneto), totalmente sprecato ai fini dell’attribuzione del premio di maggioranza.
- Per effetto della riduzione dei voti non validi e dei voti andati a favore di liste non coalizzate in uno dei due grandi schieramenti, si è assistito in un forte aumento dei voti validi (in valore assoluto: +2 milioni di voti) espressi a favore dell’Unione e della Casa delle Libertà, e ciò anche in presenza di una riduzione degli aventi diritto residenti in Italia da 49,2 milioni nel 2001 a 47,2 milioni nel 2006.
- Si è registrato un aumento dei consensi a vantaggio sia della Casa delle Libertà sia dell’Unione, ma l’avanzamento è stato più forte nel centro-sinistra. L’Unione, infatti, ha incassato 1,6 milioni di voti in più rispetto ai consensi riscossi nel 2001: si tratta di un aumento del 9,4%. Anche la Casa delle Libertà ha preso più voti, quantificabili in 390 mila, ossia +2,1% rispetto al 2001.
- L’Unione ha guadagnato terreno soprattutto in Campania (+387 mila voti rispetto al 2001), in Lazio (+210 mila voti), in Sicilia (+174 mila voti), in Calabria (+165 mila voti) e in Lombardia (+139 mila voti). A livello di ripartizione geografica, l’Unione è andata particolarmente bene nelle regioni centro-meridionali (+20% di voti rispetto al 2001); deboli le prestazioni nel Triveneto, dove i consensi sono aumentati, in valore assoluto, di appena l’1,4% (nel Friuli-Venezia Giulia e in Trentino-Alto Adige sono addirittura diminuiti).
- La Casa delle Libertà ha beneficiato di maggiori consensi rispetto al 2001 soprattutto in Lombardia (+146 mila voti) e in Veneto (+112 mila voti), ma anche in Sicilia (+68 mila voti) e Lazio (+50 mila). In diverse regioni i voti raccolti (in valore assoluto) sono diminuiti: Piemonte, Toscana, Abruzzo, Campania, Sardegna e, soprattutto, Calabria (–62 mila voti). Il centro-destra è andato particolarmente bene nel Triveneto (+7,5 di consensi rispetto al 2001); peggio nel Mezzogiorno, dove i suoi consensi sono aumentati, in valore assoluto, di appena lo 0,2%.

(Fonte: Istituto Cattaneo, 23 aprile 2006)

giovedì 21 giugno 2007

Effetto serra: Cina in pole position. qualenergia.it

La Cina diventa il più grande produttore di emissioni di gas serra del Mondo. Nel 2006 ha prodotto 6.200 Mt di anidride carbonica contro le 5.800 degli USA, con un raddoppio rispetto al 2000.
E’ ufficiale, la Cina è il più grande produttore di emissioni di anidride carbonica nel mondo e dal 2006 ha superato gli Stati Uniti. Secondo "The Guardian", che ha riportato la notizia ieri, il sorprendente annuncio non farà che accrescere l’ansia per questo nuovo ruolo assunto dal colosso asiatico di guida mondiale del riscaldamento globale e far considerare ormai impellente il coinvolgimento cinese nei prossimi accordi per la lotta contro il riscaldamento globale.

Il sorpasso degli Stati Uniti non era stato immaginato così prossimo, ma secondo l’agenzia di valutazione ambientale olandese (Netherlands Environmental Assessment Agency), l’impennata nella domanda di carbone ai fini della generazione elettrica ha portato, nel 2006, la Cina a produrre 6.200 milioni di tonnellate di CO2 contro le 5.800 degli USA. Altra notizia rilevante è che in soli sei anni (dal 2000) le emissioni di gas serra cinesi sono raddoppiate!
Nel 2005 erano state però inferiori a quelle americane di solo il 2%, ma come abbiamo ricordato in un altro nostro articolo (Fine corsa) la domanda di carbone in Cina è cresciuta lo scorso anno dell’8,7%. Se consideriamo l’anidride carbonica emessa pro capite la Cina resta però molto lontana dai valori che si registrano negli Stati Uniti, è solo un quarto (4,7 t di CO2/pro capite contro 19). Questo è e sarà il punto più controverso nelle future trattative per un nuovo accordo post-Kyoto.

Va precisato inoltre che le cifre ufficializzate prendono in considerazione solo le emissioni cinesi causate dalla produzione di energia da fonti fossili e dai cementifici (questi producono il 44% del cemento a livello mondiale e contribuiscono quasi al 9% delle emissioni del paese), ma non comprendono altre fonti di emissioni come la produzione di metano dall’agricoltura o, ad esempio, l’ossido nitroso prodotto dai processi industriali. Non fanno parte del conteggio neanche le emissioni legate agli incendi delle miniere di carbone che valgono circa 300 Mt (5% delle emissioni cinesi). Includere tutte le emissioni di gas serra non farebbe che confermare la leadership cinese come maggiore paese inquinatore.

Un prossimo cambiamento nell’uso delle fonti energetiche da parte della Cina non è al momento immaginabile, anche se all’inizio del mese è stato annunciato un primo piano di lotta ai cambiamenti climatici dopo una gestazione di oltre due anni. Non vengono comunque previsti obiettivi netti di riduzione delle emissioni, ma piuttosto un miglioramento del 20% al 2010 dell’intensità energetica (quantità di energia consumata su ciascuna unità di prodotto interno lordo), un incremento della quota di rinnovabili tra il 10 e il 15% delle rinnovabili sul totale dell'energia primaria entro il 2020 e una riforestazione di circa il 20% del territorio.

Secondo Gianni Silvestrini, direttore scientifico del Kyoto Club, “l'atteggiamento cinese rispetto agli impegni post-Kyoto non è ancora ben definito. Si lasciano degli spiragli aperti, ma al tempo stesso si vogliono evitare impegni di riduzione”. “Per coinvolgere la Cina (e per certi versi l'India) nelle trattative – afferma ancora Silvestrini - occorreranno proposte innovative, che riguardino non solo il trasferimento di tecnologie, ma che facciano i conti con la peculiarità di questo paese. Per esempio, considerando che una parte importante delle sue emissioni sono relative a produzioni che soddisfano i consumi del resto del mondo (dai vestiti agli elettrodomestici, dai computer alle celle solari, ecc.), si potrebbero separare queste emissioni, che ricadono su una responsabilità collettiva, da quelle "locali" relative cioè alla domanda interna cinese. Occorrerebbe ovviamente intervenire per ridurre la crescita di entrambe, ma con pesi e attribuzioni diverse”.LB

Al direttore. il Foglio

- Il prossimo che mi dice che per i giovani non c’è lavoro gli spacco la faccia. E’ più di una settimana che stiamo offrendo posti di lavoro part-time e full-time a ingegneri informatici appena usciti dai corsi di laurea triennale. Le giustificazioni per i rifiuti sono disarmanti. “Sa, per agosto avevo programmato una settimana di ferie…”, “Veramente vorrei continuare con la specialistica e non so se riuscirei a combinare gli impegni”… Ma stiamo scherzando?
Massimiliano Teodori, via web

Intervista a Luca Ricolfi. Antonio Palmieri

Antonio Palmieri ha intervistato Luca Ricolfi autore del libro
Nel segreto dell'urna. Un'analisi delle elezioni politiche del 2006

