mercoledì 31 ottobre 2012

Film demenziale. Davide Giacalone

Il dio Spread avrà anche il suo da fare, nel creato e nel contrattato, ma in cima ai suoi pensieri si vuole che ci sia la voglia di mettere becco nelle faccende italiche. Pur misere e cieche, suscitano in quella divinità una passione morbosa, ma selettiva. Già, perché il segretario del Partito democratico, Pier Luigi Bersani, si sbracciò per dire: la legge di stabilità, così com’è, non la voteremo mai. Il che avvenne all’indomani dell’avere espunto ogni riferimento al governo Monti dal futuro della sinistra. La corsa in loden volgeva al termine. Eppure non è successo nulla. Il dio ha taciuto, i liberi pensatori non hanno ritenuto fosse in corso un attacco alla civiltà, e neanche un bottone s’è allentato, nel cappotto verde scuro. Poi ha parlato Silvio Berlusconi e il mondo ha tremato fin nel suo nocciolo. Lo spread s’è alzato (e poi è sceso, perché dio capriccioso che dovrebbe indurre i fedeli al dubbio). Per la verità è cresciuto anche quello spagnolo, con gli iberici rivolti al cielo: ma noi, che c’entriamo?

Giorni addietro un giudice monocratico, in quel dell’Aquila, ha condannato i membri della commissione grandi rischi, responsabili di non avere avvertito, nel dovuto modo, dell’imminente terremoto. Non c’è uno che si sia trattenuto dal dileggiare o disprezzare quella sentenza. Un ministro ha pubblicamente sostenuto la necessità che sia riformata. L’Associazione Nazionale Magistrati e le altre vestali del fuoco giustizialista se ne stettero zitte. Pochi giorni dopo Berlusconi ha inveito contro una sentenza, che lo condannava. Diritto che si riconobbe anche a Piero Pacciani. Non sapremo mai se è veramente colpevole, perché quello è un procedimento suicida, destinato alla prescrizione, ma sappiamo che le sue parole sono state denunciate quale proditorio attacco contro la saldezza del diritto e la salute dello Stato.

Lo rilevo perché siamo ai sussulti agonici della seconda Repubblica: quel genere di scontro è sepolto alle nostre spalle, e se non si vuol far la parte degli scemi (che Pdl e Pd stanno recitando alla grande, circa il voto siciliano), si potrebbe anche smetterla di prenderci in giro. Lo spread è risalito perché non s’è mai risolta la crisi greca e i dubbi di sempre tornano a galla, nel mentre la politica espansiva della Banca centrale europea non ha un futuro infinito. La giustizia italiana è una schifezza, che ci espone a condanne internazionali, nel mentre l’esibizionismo politico di certi magistrati è sotto gli occhi di tutti. Il governo Monti è alla fine perché l’eccezione del solo governo europeo non eletto non può reggere.

Il centro destra ha colpe consistenti. Non si critica il governo Monti dopo avere votato tutte le sue proposte, anche quelle macroscopicamente sbagliate (come qui avvertito). Non si denuncia con undici mesi di ritardo lo squilibrio dei poteri e delle influenze, dentro l’Unione europea. Non si tiene aperta la trincea dello scontro con il giustizialismo, senza essere capaci di riforme serie. Una sola cosa ancora impedisce che quel gruppo dirigente del centro destra paghi per tanti e così gravi errori, ed è la pretesa demenziale di far credere che tutte le colpe ricadano non su quanto non sono riusciti a fare, ma su quel che Berlusconi riesce a dire. Anche quando è ovvio. E’ un film già visto. Triste, inutile, stupido. E terribilmente autolesionista.

martedì 30 ottobre 2012

Un po' di compagnia per Pierferdinando Casini. Giancarlo Loquenzi

Sono molto incuriosito da Pierferdinando Casini. Mi piacerebbe avere una microcamera piazzata nella sua stanza e vederlo quando si spengono i riflettori dei telegiornali e se ne vanno i giornalisti con i loro microfoni.

Mi piacerebbe vederlo, ad esempio, un minuto dopo aver detto al Tg1: "Berlusconi rimarrà solo" e coglierlo alle prese con l'agenda telefonica.

Chi chiama per sapere come è andato? Forse Fini, se trova un momento libero dalle liti di famiglia. O Rutelli, se trova un momento libero dalle liti con Lusi. Magari Bersani, ma squilla occupato, è al telefono con Vendola e quando attacca deve trovare un momento libero dalle liti con Renzi.

Potrebbe fare un colpo a Crocetta, in fondo è anche il suo candidato, ma lui non trova un momento libero dalle liti con tutti gli altri casiniani ed ex casiniani sparsi per le liste elettorali siciliane. La Marcegaglia ha cambiato telefonino e in segreteria non hanno quello nuovo; Montezemolo ha messo il trasferimento di chiamata su Italo; il gruppo di Todi 2, con Bonanni e gli altri lo hanno lasciato a Todi 1.

Certo ci sarebbero Napolitano e Monti ma guardano poca tv e non gli danno soddisfazione. Resta il buon Cesa ma sta giocando a briscola con Rao. Buttiglione e D'Onofrio all'ora del tg già dormono.

Chiamare Bossi, Veltroni, D'Alema non può: passi indietro e rottamazioni gli mettono la malinconia. Il solito giro di telefonate agli elettori? Ma da anni sono sempre gli stessi, li ha già chiamati tutti. Quel buontempone di Cuffaro sarebbe perfetto ma a Rebibbia non glielo passano.

Per un attimo, forse, è tentato di chiamare lo stesso Berlusconi, ma non gliela vuole dare vinta. Non resta che aspettare la prossima intervista per avere un po' di compagnia.
Tratto da Huffington Post

L'Unità dice la verità su Di Pietro. Gianni Pardo

In anni lontani - molto lontani, si risale al 1948 - imperversava un tormentone: una serie di vignette per deridere i comunisti e la loro prona credulità nei confronti del partito. Un personaggio faceva notare ad un altro un’ovvia verità, per esempio che aveva il cappio al collo, e quello rispondeva: “Compagno, l’Unità non lo dice”. “Hai ragione, dunque è una cravatta”.

Oggi si ha la tendenza a credere che quei comunisti fossero grezzi e stupidi e a sorridere di ricordi così remoti. Ma sarebbe meglio astenersene. Non ci sono più i comunisti di allora ma gli italiani non sono molto cambiati. Giovannino Guareschi negli Anni Cinquanta si sgolava a denunciare le atrocità commesse dai partigiani ma nessuno gli dava ascolto. E non parliamo della sordità contro cui urtavano le denunce degli sconfitti. Erano vere ma l’Unità non lo diceva e non sono state vere per mezzo secolo. Poi, anni dopo la caduta dell’Unione Sovietica, è intervenuto Giampaolo Pansa: un giornalista della provenienza giusta, basti dire che ha scritto per circa tre lustri sulla Repubblica di Eugenio Scalfari, e ha raccontato le stesse cose con un famoso libro, “Il Sangue dei Vinti”, e finalmente “l’Unità lo ha detto”.

Non abbiamo il diritto di sorridere di quelle vignette.

Sulla storia di Antonio Di Pietro, Filippo Facci (del “Giornale”), il “Foglio” di Giuliano Ferrara ed altri hanno scritto instancabilmente, per anni, denunciando vicende poco chiare, intrecci discutibili e un’amministrazione quanto meno dubbia del denaro ricevuto dal partito. Queste contestazioni hanno avuto anche forma giudiziaria con denunce soprattutto di ex sodali del Tonino nazionale: arrivando in un caso ad una denuncia di falso materiale che si concluse con un’assoluzione di tutti gli interessati che va al di là delle mie competenze giuridiche. Scusate l’autocitazione: “Qui esiste un dilemma o, come diceva un burlone, un trilemma. O la firma sul verbale è falsa e Di Pietro è colpevole di falso e truffa. Proprio per questo risulta incredibile che la Procura non abbia acquisito l’originale del verbale, per ordinare una perizia calligrafica. Misteri dell’amministrazione della giustizia. O la firma sul verbale è vera e Di Domenico è colpevole di calunnia (reato del quale attualmente non è indiziato). Oppure niente di tutto questo è vero, e il “Giornale” dovrebbe essere denunziato per diffamazione a danno di Di Pietro e di Di Domenico. Ma non risulta neanche questo. A voi la parola”. Ma l’Unità rimase in silenzio e noi rimanemmo col dubbio.

Per anni Di Pietro è uscito pulito da tutte le inchieste e da tutte le denunce. Anche quando sono state scagliate da ex soci ed ex amici, per esempio Elio Veltri o l’avv.Di Domenico. Non gli è più andata bene, almeno come immagine, quando ad attaccarlo è stata la Rai Tre di Milena Gabanelli. Allora è cambiato tutto. Se lo dice l’Unità, sono dolori. I titoli dello stesso pilatesco Corriere della Sera sono squilli di tromba. “«Tonino, che delusione!» Idv nella bufera dopo Report - I fan di Di Pietro lo accusano «Troppa incertezza sui conti». E al voto in Sicilia è flop”. Ma quale delusione? Qual è la novità? La novità è soltanto che la notizia sia sul Corriere. Infatti il quotidiano para in anticipo l’irrisione dei colleghi: “Nessuna accusa nuova. Il problema è stata la reazione titubante, un po' incerta, dell'ex pm”. Ma questo significa soltanto che il leader dell’Idv è stato interrogato con brutalità e senza i riguardi di altre volte.

In un secondo articolo dal titolo sprezzante, “Gli Insaziabili”, l’intervistatrice di Report, Sabrina Giannini, scrive con stile pesante: “Antonio Di Pietro, contrariamente ai suoi proclami anticasta, non è diverso dagli altri politici. Almeno quando si tratta di soldi. Il suo partito ha introiettato cento milioni di euro di finanziamento pubblico in dieci anni e la gestione della cassa del partito è stata in mano a sole tre persone fino al 2009: lui, la tesoriera e deputata Silvana Mura e la moglie Susanna Mazzoleni”. A parte l’uso del verbo introiettare, che la giornalista confonde con “introitare”, dov’è la notizia, ripetuta in tutte le salse dal giornale di Giuliano Ferrara? “Lo stesso Di Pietro, nel corso dell'intervista, contraddice più volte sé stesso”. E perché oggi glielo si rimprovera, mentre tante volte si è sorvolato un po’ su tutto?

C’è da rimanere disgustati. In Italia la verità è tale se è a denominazione d’origine controllata. Se ha in tasca la tessera di un partito. (il Legno Storto)

lunedì 29 ottobre 2012

Berlusconi in Kenia può respirare l'aria di una moderna democrazia. Giuliano Ferrara

                                   

Al direttore – Per caso, ma proprio per caso, in coda al 3 a 1 preso dal Napoli in Ucraina e al carosello di tutti gli eurogol, mi trovo per zapping nel parterre Santoro e mi intrattengo su un bravo Renzi e su un ruffiano (ma anche lui bravino) Mr. Todds. Pensi che sia finita lì. E invece Michelin arrota e ammicca, “adesso i politici tutti a letto, dopo lo spot ci vediamo lei”. E chi sarà questa lei? Giù il cappello, lei è la signora Ruby, una che si fa un boccone della sciantosa maestrina che il rais gli ha inviato col blocchettino e il sorrisino saputino, la quale crede di essere andata a carpire i segreti e a processare la sorca; e invece si becca, e incassa fino a quasi tartagliare, un paio di risposte da dita negli occhi, non una sola senza due palle così. Riavvolgendo il nastro, dico a memoria che ho sentito dire che Berlusconi è una brava persona, che mi avete messo in un casino, avete scritto un mare di cazzate, ho chiesto aiuto e lui mi ha aiutato, avevo chiesto anche ai preti e i preti non mi hanno aiutato, stavo tra i porci e lui mi ha tirato fuori, mi ha voluto bene, mi ha ospitato a villa san Martino: e non è successo niente! Lui non sapeva che ero minorenne, ovvio, no? e non lo sapeva neanche Mora, ovvio no? è stato tutto lineare, lo sanno anche i pm, mi avete messo in mezzo per gli affari vostri, io non sono una prostituta e pure mia madre lo sa... Insomma, vent’anni e già donna con i controfiocchi, una che ha messo in intervista quello che nemmeno uno di loro, puri ragionatori, sbirri dorati, i kantiani fumati, è ancora mai riuscito a mettere in anni e anni di spiate e mattinali, di parole e asterischi, di Treccani e codici di procedure penali. Non fosse che si è ritirato proprio adesso, il Cavaliere dovrebbe prendere la videointervista dell’arcangela di Santoro e mandarla a rullo su tutte le reti Mediaset. Pensa te, proprio il giorno che lui si ritira, loro perdono con lui la sfida della superiorità antropologica.
Luigi Amicone

