giovedì 31 marzo 2011

A colpi di maggioranza

Ebbene sì, andare avanti con la riforma della giustizia, senza guardare in faccia nessuno, anche con un voto solo di maggioranza: siamo o non siamo in democrazia? E allora le leggi si fanno "a colpi di maggioranza" e tutti, una volta promulgate, dovranno rispettarle.
Basta promesse di riforma, vogliamo la riforma a qualsiasi costo: siamo più avanti dei nostri governanti e siamo solidali con loro in questa battaglia. Non devono avere timore di perdere consensi per una riforma del processo e della giustizia che è sacrosanta. Questo è l'ultimo treno della legislatura, sul prossimo, se continua così, saliranno degli altri e non sarà un bel viaggio.

C'è una cosa che vorrei far notare e che mi disturba parecchio.
Si fanno chiamare "responsabili" e vorrebbero diventare la "terza gamba del governo", ma non si accontentano di contribuire alla sopravvivenza dello stesso e ad assicurarsi una sicura rielezione.
No, vogliono poltrone e posti di sottogoverno.
Allora, costoro, in gran parte eletti sotto il simbolo "Berlusconi presidente", che si erano tolti la casacca del Pdl per rimettersela precipitosamente, meriterebbero posti e prebende?
Totò direbbe:" Ma mi faccia il piacere..."
Si trovi un rimedio anche a questo ricatto indegno e noi elettori prendiamo nota per le prossime elezioni.

martedì 29 marzo 2011

La verità di Silvio. Lettera ai promotori della libertà

Mi sono presentato ieri nel processo cosiddetto “Mediatrade”, che è solo uno dei 31 processi avviati contro di me in 17 anni, con oltre mille magistrati che si sono occupati della mia persona e delle mie aziende: 24 processi si sono conclusi con archiviazioni e assoluzioni con formula piena per non aver commesso il fatto. Ne restano 6 nel penale e 1 nel civile.

Ho deciso di partecipare a queste nuove udienze per dimostrare a tutti che le accuse sono non solo infondate, ma anche ridicole.

I fatti di questo processo risalgono addirittura a 15 anni fa, alla prima metà degli anni ’90.

Due osservazioni preliminari: è una realtà incontestabile confermata categoricamente da tutti i testimoni, che in Mediaset io non mi sono mai occupato dell’acquisto di diritti televisivi.

È una realtà incontestabile, confermata da tutti i testimoni, che dal gennaio 1994, data della mia discesa in campo nella politica, dopo essermi dimesso da ogni carica, mi sono allontanato dalle aziende che avevo fondato, per dedicarmi solo ed esclusivamente al bene del mio Paese.

L’accusa della Procura è che io, in qualità di socio occulto, non dichiarato, di un imprenditore americano che vendeva a Mediaset film e telefilm della Paramount, avrei diviso con lui gli utili di quelle vendite.

L’accusa è totalmente falsa e i miei avvocati lo hanno provato. Così falsa, che c’è da chiedersi con quale coraggio la Procura di Milano abbia insistito a spenderci sopra - tra consulenze, rogatorie e atti processuali - qualcosa come una ventina di milioni di Euro tolti dalle tasche dei contribuenti.

Il gruppo televisivo da me fondato era, ed è, uno dei principali acquirenti di diritti televisivi nel mondo. (Pensate che dal 1994 sono stati versati dal Gruppo Fininvest allo Stato, tra imposte e contributi, oltre 7 miliardi e 700 milioni di Euro). Una piccola parte di questi diritti (da 30 a 50 milioni di dollari), un ventesimo su un totale di acquisti di quasi un miliardo ogni anno, veniva acquistata ogni anno da tale Frank Agrama, che operava e opera da 40 anni in questo settore, e che godeva di una specie di esclusiva per i mercati europei dei prodotti della Paramount, da cui otteneva prezzi e condizioni particolarmente favorevoli. Acquistava ogni anno da Paramount l’intera produzione di film e di telefilm e poi la vendeva alle televisioni europee.

Si poteva scavalcare Agrama e comprare i diritti direttamente da Paramount?

La risposta è: No. È un fatto che per acquisire i prodotti Paramount, tra i migliori sul mercato americano, Mediaset doveva necessariamente trattare sempre e solo con lui. Tanto è vero che quando un nuovo amministratore di Mediaset cercò di trattare direttamente con Paramount, il risultato fu che quest’ultima cedette tutti i suoi prodotti alla Rai, anziché a Mediaset con grave danno per la stessa.

Io sarei un socio occulto di Agrama?

No. È un fatto che ebbi con Agrama solo due o tre incontri agli albori della TV commerciale negli anni ’80 e in seguito nessun rapporto con lui. Io, socio di Agrama, non lo sono mai stato.

Io avrei partecipato agli utili delle vendite di Agrama?

No. Anche qui parlano i fatti. Dai conti correnti di Agrama sequestrati dai PM milanesi risulta senza ombra di dubbio che tutti i guadagni provenienti dall’attività commerciale di Agrama sono rimasti nella sua esclusiva disponibilità e che mai somma alcuna è stata trasferita a Silvio Berlusconi.

Ma l’aspetto incredibile di tutta questa vicenda è che nel corso degli anni Agrama, purtroppo, versò ad alcuni dirigenti dell’Ufficio acquisti di Mediaset ingenti somme di denaro in nero (in un caso addirittura 4 milioni e mezzo di Euro) per far sì che Mediaset continuasse ad acquistare da lui i diritti di Paramount.

Risulta pacificamente dagli atti processuali che tutti questi denari sono stati da loro utilizzati per i propri interessi.

E qui la domanda che faccio è semplice: è possibile che un imprenditore paghi parecchi milioni di Euro al capo dell’Ufficio acquisti della sua azienda che fa la cresta sugli acquisti? No, non è possibile!