1) Per quale motivo ha voluto interessarsi del tema dei brogli delle ultime elezioni politiche?
E’ semplice: ho letto il romanzo di autore anonimo “Il broglio” e mi sono incuriosito. Ho cominciato a lavorare con la mia collega Silvia Testa e, quando è esplosa la polemica a causa del dvd di Deaglio, mi sono trovato in qualche modo preso in mezzo. Sovente i tempi della ricerca scientifica sono più lenti di quelli del giornalismo, e così mi sono trovato - e mi trovo tuttora – a parlare di un argomento che non ho ancora finito di studiare.
2) Nel libro avete seguito e verificato una tesi di partenza oppure è stata la realtà dei fatti da voi rilevati che ha guidato la vostra analisi?
No, una tesi di partenza non c’era, semmai c’era un’ipotesi, che scaturiva dalla lettura del romanzo “Il broglio”: l’ipotesi era che vi fossero stati dei brogli nei seggi, prevalentemente a vantaggio di Forza Italia.
Naturalmente, però, a noi interessava scoprire come erano andate le cose, non certo confermare o falsificare una particolare ipotesi. E il lavoro fatto fin qui non ha confermato l’ipotesi del romanzo “Il broglio”: per quel che possiamo dire a questo punto, ossia con le analisi condotte finora, nei dati elettorali ci sono tracce e indizi di brogli o irregolarità avvenuti dentro i seggi, ma il loro segno è piuttosto variabile in funzione del territorio. Ci sono territori in cui gli indizi sono soprattutto a carico della sinistra, e territori in cui sono soprattutto a carico della destra.
Complessivamente gli indizi a carico della sinistra sembrano un po’ più gravi di quelli a carico della destra, il che suggerirebbe una tesi diversa, se non opposta, rispetto a quella del romanzo “Il broglio”. La verità è che, al momento, nessuno è ancora in grado di stabilire con ragionevole certezza chi ha vinto le elezioni del 2006.
3) Come è articolato "Nel segreto dell'urna"? Si parla solo dei brogli?
No, si parla di un mucchio di altri temi di natura politica. Il volume “Nel segreto dell’urna” (Utet, 2007), curato anche da Paolo Feltrin e Paolo Natale, contiene ben 17 capitoli che si occupano in modo piuttosto analitico di quattro gruppi di argomenti: la campagna elettorale compreso il problema degli effetti della tv sul voto, un eccellente contributo di Silvia Testa e Barbara Loera; il funzionamento della nuova legge elettorale, sia in Italia sia all’estero; le scelte degli elettori, con particolare riguardo alle specificità del Nord e del Sud; infine la storia del primo anno di governo, dal referendum costituzionale (giugno 2006) fino alla tornata amministrativa appena conclusa (maggio 2007).
4) Nel 1994 lei divenne noto per il suo saggio nel quale "conteggiava" il numero di voti a favore di Berlusconi spostato dalle sue televisioni. Negli ultimi anni, invece, lei ha pubblicato saggi "contro" la sinistra. Ci sembra sulla buona strada per diventare il "Pansa dei sociologi", vale a dire un uomo di sinistra che non teme di approfondire e divulgare temi importanti, anche se sgraditi alla sua parte politica. Come vive questa condizione? Ne ha avuto dei danni nella sua attività?
Veramente nel mio lavoro non è cambiato nulla. Semplicemente è successo che alcune ricerche empiriche, senza che io lo sapessi prima, hanno prodotto risultati sgraditi alla sinistra. Quando costruiamo un modello causale per scoprire quanti voti spostano la Rai e Mediaset non possiamo sapere a priori se i risultati dispiaceranno a qualcuno e a chi. In Italia è successo che la Tv pubblica, dopo il 1994-1996, è diventata sempre più faziosa (pro-sinistra), e quindi le stime dei nostri modelli sono divenute sempre meno gradite alla mia parte politica. Tutto qui.
Quanto ai miei studi sul “Contratto con gli italiani” non erano affatto “contro la sinistra”. In “Tempo scaduto”, uscito presso il Mulino due mesi prima del voto, ho mostrato in modo piuttosto dettagliato che Berlusconi non ha rispettato il “Contratto con gli italiani”, e ho sostenuto che – per rispettare il patto stretto con gli elettori – avrebbe dovuto onorare la “sesta promessa”, ossia quella di non ricandidarsi in caso non fosse riuscito a mantenere almeno 4 promesse su 5. Se il libro è spiaciuto alla sinistra è perché, pur mostrando che Berlusconi non era riuscito a mantenere 4 promesse su 5, ho riconosciuto a Berlusconi di avere preso impegni chiari e controllabili, e soprattutto di aver realizzato oltre il 60% di quanto aveva promesso. La sinistra non riesce a concepire l’avversario in modo un po’ rilassato, o quantomeno non manicheo: avrebbero voluto che dicessi che il “Contratto con gli italiani” era pura demagogia, e che Berlusconi in 5 anni non aveva fatto quasi nulla.
Lei mi chiede se io mi sia ritagliato il ruolo di “Pansa dei sociologi”. No, per niente. Io ammiro e stimo enormemente Pansa, ma il mio modo di lavorare è abbastanza diverso. Quando Pansa sceglie un argomento di studio, tipo i delitti dei partigiani nei primi anni del dopoguerra, non sa ancora che cosa esattamente troverà nei documenti e nelle carte, ma sicuramente già indovina a chi i suoi risultati potranno piacere e a chi dispiacere. Nel mio lavoro non è così. Di solito quando inizio a studiare un argomento io non so “chi è l’assassino”, e se ho un’idea a priori sono quasi sempre costretto a cambiarla pesantemente nel corso del lavoro. Alla fine delle mie ricerche sui dati il primo a sorprendersi sono io stesso. Parto per studiare il “Contratto con gli italiani”, e scopro che Berlusconi ha fatto molto di più di quel che si pensa. Parto con l’idea che la Casa delle libertà possa aver rubato voti al centro-sinistra, e nel corso del lavoro incontro anche parecchi indizi di segno opposto. Studio gli effetti della tv sul voto, e una volta trovo che ha aiutato Forza Italia (1994), ma in altre occasioni trovo che la ha danneggiata (2006).
Insomma, studiare argomenti scontati non mi diverte. Mi annoio se dalla ricerca posso aspettarmi solo di scoprire nuovi dettagli, perché sull’argomento un’idea generale me la sono fatta già prima di iniziare lo studio.
Vorrei però anche fare un’ultima osservazione. Molte cose che saltano fuori dalle mie analisi non sono affatto clamorose, ma lo sembrano perché la sinistra è talmente presuntuosa e incapace di vedere i propri limiti che non riesce a concepire che qualcosa non collimi perfettamente con l’idea grandiosa e irreale che ama coltivare di sé stessa. Reciprocamente molte cose assai severe che io scrivo sulla politica economica destra (esempio: in “Dossier Italia” ho documentato il “debito occulto” delle grandi opere) vengono sistematicamente ignorate perché i miei libri contengono sempre un mix di cose gradite e sgradite, e quindi non possono essere sposati in toto da chi si crede perfetto. La cultura di sinistra non è solo arrogante, e quindi antipatica, ma è anche permalosa e indifferente alla verità. Se si prendessero un po’ meno sul serio riuscirebbero anche a digerire con più serenità – con più leggerezza, mi verrebbe da dire – le amare verità che a noi studiosi capita qualche volta di incontrare. Parlare con Marzio Barbagli per credere …
(Marzio Barbagli è di sinistra, ed è probabilmente il miglior sociologo italiano. Ha avuto però un piccolo torto: quello di accorgersi che il tasso di criminalità degli immigrati è enormemente più alto di quello degli italiani, una scoperta che ancora oggi molti a sinistra non gli perdonano).
5) Con il gruppo di studiosi che lei ha raccolto con "Polena", la rivista quadrimestrale da lei diretta, su quale tema punterete la vostra attenzione ora?
La rivista “Polena”, in ogni numero, lancia un paio di puzzles, che invitano gli studiosi a cimentarsi con problemi empirici difficili e importanti. Fra gli ultimi puzzles c’è stato quello sui brogli alle elezioni politiche del 2006, o quello sulla reale esistenza dell’effetto-Visco, ossia di una maggiore propensione degli italiani a pagare le tasse dopo la nascita del governo Prodi.
Personalmente sto lavorando a due nuovi problemi: quanti partiti sono effettivamente necessari in Italia ? qual è la vera storia dell’occupazione precaria in questo paese ?

mercoledì 20 giugno 2007

Le notorie scempiaggini sullo scempio di Noto. Carlo Stagnaro

Lo scrittore Andrea Camilleri, con la cooperazione di Giovanni Valentini e della Repubblica, si è lanciato contro la ditta texana Panther Eureka, colpevole di voler cercare "petrolio" (in realtà gas, ma Camilleri e Valentini non se ne sono accorti, o non conoscono la differenza, oppure fanno finta di niente, o tutte e tre le cose) nella Val di Noto. Camilleri ha scritto un accorato appello su Rep, grazie al quale sono state raccolte oltre 70 mila firme contro le trivelle. Intervistato dallo stesso quotidiano, lo scrittore siciliano proclama: "mi sono battuto come Montalbano". Minchia. Camilleri e Valentini hanno tutte le ragioni, nell'universo parallelo in cui vivono. Nel nostro mondo, invece, hanno torto marcio, perché o non conoscono le cose di cui scrivono (legittimo, per carità) oppure le sanno e raccontano balle. Tranquillizzatevi: il barocco siciliano non è a rischio. Lo è solo la potenzialità della Sicilia come terra d'idrocarburi. Ne ho scritto in una lettera aperta, grazie all'aiuto e all'assistenza di un rude perforatore che ha guidato la mia mano nel vergare battutacce da bar, volgari e irriverenti, che io mai mi sarei sognato di fare ;-)

martedì 19 giugno 2007

Quando lo Stato tratta...

Se lo Stato si rimangia la parola, non è più credibile.
Ultimo in ordine di tempo il caso Priebke. Non entro nel merito, ma se un magistrato concede il permesso di poter uscire dagli arresti domiciliari, non si comprende il motivo di una revoca il giorno stesso sotto la spinta della piazza. Priebke non è la prima volta che subisce l'ira della folla: in primo grado nel '96 venne prosciolto perché la Corte ritenne il reato estinto, ma in seguito alle proteste, soprattutto delle comunità ebraiche, venne riprocessato. Condannato a 15 anni, ridotti a 10 per motivi di salute, fu condannato, sempre in seguito alle proteste, all'ergastolo dalla Corte d'Appello. Per motivi di età, tra un mese compirà 94 anni, ebbe gli arresti domociliari.
E' troppo chiedere la certezza della giustizia oltre che quella della pena?

Ariano Irpino: la piazza blocca le strade e lo Stato tratta. Pochi, per difendere interessi privati, danneggiano la popolazione dell'intera provincia di Napoli invasa dai rifiuti.
E quella di Ariano Irpino non è che l'ultima di una lunga serie di blocchi stradali e sit-in che si verificano in quell'area.

Tav: basta la parola! No Tav è un movimento organizzato, un fenomeno di massa che quasi certamente riuscirà nell'intento di bloccare il corridoio 5. Anche in questo caso non voglio entrare nel merito: ma se lo Stato prende delle decisioni che ritiene giuste e corrette, deve andare avanti senza paura di perdere consensi.

Scanzano Jonico: viene trovato un sito che, a detta dei geologi, è sicuro e adatto per lo stoccaggio delle scorie radioattive delle centrali nucleari dismesse. Sappiamo come è andata a finire: in questo caso fu il governo Berlusconi a cedere di fronte alla sollevazione della piazza.

Vorrei uno Stato che sappia far valere le sentenze e le leggi, che non sia oltremodo indulgente con chi alza troppo la voce ed abbia il coraggio delle proprie azioni.
La credibilità e l'autorevolezza si conquistano sul campo con l'esempio.
Uno Stato che si attiene alle leggi che promulga e le fa rispettare è uno Stato che si fa rispettare.

lunedì 18 giugno 2007

Moralismi e moralità dei vecchi Ds. Angelo Crespi

La vicenda delle ultime intercettazioni sul caso Unipol (D’Alema, Fassino, Consorte) ci spinge ad alcune sommarie considerazioni. Non tanto sull’uso indiscriminato del mezzo di indagine e sulla pubblicazione delle telefonate che troviamo disdicevole, e neppure sulla rilevanza penale di quanto letto, che spetta alla magistratura, bensì sui risvolti morali. Che ci sono non perché valutiamo eticamente scorretto l’incitamento di D’Alema a Consorte, «facci sognare», bensì per l’ironico contrappasso che gli ex comunisti sono costretti a subire, loro che da sempre si sono fatti paladini della celeberrima “questione morale”.