Dovrei chiosare con la dicitura: senza parole. Infatti ne aggiungo pochine. Non ho mai avuto dubbi, e se la parte peggiore di me ne abbia avuti quella appena più decente se li è tenuti per sé, e ho guardato come si dipanava la cosa. Da subito si è capito che Berlusconi si divertiva in modo candido, scollacciato, burlesco e una punta indecente (ma nemmeno poi tanto, le esagerazioni da intercettazione sono da tenere a bada). Chi equipara il casting di Arcore (minorenni? mica è la Bbc di Savile!) a un réseau di prostituzione libertina fuorilegge, alla DSK, è un cretino o un bugiardo per faziosità politica. Chi non sa che il set di regali fatto da Berlusconi a mezzo mondo, dai grandi della terra cosiddetti alle segretarie agli amici ai deputati, occupa lo spazio di quattro cinque campi di calcio, è colpevolmente ignorante (la corte dovrebbe dare un’occhiata al catalogo). Chi pretende di entrare con occhio etico nella libido degli altri, e alla sera legge Kant, è un puttaniere mancato o realizzato. Questo è un paese in cui una dozzina di scienziati è ritenuta responsabile dei morti conseguenti un terremoto “non previsto” (e solo in questo caso quegli asini della stampa estera inviati per punizione in Italia si accorgono che siamo “unici” e protestano!). E’ un paese in cui i giornali ti raccontano che la gente si suicida a bizzeffe per la crisi, e quando mesi dopo domandi come mai si suicidano purtroppo sempre i soliti delusi dalla vita, ti rispondono che non sei di mondo e non capisci la necessità di forzare tipica dei media. E Di Pietro, che ha imparato a mentire di brutto mentre i suoi imparavano a rubare, ancora non si è scusato con Monti per avergli attribuito la colpa delle morti da crisi economica. Ora per qualche giorno il Cav. in Kenia può respirare l’aria di una moderna democrazia. (il Foglio)

Berlusconi, svolta epocale? Gianni Pardo

La conferenza stampa di Silvio Berlusconi è stata liquidata da molti come un momento di malumore. È un’ipotesi miserella e soprattutto in diritto civile il motivo per il quale si fa qualcosa - per esempio una compravendita - è irrilevante. Nello stesso diritto penale i motivi per i quali si è commesso un delitto, influiscono solo sulla misura della pena, con le attenuanti o le aggravanti, e nelle contravvenzioni non se ne tiene alcun conto. Dunque perché Berlusconi abbia detto ciò che ha detto assolutamente non importa. Importa che le sua parole possono avere effetto sulla politica, tanto che per esaminarle sarà inevitabile una insolitamente lunga riflessione.

La minaccia di far cadere il governo Monti, cui si è data tanta importanza, non ha molto valore. Infatti è stata subito attenuata dalla preoccupazione di allarmare i mercati e danneggiare il Paese. Essenziale è invece che Berlusconi abbia dimostrato di avere un’idea del futuro. Gli altri – tranne Pierferdinando Casini, che in questo campo si mostra costantemente un famulo di Mario Monti – si tengono sul vago. Non dicono neppure se bisogna proseguire la politica attuale o cambiarla. Berlusconi invece ne ha denunciato tutti gli errori ed ha dichiarato che un cambiamento è assolutamente necessario. È un passo avanti: gli altri non sanno “che cosa fare”, lui almeno lo sa. Anche se non dice ancora “come farlo”. E soprattutto rimane il dubbio: il partito lo seguirà, in questo tentativo?

Ciò che ha proclamato, per esempio per quanto riguarda la politica economica dell’Italia ed il rapporto con la Germania e la Francia, potrà avere pesanti conseguenze anche in campo internazionale. La Grecia, la Spagna e il Portogallo potrebbero vedere nell’Italia il Paese leader per ottenere una riforma dell’Unione Europea. Comunque le parole di Berlusconi sono più che un sasso nello stagno: sono sufficienti per far suonare un serio allarme.

Altro punto essenziale della conferenza è che in essa non si è trattato vagamente di “riforme”, o anche di “grandi riforme”, come si usa fare di solito: si sono indicati chiaramente, assolutamente fuori dai denti, alcuni difetti delle istituzioni attuali anche a proposito di Mammasantissima intoccabili come i giudici della Corte Costituzionale (CC) e lo stesso Presidente della Repubblica (PdR).

Nella conferenza si trovano infatti moltissime verità che i cittadini si dicono in privato, da mesi e da anni, ma che nessuno ha osato affermare dinanzi ai comizi curiati schierati in battaglia, come ha fatto lui. E questo pesa. Chiunque poteva affermare che Stalin era un criminale, ma quando lo ha fatto Khrushchev, dalla tribuna, è stato un altro paio di maniche. Se tutto quanto è stato detto fino ad ora sembra eccessivo, si abbia la pazienza, prima di difendere o attaccare il Cavaliere, di procedere ad un esame analitico, punto per punto, di ciò che è stato detto d’importante, chiedendosi in ogni momento: è vero, questo?

Secondo Berlusconi quando si è creato l’euro si è commesso l’errore di stabilire per l’Italia un cambio di 1936 lire per un euro e poi, per l’intera Europa, si è permesso di passare dall’equivalenza un dollaro un euro ad un euro che valeva fino a un dollaro e mezzo, con enormi svantaggi per l’esportazione dei prodotti europei. E – aggiungiamo – ciò si è fatto perché quel cambio, mentre danneggiava tutti gli altri, non danneggiava la Germania.

Si è costituita la Bce, dice ancora Berlusconi, rinunziando al diritto di stampare la propria moneta, perché si pensava che la Bce si sarebbe comportata come una vera “banca centrale europea”, capace di garantire i debiti sovrani, “arrivando a stampare moneta in caso di necessità”. La Germania, memore dell’inflazione della Repubblica di Weimar, si è invece opposta, assegnandole l’unica missione di contrastare l’inflazione. E qui dissentiamo. Se la Bce garantisse il debito dei Paesi scervellati e spendaccioni, questi continuerebbero a contrarre debiti e la Bce creerebbe effettivamente una tragica inflazione. L’errore è stato invece quello di creare l’unione monetaria senza prima avere creato l’unione politica. Aderendo all’euro si è rinunciato a una delle stigmate fondamentali della sovranità, la possibilità di battere moneta, e per questo dinanzi ad una crisi del debito non si sa più che fare. La Bce è innocente. Infatti in altro momento lo stesso Berlusconi ha fatto notare che ciò che ha dato origine al grande problema dello “spread eccessivo” non è il livello del debito ma la mancanza d’indipendenza della valuta: il Giappone ha un debito pubblico del 238% del pil ma paga interessi dell’1% e ciò solo perché ha il potere di manovrare lo yen.

Berlusconi ha anche rivendicato il merito di avere, una volta scoppiata la crisi, cercato di opporsi a molte decisioni dell’Unione. Ha negato, in sede europea, che il nostro debito pubblico avesse raggiunto il 125% del pil. Infatti, ha sostenuto, accanto al pil ufficiale c’è un pil sommerso, dal quale l’erario non ricava nulla ma che fa lo stesso parte del prodotto interno. Non ha condiviso i ritardi negli aiuti alla Grecia, la Tobin tax, l’obbligo imposto alle banche di calcolare i titoli del debito pubblico al valore del mercato secondario e non a quello del rimborso, e infine il fiscal compact. Contro questo trattato egli è arrivato a porre il veto, con conseguente interruzione di due ore dei negoziati. Che egli ha usato per discutere con J.C.Junker, illustrando le ragioni del veto stesso. E comunque ha affermato che il tentativo di ridurre il debito pubblico con i sistemi proposti avrebbe portato alla recessione. Insomma, mentre la Francia ha seguito “passivamente” le indicazioni di Berlino, egli si è opposto per quanto ha potuto, essendo per questo contrastato in tutti i modi: nessuno ha dimenticato, fra le altre, l’“iniziativa di deterioramento dell’immagine internazionale” dell’Italia e i “sorrisi” della Merkel e di Sarkozy, che ha definito tentativo di “assassinio della mia credibilità internazionale”.

La Germania ha esercitato sull’Europa un’egemonia egoistica e non solidale, contribuendo allo scoppio della crisi. Ad esempio durante l’estate del 2011 alle banche tedesche è stato “imposto di vendere i titoli italiani” e ha dovuto farlo anche una banca italiana con sede in Germania. Poi giustamente, anche per questo motivo, i fondi internazionali e americani si sono preoccupati per il debito pubblico e sappiamo ciò che è seguito. Gli investitori internazionali hanno percepito la possibilità di fallimento degli Stati e sono stati spinti a chiedere interessi più alti per compensare il rischio: il 14% alla Grecia, il 9% al Portogallo, il 7% alla Spagna e il 6% all’Italia. Mentre prima la Germania pagava interessi del 3% e l’Italia del 4% (spread uno) poi - dal momento che l’Europa non si dimostrava disposta a sostenere i Paesi in difficoltà - si è passati all’1% per la Germania e al 6% per l’Italia (spread 5). E questo spread, cui il governo non aveva dato adito, ha tuttavia pesato nella richiesta delle sue dimissioni.

Berlusconi ha passato il testimone a Monti perché sperava che questo governo, fruendo dell’appoggio di maggioranza e opposizione, potesse fare quello che non poteva fare lui con la sua piccola e incerta maggioranza. La missione era soprattutto quella di cambiare la Costituzione ma il nuovo esecutivo non l’ha fatto. Ha aumentato le tasse, anche sulla casa, ha stabilito il divieto dell’acquisto in contanti oltre mille euro, e per il resto ha adottato al 100% le indicazioni della Germania arrivando ad una spirale recessiva senza fine.

Ma la cosa più grave sono i difetti strutturali del Paese. Il Presidente del Consiglio (PdC) non solo non può cambiare un ministro, non può nemmeno ingiungergli di star zitto, di non andare in televisione, di non prendere certe iniziative. Soprattutto non ha il potere di proporre un decreto legge. La stessa “necessità e urgenza” è giudicata dal PdR, dando luogo a un continuo braccio di ferro. Per fare una legge ci vogliono da 450 a 600 giorni e il PdR può respingerla se i suoi esperti, con la lente d’ingrandimento, trovano qualche “profilo di incostituzionalità” non solo materiale, ma anche con riguardo allo “spirito” della Costituzione. Poi ci sono i regolamenti attuativi. Infine, votata la legge, l’opposizione chiede a qualche giudice di Magistratura Democratica di impugnarla dinanzi alla CC e questa in mezza giornata azzera un lavoro del Parlamento che è magari durato 600 giorni. Ciò perché la CC è formata da undici giudici di centro-sinistra e quattro giudici di centro-destra, in conseguenza del fatto che i PdR di sinistra hanno “messo lì degli amici di sinistra”. Essa “non è un’istituzione di garanzia al di sopra delle parti ma è un organismo politico di sinistra”.

Così il Paese non è governabile e i cambiamenti sono necessari. I PdC devono poter revocare i ministri; devono poter governare con decreti legge e le leggi devono essere votate da una sola Camera, con metà dei parlamentari. Entro 90-120 giorni. Bisogna cambiare anche le regole per la formazione della CC: è inammissibile che si cassino leggi magari con un solo voto di maggioranza. Bisogna pure dipendere meno dai piccoli partiti, che non agiscono per il bene generale ma per l’interesse proprio e soprattutto del loro piccolo leader. Berlusconi racconta che tra il 2001 e il 2006, trattando con loro, ha provato ad arrivare ad una riforma della giustizia, ma dopo un anno di tentativi ci ha dovuto rinunciare.

Poi riparla ancora della recessione, illustrando il circolo diabolico: gli italiani, impoveriti, consumano meno; le imprese producono meno; dunque licenziano; dunque aumenta la disoccupazione; e questa impoverisce i cittadini. Tutto ciò si chiama recessione. Per non parlare di come l’erario, col sistema del redditometro, può attuare autentiche “estorsioni fiscali”. Infatti, assurdamente, in questo campo si è invertito l’ordine della prova. Non è il fisco che deve provare i maggiori redditi, è il cittadino che deve dimostrare di non averli. Prova negativa, dunque diabolica. Si deve “porre un alt” a tutto ciò. E si può fare soltanto, dice senza giri di parole, “cambiando la politica imposta all’Italia dalla signora Merkel” (sic). “Questo noi dovremo fare”.