Invece, la Procura di Milano ha risposto, incredibilmente, di sì e ha dimostrato ancora una volta di avere contro di me una volontà persecutoria che non si ferma neppure di fronte all’evidenza e al ridicolo.

Insomma, alcuni magistrati hanno aperto e trascinato per anni contro di me un inverosimile procedimento fondato sul nulla. Se fossero stati obiettivi, questo procedimento sarebbe finito prima ancora di iniziare, con grande risparmio di tempo per loro e per me e di denaro per tutti i cittadini. Una soltanto delle tante consulenze contabili ordinate dai PM è costata ai contribuenti quasi 3 milioni di euro.

Ma le assurdità non finiscono qui.

Anche un bambino è in grado di capire che io non avrei mai avuto interesse a pagare tangenti ai miei stessi dirigenti per agevolare Agrama. Mi sarebbe bastata una telefonata per ottenere dai miei sottoposti l’acquisto di quei film e di quei telefilm senza che Agrama dovesse pagare alcuna tangente, che secondo l’accusa per metà sarebbe stata mia.

E poi quale imprenditore avrebbe mai mantenuto come responsabili del suo Ufficio acquisti (che acquistava diritti per quasi un miliardo di dollari l’anno) dei dirigenti corrotti che facevano la cresta sugli acquisti a danno dell’azienda?

Nessun imprenditore con la testa sulle spalle avrebbe mai tollerato per più di un minuto la permanenza di tali personaggi nella sua azienda.

Così l’attacco a Silvio Berlusconi continua. Perché bisogna continuare a tenere sotto una spada di Damocle giudiziaria e mediatica il nemico ideologico e politico Silvio Berlusconi, il vero e unico ostacolo che impedisce alla sinistra di raggiungere il potere.

Purtroppo il comunismo in Italia non si è mai arreso: c’è ancora chi usa il codice penale come uno strumento di lotta ideologica e pensa che la parte politicizzata della magistratura possa usare qualsiasi mezzo per annientare l’avversario vittorioso nelle elezioni e forte nel consenso popolare.

Questi sono i fatti incontrovertibili, questa è la situazione in cui ci troviamo.

Mettetevi di impegno quindi per far conoscere a tutti la verità su questi processi, smascherando chi ne approfitta per infangare il Presidente del Consiglio.

Ma state sereni. Anche questa volta l’attacco fallirà, la verità sarà riconosciuta e noi ne verremo fuori più forti di prima. Come è sempre accaduto.

Un forte abbraccio a ciascuno di voi.

Silvio Berlusconi

lunedì 28 marzo 2011

Fra Muti e La Qualunque. Davide Giacalone

I soldi li ha chiesti Riccardo Muti, ma andranno Cetto La Qualunque. Li ha reclamati Sandro Bondi, ma li gestirà Giancarlo Galan. Lo stesso governo che li negava ora li concede, decidendo di mettere mano al portafogli (il mio, però). Magari potrebbero fare uno sforzo in più e spiegarci il perché e il per come. E nel mentre si festeggia il rinnovato flusso di quattrini, sia la politica che il giornalismo sembrano considerare “spettacolo” e “cultura” come sinonimi, tanto che non si capisce, a leggere dichiarazioni, titoli e articoli dove sia diretto, quel fiumiciattolo. Ci soccorre un evento luttuoso: erano più grandi i titoli dedicati alla dipartita di Liz Taylor che, ne sono sicuro, con il tempo e con l’appassirsi degli ammiratori, sarà considerata cultura, mentre ella fu diva dello spettacolo. Capace di creare ricchezza, senza reclamare aiutini.

Vediamo, prima di tutto, dove andranno i quattrini: dei 236 milioni aggiuntivi 149 finiranno al Fondo Unico dello Spettacolo (che essendo “unico” consente di buscar levante per il ponente), 80 alla tutela e recupero del patrimonio artistico e archeologico, e 7 agli istituti culturali. Quindi, più che altro aiuteremo lo spettacolo, con buona pace di chi crede si sia finanziata la cultura. In quanto a quest’ultima, è da dimostrarsi che pompare soldi nelle strutture esistenti significhi favorirla. A Pompei, ad esempio, sono state disposte assunzioni. Che sarà anche utile, forse indispensabile, ma si vorrebbe sapere come e quando finirà lo scandalo di quel patrimonio infruttuoso, se non d’umiliazioni.

Ora poniamoci due domande. La prima: è utile finanziare lo spettacolo? In generale no, più in dettaglio dipende da come. Quest’anno i film italiani stanno andando alla grande. Evviva. Il merito è anche di Checco Zalone. Rievviva. Ma perché dovremmo finanziarlo? Ci si ricordi che anche Hollywood nacque da agevolazioni fiscali, e non vedrei nulla di male in una fiscalità di favore in zone non sviluppate d’Italia, o per gli utili reinvestiti. Ma il finanziamento indistinto no, non serve. E per i geni del cinema che non fanno botteghino? Che lavorino per i posteri, orgogliosi d’essere precursori e felici di vivere in un Paese libero, in cui non tocca al governo stabilire cosa deve piacere.

Diverso il discorso per altri generi, ad esempio la lirica: parte stessa dell’identità culturale italiana e spettacolo costoso da mettersi in scena. Il principale aiuto, però, consiste nell’insegnare musica ai ragazzi, nel favorire le scuole. Se finanziamo solo lo spettacolo ci ritroveremo a pagare pianisti cinesi e tenori kazachi. Non è sensato. Se finanziamo lo spettacolo e basta va a finire che cristallizziamo le ciofeche raccomandate, a imperituro dileggio dei melomani.

