venerdì 13 giugno 2014

Giù le mani dal Mose. Davide Giacalone


Di chi è il Mose? Trascurando di porsi questa domanda si corre il serio rischio di squartare una vacca nella macelleria giudiziaria, cercando di capire chi s’è fregato una braciola, nel frattempo distraendosi da una mandria silenziosamente sottratta alla ricchezza collettiva. Il Mose può non solo essere riprodotto, quindi rivenduto, ma già vi sono manifestazioni d’interesse, da diverse parti del mondo. Quindi: di chi è? chi è autorizzato a incassare? Rispondere correttamente serve ad evitare di piangere, domani, su altro latte rubato.

Al solo nominare il Mose, qui da noi, scatta il riflesso che induce a pensare al malaffare. Con calma, negli anni, sapremo dai processi chi è stato pagato illecitamente, quanti soldi sono stati munti alle aziende, quanti sono andati a dissetare la politica suggente e quanti sono finiti nelle riservate tasche degli stessi che possiedono e amministrano le aziende coinvolte. Quando (e se) conosceremo la realtà e le proporzioni avremo le idee più chiare, già oggi possiamo maledire un sistema che non riesce a separare i lavori pubblici dai reati privati. Ma il Mose è anche un gioiello di tecnologia, una soluzione mai prima sperimentata. Gli olandesi, per dirne una, hanno sottratto molte terre al mare, ma lo hanno fatto con le dighe. Che non solo si vedono, ma sulle quali fanno anche correre i trasporti. A Venezia si sta realizzando un’opera totalmente innovativa e di grande portata. L’alluvione più grave risale al 1966, quando la città fu sommersa per 194 centimetri, mentre il Mose è in grado di difenderla fino a 3 metri. Non solo scompare, quando non è in funzione, ma le infrastrutture sotterranee che lo rendono possibile sono a loro volta delle occasioni per creare spazi, collegamenti, trasporti. Anche intrattenimenti. Chi può vendere questa innovazione?

Nel 1975 il ministero dei lavori pubblici bandì un concorso per progettare la difesa di Venezia. Nessun progetto fu considerato adeguato e tutti furono acquisiti (nel 1978) dallo Stato. Nel 1982 nacque il Consorzio Venezia Nuova e l’idea di elaborare un “progettone”. Nel 2002 arrivarono i finanziamenti statali per la progettazione: 450 milioni. Il progetto, quindi, è dello Stato. Non ci sono state gare, i lavori sono stati affidati al Consorzio quale concessionario unico, in quello si raccolgono le aziende che possono lavorare a una simile realizzazione. Quindi le mazzette non servono ad alterare la concorrenza, perché non c’è, la concorrenza. Dal 2003 cominciano ad affluire i finanziamenti, sempre statali, e prendono avvio i lavori. 6 miliardi di euro. La conclusione è prevista per il 2016. Quel giorno, si spera, il mondo potrà vedere una meraviglia. Nel frattempo, però, i consorziati hanno creato una società per azioni, Thetis, impegnata ad aggiornare la parte ingegneristica e seguire i lavori, nonché a gestire la sala controllo che si trova all’Arsenale, a sua volta prezioso concentrato di tecnologia, innovazione e intelligenza. Thetis è entrata nella cronaca nera, per le assunzione di parenti e amici dei vari “riferimenti” politici e giudiziari.

In tutto questo non si trova una carta che attesti due semplici cose: a. il marchio “Mose” è dello Stato; b. tutto, dalla progettazione alla realizzazione, è stato pagato ed è proprietà dello Stato. Se in Asia, Arabia o nelle Americhe vogliono rifarlo, anche (giustamente) approfittando delle cose che si sono capite e imparate lavorando a Venezia, sarà una gioia potere vendere loro questo Made in Italy. E sarà una gioia, anche, vedere le aziende italiane impegnate a lavorare e guadagnare altrove. Ma sarebbe una vergogna se fossero loro stesse, magari per il tramite di Thetis, a rivendere quel che è di tutti. Occhio, perché quel che, in quel caso, si perderà sarà dieci o cento volte più di quel che fin qui s’è disperso. Né consola l’idea che poi qualche procura dovrà occuparsene. Meglio prevenire. Pertanto, mentre le indagini continuano e i processi sono assai di là da venire, al governo si preoccupino di correre a registrare il marchio e rispondere alla domanda iniziale: Mose è dei cittadini, e per essi dello Stato. Se un privato ne vende i progetti diviene collega di Totò che vendeva la Fontana di Trevi: va fermato. Ben vengano gli acquirenti, cui offriamo volentieri granseola e un giro in gondola, ma quel che pagheranno deve finire nei forzieri dell’erario. In caso contrario non sarà un furto con destrezza, ma un furto con complicità. E non provino a sostenere che nessuno se ne era accorto.