E infatti passa ad illustrare una sorta di programma elettorale. La riduzione del debito pubblico è necessaria ma si può ottenere solo aumentando il pil e diminuendo il deficit. Stop all’aumento della pressione fiscale, anzi percorso di riduzione. Fine degli sprechi. Fine delle imposte sulla casa. Fine della storia dei mille euro. Possibilità di usare il telefono in pace, infatti è “barbaro e incivile” che si vedano rese pubbliche cose dette in privato. Divieto di appello dei pm (che la CC ha abrogato in nome dell’uguaglianza tra pm e difesa, quasi che la prima assoluzione non fosse la prova provata dell’esistenza di un dubbio sulla colpevolezza!). Impedire ai pm di tenere troppo facilmente in carcere i cittadini in assenza di condanna, cosa che possono fare, con vari strumenti, fino a undici anni. In sintesi, la dittatura dei magistrati, la magistratocrazia, deve finire.

Solo negli ultimi minuti Berlusconi parla appassionatamente della persecuzione giudiziaria di cui è stato fatto oggetto: che sarà pure scandalosa, ma è politicamente meno importante. L’iniziativa induce infatti soprattutto a riflessioni politiche.

Se Berlusconi fosse il “padrone” del suo partito - come si finge di credere a sinistra - ci dovremmo aspettare tuoni e fulmini: basti vedere in che termini ha parlato della Germania e della signora Merkel. Invece per il futuro si possono fare tre ipotesi. O il partito, poco convinto dell’intemerata, fa finta di nulla come se Berlusconi avesse solo voluto sfogarsi con i giornalisti: e tutto continuerà come prima. Oppure il partito comprende che il programma delineato può essere veramente allettante per un Paese stanchissimo del governo Monti e delle sue tasse, e lo adotta. Anche perché non è lontanissimo da quella linea di protesta dei grillini che sembra essere largamente gradita. Se così fosse, sapremmo quale sarà il tema della campagna elettorale: da un lato i “montiani”, con o senza Monti, dall’altro il Pdl e Berlusconi. La terza ipotesi: nel caso il Pdl fosse molto coeso su questa posizione e la sostenesse convintamente, ci sarebbe la possibilità che intorno ad essa si agglutinasse una coalizione sedotta da questo cambiamento di rotta.

Purtroppo, al di là e al di sopra di tutto ciò, rimane un’obiezione che è un’inevitabile pietra d’inciampo. Nessuno nega tutte le critiche esternate da Berlusconi; nessuno nega che un grande cambiamento sia necessario; ma se esso è possibile (si fa per dire) nel campo della giustizia, come attuarlo nel campo dell’economia? Chi dichiara fallimento (in quale altro modo uscire dall’euro?) va infatti incontro a tali e tanti problemi, che forse val la pena di tenersi l’euro e perfino Mario Monti. Ecco perché, prima di sottoscrivere il programma di Berlusconi, esemplare per la diagnosi, aspettiamo di sapere qual è la terapia proposta. Se essa fosse valida, allora veramente la svolta sarebbe epocale. (il Legno Storto)

venerdì 26 ottobre 2012

Lo spariglio di Silvio

Si illude chi spera di incontrare Berlusconi che spinge i nipotini sull'altalena dei giardini pubblici.
Non si ritira, non ha gettato la spugna, anzi: ha sparigliato.

Si toglie il peso delle primarie dove avrebbe vinto ma non stravinto, aggira gli immancabili attacchi di chi vive di antiberlusconismo, lascia che chi corre per le primarie, da una parte e dall'altra, si faccia del male, si presenterà alle politiche del 2013 e, con un bel pacco di preferenze, potrà dire la sua.

Ma, attenzione, la corsa al premierato non porterà ad una vittoria netta perché difficilmente il Pd riuscirà a prevalere quel tanto che basta. A questo punto, dato che la scelta del Presidente del Consiglio spetta al Capo dello Stato, non è da escludersi che l'incarico venga ridato a Monti che potrebbe guidare un governo sostenuto dal Pdl, Udc, Centro ed eventuale Lega.
A Berlusconi, sono certo che farebbe faville per averlo, potrebbe essere affidato il Ministero degli Affari esteri.

Fantapolitica? Staremo a vedere.
Intanto il Cav se la ride, si riposa e si è gia messo in riva a quel famoso fiume dove si aspetta...

giovedì 25 ottobre 2012

Lettera di Silvio Berlusconi


Caro Mauro,

per amore dell’Italia si possono fare pazzie e cose sagge. Diciotto anni fa sono entrato in campo, una follia non priva di saggezza: ora preferisco fare un passo indietro per le stesse ragioni d’amore che mi spinsero a muovermi allora. Non ripresenterò la mia candidatura a Premier ma rimango a fianco dei più giovani che debbono giocare e fare gol. Ho ancora buoni muscoli e un pò di testa, ma quel che mi spetta è dare consigli, offrire memoria, raccontare e giudicare senza intrusività

Con elezioni primarie aperte nel Popolo della Libertà sapremo entro dicembre chi sarà il mio successore, dopo una competizione serena e libera tra personalità diverse e idee diverse cementate da valori comuni. Il movimento fisserà la data in tempi ravvicinati (io suggerisco quella del 16 dicembre), saranno gli italiani che credono nell’individuo e nei suoi diritti naturali, nella libertà politica e civile di fronte allo Stato, ad aprire democraticamente una pagina nuova di una storia nuova, quella che abbiamo fatto insieme, uomini e donne, dal gennaio del 1994 ad oggi.


Lo faranno con un’investitura dal basso nella quale ciascuno potrà riconoscere non solo i suoi sogni, come in passato, e le sue emozioni, ma anche e soprattutto le proprie scelte razionali, la rappresentanza di idee e interessi politici e sociali decisivi per riformare e cambiare un paese in crisi, ma straordinario per intelligenza e sensibilità alla storia, che ce la può fare, che può tornare a vincere la sua battaglia europea e occidentale contro le ambizioni smodate degli altri e contro i propri vizi. Siamo stati chiamati spregiativamente populisti e antipolitici della prima ora.

Siamo stati in effetti sostenitori di un’idea di alternanza alla guida dello Stato sostenuta dal voto popolare conquistato con la persuasione che crea consenso. Abbiamo costruito un’Italia in cui non si regna per virtù lobbistica e mediatica o per aver vinto un concorso in magistratura o nella pubblica amministrazione. Questa riforma ’populista’ è la più importante nella storia dei centocinquant’anni dell’unità del Paese, ci ha fatto uscire da uno stato di sudditanza alla politica dei partiti e delle nomenclature immutabili e ha creato le premesse per una nuova fiducia nella Repubblica.

Sono personalmente fiero e cosciente dei limiti della mia opera e dell’opera collettiva che abbiamo intrapreso, per avere realizzato la riforma delle riforme rendendo viva, palpitante ed emozionante la partecipazione alla vita pubblica dei cittadini. Questo non poteva che avere un prezzo, la deriva verso ideologismi e sentimenti di avversione personale, verso denigrazioni e delegittimazioni faziose che non hanno fatto il bene dell’Italia. Ma da questa sindrome infine rivelatasi paralizzante siamo infine usciti con la scelta responsabile, fatta giusto un anno fa con molta sofferenza ma con altrettanta consapevolezza, di affidare la guida provvisoria del paese, in attesa delle elezioni politiche, al senatore e tecnico Mario Monti, espressione di un Paese che non ha mai voluto partecipare alla caccia alle streghe.

Il presidente del Consiglio e i suoi collaboratori hanno fatto quel che hanno potuto, cioè molto, nella situazione istituzionale, parlamentare e politica interna, e nelle condizioni europee e mondiali in cui la nostra economia e la nostra società hanno dovuto affrontare la grande crisi finanziaria da debito. Sono stati commessi errori, alcuni riparabili a partire dalle correzioni alla legge di stabilità e ad alcune misure fiscali sbagliate, ma la direzione riformatrice e liberale e’ stata sostanzialmente chiara. E con il procedere dei fatti l’Italia si e’ messa all’opera per arginare con senso di responsabilità e coraggio le velleità neocoloniali che alcuni circoli europei coltivano a proposito di una ristrutturazione dei poteri nazionali nell’Unione Europea. Il nostro futuro è in una Unione più solida e interdipendente, in un libero mercato e in un libero commercio illuminato da regole comuni che vanno al di là dei confini nazionali, in una riaffermazione di sovranità che è tutt’uno con la sua ordinata condivisione secondo regole di parità e di equità fra nazioni e popoli. Tutto questo non può essere disperso.


La continuità con lo sforzo riformatore cominciato diciotto anni fa è in pericolo serio. Una coalizione di sinistra che vuole tornare indietro alle logiche di centralizzazione pianificatrice che hanno prodotto la montagna del debito pubblico e l’esplosione del paese corporativo e pigro che conosciamo, chiede di governare con uno stuolo di professionisti di partito educati e formati nelle vecchie ideologie egualitarie, solidariste e collettiviste del Novecento. Sta al Popolo della Libertà, al segretario Angelino Alfano, e a una generazione giovane che riproduca il miracolo del 1994, dare una seria e impegnativa battaglia per fermare questa deriva.

mercoledì 24 ottobre 2012

Infamie e falsità. Alessandro Sallusti

C'è qualcosa che fa peggio dell'ipotesi di finire in carcere. È prendere atto di quanto violenta, falsa e arrogante possa essere la giustizia se affidata a mani indegne.
Il direttore del Giornale Alessandro Sallusti
È successo ieri, leggendo le motivazioni della sentenza, firmata da tale Aldo Grassi e tale Antonio Bevere (consigliere estensore), con cui la Cassazione mi condanna a 14 mesi di reclusione per un articolo neppure scritto da me.

Si legge che io avrei una «spiccata capacità a delinquere», mi paragona a un delinquente abituale. È una vera infamia, che non permetto neppure a un presidente di Cassazione, basata su odio ideologico e su una serie di menzogne.Mi prendo tutta la responsabilità di quello che dico e sollevo il mio editore dal risponderne in tribunale. Ve lo dico io, in faccia, signori Grassi e Bevere: avete abusato del vostro potere, la vostra sentenza è un'infamia per me e per i miei parenti. Non si gioca con la vita delle persone come se fossero cose nella vostra disponibilità senza pagare dazio. Le motivazioni della vostra sentenza sono delinquenziali, non il mio lavoro. Sono parole basate su falsi, montate per costruire teoremi che esistono solo nella vostra testa. E ve lo spiego. È falso che io abbia scritto alcunché. È falso che io abbia deliberatamente pubblicato notizie sapendole false. È falso che io mi sia rifiutato di pubblicare una smentita, nessuno me l'ha mai chiesta né inviata. È falso che sul mio giornale dell'epoca, Libero, sia stata pubblicata una campagna contro un giudice (un articolo di cronaca ripreso da La Stampa e un commento non possono in alcun modo costituire una campagna). È falso che non fosse possibile identificare chi si celava dietro lo pseudonimo Dreyfus: bastava chiederlo, non a me che come direttore sono tenuto al segreto deontologico, ma a chiunque e avreste accertato che si trattava di Renato Farina (lui stesso lo ha scritto in un suo libro). È falso che io abbia un numero di condanne per omesso controllo (7 pecuniarie in 35 anni di mestiere) superiore alla media dei giornalisti e direttori di quotidiani italiani.Delinquente, quindi, lo dite a qualcun altro. Non vi stimo, non vi rispetto, non per la condanna, ma per quelle vostre parole indegne. Vergognatevi di quello che avete fatto. E forse non sono l'unico a pensarla così. Ci sarà un motivo se il Parlamento sta lavorando per cancellare la vostra infamia e se un vostro collega, il procuratore di Milano Bruti Liberati, si rifiuta di applicare la vostra sentenza del cavolo nonostante io mi sia consegnato alle patrie galere, in sfregio a voi, rinunciando a qualsiasi pena alternativa. E adesso fate pure quello che credete, rispetto a me e alla mia storia siete un nulla. (il Giornale)

martedì 23 ottobre 2012

Caso Sallusti, Zagrebelsky e i razzisti della libertà. Salvatore Tramontano

La libertà di stampa a lettere cubitali si applica se quello che rischia il bavaglio o le manette appartiene a un certo mondo, ha la faccia giusta, per cultura e carattere si veste da vittima non appena gli pestano un piede.


Ci sono Libertà con la maiuscola e libertà minori, con la minuscola, come quelle che riguardano il destino di Alessandro Sallusti. La libertà di stampa a lettere cubitali si applica se quello che rischia il bavaglio o le manette appartiene a un certo mondo, ha la faccia giusta, per cultura e carattere si veste da vittima non appena gli pestano un piede. Pensate solo se questa storia fosse capitata a uno come Santoro, o a un qualsiasi direttore di giornale con la faccia giusta. Tutti in piazza a piangere per la libertà di stampa soffocata, tradita, stuprata, malmenata, manganellata e giù fiumi di indignazione e di vergogna, magari rispolverando le lettere di Gramsci dal carcere e la lotta ai nuovi regimi.