La presunta moralità dei comunisti è una sorta di mitologia che affonda le proprie radici nel farsi della Repubblica. L’apologia della Resistenza, e poi l’uso strategico della cultura come mezzo per la conquista del potere, e poi il richiamo esplicito alla “questione morale”, furono tutti escamotages necessari al Pci per mantenere una credibilità erosa dal cattivo funzionamento del comunismo. Una specie di menzogna protratta all’infinito per mascherare i delitti commessi a milioni. In definitiva, uno strumento retorico utile per chi non aveva altre carte da spendere.

Il tic resta a deformare il volto anche della dirigenza postcomunista. Che appena può si spreca in ridicole difese della moralità politica.Fa sorridere il continuo allarmismo dei Ds nei confronti di Silvio Berlusconi, il continuo richiamo alla cosiddetta “emergenza democratica” quando si tratta di criticare lecite posizioni del Centrodestra. Perfino lo sciopero fiscale (citato da Berlusconi in modo retorico) ha una sua dignità politica, non meno lecita che gli scioperi di altro tipo. E di certo è meno grave delle illegalità dei centri sociali, delle piazzate dei facinorosi no-global, degli attentati delle nuove Brigate rosse, che però, guarda caso, vengono giudicate con un occhio di riguardo da chi ama molto il moralismo e poco la morale.

Qui sta il punto: il Pci prima, i Ds oggi (domani il Pd?), confondono il moralismo con la moralità. Nessuno si sarebbe scandalizzato delle affermazioni carpite al cellulare di Consorte, se i Ds per primi e in modo stucchevole non avessero fatto della “questione morale” un leitmotiv del loro impegno politico: insistendo sul fatto che non esistevano collegamenti tra il partito e le cooperative, che nessuno di loro si interessava di banche e finanze, che mai e poi mai la politica può essere piegata ad interessi così biechi. Già ai tempi del vecchio Pci, Pier Paolo Pasolini ricordava che «Il moralista dice di no agli altri, l’uomo morale solo a se stesso». Oggi abbiamo a che fare con uomini che sanno dire solo sì a sé stessi.

La dea della libertà. Maurizio Molinari

Bush inaugura a Washington il memorial alle vittime dei regimi comunisti

Esuli cubani, veterani dell’esercito del Sud Vietnam, artisti cinesi, deputati di Praga e Varsavia, ambasciatori delle democrazie dell’Est e molti americani con i capelli grigi testimoni dei duelli della Guerra Fredda sono seduti fianco a fianco di fronte al memoriale per le cento milioni di vittime del comunismo. Il monumento è il primo al mondo che ricorda assieme tutti «martiri del comunismo», dalla Cina alla Germania Est, e raffigura la «Dea della Democrazia» con le sembianze che le diedero gli studenti cinesi sulla Piazza Tienanmen nella primavera ‘89.

Per inaugurarlo nei pressi di Capitol Hill il presidente americano, George W. Bush, sceglie un giorno simbolico: il ventennale del discorso di Ronald Reagan a Berlino in cui chiese all’Urss di Mikhail Gorbaciov di «buttare giù questo Muro». Volti e discorsi che si sovrappongono all’ombra della «Dea della Democrazia» realizzata dallo scultore Thomas Marsh descrivono un’America determinata a conservare la memoria delle vittime del comunismo come monito contro le tirannie del XXI secolo.

Di fronte a una folla di cappellini e vestiti colorati con le insegne di Taiwan, Cuba libera e Vietnam del Sud a cantare con passione l’inno americano è una cantante russa di San Pietroburgo, la città di Vladimir Putin, per poi lasciare il palco a Pietro Sambi, nunzio della Santa Sede, che nell’invocazione religiosa descrive il Novecento come «il secolo dei martiri del comunismo».

Il memoriale nasce dall’iniziativa di due conservatori doc come Lev Dobriansky e Lee Edwards ed è quest’ultimo a ricordare come «Reagan pronunciò quel discorso a Berlino contro il volere del Segretario di Stato George Shultz e di personaggi come Colin Powell che temevano di irritare Mosca». La folla applaude contro «gli americani scettici che tentennano nel difendere la libertà» come dice Edwards prima di cedere la parola al democratico Tom Lantos, presidente della commissione Esteri della Camera. Sopravvissuto alla Shoah, nella resistenza antinazista e poi anticomunista, Lantos racchiude i valori in cui la platea si riconosce: «E’ stata la libertà a sconfiggere il nazismo e il comunismo e sarà la libertà a battere il radicalismo islamico di Ahmadinejad». «L’Europa non sarebbe libera senza gli Stati Uniti ma Chirac aveva dimenticato i caduti in Normandia e Schroeder i voli per rifornire Berlino assediata, con Sarkozy e Merkel al loro posto le relazioni con l’Europa possono essere rilanciate» aggiunge Lantos fra le ovazioni, riservando all’ex cancelliere la qualifica di «prostituta politica» per essere entrato nel libro paga del gigante energetico russo legato al Cremlino.

Quando arriva Bush esuli, dissidenti e veterani si infiammano e lui risponde elencando chi perì per mano comunista: dall’eroe antinazista Raul Wallenberg al prete polacco Popieluszko, dai «balseros» cubani ai cinesi sterminati da Mao, agli ucraini affamati da Stalin. «La Dea della Democrazia - conclude il presidente - ci ricorda la grande lezione della Guerra Fredda, la libertà non è scontata, il Male esiste e bisogna affrontarlo, oggi ad avere mire totalitaria sono i terroristi che ci hanno attaccato l’11 settembre». Il poeta vietnamita Nguwyen Chi Thien, con 27 anni di carcere alle spalle, piange di gioia mentre vicino a lui a gridare «bravo!» è una settantenne signora bianca, anglosassone e protestante con al braccio una fascia nera per ricordare «mio marito caduto per l’America nella Guerra Fredda».

Dei delitti e delle pentole. http://celodicehillman.blogspot.com/

(....)In paesi all'apparenza più severi come Austria e Svizzera, il fisco si relaziona personalmente con il contribuente, accordandosi sul trattamento più adeguato e fornendo tutte le risorse e le nozioni per partecipare correttamente alla vita dello Stato. Solo successivamente e in presenza di mancanze palesi, intervengono le sanzioni.
Altro esempio. Siamo il paese europeo con il più alto tasso di incidenti stradali, nonostante si sia ormai raggiunto un sistema sanzionatorio che non si ricordava dai tempi delle prigioni turche nel dopoguerra. Tra qualche tempo infrangere un divieto di sosta comporterà lo scorporo di un quarto di tutte le proprietà immobiliari, frattanto nessuno si preoccupa di insegnare come si sta in strada, di non dare la patente a chi ha difficoltà a pilotare un carrello della spesa tra i corridoi della coop e creare un sistema viario che non somigli a un livello di doom. Abbiamo molti più incidenti di paesi in cui i limiti di velocità sono più elastici dei nostri e dove, soprattutto, gli autovelox non sono usati come dei bancomat dalle amministrazioni comunali.
In una società in cui la sanzione è l'unico rapporto tra Stato e cittadino, in cui vengono perdonati assassini, ma se non metti la marca da bollo su un documento sei un bandito e quindi bandito dalle attività pubbliche, non si può sperare di risalire i gradini della civiltà attraverso la paura e le minacce (padella padellae) o se proprio si vuole percorrere questa strada, non si ci si può accontentare di intascare più multe possibili, bisogna colpire subito, sempre, duro e tutti.
Altrimenti l'unica educazione che si ottiene è l'addestramento ad evitare le punizioni a sopportarle e a condividerle. Uno di quelli che dicono le cose, disse un giorno che a mettere insieme i cattivi si dà loro forza e consapevolezza ed è meglio non far sapere quanti pochi siano i buoni. La punizione colpisce l'uomo, ma non lo rende migliore. Educare frutta in qualità ed evoluzione civile, niente che si possa usare per comprare una Porsche Cayenne purtroppo.
Se siamo un popolo di furbi, squali e vittime è anche perché l'unico strumento di consapevolezza sociale che conosciamo è tirare qualche padellata a casaccio nel mucchio.( postato da Cruman )

Franqui contro il caudillo. Davide Giacalone

Sentir raccontare, leggere la storia e la sostanza della rivoluzione cubana da uno che l'ha fatta, l'ha voluta, l'ha combattuta è quanto di più istruttivo si possa immaginare. Carlos Franqui non potrà essere liquidato come controrivoluzionario, perché fu un rivoluzionario, un attivista contro il regime di Batista che pagò con il carcere e sulla propria pelle il prezzo delle scelte fatte.