Pubblicato da Libero

Mazzetta rossa la trionferà: il Pd incassa un milione. Stefano Zurlo

«Faceva tutto il partito». Altro che pecora nera. Giorgio Orsoni non ci sta a recitare la parte del capro espiatorio e racconta ai magistrati un'altra verità, molto più semplice: il Pd prendeva soldi dal Consorzio Venezia Nuova, esattamente come gli altri partiti.
«Io non ho preso soldi, li ha presi il partito, era il partito a gestire i finanziamenti, io non so nulla sulla genesi di quei contributi».
E ancora: «Giovanni Mazzacurati me lo ripeteva di continuo: “Ma cosa stai a preoccuparti, ho sempre fatto così, ho aiutato tutti i tuoi predecessori”». Orsoni si sente usato dai compagni che poi lo hanno scaricato al primo stormir di fronda. Lui in cella e loro a pontificare sul sindaco che aggirava la legge. È troppo. E nel verbale firmato lunedì il primo cittadino lascia trasparire la rabbia per questo abbandono e per l'ipocrisia sparsa a piene mani dalle prime e seconde file del Pd veneto.
Non parla di Roma, perché non ne è a conoscenza, ma quel che accadeva in laguna lui ce l'ha chiaro. Fin troppo: «Mi hanno invitato a candidarmi. Ala fine ho ceduto. E in vista della campagna elettorale 2010, mi hanno detto di andare a battere cassa da Mazzacurati. C'era bisogno di soldi. Tanti soldi. Io ho accettato, ma non ho visto un euro. Gestivano tutto loro».
Chi? Orsoni, amareggiato e ormai con un diavolo per capello, fa i nomi. I tre nomi di chi ha gestito la sua elezione quando vinse il duello con Renato Brunetta: Michele Mognato, Giampietro Marchese, David Zoggia. In sostanza, il terzetto che aveva fra le mani il partito nel 2010. Mognato è deputato, Marchese è consigliere regionale ed è uno dei politici finiti in cella nella retata della scorsa settimana, Zoggia è pure parlamentare ed è il volto più noto fra i tre. All'epoca era responsabile Enti locali del Pd, perfettamente inserito negli ingranaggi della ditta bersaniana. Non solo: si era guadagnato una certa popolarità con la frequentazione dei salotti televisivi.
Ora Orsoni accusa tutti e tre. Quei tre erano il partito e gestivano in tutto e per tutto i suoi finanziamenti. Lui, se ha una colpa, è quella di aver prestato la propria faccia e la propria autorevolezza alla commedia degli equivoci. Oggi prova a ribattere punto su punto e a risollevare un'immagine offuscata. «Non possono confondermi con chi maneggiava i soldi pubblici – spiega ai pm – il partito spingeva, io ho ubbidito. Punto». I calcoli non sono così semplici, ma le cifre in gioco, fra contributi in bianco e in nero, superano quelle circolate sui giornali fin qui: in realtà il partito avrebbe incassato dal Consorzio quasi un milione di euro. Parte con contributi illeciti, parte con contributi solo apparentemente leciti, perché anche in quel caso la norma veniva aggirata: per non far comparire la solita manona del Consorzio, i soldi formalmente uscivano dalle imprese che però li recuperavano attraverso il più che collaudato meccanismo delle false fatture. Era il partito a gestire tutti quei soldi. Anzi, il sindaco offre un dettaglio che la dice lunga sulla voracità della classe politica: «Alla fine qualcosa era avanzato». Una piccola parte dei contributi in chiaro. Qualche migliaio di euro, ancora in cassa alla fine della campagna elettorale. «Ma il Pd pretese anche quei soldi». Tutti. Fino all'ultimo spicciolo.
Hanno preso le distanze dal sindaco. Adesso è il primo cittadino che prende le distanze dal sistema Venezia, col Pd seduto alla grande mangiatoia del Consorzio Venezia Nuova. E la rapidissima scarcerazione disposta dal gip, con tanto di parere favorevole della procura, pare proprio il sigillo sul racconto di Orsoni. Di più, l'accordo che si profila, con una pena di soli 4 mesi, sembra delineare una clamorosa sproporzione fra accuse e realtà dei fatti. Quattro mesi, convertibili in pena pecuniaria, sono davvero il minimo sindacale. Insomma, chiarito il ruolo di Orsoni ora per la procura inizia una nuova fase. Esplorare gli ingranaggi del sistema delle mazzette in casa Pd. Certo, Mazzacurati, come afferma Orsoni davanti giudici, mostrava una grande consuetudine con i suoi compagni di partito. Il sistema funzionava da anni e nessuno l'aveva mai messo in discussione. Per ora nei guai c'è Marchese, ribattezzato a torto o a ragione da qualche giornale il Greganti del Veneto. Si vedrà. In ogni caso le responsabilità di Orsoni si diluiscono dentro quelle del partito. E della sua nomenklatura, almeno in Veneto. Ma la ricerca dei riscontri comincia proprio dai finanziamenti per l'elezione del sindaco nel 2010. Un tesoretto da non sottovalutare: quasi un milione. Giovanni Mazzacurati e Piergiorgio Baita, della Mantovani, hanno sempre detto di aver preparato le buste per Orsoni. Buste che venivano smistate da Federico Sutto, il postino delle mazzette. A chi le consegnava Sutto? Finora il dipendente del Consorzio Venezia Nuova non ha dato una risposta chiara. Ora i pm hanno una pista che porta direttamente al partito.