Ecco, in questo caso tutti avrebbero parlato di Libertà. Per Sallusti no, per Sallusti la libertà stuprata ha lo stesso peso di un lavandino otturato, una questione da poco. Ma di che vi lamentate? Chiamate un idraulico o ricorrete ai servizi sociali. Con Sallusti il ragionamento è sempre più o meno questo: sì, magari il carcere è eccessivo, ma se i giudici lo sbattono al gabbio qualcosa di male avrà fatto, se lo è meritato. Sallusti paga a prescindere. Perché? Semplice, perché è Sallusti. È l'ingiustizia ad personam.

Questo modo di ragionare fa ancora più rabbrividire se fa da rumore di fondo alle valutazioni di un emerito giudice costituzionale. Se si chiede a Gustavo Zagrebelsky, come fa Repubblica, cosa pensa del caso Sallusti, la sua risposta parte così: «Lasciamo da parte per un momento la libertà di stampa con la L maiuscola. Parliamo del caso specifico». Per il direttore del Giornale non c'è quindi bisogno di scomodare la libertà di stampa. È solo un caso specifico, una questione personale tra lui e i giudici. Zagrebelsky ammette che forse il carcere, come pena, non è adeguata. Ma la sua storia non fa scattare alcun campanello di allarme. Non fa scandalo. «Va detto - precisa - che nel caso dell'articolo in questione non si tratta di opinioni, ma dell'attribuzione di fatti determinati risultati palesemente falsi. Il reato consiste nell'omessa vigilanza».

Quello che Zagrebelsky non dice, o finge di dimenticare, è il motivo per cui Sallusti finisce in carcere. Ci va perché un giudice di Corte d'appello gli ha affibbiato la pena accessoria di uomo socialmente pericoloso. Ripetiamo: socialmente pericoloso. Un direttore condannato per omesso controllo viene etichettato da un giudice socialmente pericoloso. E lo fa in pieno arbitrio, per una sua valutazione personale. Quasi a sottolineare che Sallusti, che non è neppure l'autore dell'articolo diffamatorio, sia un serial killer della penna. Allora la domanda centrale è: da quando i direttori di giornali vengono condannati come socialmente pericolosi in virtù del loro lavoro giornalistico? E in base a quale criterio? La lista dei direttori condannati per responsabilità oggettiva è quasi infinita. Come mai solo a Sallusti un giudice s'inventa la pena accessoria del socialmente pericoloso? Per antipatia personale? Perché il diffamato è un giudice, e quindi per vendetta di casta? In ogni caso questo è arbitrio. È il pollice verso dell'imperatore romano. E a Sallusti non resta che dire: Ave giudice, morituri te salutant.

Zagrebelsky a queste domande non risponde. L'arbitrio non indigna il principe dei costituzionalisti italiani. O meglio, non lo indigna in questo caso. Di cosa stiamo parlando in fondo? Quella di Sallusti è una libertà di stampa con la lettera minuscola. Una libertà da poco. Vada in carcere o si faccia rieducare. (il Giornale)

domenica 21 ottobre 2012

Concorrenza fiscale. Davide Giacalone

Non accettando consigli da chi ha società alle Cayman si commettono due gravi errori. Il primo è di disonestà, perché si lascia intendere che con loro non s’intende avere a che fare, mentre è documentato il contrario. Vorrei non si dimenticasse l’epica stagione dei “capitani coraggiosi”, scalatori sponsorizzati da palazzo Chigi, dove imperava Massimo D’Alema, radicati in Lussemburgo e partecipati da società Cayman. Questo primo errore è stato abbondantemente rimarcato. Passiamo al secondo, le cui implicazioni sono maggiori, per il futuro: la concorrenza fiscale non è un mostro, e nemmeno il maligno, è la realtà del mercato globalizzato. Non solo sarebbe bene ascoltare, ma meglio ancora farsene un’idea chiara, perché da quella derivano significative conseguenze.

Anche se a Pier Luigi Bersani la cosa sembra nuova, inaspettata e deplorevole, la concorrenza fiscale è aperta e forte anche dentro l’area europea. La stessa identica Europa cui lui dice di dedicare tanti sogni, cui vuole (giustamente) restare legato, è un mercato di concorrenza fiscale. Non solo c’è il favore lussemburghese per le società finanziarie, non solo c’è quello austriaco (e non solo) per le attività produttive, ma ci sono veri e propri paradisi fiscali, comunque riconosciuti: dalle Antille olandesi alla portoghese Madeira. Sono cose notissime e, non a caso, le grosse società finanziarie, le banche, e anche i piccoli più dinamici fanno largo ricorso a queste opportunità. Bersani sarà pure stupefatto, ma a quel mercato fanno ricorso anche imprese direttamente partecipate dallo Stato italiano.

Perché esiste la concorrenza fiscale? Perché si tende a trattare con favore le imprese e gli investimenti che si spostano da un Paese all’altro, offrendo loro la convenienza di prendere una cittadinanza (societaria) anziché un’altra. Perché è conveniente fare degli sconti fiscali? Perché così si attira gettito altrimenti fuori dalla portata nazionale. Demonizzare tutto questo, supporre di poterlo cancellare con una dichiarazione indignata non è velleitario, è direttamente stupido. Neanche sarebbe conveniente, perché grazie a quella concorrenza ci sono settori produttivi e finanziari che possono recuperare una competitività altrimenti perduta. Il vero quesito, allora, è il seguente: perché dall’Italia si scappa, mentre nessuno viene da noi a radicarsi per convenienza? Risposta: perché il nostro fisco è esoso, dato che lo Stato spende in ragione di quanto incassa e desidera spendere sempre di più. Inoltre non garantiamo la giustizia. Chi viene da noi, allora? Quelli che considerano conveniente portare via ricchezza o percepire aiuti pubblici, fatti di certificati verdi troppo pagati, sovvenzioni per la creazione di posti di lavoro e così via. Quindi, riassumendo: altri attirano capitali tassandoli meno di noi, ma comunque più che se restassero all’estero; noi attiriamo investimenti pagandoli. Facile capire perché c’impoveriamo.

Il sogno dei bersaniani di tutto il mondo è eliminare la concorrenza, in modo che il governante possa agire a suo piacimento, senza il disturbo di un vicino (o anche lontano) che alletta i suoi cittadini e li invita in casa propria. Il sogno più razionale è quello di avere uno Stato meno esoso, capace di tutelare un ecosistema favorevole alla nascita e crescita delle imprese produttive, senza allevarle per poi divorarle fiscalmente, quindi capace di tutelare il proprio gettito.

Per queste ragioni suggerisco a Bersani, come a tutti quelli che credono il fisco sia uno strumento di redenzione morale, di farsi invitare a cena da chi si occupa di finanza, compresa quella “evasiva”. Può darsi che il pasto non sia gradevolissimo, ma la lezione assai utile. Ove abbia bisogno di conferme e riscontri, poi, chiami pure liberamente i capitani coraggiosi, che erano corsari esterovestiti.

sabato 20 ottobre 2012

Per favore, votate Grillo. Gianni Pardo

Oggi abbiamo buone notizie. Secondo un sondaggio Swg (15/17 ottobre) il Movimento 5 Stelle alle prossime elezioni dovrebbe andare al ventuno per cento. Il Pd sarebbe al 25,9%, l’Udc stabile, il Pdl al 14% e l’Idv al 4,3%. Aggiungiamo, per completare il quadro, che giorni fa qualcun altro dava Sinistra e Libertà al 6%. Naturalmente c’è l’incognita dell’astensione, che misura la disaffezione dalla politica ma non influisce sulla composizione del Parlamento. Se anche votasse solo il dieci per cento degli italiani, quel dieci per cento deciderebbe per il cento per cento degli italiani. E tanto peggio per il novanta.

Per il momento non si può che tenere conto dei dati forniti dai sondaggi. Sommiamo dunque il 26% del Pd col 6% di Sel. Col premio di maggioranza del Porcellum del 15% (se rimane) si arriva al 47%. Non ci siamo ancora. Il Pd dovrebbe dunque allearsi con Beppe Grillo, anche per non averlo all’opposizione. E qui viene il bello. Se già l’unione con Sinistra e Libertà può far pensare al peggio, l’alleanza con i grillini potrebbe costituire la resa totale alla cultura dello sfascismo, dell’improvvisazione, della demagogia di piazza e del giacobinismo di borgata. Ecco perché si parlava di buone notizie: perché un simile governo produrrebbe guasti tanto grandi e tanto veloci da costituire quel lavacro dei cervelli di cui gli italiani hanno urgente bisogno.

Nel momento in cui fossimo usciti dall’euro, avessimo azzerato i risparmi di tutti, avessimo un’inflazione galoppante, una disoccupazione mostruosa, una recessione che ci farebbe parlare non di una “pudica riduzione dei consumi” ma di semplice “fame”, molti finalmente imparerebbero che il peggio non è come la temperatura, che ad un certo punto incontra lo zero assoluto. Il peggio non ha uno zero. E certo questo zero non è stato né la Democrazia Cristiana, né Berlusconi né Prodi o D’Alema.

Noi italiani dobbiamo ancora imparare che “chiedere”, anche se si pestano i piedi o si sfila per le strade, non significa sempre “ottenere”. Che l’aritmetica è più forte della politica. Che non sempre si riesce ad intimidire il prossimo con uno sciopero e soprattutto che nessun pasto è gratis, come diceva Milton Friedman. Questa grande, vera, devastante crisi economica senza precedenti e senza paracadute ci insegnerebbe che non è scritto da nessuna parte che tutti dobbiamo avere tutto; che la nostra è una nazione povera di risorse naturali che deve importare parecchio e che per questo deve lavorare duro, magari guadagnando poco. Che gli emigranti che partivano per la “Merica” con solo una valigia non erano degli alieni o dei pazzi: era soltanto gente che, prima di noi, ha saputo che cos’è il bisogno del pane. Non del companatico: del pane.

E non sarebbe l’unico vantaggio. Forse sarebbe addirittura una benedizione per il mondo. L’Italia farebbe scoppiare l’euro e probabilmente anche l’Unione Europea; farebbe comprendere a tutti che non ci si può indebitare indefinitamente perché alla fine la realtà presenta il conto; farebbe vedere che il modello di produzione occidentale, con mille garanzie giuridiche, sindacali, sociali e previdenziali, è un modello che non ci possiamo permettere; che uno Stato di sessanta milioni di abitanti non può avere uno sterminato esercito di dipendenti statali e di sanguisughe politiche, e tante altre cose ancora.

Speriamo vivamente che Grillo determini la politica italiana ed europea. I saggi e coltissimi iperspecialisti dell’economia ci hanno condotto al disastro ed ora è tempo che si torni all’età della pietra per riscoprire nuovi maestri capaci di spiegarci, senza neppure citare Adam Smith, arcani principi economici del tipo: “chi non lavora non mangia”, “se non ti prendi cura di te stesso puoi morire come un cane”, “la società non ti deve nulla” e infine che “l’uguaglianza, oltre ad essere contraria alla natura, è una balla inventata dagli inferiori”.

Per favore, votate Movimento 5 Stelle. (il Legno Storto)

mercoledì 17 ottobre 2012

La rottamazione dei politici non serve a niente.

Scritto da Gianni Pardo
  

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È mai possibile che si sia costretti a parlare a favore di D’Alema, della Finocchiaro, e – Dio ci perdoni – di Rosy Bindi? È possibile che, per fare questo, si sia costretti a superare la simpatia istintiva che ispira Matteo Renzi?
In politica il popolo ha la tendenza a riassumere brutalmente. La Democrazia Cristiana era “il governo dei preti”, il Partito Comunista prometteva la “spartizione dei beni dei ricchi”. Non sarà stato così ma così molti percepivano i loro programmi. Nello stesso modo, per molti oggi la politica di Renzi è: “rottamiamo i vecchi del partito”. Anche qui il riassunto è ovviamente tanto sommario da essere ingiusto ma è opportuno capire perché esso può avere successo.

Gli italiani sono scontenti della situazione attuale. Lo sono dal punto di vista economico – la recessione morde e il fisco è predatorio – e lo sono dal punto di vista morale dal momento che gli scandali impazzano. Sono più o meno convinti che peggio non potrebbe andare e che la colpa sia di chi ha guidato lo Stato sino ad oggi. Naturalmente, visto che in Italia si tende alla gerontocrazia, i colpevoli sono identificati nei vecchi politici. Dunque si crede che tutto potrebbe andar meglio se il timone fosse affidato a politici nuovi, con idee nuove, capaci di fare cose nuove. E di governare in modo nuovo e diverso. Come suonano bene, queste parole!