Seconda domanda: è utile finanziare la cultura? Qui la risposta sembra ovvia, e se non è affermativa vuol dire che sei uno zotico che ruspa il terreno dopo la minzione. Ma se poi i soldi finiscono a pagare pletore di burocrati? Se ci si cura più del personale che del monumentale? La metterei in modo diverso: il patrimonio artistico e archeologico italiano dovrebbe essere una grande macchina per creare denaro e, invece, la sua (mal gestita) manutenzione lo brucia. Il difetto è nel manico. Soluzione: gestione privata dei siti e del grande mondo che vi gira attorno, con impegno sia ai restauri che al versamento di congruo obolo alle casse pubbliche, e controllo statale, serio e separato, in modo da assicurare che nulla sia danneggiato e tutto valorizzato. Perdonate la semplicità, ma quando la si complica troppo vuol dire che si hanno le idee confuse.

Abbiamo la possibilità, direi il dovere, di trasformare i problemi in ricchezza. Per farlo dobbiamo piantarla di discutere del nulla e di puntare le labbra suggenti solo verso il mammellone statale. Ancora possente, per quanto avvizzito. Salvo ricordare che per rifornirlo si prendono i nostri soldi, gli stessi che non potremo spendere, noi, in cultura.

venerdì 25 marzo 2011

Nota per i lettori di "centrodestra blogspot"

Più di duemila post pubblicati su "centrodestra" e più di seicento su "Blog per i circoli della libertà".
E' il frutto della passione di chi si occupa solo "amatorialmente" di politica e vuole trasmettere e rilanciare un messaggio di libertà, trasparenza, chiarificazione e informazione.
Da settembre 2005, quasi quotidianamente, scovo dal web gli articoli vicini alle mie idee ed al al mio modo di concepire la politica e li "posto" sui due blog che ho ideato nella speranza di essere utile a chi non ha tempo o voglia di cercare spiegazioni o conoscere fatti che caratterizzano la politica e la cronaca di tutti i giorni.
All'interno del blog c'è un motore di ricerca che trova, in base alle parole chiave, gli argomenti che interessano andando anche a ritroso di sei anni.
I commenti dei lettori non sono stati cancellati, tranne quei pochi che rasentavano la denuncia penale.
Spesso, non trovando editoriali consoni, ho scritto di persona commentando ed esprimendo giudizi su temi di carattere generale cercando, ove possibile, di usare la massima obiettività.
Spero di andare avanti ancora per degli anni confortato da lettori fedeli ed anche critici che con le loro visite hanno reso "centrodestra" un blog che si colloca tra i primi cento blog politici in Italia.
Grazie, alla prossima.

"Non ho paura di dire la verità sul multiculturalismo e sull'islam". Intervista con Geert Wilders di Roberto Santoro

Personaggio controverso, perfino provocatorio, il politico olandese Geert Wilders rappresenta una nuova idea di Europa che ha messo in discussione i dogmi del multiculturalismo. In poco tempo, il suo partito ha conquistato 24 seggi nella Camera Bassa del Parlamento olandese diventando decisivo per la tenuta del governo di coalizione formato da liberali e cristiano-democratici. Dal 2004, Wilders vive sotto scorta dopo aver ricevuto un'infinita serie di minacce dalle sigle dell'estremismo islamico. Con lui parliamo di islam, immigrazione, libertà di parola. Guardando alle rivoluzioni che stanno sconvolgendo il mondo arabo e musulmano. Oggi Wilders terrà la Lettura Annuale della fondazione Magna Carta, nella Chiesa di Santa Marta a Roma.

Lei sostiene da tempo il fallimento della società multiculturale. Perché?

Multiculturalismo è un termine che ha molti significati ma viene comunemente usato per riferirsi a una specifica ideologia politica che promuove l’idea secondo cui tutte le culture sono uguali. E se tutte le culture sono uguali ne consegue che lo Stato non dovrebbe dare centralità ad alcun valore culturale specifico. In altri termini: secondo i multiculturalisti lo Stato non dovrebbe promuovere alcuna leitkultur – o cultura guida – cioè a dire quella cultura che gli immigrati dovrebbero accettare se intendono venire da noi e vivere insieme. Si tratta di una ideologia, il relativismo culturale, che la cancelliera tedesca Angela Merkel ha recentemente messo in discussione quando ha affermato che il multiculturalismo è stato un “fallimento assoluto ”. La Merkel ha realizzato – finalmente! – un dato che molta gente comune, come i nostri elettori, ormai aveva capito da anni. I cittadini comuni sanno cos’è il multiculturalismo: immigrati che non accettano i nostri valori, autorizzati a mantenere i propri anche se possono entrare in conflitto con quelli del Paese che li ospita. Il risultato paradossale è che li accogliamo e dobbiamo piegarci ai loro costumi. E' accaduto questo nei centri storici delle nostre città. Il multiculturalismo ci ha indeboliti a tal punto da spingerci a tollerare l’intolleranza. E ora l’intolleranza ha prevalso.

Cosa non ha funzionato nelle politiche dei paesi europei quando si parla di immigrazione e integrazione?