Fu l'animatore ed il direttore di Radio Rebelde, che già durante la guerriglia diffondeva nell'isola la voce dei rivoluzionari, rivolgendosi anche alle truppe regolari per indicare loro la via della diserzione e della rivolta. Fu l'uomo che salvò la vita di Fidel Castro, perché quando furono sorpresi allo scoperto e mitragliati da un aereo fu Franqui ad indicare a Castro una buca dove mettersi al riparo: c'era posto per uno solo e quel posto fu ceduto ad un Fidel “più importante per la rivoluzione”. E tutto questo non è negabile.
Fa, dunque, una certa impressione leggere quello che quest'umo scrive: “Che lo si voglia o meno, Fidel Castro è il figlio putativo di Fulgencio Batista, senza l'uno non sarebbe esistito l'altro, e se è vero che Castro moltiplicò all'infinito i mali di Batista, nessuno dei due si salva dai crimini commessi né dall'uso della forza”. E, allora, com'è possibile che un oppositore di Batista abbia combattuto per Castro? E' possibile perché la rivoluzione non fu castrista fin dall'inizio, Castro era certamente un leader importante, un capo, ma ce n'erano altri, c'erano altri movimenti ed altri sentimenti e lui stesso non era comunista, non si diceva e non si pensava tale. Ma cammin facendo il giovane futuro dittatore fece fuori quelli al suo livello, in questo aiutato proprio da Batista, e poi cambiò natura alla rivoluzione, allineandola ad un comunismo posticcio ed in salsa caraibica. Quindi quel che è successo dopo non era nelle premesse, e chi combatté per la libertà non sapeva di star lavorando per una più ferrea dittatura. “E' una verità incontrovertibile - scrive Franqui - che il trionfo della Rivoluzione castrista è stato, ed è tuttora, l'avvenimento più tragico della storia di Cuba”.
Il libro, “Cuba, la rivoluzione: mito o realtà” (Baldini Castoldi Dalai), non è solo un tentativo di restituire verità storica ad una vicenda raccontata come fosse mitologia, è anche un affresco di vita cubana, dove si ritrovano i suoni, i colori e gli odori tanto cari a chi ha conosciuto quest'isola straordinaria. La fanciullezza e la prima giovinezza da figlio di un povero, ma tenace, tagliatore di canna. Le esperienze e le sofferenze che lo portano alla ribellione, al desiderio di rivoluzione per sanare le ferite dell'ingiustizia, dell'enorme differenza fra ricchi e poveri. Le sorti umane e familiari affidate talora alla clemenza degli elementi naturali, come i cicloni che possono spazzare via tutto quello che si ha, tutto quel che si è costruito. C'è tutto e c'è il racconto di una vita dedicata con passione alla cultura, che mano a mano ha visto spegnersi e trasfigurare gli ideali per cui si era combattuto.
Come può uno spirito libero accettare di piegarsi al concetto secondo cui “qualsiasi critica è opposizione e qualsiasi opposizione e controrivoluzionaria”, per cui mai nulla poteva osservarsi sugli errori commessi da Castro e dai suoi, perché con ciò stesso si entrava a far parte dei nemici batistiani, nel frattempo comunque scomparsi? Non si piegava, e non si piegavano i tanti uomini che avevano fatto la rivoluzione, che l'avevano anzi avviata, perché furono decisive non le battaglie sui monti della Sierra, ma i movimenti d'opposizione presenti nelle città, la rete degli agitatori politici protagonisti della propaganda e del sabotaggio, tutti uomini che non vollero piegarsi e che, per questo andarono incontro alla galera, ai campi di concentramento, alla morte. Ma non per mano del loro nemico d'allora, ma a cura di chi allora diceva di combattere con loro e poi si sarebbe rivelato il loro aguzzino.
E non solo questo avveniva a Cuba, non solo chi aveva a cuore la libertà se la vedeva negata e repressa da una rivoluzione che avrebbe dovuto esaltarla, ma il grande equivoco si riproduceva anche all'estero, dove buona parte della cultura si rifiutava di sentire le parole di Franqui, preferendo addormentarsi cullata dalla ninna nanna della propaganda. Esemplare, da questo punto di vista, il rapporto con Sarte, lo scrittore francese che divenne vate e rappresentante della rivolta europea contro il passato, che accettò di visitare Cuba, che s'inorgoglì nel vedersi osannato da un popolo così lontano, ma che poi volle chiudere le orecchie a quello stesso Franqui che lo aveva invitato quando questi tentò di spiegargli cosa stava succedendo. Sarte non è un caso isolato. Di suo, Sartre, ci mise una rara incapacità di capire la politica (e si ricordi la lunga battaglia contro Aron, la cui ragione dovette infine ammettere), ma con altri intellettuali divideva altre due caratteristiche davvero poco commendevoli: la viltà e la vanità.
Significativo ed istruttivo il ritratto di Guevara. Dei due, fra Franqui e Guevara, il democratico era il primo. Guevara alternava periodi di fascinazione per i dogmi comunisti ad altri di trasparente ammissione d'essersi sbagliato. Carattere autoritario ed iracondo, seppe però riconoscere a Franqui la fermezza con cui gli aveva fatto notare in anticipo gli errori che poi lui avrebbe riconosciuto. E se il rapporto fra loro due era duro, ma leale, la stessa cosa non poteva dirsi dei rapporti fra Guevara e Castro. Franqui lo dice con chiarezza: non è detto che Castro fosse fra gli organizzatori della cattura e della morte di Che Guevara, di certo ne fu uno dei più contenti.
Il ritratto della Cuba odierna è impietoso: “Si vive nella diffidenza, bisogna guardarsi da tutti e da tutto, non esiste la minima libertà, e così si vive un giorno dopo l'altro, un anno, dieci anni, quarantacinque anni, una vita sempre uguale, senza illusioni né speranze né piaceri, che si sia bambini, giovani o anziani. I cubani si rifugiano nel corpo, nel sesso, nel ballo, nel rum di pessima qualità, o nella ricerca del turista che ti salvi, o nei famigliari in esilio, nelle barzellette sarcastiche e violente contro i responsabili della loro tragedia. L'immensa maggioranza non è schierata con il sistema, ma è convinta che lottare per cambiarlo conduca soltanto al carcere o alla disgrazia, e sono come il bottegaio di cui parla Václav Havel: al sistema non importa ciò che si pensa, basta che si ubbidisca, perciò quando lo convocano per le sfilate, lui c'è, e se non si presenta dispongono dei mezzi per cacciarlo dal lavoro e da qualsiasi posto. Il malcontento è generale, e così pure l'apatia”.
Franqui, come molti, è un cubano che ha dovuto rinunciare a Cuba e, come gli altri, ne sente la nostalgia. Ma ha dedicato la vita a Cuba ed ai cubani, ha dedicato se stesso alla dimostrazione che quell'apatia deve essere sconfitta, che i cubani hanno diritto di aspirare alla libertà e ad un mondo migliore. L'essere stato un eroe della rivoluzione gli è stato più d'ostacolo che d'aiuto. Ma sarà il tempo a rimettere in equilibrio la bilancia, mentre il caudillo, il dittatore, il barbuto negatore d'ogni diritto ha già conquistato il posto che gli spetta nella mente e nel cuore di quanti non si sono ubriacati di mitologia.

L'annus horribilis della scuola italiana. Pietro De Leo

Quello che si è appena concluso è stato l'annus horribilis della scuola italiana. L'opinione pubblica benpensante ha scoperto che la foresta brucia, che il re è nudo, che la scuola non è l'isola più o meno felice che molti credevano, ma è una giungla di bulli, esibizionisti e professori che fanno piazzate animalesche. Non serviva lo shock dei video rivelatori pubblicati su You Tube o sullo «Scuolazoo» per sapere che il nostro sistema è un colabrodo. Questo dovevamo averlo capito già da tempo, perché i sintomi c'erano. C'era l'atteggiamento con cui gli studenti la mattina reagivano al suono della campanella. C'era il gap culturale, tecnico e di educazione civica che dei nostri studenti rispetto ai loro pari età europei. C'era anche il fatto che l'Università (altro colosso disastrato) ha iniziato a misurare in maniera autonoma la qualità di preparazione delle matricole, ritenendo il voto di maturità indice di un bel nulla. E poi c'erano i programmi, i troppi soldi spesi per libri qualitativamente scadenti, le troppe ore al giorno passate sui banchi di scuola e le troppe ore a casa per i compiti che non finiscono mai. Così, se uno studente ha una passione artistica, può coltivarla «solo dopo aver studiato» - cioè mai - e lo stesso vale per lo sport. O studi, o studi. In questo contesto, è chiaro che uno appena può scappa al bagno a fare il circo.

E i professori? Di sicuro, per una cultura come la nostra, che ha dato i natali al mitologico rapporto discepolo-maestro, siamo alla frutta. Come è inopportuno criminalizzare una generazione di studenti, allo stesso modo non è il caso di farlo con una categoria. Analizzando qualche video si vedono insegnanti rincorrere i propri studenti gridando fra i banchi, altri che fanno lezione con la sedia sulla cattedra (per poi cadere rovinosamente), altri che protestano rumorosamente contro l'operatore di un call center al telefonino durante l'ora di lezione. Per non parlare di quella professoressa che si lascia mettere le mani nei pantaloni continuando imperterrita a fare lezione. Accanto a quel preside che giustamente e lucidamente ha imposto a due studenti (autori di un video in cui documentavano insulti lanciati ai passanti dalla finestra della scuola), un filmato riparatore di scuse, ne stiamo attendendo uno che richieda la stessa cosa ad un insegnante. Non dobbiamo scandalizzarci: chi non ha avuto il prof. che dava di matto? O quello che scaricava con scenate tragicomiche le frustrazioni di una vita privata che non va? O quello che tra tutti gli studenti ne bersagliava continuamente uno dimostrandosi più bullo dei bulli? E' quasi folklore, ma pesa sulla formazione dei giovani.

Basterà mandare i cani antidroga nelle scuole, oppure inasprire lo «statuto degli studenti e delle studentesse», o addirittura vietare la diffusione su internet dei filmati girati nelle aule? No, serve molto di più. Grazie a internet abbiamo capito quanto lo sfascio sia grave. E, per quanto riguarda la mancanza di contegno degli insegnanti, mandare in circolo certi video è l'unica forma, per quanto irriverente e condannabile, di tutela. Provate a mandare uno studente dal preside per denunciare un professore che si comporta male in classe, e vedrete quello che gli succede. In queste condizioni, serve innanzitutto qualificare il personale docente, premiando i più preparati e sanzionando i negligenti. Poi occorre che gli studenti possano tracciare un percorso di apprendimento che tenga conto anche del loro talento e delle loro aspettative. Non scordiamoci che la scuola è un servizio pubblico che deve adeguarsi alle aspettative dei propri fruitori. Sì, proprio come un'azienda, e non dobbiamo avere paura di dirlo. Soprattutto perché è una parola che ha sempre spaventato gli accademici della sinistra elitaria e su cui è stato costruito un incubo dietro il quale nascondere ciò che risultava scomodo ai sindacati: la selezione, la qualità e l'adeguamento dei programmi ai bisogni delle famiglie e degli studenti.