Se si vuole lasciare da parte la retorica, si può fare un paragone col campionato di Formula 1. La vittoria nei Grand Prix dipende da due fattori: dall’automobile e dal pilota. Se l’automobile continua a perdere anche cambiando il pilota, è chiaro che la colpa è dell’automobile. Se invece un pilota continua a perdere anche cambiando automobile, è segno che la colpa è sua e non del mezzo meccanico. E l’idea di cambiare pilota è ragionevole. Sta a vedere se vale anche per l’Italia.

Il nostro è un Paese democratico. Ciò significa che, anche se la gente non se ne accorge, la legislazione va nella direzione voluta dalla maggioranza. Ecco un esempio. Un liberista sa che il prezzo della locazione di un appartamento dipende dalla domanda e dall’offerta. Se il canone appare alto i casi sono due: o non è vero che è alto (è solo commisurato al mercato) oppure bisogna aumentare l’offerta di appartamenti, in modo che il canone cali naturalmente. Ma la mentalità del popolo italiano non è liberista. Nel 1978 l’idea di tutti fu di stabilire un equo canone per legge e il risultato fu che nessuno costruì per locare. Chi poteva locare preferì vendere e chi cercava una casa, non potendola comprare, non la trovò. Né a canone equo né a canone iniquo. Una casa l’ebbe chi poteva acquistarla: e infatti oggi in Italia gli italiani che vivono in casa propria sono l’ottanta per cento.

Ma ciò che qui interessa sottolineare è che questo errore non è mai stato corretto. Dal 1978 ad oggi sono passati quarantaquattro anni e la legge ha solo subito ritocchi, fino a non essere più necessaria, perché il mercato delle locazioni è praticamente defunto. Ora si può chiedere agli italiani, e in particolare agli elettori di Renzi: è colpa dell’automobile o è colpa del pilota?

La colpa dell’enorme debito pubblico non è solo dei vecchi politici. È colpa degli italiani che hanno voluto – e purtroppo ottenuto – ciò che lo Stato non poteva dare ed ha dato “a credito”. Né diversamente vanno le cose per il fisco. Se gli italiani reputano che lo Stato ha il dovere di dare tutto a tutti, come si crede che possa tentare di farlo, se non con tasse e imposte, che infine lievitano a livelli stratosferici? La colpa dell’attuale crisi nasce proprio da questo: gli italiani hanno creduto che si potesse avere tutto “gratis”, “tanto paga lo Stato”. Come se poi lo Stato non lo pagassimo noi.

Se tutto ciò è vero, bisognerebbe che chi è di sinistra voti per Renzi non perché è giovane, ma perché appare migliore, per ipotesi, di D’Alema. E non perché Prodi, o Berlusconi, o chiunque altro, siano responsabili della situazione attuale. Loro sono stati soltanto i piloti. Poi, certo, meglio avere un pilota bravo che uno incapace: ma se l’automobile non va, nessun pilota è in grado di farla vincere. Anzi, nel dubbio, è meglio avere un pilota che ha esperienza che un comico riverniciato da Masaniello o un brillante omosessuale farfugliante.

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Bersani & D'Alema. Davide Giacalone

Il problema della sinistra non è quello di mandare a casa chi si trova in Parlamento da molto tempo, ma quello di averne perso troppo e di avere regolarmente mancato gli appuntamenti con la storia. Non c’è un solo Paese d’occidente in cui il medesimo gruppo dirigente che fu comunista pensi di candidarsi alla guida del governo senza prima avere trovato il modo e l’occasione di dire una cosuccia facile per tutti, ma durissima per loro: il comunismo fu illusione di pochi e dramma di moltissimi, fu teoria e pratica di miseria, morte e dittatura. Siccome non ce la fanno, finiranno con il consumarsi in una scaramuccia del secolo scorso.

Capisco la stizza di Massimo D’Alema, che di quel gruppo è il più togliattiano, il meno esposto alle suggestioni della contemporaneità. Preparato e tatticamente raffinato. Finisce con lo schiantarsi su un errore da dilettante: credersi così intoccabile da affidare la propria sorte alle mani altrui. Un errore frutto di errori più grossi, che è sempre più difficile nascondere. Un guaio che travolge anche Pier Luigi Bersani, però, che prova a recitare la parte del furbo senza esserlo.

D’Alema è il miglior figlio della scuola comunista italiana. Proprio per questo il più grande responsabile dell’avere perso l’occasione del crollo sovietico, del non essersi saputo affrancare da una storia vergognosa. Essi dicono che fu gloriosa, perché sincera, perché costruita avendo in mente gli interessi dei lavoratori. Ma sapevano benissimo da dove venivano i loro finanziamenti, sapevano a quali interessi era corriva la loro lunghissima battaglia per la “pace” (c’erano D’Alema e Valter Veltroni a manifestare in Vaticano, contro la forza militare occidentale, c’erano loro a ricevere, commossi, i telegrammi di Breznev), sapevano di avere alimentato un sogno che era un incubo. Come lo sapeva Enrico Berlinguer. Eppure hanno creduto di far fessi gli altri, hanno pensato, con Achille Occhetto, che bastasse cambiare nome. Come poi avrebbe fatto Silvio Berlusconi e come loro stessi avrebbero continuato a fare. Hanno pensato, con D’Alema, che bastasse far la guerra al fianco di quegli statunitensi, che prima condannavano, per far dimenticare la loro sudditanza all’impero sovietico. E hanno creduto che non sarebbe mai arrivato il giorno dei conti. Che invece non solo è arrivato, ma è anche passato: per quanto s’industriassero a prendere in giro un Berlusconi che parlava dei “comunisti” in realtà il loro avversario approfittava proprio di una loro mancanza. Di una loro viltà. Riuscirono a sconfiggere Berlusconi due volte, ma per farlo dovettero mettersi nelle mani di un democristiano. Che per due volte fecero fuori.

Così sono giunti all’oggi, oramai sfiancati. Un uomo del livello di D’Alema avrebbe dovuto far la battaglia prima, ricordando che in nessuna democrazia occidentale c’è un limite ai mandati parlamentari, mentre c’è, ed è giusto che ci sia, un limite a quelli esecutivi, governativi. Se lo avesse fatto, però, sarebbe stato richiamato a un costume accessorio, in quelle democrazie: chi perde si fa da parte. E loro, a turno, hanno perso tutti.

Vince Bersani, che con una battuta scarica D’Alema e gli notifica che non sarà certo lui a chiedergli di ricandidarsi? Se lo scordi, perché non difendendo D’Alema scopre e indebolisce sé stesso. Para una prevedibile stoccata di Matteo Renzi, ma subisce una sciabolata sfregiante. Perché Bersani non è affatto più “nuovo” di D’Alema, o meno consustanziale alla storia comunista, è solo un dirigente di minor calibro, che ebbe meno spazio nazionale. Per il resto, siamo lì.

Bersani è in gara per essere il candidato della sinistra alla guida del governo. Hanno già avviato le rispettive campagne senza neanche avvertire il pubblico: guardate che siamo candidati a una cosa che non esiste, perché la nostra Costituzione prevede un iter del tutto diverso. Anzi, opposto. E passi se dicessero: dopo la vittoria la cambieremo. Ma loro gridano: fateci vincere, così non cambia. E allora a cosa cavolo siete candidati? Mettiamola così: siccome avete la testa da apparatčik (proto, lascia la traslitterazione dal russo, così la capiscono) di partito, e siccome avete perso il centralismo democratico, non per carenza di democrazia (mai tropo frequentata), ma di centro, alla fine fate le primarie al posto dei congressi. Così, però, va a farsi benedire la politica.

Bersani ha cominciato la corsa come se dovesse fare l’alleanza con l’Udc di Casini. Poi l’ha fatta con Sel di Vendola. Nel frattempo, però, in Sicilia è alleato con l’Udc, nel nome della continuità lombardiana, e avversario di Sel. Vendola è, a sua volta, alleato della destra giustizialista, incarnata dall’Idv di Di Pietro, tanto per non farsi mancare nulla, all’abbuffet del trasformismo. E’ partito, Bersani, dicendo che, accipicchia, loro sì che sono seri ed europei, tant’è che sostengono un governo grandioso come quello Monti, ed è arrivato senza manco citarlo nel programma. Ora s’alleggerisce della presenza di D’Alema, come un natante che imbarca acqua e scuffia. S’accorgerà di avere lasciato agli abissi la bussola e il salvagente. Ciò non di meno vinceranno, con ogni probabilità, per ko tecnico dell’avversario. Ma cadranno sotto al peso della coppa.

martedì 16 ottobre 2012

La vera casta degli intoccabili. Federico Punzi

 
È stata la rassegnazione più che l’indignazione la reazione della grande stampa – anche dei giornalisti da anni impegnati nella battaglia contro la “casta”, intesa come ceto politico – alla sentenza con cui i giudici della Corte costituzionale hanno “salvato” gli stipendi d’oro dei magistrati, loro colleghi, e degli alti burocrati dello stato dal “contributo di solidarietà” introdotto nel 2010 dal governo Berlusconi (il 5% per la parte di stipendio compresa fra 90 e 150mila euro, e il 10% oltre i 150 mila euro), mentre anche il tetto fissato da Monti agli stipendi degli alti dirigenti pubblici (294 mila euro, non proprio bruscolini) sta incontrando resistenze formidabili, tanto che dopo oltre 6 mesi dalla sua introduzione formale, nel marzo scorso, è ancora ampiamente disapplicato.

Pur con tutte le resistenze e gli imperdonabili ritardi, la casta politica sta pagando per i propri abusi, legali o meno, di denaro pubblico: con inchieste, scandali, gogne mediatiche e, infine, taglio dei costi. Ma a quanto pare in Italia si trova sempre qualcuno più intoccabile degli intoccabili: i magistrati e gli alti burocrati, i cui stipendi sono incomparabilmente più alti di quelli dei loro colleghi di altri Paesi industrializzati, le pensioni idem, e le cui carriere procedono verso l’alto per automatismi piuttosto che per merito. Se il presidente della Corte costituzionale americana guadagna 223 mila dollari (171 mila euro), e il direttore dell’Fbi 141 mila dollari (110mila), da noi il capo della Polizia Antonio Manganelli si porta via 621 mila euro e il primo presidente di Cassazione 294 mila, per fare solo alcuni esempi.

Configurandosi come tributo, osservano i giudici della Consulta, il cosiddetto “contributo di solidarietà” vìola l’articolo 3 della Costituzione, perché produce un «irragionevole effetto discriminatorio» sia rispetto agli altri dipendenti che guadagnano meno della soglia prevista, sia rispetto ai dipendenti privati, ai quali non si applica. Limitarlo ai dipendenti pubblici vìola il principio della parità di prelievo a parità di capacità contributiva. Per quanto riguarda i magistrati, inoltre, è incostituzionale anche solo il blocco degli incrementi automatici triennali dello stipendio, in quanto secondo la Corte lede la loro autonomia e indipendenza.

Per quanto la sentenza possa apparire ineccepibile tecnicamente, dal punto di vista giuridico, più che in punta di diritto verrebbe da dire in punta di cavillo, la Consulta offre il fianco all’accusa di difesa “corporativa”. Impossibile non notare infatti come i giudici, dichiarando incostituzionale il tributo, abbiano difeso anche la propria busta paga.

Avranno giudicato in scienza e coscienza, ma il “conflitto di interessi” è lampante. Più di qualche sospetto grava anche sui veri “tecnici”, coloro che negli uffici di Palazzo Chigi e nei gabinetti dei ministeri aiutano a scrivere in concreto i provvedimenti, o li scrivono direttamente, e che li accompagnano lungo l’iter parlamentare.

Sono gli stessi i cui stipendi sarebbero stati decurtati dal “contributo di solidarietà” (il capo di gabinetto del Ministero dell’economia prende 536 mila euro) e sorge il dubbio che non si siano impegnati più di tanto a rendere la legge inattaccabile da eventuali ricorsi e profili di incostituzionalità. Problemi di costituzionalità che riguardano anche la vecchia questione delle pensioni d’oro. Pensioni che superano i 30 mila euro mensili, come quelle degli ex premier Amato e Ciampi, cui si arriva cumulando più trattamenti pensionisti pubblici, la maggior parte dei quali maturati sotto regimi retributivi e non contributivi.