(il Giornale)

 

martedì 10 giugno 2014

Annunciazione e regressione. Davide Giacalone


Il mese di giugno, stando agli annunci del governo, è quello della riforma della giustizia. Restano venti giorni. Il calendario induce a volenteroso scetticismo, ma quella che preoccupa è la sostanza. Giacché, nel giro di poco, si è passati dalla Leopolda e dalla denuncia di custodie cautelari ingiuste al volere condannare per “alto tradimento”, senza manco sentire la difesa; dalla protezione offerta agli indagati seduti al governo al desiderio di prendere a calci gli indagati seduti altrove. Non siamo ancora al cappio sventolato, ma la strada lì porta. E, del resto, sarebbe stato sciocco supporre che gli arresti per Expo e Mose non avrebbero avuto un riflesso immediato sulla politica, considerato che è la politica a finire in manette. La prima cosa che salta agli occhi è l’incoerenza. Ma la seconda è che, per l’ennesima volta, il governante e il legislatore sono sotto scacco.

Ne sono una prova i messaggi cifrati che si scambiano con Raffaele Cantone, novello paladino della disinfestazione, che prima ha accettato un incarico senza né poteri né strutture, salvo poi cogliere al volo l’opportunità di reclamarli in grande. E conto non sia sfuggita la finezza: posso sempre tornare in cassazione. Perché le porte sono girevoli, e non sono le uniche a girare. Girò quella dell’antimafia, del resto, scodellando l’ospite alla presidenza del Senato. Né, spero, sia sfuggita la notizia che Antonio Iovine, detto ‘o ninno, non riesce a ricordare non già l’identità, ma neanche il numero di quelli che ha ammazzato, però ha deciso di cambiare vita (quella del detenuto, non quella del criminale), sicché è pronto a fare i nomi dei politici asserviti alla camorra. Uomini avvisati già mezzo ammazzati.

Date retta, giovanotti governativi: se non vi sbrigate a presentare una riforma seria sarete seriamente riformati. Lasciate perdere quelli che quando parlate della bancarotta della giustizia civile vi diranno che la vera partita si gioca nel penale, e quando parlerete dello scempio del penale vi diranno che la vita collettiva dipende dal civile. Piuttosto ricordate come abbiamo fatto ad evitare l’immediata condanna della Corte di Strasburgo: abbiamo liberato i condannati. Fatevi due conti.