Lo scorso mese il presidente francese Nicolas Sarkozy ha detto: “Siamo stati troppo attenti all’identità dei migranti e non abbastanza a quella del Paese che li stava accogliendo”. Un coro rafforzato dal primo ministro britannico David Cameron: “Abbiamo accettato l’indebolimento della nostra identità collettiva”. Biasimo questi politici a cui è servito così tanto tempo – troppo – per accorgersi di quanto stava accadendo. Hanno tradito i ceti popolari e i “colletti blu” che sono diventati le vittime delle politiche multiculturali. Un’indagine condotta nei Paesi Bassi nel 1988 mostrava che quasi tre olandesi su quattro volevano una restrizione dei flussi migratori, e ciononostante alla maggioranza degli immigrati è stato permesso di entrare in Olanda proprio a partire da quella data. Nel frattempo, un terzo dei nativi olandesi ha lasciato i quartieri dove generalmente vivevano i ceti popolari e la classe lavoratrice, mentre le fasce della popolazione immigrata diventavano predominanti imponendo la propria cultura su quella locale. Ce l’ho con i politici di cui parlavo prima anche perché, nonostante tutto, continuano a sostenere il dogma del multiculturalismo, un dogma uguale a quello che vuole l’Islam religione di pace. Cameron, tanto per fare un esempio, se la prende con “l’estremismo islamico” che crea problemi in Gran Bretagna, ma rifiuta di vedere che l’islam è un problema in sé, perché un islam moderato semplicemente non esiste. Questa settimana un prestigioso istituto di sondaggi dei Paesi Bassi ha rivelato che il 50% degli olandesi ritiene che l’islam e la democrazia siano incompatibili, mentre il 42% invece pensa il contrario. Addirittura due terzi degli elettori del partito liberale e del partito cristiano-democratico sono convinti che l’islam e la democrazia non siano compatibili.

Perché ha lasciato il partito liberale e cosa l’ha spinta a creare un nuovo movimento politico?

Ho lasciato il partito nel 2004 per diverse ragioni ma l’ultima e la più importante è stato il dibattito sull’ingresso della Turchia nell’Unione europea. Mi opponevo a questa eventualità ma il VVD decise che l’avrebbe sostenuta. Per me si trattava di una scelta inaccettabile ed è per questo che sono uscito dal partito, perché non volevo tradire i miei elettori. Tutte le maggiori formazioni politiche in Olanda sostengono l’adesione della Turchia nell’Unione europea, benché la maggioranza degli olandesi sia contraria. Io sto dalla parte delle persone. Lasciai il VVD, dunque, e a quel punto mi trovai da solo in mare aperto. Decisi di fondare il "Partito per la libertà". Nel 2006 vincemmo 9 seggi sui 150 della Camera dei Rappresentanti olandese. Nel 2010, ne abbiamo vinti ben 24. Siamo il partito che cresce di più nel panorama politico olandese. Non abbiamo paura di dire la verità sul multiculturalismo e sull’islam e difendiamo le libertà tradizionali e i valori del popolo olandese.

Quant’è importante la libertà di parola per salvaguardare i valori della civiltà occidentale?

La libertà di parola è il più importante dei nostri diritti civili. Essere liberi di parlare definisce le nostre società moderne in quanto tali. Senza diritto di parola non può esserci democrazia, non può esserci libertà. Come disse una volta George Orwell: “Se la libertà ha un significato è certamente quello di avere il diritto di dire alla gente ciò che non vuol sentirsi dire”. Ripeto spesso le parole incise sopra la lapide del politico olandese anti-islamico Pyn Fortuyn, che riposa qui in Italia: “loquendi libertatum custodiamus”, custodiamo la libertà di parola. E’ nostro dovere difenderla.

Invece adesso si corre il rischio di finire addirittura in tribunale...

Purtroppo, la libertà di parola non è più così scontata in Europa. Quel che un tempo pensavamo fosse una componente naturale della nostra esistenza è diventato qualcosa per cui bisogna tornare a combattere. Le persone che dicono la verità sull’islam vengono trascinate nelle aule di giustizia per i cosiddetti crimini di "incitamento all’odio". Recentemente, il giornalista danese Lars Hedegaard, presidente della International Free Press Society, ha dovuto far fronte a un processo a Copenhagen perché ha osato criticare l’islam. Il signor Hedegaard è stato prosciolto ma solo grazie a un cavillo. Non sapeva che le sue parole, espresse in una conversazione privata, in realtà erano state oggetto di una registrazione. I suoi accusatori hanno impugnato il verdetto e il mese prossimo Hedegaard dovrà vedersela con la Corte suprema danese. Di recente, Elisabeth Sabaditsch-Wolff, un’attivista viennese per i diritti umani, è stata multata per aver osato dire che il profeta Maometto era un pedofilo perché sposò una bambina di appena 9 anni.

E il suo processo invece come va?

Il mio processo ad Amsterdam va avanti pur costituendo una bella perdita di tempo, tempo che potrei spendere meglio per rappresentare il milione e mezzo di elettori che mi ha votato. Il risultato perverso di questa situazione, comunque, è che oggi in Europa è praticamente impossibile avere un dibattito franco sulla natura dell’islam o sugli effetti che i fedeli musulmani hanno sull’immigrazione in generale. La libertà è fonte di creatività umana e di sviluppo. I popoli e le nazioni appassiscono senza libertà. C'è davvero ragione di temere se il prezzo che siamo chiamati a pagare per integrare l’islam è l’erosione della nostra libertà di parola. E bisogna preoccuparsi se coloro che negano che l’islam sia il problema non ci garantiscono neanche il diritto a dibattere la questione.

Servirebbe una campagna per promuovere i valori occidentali?

Una campagna del genere sarebbe certamente importante, ma è qualcosa che dovrebbe svilupparsi già nelle nostre scuole e università. Dovrebbero insegnare i valori occidentali ai nostri bambini. Purtroppo il multiculturalismo ha intaccato le scuole, le università e talvolta, ebbene sì, anche la chiesa stessa. Tutti temono, al limite della riluttanza, di promuovere i valori dell’occidente per una semplice ragione: non credono più nella superiorità della cultura giudaico–cristiana e della cultura umanistica.

Guardiamo a quel che sta accadendo in questi giorni nel mondo arabo e musulmano. Lei pensa che l’islam possa essere riformato?