Il ministro Patroni Griffi ha di recente ammesso in Parlamento le difficoltà incontrate nell’attuazione del tetto agli stipdendi dei manager pubblici introdotto nel marzo scorso: in 18 superano ancora il tetto dei 294 mila euro, ma il dato riguarda solo le 37 amministrazioni pubbliche su 80 che hanno comunicato i dati. E resta aperto il problema che il tetto si riferisce a ciascun incarico, non alla eventuale somma degli incarichi. (l'Opinione)

La formula della povertà. Davide Giacalone

No, quella che stiamo vivendo non è una nuova tangentopoli. Semmai il suo opposto. No, quello previsto dal governo nella legge di stabilità non è uno sgravio fiscale. Semmai un aggravio, con annessa violazione del patto fra cittadini e Stato. Leggo con preoccupazione le parole dei ministri della giustizia, Paola Severino, e dell’economia, Vittorio Grilli, perché dimostrano un forte deficit di visione e temo sfugga ai più il nesso che le lega. Sono due errori contenuti in un medesimo discorso.

Cominciamo dal ministro Severino: la sola continuità, fra il 1992-1994 e i nostri tristi giorni, consiste nel fatto che la giustizia s’identifica con l’accusa, il giudizio con l’arresto, il giudice con il pubblico ministero. Continuità, quindi, nel peggiore vizio della malagiustizia. Per il resto le diversità sono enormi, e le riassumo in punti, pregando di fare attenzione agli ultimi due (che ci riportano all’economia e al fisco): a. nella prima Repubblica, al netto dei delinquenti (che ci sono sempre e sempre ci saranno), si finanziavano i partiti, mentre ora ci si finanzia, in privato e personalmente, con i soldi dei partiti e con l’influenza sulle società pubbliche; b. venti anni fa crollò un sistema politico (colpevolmente indebolitosi) per mano di un doppio colpo a palazzo, portato da certa magistratura e dalla copertura offerta all’ex partito comunista, ora, invece, il sistema si sbriciola nel nulla; c. allora fu determinante la fine della guerra fredda, mentre oggi pesa la fine della pari dignità e influenza dei singoli Paesi all’interno dell’Unione europea, due casi molto diversi di cambiamento dell’orizzonte internazionale; d. allora furono dominanti gli interessi di chi puntava a depredare il patrimonio degli italiani, con privatizzazioni fatte come peggio non si poteva, mentre oggi si punta ai soldi dei pagatori di tasse, che finanziano con il loro sangue i bassi tassi d’interesse pagati da sistemi-paese nostri concorrenti, impoverendo il nostro. Sono cose assai diverse. Solo il moralismo, reso forte dall’assenza di giustizia, può giovarsi della confusione.

La ragione per cui abbiamo scritto che la legge di stabilità non contiene alcuno sgravio fiscale, in questo quadro, non ha nulla a che vedere con la faziosità o con il partito preso. Ha a che vedere, semmai, con l’aritmetica e con l’onesta intellettuale. Dice Grilli, come ha già detto Mario Monti: perché criticare un primo passo, per quanto limitato, verso l’alleggerimento fiscale? Perché è falso, giacché si tratta di un appesantimento. Non è una mera rimodulazione, che avrei salutato con piacere anche nel caso fosse stata a saldo zero, spostando il peso dai redditi ai consumi, questa è una più dura tassazione, mascherata da una falsa diminuzione delle aliquote.

Grilli ha detto di rendersi conto (e vorrei vedere!) che la retroattività della norma viola lo statuto del contribuente, quindi il patto fra il cittadino e lo Stato, ma che, fatti i conti, senza quella violazione non ci sarebbero stati i soldi per finanziare un punto in meno nelle due aliquote più basse (che, come ha spiegato Luca Ricolfi, portano più risparmi ai ricchi che ai poveri). Peggio mi sento. E’ come dire: abbiamo violato le regole per potere permetterci di fare l’annuncio. Non riesco ad immaginare comportamento più intellettualmente disonesto. Il rispetto della legge subordinato alla convenienza politica, vale a dire la radice profonda di molti nostri mali. Oggi amorevolmente irrigata dal governo tecnico. Una gran brutta cosa.

Il tutto nel mentre accumuliamo altri 4 punti di debito (sul prodotto interno lordo) a causa dei soldi che paghiamo al fondo europeo per la salvezza degli altri Stati e cerchiamo di non pagare tassi ancora più alti affermando (temerariamente) che di aiuto non avremo mai bisogno. Tutto ciò perché restiamo la terza economia d’Europa, con quel che ciò comporta in termini di costi, ma senza quel che ciò dovrebbe portare in termini di peso politico. E come ieri ci facemmo derubare con operazione á la Telecom Italia (compartecipe la nostra imprenditoria e la nostra politica, quella dei capitani coraggiosi e dei loro sponsor), oggi lasciamo defluire ricchezza, con un debito pubblico che cresce anziché diminuire. Siamo talmente ricchi da finanziare chi ci vuole più poveri, nel mentre raccontiamo a noi stessi che non solo facciamo schifo, ma grazie al cielo c’è un governo di persone a modino che sta abbassando le tasse. E nessuno ha il coraggio di dirlo, perché ciascuno sa di avere colpe superiori. Ecco, questa è la formula magica con cui si trasforma la forza e la ricchezza in sudditanza e povertà.

lunedì 15 ottobre 2012

... oppure incompetente. Lorenzo Matteoli

Contano poco i dettagli, che sono comunque bene affrontati dai bean counters (cfr http://www.paolomanasse.blogspot.it). Il dato che ha peso politico è che Mario Monti nella conferenza stampa dopo il CdM che ha varato l’ultimo gioco finanziario (legge di stabilità) ha detto che finalmente si vedevano i risultati della (sua) buona amministrazione e che la pressione fiscale, a seguito della nuova misura (meno IRPEF più IVA et al), sarebbe diminuita. Non è vero: la pressione fiscale, specialmente sui bassi redditi, con l’ultimo giro di valzer aumenterà.
Quindi il premier professore tecnico non può sfuggire alla alternativa: o ha mentito, o è incompetente e si fa imbrogliare dai suoi ministri, forse meno tecnici e più furbi. Dovrebbe avere il coraggio di scegliere.
I giornali dicono che il governo “tecnico” ha cominciato a comportarsi come governo “politico” avallando l’assunto che un governo tecnico dice la verità e invece quello dei politici racconta bugie.

Luca Ricolfi spiega bene le cose e commenta il fatto con forte irritazione e rabbia su “La Stampa” del 13 ottobre. La rabbia di un personaggio molto equilibrato come Ricolfi deve preoccupare.

Da tempo mi chiedo se Monti sia capace, competente e tecnicamente all’altezza e quindi le difficoltà nelle quali sembra soffocare ogni sua iniziativa siano invece una responsabilità del “sistema Italia”, oppure se non si tratti di una vicenda dove la sopravalutazione del personaggio accademico ha giocato un pessimo scherzo al Paese e alla folta schiera di ammiratori di regime. Primo fra tutti il Presidente Napolitano.

Con questa ultima vicenda credo che si possa superare ogni dubbio: Mario Monti purtroppo non ci fa, né c’è e viene buon ultimo a confermare la famosa battuta attribuita a Sisto VI:
Chi sa, fa. Chi non sa, insegna. Chi non sa nemmeno insegnare, dirige. Chi non sa nemmeno dirigere, fa il politico. Chi non sa nemmeno fare il politico, lo elegge. (Antico detto rimaneggiato da Sisto VI)
Purtroppo nell’Italia della buona borghesia ben rappresentata da Mario Monti vige la sindrome di Garibaldi (nessuno può parlare male di Garibaldi) e quindi assisteremo d’ora in avanti alla complessa manovra per scaricarlo senza parlarne male. Un processo che ha una sola conclusione probabile: Mario Monti verrà promosso e diventerà il prossimo Presidente della Repubblica. Perchè della sua inadeguatezza oramai se ne sono accorti in molti e il grande vantaggio della seriosa credibilità del “professore” in Italia è stato ampiamente bruciato e fra poco la bruciatura si sposterà in ambito internazionale con le inevitabili conseguenze.
Perché ci sono molti modi di essere “unfit to rule”quello boccaccesco e sbracato e quello serio e accademico dell’incompetenza supponente. Il secondo è più pericoloso perché meno ovvio e meno evidente e prima che venga individuato e denunciato può provocare enormi danni.

Un’ultima riflessione: come mai di fronte all’immane buco nero dello scialo regionale, provinciale e comunale, un buco da centinaia di miliardi all’anno, e di fronte alla assurdità delle migliaia di costosi consiglieri di amministrazione di municipalizzate clientelari l’unica fantasia finanziaria che i “tecnici” riescono a concepire sono i punti percentuali dell’IVA e dell’IRPEF.

L’altra curiosità: come mai Francesco Giavazzi così chiaro e convincente nei suoi fondi sul Corriere della Sera, come consigliere del Governo Monti viene sovranamente ignorato dai ministri e dal suo collega professore premier. E come mai, nonostante sia sovranamente ignorato, non ritiene opportuno trarne le logiche conseguenze e dimettersi? Un segnale di chiarezza sarebbe più utile dei suoi consigli ignorati e gli garantirebbe uno spazio meno ambiguo in future alternative. (il Legno storto)

Primarie finte e primarie ... prossime

A proposito di primarie del PD, andate a leggere il post che ho scritto nel gennaio del 2006...

http://centrodestra.blogspot.it/2006/01/primarie-gonfiate.html

La marca da bollo

Marca da bollo da 14,62 €

La nuova disciplina in vigore dal 2 gennaio 2012
  • marca da bolloCasi di certificati in marca da bollo (14,62 €) :
- banca, finanziaria (mutuo, finanziamento, apertura conto, dichiarazione eredi, ecc...)
- certificati per ricongiungimento familiare (Prefettura)
- permesso di soggiorno
- posta (dichiarazione eredi, banco posta)
- notaio (rogito, successione)
- certificato di stato civile (da consegnare al parroco per matrimonio, per notai in caso di rogito, ecc...)
- cittadinanza (per la Prefettura)
- assicurazioni, se non accettano l'autocertificazione
- avvocato (escluso divorzio e separazione)
- avvocato, per notifiche
- estero (consolato o ambasciata, compreso per rilascio passaporto; eccetto esistenza in vita per pensioni estere)
- datore di lavoro (per assunzione o assegni familiari, se non accetta l'autocertificazione)
- master universitari
- autentica di firma su atto notorio (indirizzato a privati, es. dichiarazione degli eredi)
- ordini professionali
- autentica della firma su invito per ambasciata italiana all'estero
- passaggio di proprietà veicoli
- uso personale (es. da tenere in casa).
  • In tutti i casi elencati sopra anche nel caso di autentiche è richiesta l'applicazione della marca da bollo
  • L'autentica di foto è esente da bollo

  • Non si applica la marca da bollo sui certificati anagrafici richiesti per:
- associazioni sportive
- separazione e divorzio
- adozioni
- carta di soggiorno (Questura)
- ricorsi in materia di lavoro
- enti e associazioni assistenziali (Caritas)
- Tribunale (es. cause penali, casi della Tabella B)


  • Si utilizza esclusivamente l'autocertificazione per:
- per test di italiano per ottenere la carta di soggiorno
- Enel
- Iren
- altri gestori di pubblici servizi
- ACER, case popolari
- Motorizzazione (patente, conversione)
- Camera di Commercio
- ICI, IMU
- per assegni familiari o assunzione, se il datore di lavoro accetta l'autocertificazione
- CAAF per calcolo ISEE, ecc...
- assistenti sociali
- porto d'armi
- per le scuole pubbliche
- Agenzia delle Entrate
- tutti i certificati richiesti da enti pubblici (es. Guardia di Finanza)
- INPS
- per altri enti pensionistici
- abbonamenti treno-bus (Seta, Ferrovie)
- multe e verbali
- Equitalia
- carcere (per certificare la qualità di familiare)

La marca da bollo si acquista in tabaccheria




La marca da bollo. Questo balzello a cui siamo sottoposti per gentile "concessione governativa".
Ha una reminiscenza medioevale anche se è in uso dall'Unità d'Italia.
Mi ricorda la gag del fiorino nel film con Troisi e Benigni "Non ci resta che piangere".
Ed in effetti c'è proprio da piangere nel dover pagare sempre e comunque per avere certificazioni che gli uffici potrebbero benissimo scambiarsi.
Ma quello che mi fa venire l'orticaria è il costo non irrilevante e soprattutto i 62 centesimi che potrebbero essere arrotondati per evitare resti e monetine.
Ma tant'è: siamo in Italia e tutto è immutabile. Spero che i nostri politici si diano un'occhiata intorno prima che sia troppo tardi: le elezioni sono in primavera prossima. Svegliatevi!
Sopra ho riportato i casi in cui è necessario applicare la marca da bollo: come si può vedere le esenzioni sono proprio pochine...