Gli astri, comunque, presentano un allineamento fortunato e da sfruttare, visto che il ruolo di punta è oggi nelle mani di un magistrato posato e competente, Carlo Nordio. Egli dice: non servono nuovi reati, non servono pene più alte, non servono super poteri. Giusto. La riforma da farsi deve girare attorno a un perno elementare: i tempi della giustizia devono sempre essere quelli già fissati dai codici. Dal che deriva: i magistrati che violano quei termini (indagini prolungate, motivazioni depositate dopo anni, termini ordinatori calpestati, etc.) devono risponderne nella carriera. Finché si tratta di semplice negligenza, poi ne rispondono come reato. Il problema numero uno non è tagliare le unghie alla giustizia (che vorremmo con artigli potenti), né soddisfarsi del sangue versato nelle indagini, per poi disinteressarsi delle vittime innocenti, il problema è quello di potere disporre di una cosa che non solo si chiami giustizia, ma anche le somigli. Oggi non l’abbiamo, tant’è che ogni degenerazione è possibile. Porte girevoli comprese.

Tanto non si devono depotenziare gli uomini della giustizia che proporrei di varare la regola del 10%: facciamola finita con la raffica di controlli inutili, togliamo pane ai magistrati contabili e amministrativi, e stabiliamo che ogni volta che un appalto pubblico supera del 10% i costi o i tempi previsti parte automaticamente l’accertamento fiscale e l’indagine penale. Se ci sono state buone ragioni si archivia in fretta, ma chi ha magheggi da non far vedere eviterà di mettersi in quella condizione. Semmai neanche parteciperà alla gara. Altro che limare, io sono per affilare. Ma a condizione che quella roba si chiami e sia giustizia.

Matteo Renzi la smetta di fare il verso ai piazzaioli. Le campagne elettorali (al momento) sono finite. Se ha ragioni per temere, lasci perdere. Ma se vuol fare cosa utile s’incaponisca a rispettare la scadenza di giugno. E ci scrivano poche cose ma sensate, nella riforma. Su quali debbano essere, chiedo scusa, ma ho finiti sia lo spazio che la pazienza. Dobbiamo averlo scritto qualche centinaio di volte.

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lunedì 9 giugno 2014

La pietra al collo. Davide Giacalone


22 milioni di italiani ne mantengono 60. Fra i 22 ve ne sono che lavorano, ma non producono. Fra i 38 ve ne sono che producono, ma ufficialmente non lavorano. Leggere in questo modo il dato sulla disoccupazione aiuta a capire il problema, che consiste nel far lavorare regolarmente più persone, non nel creare più mantenuti. C’è un altro punto, nella lettura corrente, che appare capovolto: si reclamano soldi per creare lavoro, laddove sarebbe più logico lavorare per creare soldi. La mentalità dei mantenuti s’è così diffusa che il lavoro è interiorizzato non come funzione della produzione di ricchezza, ma come strumento per la sua più equa distribuzione. Da qui parte la catena di errori che si continua ad allungare, supponendo che dalla recessione si esca pompando i consumi, anziché rilanciando la produzione. Accettando che si dia una mano all’Italia che fa da zavorra, i cui costi sono la negazione della produttività, anziché una spinta all’Italia che ancora corre e porta a casa 400 miliardi di esportazioni (siamo uno dei cinque grandi con la bilancia commerciale, relativa a manufatti, attiva).

Quando leggo che nella pubblica amministrazione si suppone di potere ancora usare strumenti come i prepensionamenti e gli scivoli, che hanno precipitato l’Italia nel baratro del debito crescente, mi domando se chi ne parla è solo mancante di fantasia o proprio ignora la realtà. Quando sentiamo dire che si dovrebbe sfondare il parametro del deficit mi chiedo se nella mente di chi lo dice il debito ulteriore possa essere ripagato con balzi produttivi del 4-5% (stupefacente, nel senso della sostanza assunta), o suppongono che si possa tassare qualche altra cosa, così sprecando anche il debito ulteriore. Per portare quei 22 milioni a diventare non 23, ma 30 (chiamando al lavoro moltissime donne e moltissimi giovani che ne sono fuori), occorre togliere dal groppone di chi lavora il peso della spesa improduttiva e delle garanzie di cui i più giovani non godranno mai. Sì, anche rivedendo i “diritti acquisiti”, perché divenuti ingiustizia consolidata. L’elasticità e la permeabilità del mercato del lavoro non sono le porte della negazione delle garanzie, ma l’uscita di sicurezza per non avere garantita la disoccupazione odierna e l’impoverimento perpetuo.