Non penso che l’islam possa essere riformato. I popoli arabi bramano la libertà. Niente di più naturale. Ma rimane la questione di fondo, ovvero che l’ideologia e la cultura dell’islam è talmente interiorizzata da queste società che una vera libertà è semplicemente impossibile. Fintantoché l’islam rimarrà dominante non potrà esserci vera libertà. Guardiamo in faccia la realtà. Lo scorso 8 marzo, la festa della donna, 300 donne hanno dimostrato a piazza Tahrir al Cairo, nell’Egitto post-Mubarak. Dopo pochissimi minuti, sono state caricate da un gruppo di uomini barbuti che le hanno colpite e condotte via. Alcune di loro, a quanto pare, sono state addirittura molestate sessualmente. La polizia è rimasta a guardare. Questo è il nuovo Egitto. Un giorno le persone protestano per chiedere più libertà; quello appresso, gli stessi che chiedevano libertà picchiano le loro donne, che a loro volta erano in piazza invocando la stessa cosa.

Libertà e democrazia avranno spazio in Nordafrica o finiremo col sentire la mancanza di Mubarak e Gheddafi?

Quello che ho detto non significa che io senta la mancanza di Mubarak. Mi dispiace molto sapere che Gheddafi sia ancora al potere. Quel tipo è assolutamente pazzo. Ma l’ingenuità è un lusso che non posso permettermi. Temo che difficilmente, nei paesi islamici, la democrazia si tradurrà in libertà. Un sondaggio condotto dall’American Pew Research Center ha messo in luce che il 59 per cento degli egiziani preferisce la democrazia a qualsiasi altra forma di governo. Detto questo, l’85 per cento afferma che l’influenza dell’islam in politica è una cosa buona, l’82 per cento che le adultere dovrebbero essere linciate, l’84 per cento vorrebbe la pena di morte per gli apostati e il 77 per cento pensa che i ladri dovrebbero essere fustigati o che gli andrebbero mozzate le mani.

Che posizione dovrebbero assumere l’Europa e gli Stati Uniti davanti a una crisi come quella libica? E di cosa ha più bisogno il mondo, dell’incertezza di Obama o della determinazione della prima ora di Bush jr.?

Il mio partito ha sostenuto l’imposizione di una no-fly-zone sopra i cieli di Libia. Il mondo deve fermare Gheddafi – questo “cane rabbioso” come lo chiamò Ronald Reagan – e deve impedirgli di uccidere la propria gente. Comunque, andiamo a vedere cosa recita la risoluzione dell’Onu 1973 della scorsa settimana. Il testo dice che la responsabilità primaria degli “Stati della regione” è quella di dar corso alla risoluzione. Qualcuno mi spieghi perché un paese come l’Olanda deve contribuire con 6 jet da combattimento F16 per imporre l’embargo sulle vendite e il trasporto di armi verso la Libia, mentre un paese come l’Arabia Saudita non mette neppure un singolo velivolo della sua flotta di quasi 300 aerei. Altri arabi muoiono, ma i Paesi del mondo musulmano si sottraggono alle proprie responsabilità. Come ho già detto non dovremmo nutrire l’illusione che vi possa essere vera libertà e vera democrazia in un Paese fintantoché l’islam resta dominante. Stiamone pur certi. Non credo di dire chissà quale enormità quando spiego che, con buona probabilità, i risultati dello studio del Pew sull’Egitto potrebbero valere anche per la popolazione libica. Non è certo nel nostro interesse portare al potere i Fratelli Musulmani a Tripoli e che in Libia si installi un califfato.

Non Le sembra di essere un po' troppo pessimista?

Guardi, io vado spesso in Medio Oriente. Conosco il potenziale che hanno questi paesi e questi popoli. Guardiamo alla prosperità di uno stato come Israele, che vive in condizioni geografiche e climatiche simili a quelle di un paese arabo. Benché Israele non goda di pozzi di petrolio, gli israeliani hanno costruito per sé e per i propri figli una nazione prospera, democratica e libera. Se solo le società arabe riuscissero a liberarsi dall’islam, allora anche loro diverrebbero delle nazioni prospere e libere. L’islam è il problema e non dobbiamo avere a paura di dirlo. (l'Occidentale)
(Traduzioni/editing: Emiliano Stornelli ed Edoardo Ferrazzani)

Abbiamo tolto un Ventennio ai 150 anni dell'Unità. Marcello Veneziani

Cosa resta del compleanno d’Italia di una settimana fa? Resta il sapore di un giorno, purtroppo piovoso, in cui ci siamo sentiti - nonostante tutto e noi stes­si - italiani. Resta un lampo di storia e amor patrio in un Paese che vive in fuga da entrambi. Restano mostre, libri e un vago odore di coesione nazionale. In un coraggioso articolo sul Corriere della sera , Giorgio Fedel ha notato l’as­senza del fascismo dalla memoria dei 150 anni e ha deplorato la sua espulsione dal nostro immaginario collettivo. Ha ra­gione. Il fascismo è stato evitato per non dividere ancora il Paese proprio in occa­sione di una festa unitaria; per non dover dedicare una quota obbligata, istituzio­nale e ideologica, al suo vituperio e per non doverci sorbire, per riparazione, ton­nellate di retorica antifascista. Senza vo­lerlo, è stata seguita l’idea, condivisa da Fedel, che fascismo e antifascismo muo­iono insieme e una volta sepolto il fasci­smo ed espulso dalla memoria, anche l’antifascismo esaurisce la sua missione.