sabato 13 ottobre 2012

La vertigine delle liste ( e un allarme). Caino Mediatico

La liste dei votanti alla primarie nazionali dell’Ulivo, del Pd etc., non si sono mai potute avere. Siccome per spirito di partito nessuno (ancora) è mai andato dal giudice restano segrete, riservate, inesistenti. Da un punto di vista della storia quei 3 e i 5 milioni di elettori che abbiamo visto potrebbero essere stati ologrammi, pronunciatisi per Prodi, Veltroni, Bersani, Bindi e Letta. Potrebbero anche essere veri solo quelli che hanno votato Scalfarotto perché il livello di programmazione dei cloni elettorali ancora era imperfetto.
La lista degli lettori e degli aventi diritto alle primarie di Napoli pure è stata talmente segreta, controversa strategica che né i candidati, né il prefetto Morcone, né i probiviri hanno notizie sulla sua esistenza reale. I giudici che hanno indagato sulla correttezza delle procedure che hanno portato al commissariamento, deliberando che quest’ultimo era illegittimo, non hanno approfondito il dettaglio. Il sangue di S. Gennaro si scioglie quasi sempre, la lista degli elettori delle primarie non appare mai. Alla processione dei Gigli Don Peppino Smozzicacapa ha giurato davanti alla Vergine di averne una copia, ma la DIA non gli dà credito.
Rosy Bindi nel 2008, nelle primarie in cui si presentò, chiedeva massima apertura e trasparenza, per le primarie di oggi richiede che l’ammissione alla lista dei votanti sia condizionata alla TAC e alla istituzione di un servizio di Precogs (i veggenti che anticipavano i crimini in Minority Report) da lei indicati, capaci di prevedere il voto reale dei votanti che dichiareranno il loro impegno a votare centro sinistra . Un’altra lista di veggenti verrà incaricata di vedere come sarà composto il centrosinistra nel futuro, che adesso è meglio protetto del segreto di Fatima
Naturalmente la prima lista di elettori verrà messa on line, per trasparenza; per la composizione del centro sinistra non si fidano manco dei Precogs perché Casini non sta fermo un minuto.
In questa vertigine di liste Eugenio Scalfari, che si è svegliato di pessimo umore, ha riproposto la lista anti-calabresi, in versione anti-Renzi, due liste civiche nazionali, una etica e l’altra morale, e la sua ultima lista di nozze come alternative. Ci parlerà Ezio Mauro dopo il riposino.
Bersani e i suoi barbuti agit-prop stanno intanto tormentando iscritti ed ex iscritti al Pd annunciando tutti i passaggi televisivi per sms, manco fosse il blocco delle circolazione a Roma. Stasera Bersani a Ballarò, a Che tempo che fa, al Tg1, poi a Porta a Porta, e a La Prova del Cuoco, Bersani al supermercato e dal benzinaio (questa è vera). C’è anche un’App “escapefrombersani” che sta avendo un certo successo.
Alla impudente richiesta di avere la lista degli iscritti al Pd da parte dell’esile pattuglia renziana apriti cielo: da “c’è la privacy” ad “andatevela a piglià….in sezione” le risposte sono state allegramente canzonatorie. Compresa la circolare di Nico Stumpo (mutazione dello Scrondo dovuta all’amalgama del PD) di cui da notizia il Primario .
Costretti alla clandestinità nei meandri dell’apparato bersaniano, i renziani stanno discutendo diverse ipotesi:
1. denunciarli alla magistratura per appropriazione indebita. Ipotesi caldamente sconsigliata dagli esperti di magistratura nell’area
2. Tentare di “hackerare” le liste con l’aiuto dei servizi segreti israeliani; non dalla CIA che pure sostiene Renzi attraverso Paolo fresco. La CIA è stata esclusa perché ormai è un colabrodo di notizie verso i servizi segreti Italiani, a loro volta vigliati dalla “Fondazione europea di studi progressisti”
3. Mandare tutti al diavolo e farsi un partito loro
4. Abbozzare
Sembra prevalga la mozione 4.
Chiusa serissima: carissimi renziani prendete sul serio il tema e vigilate sui seggi, ascoltate le eterne minoranze e le ex maggioranze del Pd ex Pci, Pds, Ds, seggi e voti sono roba seria se non ci sono o non vi danno liste non è solo perché non vogliono che raggiungiate gli iscritti. Può voler dire: che non ci sono o sono inaffidabili, non sono nelle disponibilità degli iscritti per verifica, dunque possono essere false o falsificabili. In seggi che hanno lavorato così in passato può accadere di tutto. Organizzatevi! (the Front Page)

Radicali contro Nichi per via di Chavez. Dimitri Buffa


Il vizietto dei cosiddetti post comunisti di stare dalla parte di tutti i “caudilli” del mondo, specie di quelli pseudo bolivariani del Sud America, è duro a morire alla faccia della fine delle ideologie.

Così Nichi Vendola, prossimo candidato di estrema sinistra alle “primarie di coalizione”, facendo finta di non sapere chi sia veramente Hugo Chavez, e “di che lacrime grondanti di che sangue” il suo ultradecennale potere in Venezuela, non ha trovato niente di meglio da fare che elogiarlo così: «Ho una profonda simpatia per quel laboratorio chiamato rivoluzione bolivariana, un’esperienza che ha fatto invecchiare la stella di Cuba, perché Chávez, questa è la profonda verità, riesce dove Fidel ha fallito». E ancora: «In Venezuela non ci si misura con le biografie dei protagonisti politici ma con i problemi reali della gente e al netto di errori, anche grossi, come l’amicizia con l’Iran e qualche altra tentazione luciferina, al netto di tutto questo Chávez resta l’artefice, il protagonista d’una sperimentazione concreta di lotta contro la povertà».

Tra gli al netto Vendola ha dimenticato di metterci le sospette complicità con il narco traffico e con l’appoggio alla guerriglia delle Farc in Colombia, ma tant’è. Insorgono “senza se e senza ma” contro Vendola i Radicali piemontesi dell’Associazione intitolata ad Adelaide Aglietta e così Igor Boni in un comunicato spara a zero sull’intemerata pro Chavez. «Le parole di Vendola sono semplicemente vergognose, spero dettate dalla più completa ignoranza di cosa accade in quel paese – sostiene l’esponente radicale - si esalta colui che si autodefinisce “l’inviato di Cristo”, l’uomo che alimenta con il potere del petrolio i legami con l’Iran di Ahmadinejad e la Siria di Assad, l’antisemita che usa il populismo più becero per mantenere il potere con continui golpe costituzionali in un Paese dove – sono i dati ufficiali – ci sono 18.000 vittime nel solo 2012 in seguito alla criminalità, con 54 omicidi al giorno e dove il 97% dei crimini di sangue restano impuniti. L’uomo che rifiuta dibattiti pubblici con gli avversari e che ha eliminato voci libere come radio, televisioni e giornali a lui avversi».

«Quello che manca totalmente in Venezuela – chiosa Boni - è la democrazia e la libera informazione, e lo diciamo da qui, dall’Italia, dove in misura minore viviamo giorno per giorno lo stesso degrado. Inviterei Vendola e tutte le forze politiche di destra, di centro e di sinistra a considerare, come punto di partenza per giudicare la qualità di un paese, i diritti e le libertà degli individui provando a lasciare da parte ideologie e miti». (l'Opinione)

venerdì 12 ottobre 2012

La colpa politica. Davide Giacalone

Roberto Formigoni avrà pure cinque assessori finiti in cella, ma Nichi Vendola è accusato di avere intrallazzato nella sanità e Vasco Errani di avere finanziato il fratello. Perché appuntare tutta l’attenzione sul primo e lasciare che sguscino via gli altri? Inoltre: perché chiedere che si dimetta Formigoni, senza chiedere che si dimettano anche altri che, dal punto di vista giudiziario, sono più inguaiati di lui? Leggo e sento che si diffondono ragionamenti simili. Che sono radicalmente sbagliati, perché moralistici e non politici, legati ancora alla devianza giustizialista e poco ancorati alla regolarità della vita pubblica. Credo che Formigoni debba dimettersi. Anche ribadendo, se lo crede, la propria totale innocenza (a parte l’idea di andare in vacanza con un fornitore, che forse non è un reato, ma è una colpa). Deve andarsene perché sul suo caso il centro destra deve misurare l’interezza del proprio fallimento in tema di giustizia: dopo tante battaglie, dopo mesi passati in trincea, siamo ancora fermi all’Italia dell’accusa, priva di sentenze. E’ una responsabilità politica enorme, che devono pagare.

Trovo incivile e vergognoso che un imprenditore e un assessore soggiornino da quasi un anno in galera, non a scontare una pena, ma ad attendere l’esito delle indagini. Come loro tanti altri, e come tanti ora uno è stato scarcerato, per cominciare ad attendere una sentenza che verrà. E trovo ancora più rivoltante che non si abbia il coraggio di denunciarlo. Ma chi lo deve fare? Una sinistra che ne gode? Che dal 1992 ha coltivato il lato peggiore del proprio hegelismo (da loro praticato più nella versione fascista, che in quella comunista), preferendo la vittoria contro avversari che pagavano il prezzo del loro opporsi al giustizialismo? O lo deve fare la destra, quella nuova corrente nata proprio dal crollo delle forze politiche precedenti, fatte fuori per via giudiziaria, ma poi affermatasi nel rifiuto di tale sistema? Quella stessa destra, che non sa difendere un proprio parlamentare dall’arresto, non sa difendere i propri uomini, non sa difendere neanche le proprie proposte? Così tocca a noi, come è sempre stato. E lo facciamo per convinzione e amore del diritto. Ma mica siamo fessi: il centro destra ha tradito le proprie promesse, non ha condotto le giuste battaglie, non ha riformato la giustizia. E queste sono colpe.

Si dirà: la magistratura ha martellato la destra assai più della sinistra. Vero. Più che altro funziona così: se capita che s’inquisisca a sinistra l’interessato si sospende, i suoi capi lo ringraziano e gli confermano stima, tutti s’inginocchiano davanti al giudice e i giornali non esagerano nello sfruculiare; se inquisiscono uno di destra l’interessato nega anche d’essere nato, i suoi capi dicono di non averlo conosciuto, tutti strillano per una persecuzione che è tanto evidente quanto meritata e i giornali vanno a interrogare anche i fidanzatini dell’adolescenza, per stabilire se già sui banchi faceva certe cose. Quindi sì, è vero. Ma anche questa è una colpa. E siccome dovrebbero essere consapevoli di tali loro debolezze, i signori del centro destra avrebbero dovuto provare non a fare l’imitazione dei professionisti della dissimulazione, che stanno dall’altra parte, ma a rimettere il treno della giustizia sui giusti binari. Dopo di che: chi è colpevole va in galera e chi è innocente fa causa a chi gli ha procurato danni irragionevoli.

Quante volte lo abbiamo detto e scritto? Invece, nisba. Eppure rimediare era facile, le cose da farsi le abbiamo elencate decine di volte, al punto che possiamo recitarle a braccia conserte, come le poesie alle elementari. Ma loro hanno fatto guerre epocali per fregnacce sesquipedali. E hanno pure perso. L’hanno sfangata portandosi appresso la nomea di criminali, che non è un gran successo. E oggi sono in grado di dirti: non è colpa nostra, ci hanno combattuti, divisi, comprati, ricattati. Tutto vero, ma tutte colpe. Questa storia andava chiusa prima, con una rottura dura e chiara, chiedendo agli elettori di giudicare. E sarebbe stato trionfo dello Stato di diritto. Invece hanno accomodato, abbozzato, tirato a campare. Quindi, per colpa politica, ora si dimettano. E capiscano che l’elettorato moderato e riformista, in Italia, era e resta largamente maggioritario. Ma non si fida di loro. Neanche degli avversari, certamente. E sai che bella consolazione.

giovedì 11 ottobre 2012

Non sarà un pranzo di gala. CV

Nel frattempo, mentre sono in corso le discussioni sui massimi sistemi, ai piani bassi ci si imbatte in problematiche assai concrete: soldi, logistica, elenchi di iscritti, regole di ingaggio. Si moltiplicano i jet privati usati da Renzi, che però mette online le sue spese. Vendola paga di persona il biglietto per entrare negli scavi di Ercolano, perché altrimenti gli 800 euro in budget diventerebbero 790 (effettivamente, un po’ pochini). Non si conosce il budget di Bersani, ma i giornali dicono che abbia blindato un’ala del Nazareno per il suo quartier generale (e sempre di risorse, cioè di soldi, si tratta).

E’ da qui che escono circolari del genere, che – obiettivamente – non aiutano. In sostanza, gli stessi che vogliono schedare i votanti delle primarie, sostengono che vada rispettata la privacy degli iscritti al partito. Che – allo stato – non è dato neppure sapere quanti siano, visto che i termini per il tesseramento scadono a fine anno, e solo allora i circoli trasmetteranno il numero dei tesserati agli organismi centrali. Insomma un bel casino. Non per il segretario, che alle primarie ci va di diritto, senza firme di presentazione, ma certamente per i suoi competitors (e qui urge una prece per la povera Puppato e la sua endorser Concita: non le vediamo ben messe, per la scadenza delle presentazioni di lunedì prossimo).