Il decreto sul lavoro a tempo determinato, pur con qualche bozzo, va nella direzione giusta. Ma perché accontentarsi di segnali e direzioni? perché non varare subito la normalità dei contratti con minori oneri fiscali e previdenziali, in cambio di minore stabilizzazione e immobilità? Il ministro del lavoro, Giuliano Poletti, avrebbe ragione nel rispondere: intanto questo lo abbiamo fatto. E’ così. Ma perché poi sente il bisogno di aggiungere che l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori non si tocca? Cancellarlo può anche darsi che sia una bandiera ideologica, ma lo è anche immolarvisi. Ed è una presa in giro, perché è come dire: lo conserviamo, ma dimenticatevelo. Non è onesto. Ed è uno strizzare l’occhio all’Italia zavorra, sputando nell’occhio all’Italia che corre.

Il nostro mercato interno è stato gettato in mare con una pietra al collo, ma reagisce stringendosela al petto e non volendola mollare, quasi fosse l’ultimo scoglio sicuro. La reazione è comprensibile, perché dettata dalla paura. Ma l’unica cosa di cui avere paura è di restare con un terzo degli italiani che ne mantiene due terzi. O con l’elasticità relegata nel mercato che degrada dal grigio chiaro al nero notte, così affidandosi all’illegalità quale valvola di sfogo contro l’immobilità. Il riflesso politico di questa paura è il voto indirizzato a chi promette aumenti di reddito cui non corrispondono aumenti di produttività. Come se non fosse chiaro che quella è la via della perdizione. Non si può ragionare in due tempi: intanto dono, poi riformo. Questa formula porta a un doppio tempo diverso: ora regalo, poi me lo riprendo (con le tasse).

C’è in giro gente che cita Keynes, supponendo sia stato il teorico dello stampare denaro per finanziare i consumi. Figuriamoci: la Teoria Generale è del 1936, mentre la Repubblica di Weimar, e il suo stampificio di moneta, era crollata nel 1933! In un suo mirabile scritto ancora precedente (The End of Laissez-Faire, 1926) avverte di un pericolo: lo stato di povertà e bisogno convince tutti della necessità di cambiare, ma quando non se ne hanno più gli strumenti; mentre lo stato di ricchezza e soddisfazione toglie l’incentivo a cambiare, proprio quando sarebbe più facile e opportuno. Noi siamo in un punto di mezzo, convivendo con la ricchezza diffusa e il diffondersi della paura. Il tempo che stiamo perdendo non ce lo ridarà nessuno.

Pubblicato da Libero

venerdì 6 giugno 2014

Ripartire dalle cose che contano. Andrea Mancia e Simone Bressan

 


Ricostruire il centrodestra non sarà facile. Ricostruirlo iniziando a discutere di leader, sigle, nomi è il modo migliore per condannare un intero blocco sociale e politico all’irrilevanza. Si può però ripartire dalle cose che contano: dalle idee, da una visione di centrodestra diversa da quella che i risultati elettorali ci consegnano, da una prospettiva.

Sapete come la pensiamo: siamo fusionisti. Lavoriamo perché ogni anima, ogni sensibilità culturale, ogni soggetto politico e non che condivida la semplice battaglia per “Meno Stato e Più Libertà” trovi il coraggio per lavorare alla costruzione di una casa comune, con regole di convivenza semplici e durature, che incoraggi i processi di elaborazione delle idee, che permetta alle leadership di emergere meritocraticamente.

Per questo ci siamo sentiti chiamati in causa quando ci è stato proposto un appello che parlasse di “unità”, di “primarie”, di “programma comune”. E’ un’occasione per far ripartire il dibattito e il nostro cammino lungo il sentiero che ci interessa percorrere e per provare a svegliare dal torpore un centrodestra che pare non aver capito che un popolo liberale, moderato, popolare, conservatore e riformista ancora c’è e chiede di essere degnamente rappresentato.

Per firmare andate qui: www.contrattoperilcentrodestra.it.

Tratto da http://notapolitica.it/