Polveri sottilissime e naturali. Francesco Ramella

Naturale = buono. Artificiale, "chimico" = cattivo. E' questo uno dei miti fondanti del movimento ambientalista.Ma, come spesso accade, i fatti hanno il brutto difetto di non volere andare d'accordo con le ideologe.Nel suo gustosissimo Il segreto della chimica, Gianni Fochi della Normale di Pisa spiega come nei frutti si ritrovino pesticidi di origine naturale in quantità di gran lunga superiore a quella che deriva dai trattamenti con prodotti sintetici. Anzi, questi ultimi riducono la produzione dei pesticidi naturali ed inoltre, rimanendo in gran parte sulla buccia, possono non essere ingeriti.Una recente ricerca svolta in Provincia di Bolzano, Stiria e Cariniza, sembra giungere ad analoghe conclusioni per le famigerate polveri sottili la cui pericolosità, ci si dice, cresce al diminuire delle dimensioni delle particelle. Ebbene, secondo i risultati studio si ha: "una prevalente presenza di particolato più corposo, PM10, nelle aree cittadine fortemente trafficate della valle dell'Adige, mentre nelle zone di background prevalono le particelle più fini PM 2,5 e PM 1...In Val Venosta, a Laces, è da evidenziare che, a differenza di quanto pensato, circa il 90 per cento delle polveri sottili sono costituite da particelle molto fini quali le PM 2,5 e PM 1"Da dove arrivano tali particelle? Sono "i residui della combustione di legna".Peggio un camino o un falò di un tubo di scappamento?

venerdì 15 giugno 2007

Vaclav Klaus: il riscaldamento globale e il futuro della libertà. Carlo Stagnaro

giovedì 14 giugno 2007
Sul Financial Times di oggi c'è un imperdibile commento del presidente ceco Vaclav Klaus sul tema delle politiche climatiche. "Da persona che ha vissuto sotto il comunismo per la maggior parte della sua vita - scrive Klaus - mi sento in dovere di dire che vedo la più grave minaccia alla libertà, alla democrazia, all'economia di mercato e alla prosperità non nel comunismo, ma nell'ambientalismo. Questa ideologia vuole sostituire la libera e spontanea evoluzione del genere umano con una sorta di pianificazione centrale (ora globale)". Chapeu.

Cancellare la Corte dei Conti. Davide Giacalone

Il governo Prodi, com'è noto, dopo aver considerato il generale Speciale uno sleale ha deciso di farlo diventare magistrato della Corte dei Conti. Egli ha rifiutato, considerandola un non dignitoso cimitero degli elefanti. Questo edificante episodio serve a capire cosa pensano della Corte dei Conti tanto il governo quanto l'appena destituito capo della Guardia di Finanza.
Condivido il loro giudizio.
Del resto, che razza di magistratura è quella in cui si entra con un decreto del governo? E, badate, non è che questa sia una turpitudine di Prodi, ma una mala pratica che non è mai venuta meno ed alla quale tutti hanno collaborato. Se cercate nelle biografie di quei magistrati ne trovate a mazzi che debbono tutto alla politica. Ci sono capi di gabinetto ministeriali, capi degli uffici legislativi, consiglieri ministeriali a vario titolo, anche portavoce ed attacché misti, amici, parenti ed affini, tutti ex, post o futuri candidabili ad incarichi pubblici momentaneamente parcheggiati o definitivamente sepoliti alla Corte dei Conti. Una volta nominati sono numerosi i magistrati di quella Corte che partecipano attivamente e personalmente alle scelte di spesa pubblica che poi criticano, o addirittura giudicano. Basterebbe pubblicare la mappa completa dei togati che prendono parte a consigli d'amministrazione di società pubbliche, che hanno incarichi di controllo o di collaudo presso amministrazioni pubbliche o parapubbliche, che svolgono funzioni di vario genere in organismi amministrativi, il tutto con lauto compenso aggiuntivo, per rendersi conto di quanto si sia nell'assurdo.
E non parliamo dei compiti giurisdizionali, quando, cioè, s'atteggiano a giudici. La procedura è orribile, l'imputato non ha neanche il diritto di difendersi in prima persona, non c'è il terzo grado di giudizio, e nonostante questo i processi hanno durata sonnacchiosa e tendenzialmente eterna. Quei giudici dovrebbero decidere del “danno erariale”, di quanto costano gli errori od il dolo dei dipendenti incapaci od infedeli, e farsi risarcire. Ma quando lo Stato è condannato a pagare per come la stessa Corte viola il diritto al processo in tempi ragionevoli, quei magistrati dovrebbero perseguire se stessi. Cosa che non hanno mai fatto. C'è una buona riforma da fare, cancellare la Corte dei Conti.

D'Alema-Stampa, lite per l'aereo di Stato. Corriere della sera

Il ministro degli Esteri, Massimo D'Alema, è in visita ufficiale nell'area balcanica: ieri era in Kosovo, oggi a Belgrado. E come sempre al suo seguito ci sono gli inviati accreditati di tv, agenzie di stampa e quotidiani italiani, che lo seguono viaggiando con lui sull'aereo di Stato. Tutti tranne uno: quello della Stampa. Ammalato? No, lasciato a terra. Per decisione dello stesso vicepremier. Il quale, in questo modo, ha forse inteso prendersi una rivincita dopo la pubblicazione, da parte del giornale torinese, delle indiscrezioni sul suo presunto conto corrente segreto in Brasile contenute nel rapporto Kroll.
L'UNICO ESCLUSO - A darne notizia è proprio la Stampa in un commento non firmato (e quindi attribuibile alla direzione) intitolato «Aerei di Stato». Il quotidiano racconta che un primo caso di esclusione da un viaggio organizzato dalla Farnesina si era registrato nei giorni scorsi, in occasione della trasferta del ministro ad Ankara. L'inviato della Stampa era stato il solo a non essere imbarcato al seguito di D'Alema. «La Farnesina chiariva che l'esclusione non era personalmente rivolta al giornalista - si legge nel comunicato -, ma alla testata per a quale lavora».
LA SECONDA VOLTA - Dopo il primo episodio la direzione del quotidiano aveva pensato di soprassedere, «preferendo far rientrare l'accaduto nel vasto capitolo dell'umoralità dei potenti». Ma quando il ministero ha concesso il bis, negando per la seconda volta il «passaggio» all'inviato della Stampa, la questione non ha più potuto essere presa sottobanco.
I PRECEDENTI - «Non è la prima volta che episodi del genere accadono - ricordano dalla redazione di via Marenco -: Cheney in America, Schroeder in Germania e Bettino Craxi in Italia trattarono nello stesso modo giornalisti "colpevoli" di avere scritto cose sgradite o di appartenere a un giornale che intendevano punire».
BENI PUBBLICI, VIZI PRIVATI - Alla Stampa precisano di non volere enfatizzare il caso più del necessario. «Ci limitiamo a sottolineare che un uomo delle istituzioni ha pienamente diritto di non far salire persone sui mezzi che gli appartengono, macchine, aerei o barche da diporto. Se però disponde dei beni pubblici come se fossero suoi, apre una questione che va al di là dello stile che il ruolo dovrebbe comportare».

La nemesi della storia. Gianteo Bordero

La crisi che sta investendo i Ds non è dovuta soltanto a motivi contingenti. Non è spiegabile solamente alla luce della cronaca. Le cause sono più profonde, vengono da lontano. Sono cause di natura storica e politica. Sulla base delle quali si può tranquillamente affermare che ciò a cui stiamo assistendo in questi giorni, con i postcomunisti nell'occhio del ciclone per la vicenda Unipol-Bnl, è niente di più e niente di meno che una nemesi storica che si abbatte violenta su chi ha truccato le carte per trarre profitto indebitamente dal corso degli eventi.

Oggi i diessini gridano al complotto per la pubblicazione delle intercettazioni che vedono coinvolti i vertici del partito, parlano di un «attacco allo Stato di diritto», si stracciano le vesti per la violazione delle procedure giuridiche. Ma come? Non sono stati proprio loro, a partire da Tangentopoli, a cavalcare l'onda lunga del giustizialismo d'assalto che ha spazzato via i partiti democratici, liberali e laici della prima Repubblica? Non sono stati loro a presentarsi, memori della retorica berlingueriana, come gli eticamente «diversi», come i paladini della «questione morale»? Non sono stati loro, sulla base di tale «diversità», ad auto-legittimarsi come unica forza politica in grado di costruire un nuovo ordine repubblicano? Questa operazione di maquillage politico, che peraltro contraddiceva la storia garantista del Pci, se da un lato è servita agli eredi di Togliatti per raggiungere il tanto agognato governo del Paese, dall'altro lato non ha fatto che perpetrare un clima avvelenato, un atteggiamento pregiudizialmente ostile nei confronti della classe politica. Clima che, alla fine, non poteva che rivoltarsi contro i suoi stessi promotori.

Chi è causa del suo mal, pianga se stesso. I dirigenti diessini possono parlare quanto vogliono di «crisi della politica»: se tale crisi esiste, se cioè nel sentire comune è andato perduto il senso ultimo dell'agire politico, la «ragion politica», è perché chi poteva porre un freno - per cultura, intelligenza e tradizione - alla delegittimazione della politica non lo ha fatto. Sta qui l'errore tragico. Se oggi D'Alema & CO. vengono attaccati da tutte le parti per la questione Unipol, se un'operazione legittima (altra cosa è l'opportunità) come la scalata delle assicurazioni rosse a Bnl viene giudicata come il peggiore dei crimini, se finisce nel ventilatore fango che schizza senza controllo sui massimi esponenti del partito, è perché la (inesistente) «superiorità morale» è stata usata a sproposito per chiamarsi fuori dalle normali vicende e vicissitudini politiche, persino dalla storia politica. La quale, ora, presenta implacabile il conto.