Chi lo vuole vivo a fascismo morto, lo usa per fini politici e ideologici strumentali. Ma Fedel si spinge oltre e dice che se vogliamo davvero recuperare la genui­na continuità della nostra nazione, dob­biamo includere anche quegli italiani, nostri familiari,che hanno vissuto e cre­duto nell’epoca fascista. È vero, dobbia­mo nutrire una memoria inclusiva dei vinti, non solo fascisti. La condanna del­la dittatura, della guerra e del razzismo non può impedirci di ricordare due co­se. Quanti italiani perbene, di valore e in buona fede vissero con dignità e con­senso quell’epoca, alcuni sacrificando la loro vita. Quante opere e iniziative - lo stesso Fedel evocava i treni popolari, le colonie, il dopolavoro - coinvolsero il popolo italiano nella costruzione prati­ca, sociale e ideale di un’identità nazio­nale da amare. Il fascismo non si può cancellare dalla storia, a partire dalla storia familiare di ciascuno di noi. Sare­mo un Paese civile quando avremo dige­rito il nostro passato e non ce lo tirere­mo addosso per rinfacciarci colpe che noi non abbiamo. Quando carichere­mo il fascismo sulle nostre spalle, allora lo avremo davvero alle nostre spalle. (il Giornale)

giovedì 24 marzo 2011

I dati sugli immigrati? L'80% sono clandestini. Ora l'Italia deve respingere questi finti profughi. Alessandro Sallusti

Per un attimo abbia­mo sperato che la na­ve da guerra San Mar­co, salpata da Lampe­dusa con un carico di cin­quecento immigrati appena sbarcati sulle coste dell’iso­la, facesse rotta sulla Tuni­sia, Paese dal quale gli inde­siderati ospiti provenivano. Purtroppo non è andata co­sì. La San Marco attraccherà in Sicilia e il suo carico uma­no verrà disperso per l’Ita­lia, come lo saranno i succes­sivi. Dicono che è il prezzo della guerra, ma così non è. Di libici, sulle carrette del mare, non c’è traccia. I sud­diti di Gheddafi sono sì alle prese con una guerra civile, ma non hanno nessuna in­tenzione di lasciare il Paese: stavano benissimo dove so­no e sperano di tornare a sta­re bene al più presto.L’onda­ta che ci sta invadendo arri­va dalla Tunisia, dove poche settimane fa è stato deposto un tiranno mascherato e in­sediato un governo demo­cratico. Non c’è logica nello scappare da una libertà ritro­vata, non ci sono le basi per dichiararsi perseguitato po­litico o sentirsi in pericolo di vita. E, in effetti, sui ventimi­la arrivi degli ultimi giorni, soltanto tremila hanno fatto richiesta di asilo. Sono prati­camente solo uomini. Dubi­to che tutti siano davvero nelle condizioni di dover scappare, fosse solo per il fat­to che non conosco uomini che lascerebbero moglie e fi­gli a casa in balìa di presunti aguzzini. Più facile che tra questi tremila la maggior parte millanti e la restante sia in fuga sì, ma non dal ti­ranno. Più probabilmente scappano dalla polizia dopo essere evasi dalle carceri (nelle quali si trovavano per reati comuni) durante i gior­ni della rivolta.

Arruolare i tunisini tra le persone in diritto di ospitali­tà sull’onda emotiva della guerra è il peggior servizio che possiamo fare ai profu­ghi veri, se e quando questi arriveranno. È come intasa­re un ospedale di finti amma­lati: si sprecano risorse ed energie che potrebbero esse­re esaurite nel momento del vero bisogno. Le leggi che nel nostro Paese regolano immigrazione e ospitalità non risultano essere state so­spese, e semmai l’ecceziona­lità del flusso deve portare a stringere le maglie, non cer­to ad allargarle.

Credo che proprio alla lu­ce di tutto questo il governo abbia ieri deciso di inserire il problema dei clandestini nella risoluzione che il Parla­mento deve approvare sulla crisi libica. Berlusconi chie­de che la coalizione militare si impegni a bloccare sulle coste africane i trafficanti di uomini e i loro carichi. Ov­viamente questo non piace alla sinistra, che più proble­mi e casino ci sono in Italia più spera di trarne vantaggi politici ed elettorali. Bersa­ni fa il finto tonto sulla pelle di quei disgraziati e sulla si­curezza di noi italiani. È ad­dirittura offeso perché alle Camere ieri non è andato a parlare Berlusconi in perso­na, ma il ministro Frattini. Qualcuno gli spieghi che un motivo c’è, e non seconda­rio. Il premier, probabilmen­te, non può parlare con Ber­sani in quanto impegnato con altri interlocutori che chiedono riservatezza e bas­so profilo. Chi sono? Forse lo sapremo nei prossimi giorni. Per risolvere anche le crisi più drammatiche a volte contano più i rapporti personali che la forza milita­re. A volte, per ottenere risul­tati, serve di più dire «per Gheddafi mi sento addolora­to », che non seguire l’eti­chetta. Insomma, da queste parti qualcuno sta median­do davvero per mettere fine alla guerra. Se ne sono accor­ti tutti, americani compresi, salvo Bersani. Che sulle co­se importanti arriva sempre con un po’ di ritardo. (il Giornale)

I dubbi di un liberale dal nucleare al Fus. Nicola Porro

Si ha l’impressione che ogni tanto (un po’ troppo spesso, per la verità) all’interno del go­verno si insinui uno spiritello malvagio che ne combina di tutti i colori. Insomma, come fa un liberale ad accettare che con decreto si tolgano dei quat­tri­ni dalle tasche degli automo­bilisti per depositarli in quelle di Nanni Moretti? Come fa un liberale a sopportare che, sem­pre con un decreto, il governo si impicci delle assemblee di un’azienda privata, e per di più quotata in Borsa (già venduta all’estero anni fa), per favorire un’alternativa a un’acquisizione straniera? E come fa un liberale a tollerare la sbalordi­tiva giravolta sul nucleare?