D’altro canto, quando si parla di soldi, liste, numeri è noto che i partiti vanno sempre in crisi. Sono abituati a non andare tanto per il sottile quando si tratta di impiegare i soldi che ricevono illegalmente (dopo un referendum che glieli negava) dallo Stato. Sparano numeri a casaccio quando fanno manifestazioni (ricordatelo bene: S.Giovanni contiene – con 4 persone a metro quadro stipate in ogni angolo della piazza – al massimo 82mila umani, nell’enorme distesa del circo Massimo ce ne vanno fino a 280mila, e neppure uno in più. Altro che i 2 milioni di Berlusconi, i 3 di Cofferati, etc…). E hanno sempre dato letteralmente i numeri anche in occasione delle primarie finora svolte: 4,3 milioni (Prodi, 2005), 3,5 (Veltroni, 2007), 3,1 (Bersani, 2009). Ma le liste dei votanti non si sono mai viste. Sono rimaste segrete, riservate: è legittimo sospettare che non esistano.

La novità delle primarie 2012 è che stavolta non si fanno per finta. Non devono legittimare ex-post un leader già deciso altrove. Non saranno quindi un pranzo di gala. Stavolta i votanti andranno effettivamente contati, e bisognerà che ci siano tutte le garanzie di serietà del voto. Materia complessa e incandescente, non tanto per chi governa una macchina burocratica ben oliata, ma per chi la vuole scardinare. Fate bene attenzione, giovanotti di belle speranze provenienti da quella piccola e povera città del centro Italia. (the Front Page)

Imbroglio recessivo. Davide Giacalone

Questa i professori se la potevano risparmiare. Costruire un provvedimento in modo da potere dire che si stanno diminuendo le tasse, nel mentre si fa crescere la pressione fiscale, è una di quelle cose che non si perdonano ai governi politici, neanche in campagna elettorale. Anzi, in quel caso li si accusa di demagogia. Figuriamoci se si può perdonarlo a un governo tecnico, che un giorno sì e l’altro pure annuncia di non volere entrare nella competizione elettorale.

Gli attuali scaglioni Irpef prevedono che si paghi il 23% per i redditi fino a 15.000 euro l’anno, e il 27 per quelli fino a 28.000. Pur essendo l’Italia una delle più ricche economie del mondo, entro quel limite si concentrano la quasi totalità dei redditi (circa l’85%, se si comincia a contare da zero), il che già dimostra l’effetto corruttivo di una fiscalità che penalizza la ricchezza. Diminuendo di un punto quelle due aliquote si realizza un risparmio, per il contribuente, e un minore gettito, per il fisco, nell’intorno dei 2 miliardi. Aumentando di un punto l’Iva, come il governo a contemporaneamente deciso (dopo avere alimentato la speranza che se ne potesse fare a meno), si ottiene un maggiore gettito, quindi un aggravio per i cittadini, che va da 3 a 3,5 miliardi, a seconda di come andranno i consumi. E siccome rimettere qualche soldo nelle tasche di chi ha redditi bassi significa dirigerli non certo verso il risparmio, ma verso la spesa, il risultato di questo provvedimento è il seguente: si diminuisce l’aliquota e si aumenta la pressione fiscale. Il reddito disponibile, per le famiglie, non cresce, ma diminuisce. Sicché, ragionevolmente, chi ha messo a punto un simile meccanismo aveva in mente di conquistare un titolo sui giornali, non di ridare fiato all’economia. Tanto era questo l’intento che nel governo hanno litigato proprio sulla precedenza nel dare l’annuncio (Mario Monti s’è risentito, dicono, con Gianfranco Polillo, che lo avrebbe bruciato sul tempo).

Ma perché lamentarsi, non si tratta pur sempre della tanto reclamata riduzione della pressione fiscale? Intanto no, non è così. Ma la cosa più rilevante è che nel rinunciare non tanto al gettito (che, ripeto, aumenta), quanto ad una sua specifica qualificazione, il governo non s’è indirizzato laddove è necessario per ridare fiato alla crescita, lasciando immutati sia l’Irap che il cuneo fiscale. L’Irap è un’imposta applicata al lavoro, con effetti terribilmente recessivi. Il cuneo fiscale agisce anch’esso in senso recessivo, perché tiene sopra la media europea il costo del lavoro, lasciando i salari sotto la media. Senza mettere mano a questi due chiodi, conficcati nelle carni dell’Italia produttiva, non si riprende la via dello sviluppo e non si guadagna in competitività. I professori lo sanno, come lo sa chiunque abbia posto mente a questi problemi. Ma hanno preferito agire come un qualsiasi governo che va accattonando consensi, anche imbrogliando la gente con un uso spregiudicato della comunicazione.

Puntare alle aliquote, mascherarsi dietro l’alleggerimento del peso sulle spalle dei poveri (cioè tutti, a voler credere alle dichiarazioni dei redditi), non solo è tecnicamente falso, ma risponde ad un’idea falsamente deamicisiana e concretamente pauperistica del Paese. La speranza era che un governo tecnico fosse affrancato, per sua stessa natura, da tali bassezze. Purtroppo delusa.

Resta il fatto che il professor Monti è preferibile ad un mondo politico incapace di fare politica, tremulo nel denunciare il raggiro, privo di idee e colmo di lestofanti. Un mondo che a destra ancora pensa che basti cambiare nome per non essere riconosciuti e a sinistra che si possano regolare i conti sempre in prossimità delle elezioni, anziché subito dopo averle perse. Un mondo che ancora pensa di cambiare la legge elettorale dando un premio di maggioranza alle coalizioni, come se diciotto anni di false coalizioni, rissose e ingovernabili, non fossero sufficienti a dimostrare che quell’impostazione non funziona. Ma è un fatto, Che Monti sia il meno peggio, moralmente deprimente ed economicamente recessivo.

lunedì 8 ottobre 2012

Bene Berlusconi, bravo Silvio

Beghe di partito e di palazzo, scissioni minacciate, prese di posizione e dichiarazioni di guerra, partiti personali e movimenti spontanei: il Pdl ha perso la bussola.

Bisogna ammettere che la classe politica è proprio "fusa".

Dov'è il fiuto politico, dove il senso della politica, il polso della piazza e lo spirito di servizio?
In questo momento il comportamento migliore è non fare nulla, non muoversi, aspettare, stare a guardare e sedersi sulla riva del fiume...

Ancora una volta, come sempre, Berlusconi ha capito tutto: se ne sta in Russia a coltivare l'amico Putin che, guarda caso, ha sotto i piedi gas e petrolio a non finire.

Cosa dovrebbe fare di diverso il buon Silvio?
Nulla, deve starsene buono fino ad un'eventuale nuova legge elettorale, e decidere, dopo, il da farsi.
Potrebbe candidarsi alle elezioni, ma non alla Presidenza del Consiglio: l'attuale legge non prevederebbe l'elezione diretta del Premier.
Potrebbe fare campagna elettorale per altri, potrebbe non candidarsi, potrebbe ripartire da zero con un soggetto elettorale nuovo di zecca e candidarsi alla premiership oppure appoggiare altri candidandosi o meno.

Come si può vedere le opzioni sono molteplici, ma le decisioni non possono essere prese senza sapere con quale legge elettorale si andrà al voto.

Non capisco, quindi, tutto il fermento in seno al Pdl, con le uscite più disparate e cervellotiche, quando sarebbe opportuno starsene buoni ed aspettare l'evoluzione degli avvenimenti.
Senza considerare che la sinistra si sta guardando l'ombelico da un pezzo e non sforna un'idea neanche a morire: i compagni sono talmente presi dalle primarie che dimenticano la grave situazione economica nella quale viviamo da quando la speculazione ha attaccato l'euro.

domenica 7 ottobre 2012

Confondi Italia. Davide Giacalone

              
  
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La riforma del mercato del lavoro è stata approvata il 28 giugno scorso ed è entrata in vigore alla metà di luglio. Dopo due mesi il governo, per decreto, già la modifica, intervenendo su un punto, l’elasticità all’ingresso, che noi individuammo come un errore. Bene? Può darsi, ma ciò pone due questioni: una di metodo legislativo, l’altra di sostanza occupazionale e produttiva.
L’ultimo decreto si chiama “Trasforma Italia” ed è l’ennesimo di una serie che porta nel titolo il brand nazionale, enuncia principi e ne differisce la reale applicazione. Sono cose che Alessandro Manzoni avrebbe definito “grida”. I veicoli legislativi sono dei decreti la cui omogeneità del testo e della materia trattata è affidata esclusivamente a un generico intento di innovazione, semplificazione, digitalizzazione e così via fantasticando. Se si esclude quel mirare al bene e al bello, resta il fatto che i vari articoli e le varie previsioni si riferiscono a materie che non hanno nulla, ma proprio nulla in comune. Tanto che è impossibile commentarli nell’insieme.

E non basta, perché in molti casi si tratta di cose non solo già esistenti, ma già previste dalla legge vigente. Ad esempio il passaggio ai libri di testo digitali, salvo il fatto che il ministro precedente, come l’attuale, anziché provvedere all’adozione esclusiva di questi ultimi non fanno che prorogare il passato, travestendolo da adozione di libri anfibi, sia stampati che digitali, in questo modo dando fiato alla lobby degli stampatori (chiamarli “editori” è troppo nobilitarli). Quindi: la norma c’è già, non viene applicata, si proroga il passato e si fanno decreti per scriverci quel che già è norma. Non solo “grida”, ma anche strampalate. Il che vale anche per molti servizi digitali, alcuni dei quali già c’erano, sono stati soppressi e ora li si vuole affermare per decreto. Sarebbe bastato non chiuderli.

Veniamo alle norme sul lavoro. Scrivemmo, già durante la discussione, che la legge Fornero avrebbe reso più difficile l’ingresso nel mondo del lavoro. Il che, in un periodo di recessione e aumento della disoccupazione, è l’esatto contrario di quel che serve. I contratti a tempo determinato sono stati resi più difficili e asfittici, l’apprendistato non ne ha sostituito alcuno, l’obbligo di assunzione a tempo indeterminato ha disincentivato le imprese, piccole e grandi, dal chiamare nuovi lavoratori. Ripeto: il tutto è entrato in vigore due mesi fa. Ora il governo dice l’opposto: per le sturt up (imprese appena nate e innovative) si deroga, quella legge non vale e, quindi i contratti semestrali possono essere prorogati per tre anni, giungendo fino a quattro, nel mentre la retribuzione può essere negoziata anche in termini di partecipazione al capitale sociale, nel qual caso scattano delle agevolazioni fiscali. Il tutto in capo a imprese che devono essere iper-nane, avere un fatturato inferiore a 5 milioni l’anno, non distribuire utili, investire il 30% in ricerca e sviluppo, avere tra i collaboratori molti dottori o dottorandi (nella mente dei burocrati ministerializzati l’esempio di Bill Gates e Steve Jobs non riuscirà mai a far breccia).

Tutto ciò contiene diversi errori: a. si rinuncia ad un modello contrattuale unico, con garanzie inizialmente basse, anche inesistenti, ma crescenti nel tempo; b. si fa risorgere la giungla contrattuale; c. si offre il fianco all’uso fraudolento della norma; d. si incentiva non la crescita, ma la coltivazione d’imprese bonsai. L’Italia ha bisogno della ricetta opposta, dando a tutti più libertà, lavoratore compreso, diminuendo il differenziale fra costo del lavoro e retribuzione effettiva, incentivando fiscalmente chi cresce e non chi non ci riesce, promuovendo l’espansione delle imprese e la loro internazionalizzazione (perché dobbiamo galoppare in quel mercato globale dove dimostriamo di essere più bravi di altri, ma per farlo abbiamo bisogno di cavalli forti, non di cavallucci a dondolo).

Sarebbe sciocco far colpa al governo Monti delle cose che non riesce a fare, perché il tempo è stretto, i problemi sono grossi e le forze politiche in preda a ubriachezza molesta. Alcune delle idee contenute nell’insalata dei decreti sono giuste. Ma allevare un governo di tecnici per assistere a un tale coacervo di contraddizioni ed errori, senza che vi sia coordinamento governativo e con ciascun ministro che pensa d’essere il solo governante esistente, giungendo a far leggi che si correggono ancora prima di applicarle, legiferando su roba che è già legge, promuovendo innovazioni che esistono di già, ecco, tuto questo non è uno spettacolo edificante. Non vorrei che la raccolta di questi decreti possa andare sotto al titolo: Confondi Italia.