Ed è un conto salato. Come quello pagato per l'altro grande errore che sta all'origine della crisi diessina: quello riguardante la questione dell'identità. Anche in questo caso si è voluto giocare con la storia senza mai farci i conti fino in fondo. Si sono cambiati i nomi, la falce e il martello sono scomparsi dalle insegne di partito, ma di un ripensamento serio della propria natura e del proprio ruolo politico dopo la fine del comunismo neanche l'ombra. La parola «comunista» è diventata impronunciabile non per il fallimento del comunismo, ma per una strana paura di se stessi, delle proprie radici, della propria storia; paura dei propri errori e delle proprie responsabilità. E così ridefinirsi politicamente è diventato impossibile. Col risultato di raggiungere i massimi vertici del potere proprio nel momento in cui si faceva più forte quella che Gianni Baget Bozzo ha definito la «tempesta nichilistica» che investe i Ds. Un fatto, questo, che ben si riassume nella scelta di aver affidato al contenitore anodino del Partito Democratico e al tecnocrate democristiano Romano Prodi, che oggi non muove un dito per difendere la Quercia dai fulmini che le piovono addosso, le sorti della propria avventura politica.

Sembra così, in questi giorni, che il peso della storia si riversi di colpo sulle spalle dell'ultimo grande partito erede delle culture politiche novecentesche; sembra che questioni lasciate colpevolmente irrisolte dalla classe dirigente diessina si affastellino attorno ai volti dei responsabili del partito; sembra che gli errori del passato facciano tutti insieme capolino dalle intercettazioni telefoniche riguardanti il caso Unipol e dal dibattito sul Partito Democratico. La via d'uscita - dicono D'Alema e Fassino - è ridare voce e forza alla politica. Vero. Peccato che i loro stessi alleati, coloro che domani dovrebbero diventare parte del medesimo soggetto politico, siano intenzionati a percorrere una strada diversa, che finirebbe col fare del Ds e della sua storia carta straccia nel nome di un Pd senza volto e senza identità. Avranno, D'Alema e i suoi, il coraggio di rompere prima che sia troppo tardi?

giovedì 14 giugno 2007

Le "fiscoballe" del Governo su evasione e Tav. Marco Taradash

Dopo le ecoballe che non sa come riciclare ecco le fiscoballe che il Governo riesce invece a far circolare ad alta velocità. Come quelle scaricate ieri sui media italiani a proposito di evasione e di Tav. Si comincia al mattino con l’Agenzia delle Entrate. Il Conte Visco ci vuol far credere che, poverini, gli Italiani pagano così tante tasse perché ci sono tanti che – stramaledetti - non le pagano affatto. Il Corriere della Sera, la Repubblica, La Stampa, Il Messaggero, perfino il Tempo, abboccano. E’ il nero, il sommerso, a provocare le vessazioni fiscali. Tanto che l’evasione dell’Iva è salita fino a 43 miliardi di euro, su una base imponibile di 270 (“270 miliardi evasi” titolano però i giornali) . Sono gli onesti che pagano al posto dei disonesti – questo il messaggio: prendetevela dunque con i barbieri e gli idraulici, i vu cumprà e le “fabbrichètte”, non con Visco o Padoa Schioppa, con Prodi o Bertinotti.

Balle, balle, balle. Ieri la notizia era un’altra in realtà: che la pressione fiscale reale è cresciuta fin oltre la metà del reddito, toccando la vetta del 50,7%. Ed è cresciuta indipendentemente dall’evasione, che è un dato strutturale dell’economia italiana, resa possibile e in certi casi necessaria proprio dalla morsa fra la tenaglia del fisco e l’inefficienza dei servizi che il fisco mantiene in piedi. A riprova è arrivata proprio oggi la ricerca della Banca Centrale Europea che ci fa sapere che i contribuenti italiani devono coprire gli stipendi della pubblica amministrazione col 26,8% dei loro salari contro il 14,9% della Germania, che è il paese che spende meno per gli stipendi della PA (e che guida la crescita economica del continente). Seguono a poca distanza Lussemburgo e Paesi Bassi, mentre intorno al 20% si trovano Austria e Irlanda. La Spagna, un altro paese che ha saputo affrontare con coraggio la riforma dello stato sociale, spende il 20,8 % in salari destinati al settore pubblico, mentre a far compagnia all’Italia resta, con il 25,6% la Francia, dove però la presenza pubblica si estende a settori produttivi come l'energia e le telecomunicazioni. L’Italia, a differenza della Francia (che pure verrà ora passata al setaccio dalle riforme di Sarkozy) si è invece liberata (almeno formalmente) della presenza dello Stato nella telefonia, energia e trasporti, ma senza minimamente alleggerire il peso di salari e pensioni. E gli indicatori volgono per giunta al peggio.

E mentre giustamente Giulio Tremonti ha oggi ricordato al Corriere della Sera le –poche ma buone- riforme economiche del Centrodestra, il Governo Prodi si appresta alla dissipazione del cosiddetto tesoretto (estratto non dai sotterranei della Banca d’Italia ma dalle tasche degli Italiani) e alla controriforma delle pensioni e della legge Biagi, e ha già ceduto alla Cgil sul contratto degli statali (di patto parasociale fra Governo e Cgil ha parlato il segretario della Cisl Bonanni, mica un pasdaràn del liberismo).

Quanto all’alta velocità ce li vogliamo proprio vedere i ministri ferroviari del governo Prodi andare a piatire davanti all’Unione Europea i finanziamenti per una Tav che ieri è sprofondata nell’ennesimo “nuovo tunnel”. Cambio di tracciato, nuove obiezioni del ministero dell’Ambiente, però certo, accipicchia, accordo Governo-Sindaci. Su che cosa? Sullo scippare i soldi a Bruxelles, evidentemente. Ma tanto basta per far titolare al Sole 24 Ore: “Si sblocca l’alta velocità”. Ma quando mai! Leggetevi piuttosto Europa, il volonteroso giornale della Margherita, che la verità la dice già nel titolo: “Tav a bassa velocità”, per spiegare subito: “Peccato. Un’altra riunione interlocutoria, l’ennesima riunione interlocutoria”. O, se proprio volete la prova del nove, sintonizzatevi sulle frequenze di radio Onda Rossa, dove, oltre alla bellissima canzone di Rino Gaetano ‘Agapito Malteni’ che ne è la sigla, potrete ascoltare in diretta dalla Val di Susa il programma dei No-Tav: sono trionfanti, il caso è chiuso, “se ne riparlerà fra un anno”.

Hanno ragione. Tutto il resto sono fiscoballe.

Al direttore. il Foglio

Nella Striscia di Gaza si spara. Ma le pallottole non sono israeliane né americane, quindi in pochi ci fanno caso. In Europa la stampa filopalestinese è stordita, non sa con chi prendersela. Chiamarla “guerra civile” è suggestivo e cattura l’immaginazione degli editorialisti nostrani, ma di golpe militare si tratta. Venti di guerra che soffiano dall’esterno. I veri aggressori si nascondono a Teheran e a Damasco, ma nessuno s’indigna, nessuno manifesta per i palestinesi, se le pallottole non sono israeliane. Non s’indignano i Colombo e le Spinelli, i Zucconi e gli Scalfari. Non manca, invece, il solito irresponsabile Onu per il quale è tutta colpa degli Usa.
Federico Punzi, via web

Risposta del Direttore
Spiace per i palestinesi, ma se per una volta non si indignano, meglio.

mercoledì 13 giugno 2007

Moralisti senza morale. Maurizio Belpietro

C’era da immaginarselo. Di fronte alle telefonate di D’Alema e Fassino col capo di Unipol, da cui emerge un «rapporto molto intimo e del tutto improprio» per dirla col direttore di Repubblica, i vertici della Quercia hanno scelto la linea di difesa apocalittica: invitare i militanti alla vigilanza democratica e lanciare l’allarme golpe. Così sperano di farla franca e di evitare imbarazzanti spiegazioni circa l’intreccio d’affari che li vede protagonisti.
Del resto gli ex comunisti si considerano i migliori, i più democratici, anzi: l’essenza stessa della democrazia. Dunque, tutto ciò che li mette in difficoltà non può che essere una manovra antidemocratica. Avendo per anni confuso lo Stato con il proprio partito, gli ex pci ritengono che qualsiasi critica nei loro confronti sia «un’aggressione che mira a indebolire lo Stato di diritto», così come hanno sostenuto ieri. La difesa, come dicevamo, era prevedibile e già vista. Quando in piena Tangentopoli girò voce che i magistrati di Milano volessero mettere il naso anche nei conti dell’allora Pds, Achille Occhetto adottò la stessa tecnica: «Se mi arriva un avviso di garanzia è un golpe». Per D’Alema e compagni l’informazione giudiziaria è democratica solo quando colpisce l’avversario politico, sia che si tratti di un dc, di un socialista o di Berlusconi. Se tocca la sinistra è eversiva. Il partito che fu di Berlinguer – il segretario che sollevò la questione morale pur sapendo che il Pci per anni aveva campato coi soldi dell’Unione Sovietica – non può ammettere di avere le mani in pasta con le speculazioni finanziarie e nemmeno può confessare di essere socio di fatto di uno scalatore borsistico. Il partito dei giudici non può neppure lontanamente concepire che proprio quei giudici che per anni ha allevato e fomentato oggi gli si rivoltino contro e chiedano ragione di curiose telefonate, ma anche di vorticosi giri di denaro che ruotano sempre intorno a un solo soggetto: Unipol, la compagnia d’assicurazione delle Coop rosse.
Terrorizzati di fare la fine dei socialisti e di essere spazzati via da una nuova ondata giustizialista, i Ds provano a rompere l’isolamento politico in cui sono precipitati, ma gli alleati appaiono freddi e distanti. Non una parola dagli amici della Margherita, qualche parola ma non benevola da Antonio Di Pietro e dalla sinistra radicale. In soccorso dei vertici della Quercia è andato solo un vecchio giudice, il compagno di sempre: l’ex procuratore capo di Milano, Gerardo D’Ambrosio, oggi senatore ulivista, è giunto a evocare il Sifar, il vecchio servizio segreto degli Anni Sessanta che la sinistra identificava come fonte di ogni nefandezza. «Far uscire ora le intercettazioni», ha spiegato l’ex magistrato, prendendosela con quelli che furono suoi colleghi, «vuol dire volerle usare per la politica». Ma non è più il 1993, quando D’Ambrosio, con un colpo a sorpresa, «prosciolse» il Pds dall’accusa di aver preso tangenti attraverso Primo Greganti. Gli anni sono passati per tutti, anche per l’ex giudice. Che oggi non ha più assi nella manica in grado di mandare assolti i suoi compagni di viaggio.