Cerchiamo di essere molto chia­ri. La prerogativa delle sciocchezze non è solo del governo italiano. Ba­sti pensare al nucleare: la signora Merkel, tutta preoccupata dai suoi pessimi risultati elettorali, sta facen­do ben di peggio di quanto ha deli­berato l’Italia con la sua moratoria. Ma il punto, caro presidente Berlu­sconi, è che Lei, solo poche settima­ne fa, in una bella lettera al Corriere della Sera aveva riaffermato con vi­gore la necessità di una scossa, di una frustata all’economia italiana. Nel Consiglio dei ministri all’uopo convocato, aveva abbozzato un’ipotesi di lavoro. Ma certamen­te aveva indicato una strada: più li­beralizzazioni, più libertà di impre­sa. Questa è roba che ancora piace. Per carità, aprire il mercato crea problemi: soprattutto a coloro che godono e sfruttano le chiusure. Ma, caro presidente, è davvero con­vinto che gli italiani siano «felici di contribuire con un centesimo delle proprie tasse al finanziamento del­la cultura»? È davvero convinto... Stop, sarebbe meglio dire. Si è forse improvvisamente convinto che sia giusto un prelievo forzoso su 37 mi­lioni di patenti italiane, oltre a ciò che già abbondantemente pagano, per compiacere un’industria che è certamente grande, ma proprio per questo potrebbe badare a se stessa? Caro presidente, le avranno detto come costoro le hanno rispo­sto: «Sono soldi che ci spettavano».

Ecco, presidente, davvero un li­berale può sopportare l’idea che tutto spetti a tutti? Davvero si può pretendere da avvocati, commer­­cialisti, ragionieri, giornalisti, tassi­sti, costruttori e via dicendo, mag­giori liberalizzazioni, e dunque più competizione e merito, e poi decre­tare in un Consiglio dei ministri che una società come Parmalat, quotata in Borsa, debba finire sol­tanto a qualcuno che ha il passa­porto italiano? Chi decide cosa sov­venzionare e proteggere e cosa no? È evidente che ci si mette in un cul de sac . Abbiamo sostenuto la modi­fica dell’articolo 41 della Costitu­zione, che lei ha proposto, esatta­mente per questo motivo. Non si sa­rebbero più commessi gli errori del passato, con liberalizzazioni ad personam, ma l’intero sistema sa­rebbe stato improntato alla libertà di impresa. Si ha l’impressione che il sistema ora rischi di essere im­prontato agli umori del Consiglio dei ministri. Ai suoi piani, più che a quelli del mercato. L’agroalimenta­re è certamente un settore strategi­co. Come tutti quelli che produco­no ricchezza. Ma facciamo un gio­co al contrario. Sa forse indicarci, con la medesima perversa logica con cui si intende bloccare il merca­to nel caso Parmalat, quale settore non sia strategico? Paradosso dei paradossi, nel settore elettrico-nu­cleare, strategico per definizione, aveva inevitabilmente dovuto affi­dare la tecnologia ai francesi.

Lei, gran borghese che si è fatto da solo, indugi qualche volta nel­l’aristocratique plaisir de déplaire di Baudelaire. Racconti piuttosto che, grazie alla sbornia del fotovol­taico, nei prossimi 20 anni gli italia­ni avranno le proprie bollette gra­vate di oneri impropri per 80 miliar­di di euro. Dica che aumentare le tasse sulla benzina utilizzando il ri­cavato a favore dei teatri lirici et alia è una straordinaria imposta regres­siva: toglie a tutti, tra cui i più debo­­li, per dare a pochi. Sostenga con forza che il mercato non lo si può invocare,come l’arbitro,solo quan­do fa comodo e definirlo cornuto quando ci assegna un rigore con­tro.

Oppure, come direbbe lei, si astenga dall’eccitare i liberali con quei bei propositi liberalizzatori consegnati al Corriere e al Consi­glio dei ministri di sole poche setti­mane fa. Meglio rassegnati che de­lusi. (il Giornale)

martedì 22 marzo 2011

Il terrore e la ragione. Davide Giacalone

A Tokyo la vita sociale prosegue tranquilla, anzi si punta proprio sui ritmi della quotidianità, sul portare i bambini a scuola, recarsi in ufficio, fare uno spuntino con gli amici, vedersi al bar per esorcizzare la grande paura. Non tanto del terremoto, che ci sono abituati, quanto dello tsunami, la cui forza devastante ha superato ogni immaginazione. A Fukushima, dove si trovano le centrali nucleari danneggiate, a parte l’area evacuata, la municipalità esclude che si possa bere l’acqua che sgorga dai rubinetti (un po’ come capita in tante case italiane), o mangiare l’insalata fresca dell’orto. A giudicare dalle reazioni e conseguenze, quindi, sembra che le centrali atomiche siano “scoppiate” in Italia e non in Giappone. Posto che non sono scoppiate da nessuna parte.

Il “terrore nucleare” seminato a piene mani da quanti non correvano alcun rischio, semmai approfittavano della situazione, si trasforma gradualmente, in Giappone, nel bilancio razionale di una catastrofe senza precedenti. La contabilità delle vittime viene aggiornata in continuazione, ma sembra si possa dire che almeno 20.000 persone sono state inghiottite dallo tsunami. E’ più probabile che tale cifra si debba ritoccarla al rialzo, piuttosto che al ribasso. Le vittime del “terrore nucleare”, al momento, sono solo lettori e telespettatori lontani, che hanno assorbito la radiazione di uno spettacolo surreale.

La produzione d’energia elettrica da fonte nucleare è una delle più sicure e meno inquinanti che conosciamo. In rapporto alla quantità d’energia prodotta la più sicura e la più pulita. Questo non significa che non ci siano rischi, anche gravi. Le radiazioni uccidono nel tempo, non immediatamente. Ma ci sono anche aree del pianeta che sono state, ripetutamente e massicciamente, irradiate e dove la vita prosegue felice. L’arroganza del vivere di certezze la lascio volentieri ai falsi ecologisti, che spendono montagne di quattrini per reclamizzare sui giornali il loro pluriennale impegno al servizio di altre imprese economiche. Al mio paese si chiamano lobbies, sono lecite, ma presuppongono il disvelamento dell’imbroglio. Da noi, invece, si pretende che siano enti benefici, incarnazione esclusiva del bene collettivo.