martedì 12 giugno 2007

Sogni d'oro. il Foglio

La morale intercettata sul caso Unipol è che il dalemismo è velleitario

Facci sognare. Vai!”. Per chi per anni non ha sognato, non c’è scandalo. Per chi non ha coltivato moralismi, non c’è morale da fare né da trarre. Per chi non ha menato il can del conflitto d’interessi per l’aia del tornaconto politico, non c’è sorpresa da ostentare. Ma per gli altri una riflessioncina sarebbe utile. Perché se tu dici che politica ed etica dormono nello stesso letto, poi, colto con l’amante banchiere o cooperatore o imprenditore nell’armadio, ti conviene almeno a posteriori ammettere che a volte gli affari flirtano eccome con i partiti (e viceversa), con le classi dirigenti politiche (e viceversa). Se il 21 luglio 2005 D’Alema alla Repubblica diceva: “Non conosco quello che è stato definito il ‘compagno’ Ricucci. Compagno di chi? Falsità montate ad arte per depistare… Io nell’operazione Unipol non c’entro nulla”, quando il “facci sognare, vai” a Consorte è del 7 luglio 2005 e il 18 luglio 2005 (tre giorni prima del 21), Ricucci scherzava al telefono con il simpatico senatore dalemiano Latorre: “Eccolo, il compagno Ricucci all’appello”, vuol dire che c’è del copioso velleitarismo nel progetto di salvare la denominazione “del lavoro” della Bnl, ma tenendo ben distinte politica ed economia, l’acqua santa e il diavolo. E’ velleitario soprattutto in un paese come l’Italia, che non ha netta la separazione tra diritto pubblico a difesa delle regole e affari privati liberi nella gara del mercato, ma che anzi vive di un’economia parte privata, parte socialista, parte clanica, parte salottiera, parte da merchant bank che parlano inglese, bolognese, bresciano, romano. Il nostro è il paese del diritto elastico, qui per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano, è la regola aurea definita da Giovanni Giolitti. Ma suvvia, è ovvio, una banca molto amica, “a un anno dalle elezioni”, fa comodo a tutti e una classe dirigente lo rivendicherebbe (e soprattutto otterrebbe il risultato), non lo nasconderebbe nei conciliaboli a cena, perché “attento alla comunicazione”, potresti essere ascoltato. Certo, le cooperative e Unipol sono grandi realtà indipendenti, come ricordava, in pubblico, il D’Alema dell’estate 2005, ma poi alla fine arriva il mandato politico: “Facci sognare. Vai”.
Insomma, forse è il caso di smetterla di baloccarsi nel meraviglioso mondo in cui “la politica è una cosa, le imprese un’altra”, dove “non c’è una linea data dal partito” perché “c’è il massimo rispetto dell’autonomia delle imprese” e non sia mai che ci sia “un assalto politico alle banche”, tutte gladiatorie affermazione, sempre in pubblico, del D’Alema del luglio 2005. Meglio la chiarezza e l’efficacia, anche perché poi c’è sempre sullo sfondo, dunque al centro, quel dettaglio che non c’entra con le intercettazioni ma a noi sta a cuore, quei due conti di Consorte e Sacchetti (Unipol), con quelle due somme uguali (25 e 25 milioni di euro), immobili e bisognosi di attenzione chiarificatrice. Meglio la chiarezza. Altrimenti, sogni d’oro.

Belin che balle! Gabriele Cazzulini

Chi, per disgrazia o incoscienza, osi avventurarsi in un viaggio fino a Genova, in Africa, potrà ammirare ancora la natura incontaminata della sinistra troglodita, ascoltare gli ululati di vecchi scalmanati contro Berlusconi, sentire la messa recitata nel rito comunista ortodosso da Don Gallo e sperimentare i più miseri ricatti tra voto e posto di lavoro in Comune. Tutto ciò durerà per altri cinque anni. Il Genoa in seria A e le troffie al pesto valgono la consolazione del corpo. Ma l’anima? Come è stato possibile che la sfiga continui a tenere la lingua in bocca ad un’intera città? La sfiga non c’entra. Sono le balle della sinistra che c’hanno fregato. A Genova non ha vinto la sinistra; hanno vinto le sue balle. Dicesi “balle” quelle menzogne spudorate ma inculcate così a fondo da sembrare vere. Nessuno al mondo ridarebbe il suo voto a chi ha alzato l’Ici al livello dell’Himalaya e ha trivellato il bilancio comunale arrivando al centro della terra, ha svenduto le periferie agli immigrati latinoamericani e ha abbandonato il centro storico più grande d’Europa agli arabi. Invece i genovesi lo hanno fatto, perché ci credono alle balle della sinistra. Le balle qui sono la realtà. Le balle dell’integrazione, dell’occupazione, del terzo valico, del porto, dell’Europa. Le balle che Genova non era un test per Prodi. Le balle della riqualificazione della siderurgia più inquinante d'Europa e le balle dell’aeroporto più sfigato d’Italia. Le balle della tolleranza quando poi Bagnasco è sotto scorta, Berlusconi rischia grosso se mette piede a Sestri Ponente (la bolgia dei comunisti assatanati) ma i delinquenti, i centri sociali, gli zingari e le puttane girano indisturbati. La sinistra non vuole che il cervello vada sprecato in usi più impegnativi della scelta tra focaccia al formaggio o focaccia alle cipolle. A Genova vero o falso è solo uno dei giochi del quiz preserale in onda su Raiuno. Noi siamo un popolo che dovrebbe essere studiato dall’etnografia perché si è conservato illibato per cinquant’anni da ogni contatto col mondo esterno mentre, sempre per cinquant’anni, è stato sodomizzato dalla sinistra. Insomma siamo sempre stati trombati dalla sinistra senza mai trombarla noi. Certe volte la coerenza è puro masochismo. Fra cinque anni speriamo di cambiare posizione.

Andrea's version. il Foglio

Sia detto con la massima delicatezza possibile, la massima considerazione, il massimo tatto e con tutta la riservatezza richiesta dalla situazione. Ma ci teniamo ad avvisare Rossana Rossanda e Ritanna Armeni, Danielle Mazzonis e Guido Martinotti, Umberto Eco e Carla Mosca, Enzo Mingione ed Eva Cantarella, Daria Galateria e Lorenza Foschini, Alessandra Bocchetti, madame Verdurin, Gabriella Pinnarò, Marcelle Padovani, Diane De Clerq, Simonetta Tabboni e Valerio De Paolis, Alessandro Curzi e Miriam Mafai, oltreché naturalmente la signora Verusio, ci teniamo, si diceva, ad avvisare tutte e tutti loro della sinistra italiana ipersensibile con casuccia a Parigi che, fatte anche le elezioni politiche, i comunisti non ci sono più, i verdi non ci sono più, Bayrou non c’è mai stato e i socialisti, ma speriamo che Dio li fermi, sono tutti in caccia dell’affascinante Ségolène. S’era cercato di mostrarci gentili, noi, col compatriota che tiene casuccia a Parigi senza manco dichiararla. E adesso è solo. Ma vendesi? No. Affittasi? Nemmeno. Quesqu’on doit fair, maintenant? Espropriasi?

lunedì 11 giugno 2007

Berlusconi" Il nostro elettorato vuole un unico partito della libertà". La TV della libertà

"Il tempo della sinistra in Europa sta finendo e in Italia è già finito". A dirlo è il leader della Cdl Silvio Berlusconi intervenendo telefonicamente alla Tv della Libertà. Per l'ex premier, infatti, anche l'ultima tornata elettorale conferma che è "finito" il tempo della Sinistra, che "in Italia è duplice. Da un lato - ha spiegato Berlusconi - ci sono Ds e Margherita, che ormai sono di fatto un centro" formato da "professionisti della politica" che si "sostanzia soltanto nella gestione del potere"; dall'altro, ha aggiunto l'ex premier, "c'è il blocco della sinistra vetero-marxista".
"Da loro, dai loro diktat - ha poi detto il Cavaliere - sono arrivati quei provvedimenti del governo che ci hanno angustiato in questo ultimo anno", come le "60 nuove tasse" introdotte per "togliere a chi ha senza dare a chi non ha", ma per rinforzare il potere dello Stato. "Sempre da loro - ha poi aggiunto Berlusconi - sono arrivati anche gli attacchi alla Chiesa" che ricordano "la Chiesa del silenzio di natura leninista". Infine, tra i diktat della sinistra estrema, Berlusconi ha annoverato anche il fatto che "non vengono date sufficienti risorse alle forze dell'ordine per combattere la criminalità, in quanto ritengono che i membri delle forze di pubblica sicurezza siano dei proletari che hanno tradito la loro razza per mettersi al soldo dello Stato Borghese".
Per quanto riguarda invece la "fine" del tempo della sinistra in Europa, Berlusconi ha citato "la valanga di voti raccolti in Francia da Sarkozy", cartina di tornasole, secondo l'ex premier, della situazione politica del Vecchio Continente.
"Sento forte, nel nostro elettorato, la volontà di superare le divisioni e arrivare presto a un unico grande partito della Libertà". ha detto ancora Berlusconi. "La gente ha voglia di partecipare, di dire la propria opinione e la dice in modo semplice, chiaro e diretto. E proprio tra la gente, anche durante quest'ultima campagna elettorale, tra il nostro elettorato, c'è la voglia di superare rappresentanze politiche e differenze, incomprensioni e vincoli che si sono manifestati durante i cinque anni del mio governo".
Per Berlusconi, dunque, "con noi si è introdotta una nuova moralità in politica: prima c'è soltanto quella che diceva di non rubare, con noi è arrivata anche quella, per un partito, di mantenere gli impegni assunti con gli elettori. Noi siamo riusciti a portare a termine circa l'80% del nostro programma. Il restante 20% non è stato fatto per i veti dei vari partiti. Quello che io credo di aver colto in questa campagna elettorale - ha concluso Berlusconi - è proprio la volontà di superare quelle differenze".

Non voglio vivere né morire da gramsciano. Raffaele Iannuzzi

Il centrodestra, come ha detto e scritto lucidamente a più riprese il mio amico Gianni Baget Bozzo, è stato inventato da Silvio Berlusconi. Dico: letteralmente inventato. Messo in piedi. Edificato da un uomo che ha costruito una resistenza “armata” contro un’aggressione manu militari delle libertà individuali, primo, e, secondo, delle istituzioni repubblicane. Mani Pulite è stato tutto questo. E Berlusconi, resistendo e vincendo contro l’ex gioiosa macchina da guerra (allora non circolava tanto pacifismo nella sinistra cosiddetta “postcomunista”) di Occhetto e dei suoi sodali permanentemente afflitti dalla classica sindrome di Stoccolma. Questa storia ha costruito un’idea di politica altra da quella consociativa e mediatrice che solamente Craxi, configgendo con i comunisti e con i poteri (allora) forti, aveva in qualche misura preconizzato. La destra, in Italia, è stata sempre la sentina del peggio del peggio, per la sinistra ribattezzata da Baudrillard, seppur ironicamente, “divina”. Soltanto oggi Bertinotti afferma che la sinistra è stata rozza a dipingere così la destra e che, ammirando Sironi, capisce di più quanto questo pregiudizio abbia ostacolato un progresso culturale della stessa sinistra. Ma questa è fuffa e se la devono i perfin troppo numerosi sentimentaloni della destra culturale e intellettuale. Si tratta, in realtà, delle parole del vincitore che oggi non sputa più sul cadavere del Nemico, ma finge di essere clemente, sapendo di aver vinto l’unica guerra vera del nostro tempo: quella mediatica. Debord al potere, con Bertinotti, altro che storie.

Sottrarre la destra alla genesi berlusconiana della guerra di resistenza e dello schimittiano confronto con il Nemico - soprattutto dopo aver assistito allo scempio del ministro tecnico dell’economia, ex cassiere della Banca d’Italia, che fa il killeraggio, scelto tra gli incensurati in una famiglia mafiosa, del Generale della Gdf Speciale e di tutta la Gdf, cioè di un corpo di polizia al servizio dello Stato – è un grave errore e rischia di far cadere anche i migliori fra i nostri amici nelle trappola della ricerca della legittimazione culturale a tutti i costi. Trappola gramsciana. Io non voglio né vivere, né tantomeno morire come gramsciano di destra. Tanto non si vincerà mai con gli intellettuali. Craxi, con la sua salvifica rudezza, aveva già capito tutto: intellettuali dei miei stivali. E lo diceva uno che, con la rivista Mondoperaio e un pezzo del suo partito, aveva rinnovato la politica e la cultura politica italiane. Eppure, nonostante ciò, faceva bene a dire: intellettuali dei miei stivali. L’Italia postmoderna, attraversata dall’antagonismo sovversivo e la nuova sovversione del governo, se ne infischia dei convegni, di chi li organizza e degli amici di chi li organizza. E Berlusconi fa benissimo ad infischiarsene di tutti quanti loro messi insieme. Non si prende un voto con questi gruppi che, alla fine della fiera, cosa vogliono fare? La politica dell’organizzazione culturale, cioè vogliono contare di più, molto oltre il peso specifico elettorale, praticamente pari a zero, senza però mischiarsi troppo con il popolo vero, con quel “pubblico”, come ha scritto sempre il miglior politologo fra i non-intellettuali (nel senso descritto poc’anzi), cioè Baget Bozzo, che ha spiaccicato al muro la categoria e la realtà della “massa”, inesistente nell’era di Internet e nella rete virtuale. Berlusconi, che non sa neanche accendere un pc, probabilmente, l’ha perfettamente capito, questi altri sommi intellettuali ancora no.

Perché la destra deve ancora essere così? Semplicemente perché in Italia non vige lo stato regolare della vita sociale e pubblica, ma lo stato d’eccezione di Schmitt. A scriverlo si viene presi o per fanatici del conflitto o per eccentrici svitati, ma è così. Dunque, piaccia o non piaccia alla Finocchiaro, da queste parti, con il regime costruito dalla sinistra più ibrida e brutale d’Europa, con alle ali estreme gli anarchici insurrezionalisti e menare la danza, questa è la dura realtà.

Fini è patetico quando tenta di fare il Sarkozy dei poveri. Tra l’altro non valutando quanto seguito abbia nel suo partito. Potrà avere un seguito da sondaggi patinati: “ma che bell’uomo; come parla bene; che portamento che ha…”, ma da qui a guidare non solo la destra, visto che di essa oggi si vergogna, ma la guerra ancora lunga e dura contro questa sinistra – che lo vezzeggia, sapendo bene di vezzeggiare, con lui in testa al groppone nostro, la prossima vittoria, senza troppi meriti, ovvio -, ce ne corre. Uno che scappa dalla sala mentre viene proiettato “Il mercante di pietre”, bollando questo brutto film, a onor del vero, con una tesi vera come sostegno, purtroppo non estetico, di “propaganda anti-islamica”, al massimo potrà fare il mediocre di successo, il D’Alema di “destra” (virgolette d’obbligo), ma non molto di più.

Sarkozy non è solo un leader, ma è un leader che ha inventato una sintesi politica e con in testa una visione drammatica del cambiamento, che infatti chiama “rupture”. Senza questa visione drammatica e questo senso della realtà – perché sono i fatti a guidare la cordata delle idee e non i convegni a smuovere le acque stagnanti, speriamo che al terzo flop qualcuno se ne accorga -, mai e poi mai avrebbe messo all’angolo un vecchio volpone con un pelo chilometrico sullo stomaco come Chirac e l’intero sistema mediatico-ideologico della Gauche. Berlusconi non è Sarkò, vero (tra parentesi: ma perché mai poi dovrebbe esserlo? Boh!?), ma almeno è Berlusconi. Il che non è poco. Se n’è accorta anche la sinistra, visto che lo imita grottescamente, ottenendo lo stesso effetto di Groucho Marx che si spaccia per l’altro Marx, intendo il Karl autore di quell’operetta economica che si intitola Das Kapital. E ciò anche nel 2007. Non solo. Come ho detto, a brutto muso, e infatti mi sono beccato - da parte degli educatissimi frequentatori di convegni e blog à la page, del totalitario - a Sestri Levante, all’ennesimo convegno su “Blog e libertà” o roba del genere, la scorsa estate: se Berlusconi non avesse vinto nel 1994 prima e nel 2001 poi, noi tutti, oggi, non saremmo qui a discutere di come fare “la meglio gioventù” liberal-liberista o amenità di questo genere, ma saremmo a mendicare chissà dove la possibilità anche solo di aprire bocca.

Lo disse Cicchitto perfettamente all’Infedele di Gad Lerner, l’unico prodiano ancora lottacontinuista che si conosca, sempre in movimento, diciamo così (l’altro lottacontinuista in stato effettivo permanente, voglioso di pensione evidentemente, è Sofri, ma quello lo vogliamo santo subito, giusto(!?): senza la gigantesca ricchezza economica di Berlusconi, e Dio ne mandi ancora, il blocco economico-finanziario enorme della sinistra avrebbe letteralmente ingoiato tutto, lasciando gli oppositori ai margini, con l’unica libertà di scegliersi il padrone più generoso, roba da servitù volontaria, non so se mi spiego. Ecco, mettiamola così: anche il materialismo fa bene, in questi casi, alle buone idee. Che sono sempre le stesse, e scaturiscono dai fatti, cioè dall’osservazione della realtà, ma sono sempre le migliori e le più utopiche, visto che non le abbiamo ancora realizzate: meno tasse (molto, molto di meno); meno Stato (almeno minimo, può andare?); libertà fondamentali, tra cui quella di intraprendere un’attività d’impresa senza morire nel frattempo di qualcosa non causato dallo stato originario di salute; princìpi tradizionali e famiglia al centro, senza cedimento alcuno, anche ringhiando se necessario, e soprattutto senza dover chiedere scusa agli omosessuali ed agli amici delle lobbies degli omosessuali; crescita economica fondata solo sul mercato, dunque vera e non drogata dalle assistenze di Stato. Troppo poco? Praticamente una rivoluzione nel Belpaese. E, per giunta, senza dover organizzare convegni, senza dover ragionare di berlusconismo, senza cercare legittimazioni, dovute a gravi complessi di inferiorità, dalla sinistra (per la serie: Cultura è bello!).

Capisco: ora, forse, mi sto allargando. Ma lasciatemi almeno sognare. Altrimenti…altrimenti finirà che avremo una ben tornita “cultura politica” e magari anche qualche professore universitario “potabile” per la sinistra in qualche ateneo di chiaro marco Doc (rosso), ma sarà ecatombe politica certa. Salvata la cattedra, morta la politica.

P.S.: di cosa parliamo al prossimo convegno?