Il Giappone riprenderà il suo piano atomico. I Paesi che sfruttano le centrali nucleari continueranno a farlo. Una cosa l’abbiamo imparata: quando gli impianti si raffreddano ad acqua il pericolo può trovarsi, per quanto possa sembrare incredibile, nell’ipotesi che non si sia più capaci di pompare acqua. La sicurezza, insomma, può dipendere dalla pompa. Noi italiani, invece, resteremo ancora una volta fuori dalla ricerca, dallo sviluppo e dall’innovazione tecnologica. I nuclei compromessi di quelle centrali giapponesi saranno seppelliti sotto sarcofagi di cemento, mentre noi metteremo la nostra vita pubblica, ancora una volta, nel sarcofago della paura senza razionalità, del pressappochismo e del propagandismo privo d’idee.

Quel che è accaduto a Fukushima ha rappresentato la conferma che se quella stessa centrale, vecchia, con tutti i difetti di sicurezza di cui s’è scritto, si fosse trovata nel più sismico angolo d’Italia non sarebbe successo nulla. Da noi non può esserci un terremoto di quell’entità e, nel Mediterraneo, non è contemplata l’ipotesi tsunami. Eppure ci siamo sorbiti una maxi iniezione di paura, come se far ripartire il programma nucleare significasse avviarsi verso la sicura catastrofe.

Soffiando sul fuoco fatuo dei referendum l’opposizione ripropone il proprio volto inaffidabile, la propria dirigenza esposta al vento non degli umori popolari (che già sarebbe preoccupante), ma degli estremisti fra i gregari. Dopo i prossimi tre referendum tanto varrà ascoltare direttamente i Di Pietro e i Vendola, oramai guide del branco. Sospendendo le scelte e, di fatto, incrementando il già drammatico ritardo, il governo si dimostra al di sotto del proprio compito. Ci sono scienziati che si riconoscono nella sinistra politica e che pure si spendono a favore del nucleare, inteso non come articolo di fede, ma come irrinunciabile strumento di crescita per l’Italia. Purtroppo mancano interlocutori politici adeguati, da una parte e dall’altra, capaci di tener ferma una decisione presa e, su quella, costruire il necessario consenso.

Tenere il punto, non per arroganza e incoscienza, ma per seria considerazione dell’interesse generale (come noi abbiamo fatto), avrebbe segnalato quanti possono aspirare ad essere leaders politici e non miracolati del capo. Non ce ne sono stati. S’è preferita la via falso realista e realmente calabraghista di chi crede d’esser furbo e punta a conservare i consensi popolari. La ricetta sicura per perderli.

La vita, pertanto, riprende il suo corso normale in Giappone, comprendendosi nella normalità anche la preoccupazione di non perdere l’energia necessaria per la crescita e per assicurare il benessere di tutti. Continua il corso normale anche in Italia, intendendosi per tale l’attitudine a fare di ogni problema un tema d’eterna discussione, in attesa che passi di moda e che venga ripreso qualche stagione appresso. Senza che nulla di serio e decisivo sia stato fatto nel frattempo.

lunedì 21 marzo 2011

Caimano o pirla? Il Cav., Mills e l'amletico dubbio dei pm di Milano. Federico Dollina

Qualcuno doveva aver calunniato Silvio B., poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu mandato alla sbarra. Devono aver raccontato che l'uomo più indagato, processato e assolto d'Italia se ne andava in giro a corrompere i testimoni chiamati a deporre nei tanti procedimenti giudiziari intentati senza successo contro di lui dal giorno della sua discesa in politica. Soprattutto, devono aver pensato che questo tycoon della Brianza, imprenditore fra i primi d'occidente e capo del governo nel settimo Paese al mondo sia in realtà un grandissimo pirla, perché il testimone che avrebbe corrotto gli fece beccare una condanna in primo grado e nonostante questo lui l'avrebbe lautamente ricompensato. Della serie: cornuto, mazziato e pure un po' coglione.

Non ce ne vorrà Franz Kafka per aver preso a prestito il celebre incipit di una delle sue opere più riuscite, ma di tante vicende tribunalizie che hanno fatto la storia del Vecchio Continente non ve n'è una che più del suo allucinante "Processo" somigli al surreale caso Mills che proprio oggi ha ripreso la sua corsa nelle aule del Palazzo di Giustizia di Milano.

Il processo Mills è un esempio clamoroso di (r)esistenza in vita per accanimento terapeutico: sarebbe già caduto da tempo in prescrizione, se non fosse che per tenere il Cav. sulla graticola i magistrati meneghini hanno spostato in avanti la data della commissione del presunto reato, sostenendo che il misfatto non si consuma quando il corruttore paga il corrotto, ma quando quest'ultimo inizia a spendere i soldi. Ne deriva, per logica e paradossale deduzione, che se vi fosse un corrotto taccagno che accumula senza toccarli i proventi del suo malaffare, non potrebbe mai essere perseguito!

Il processo Mills è una prova eclatante di come la giustizia in Italia non sia uguale per tutti: mentre ogni anno nel disinteresse generale cadono mediamente in prescrizione circa 170mila processi di comuni mortali, il pm De Pasquale, colto dal terrore all'idea che analoga sorte possa toccare al Cav. ha scritto un'accorata lettera al collegio giudicante per sollecitare la fissazione di un calendario di udienze talmente serrato da consentire la celebrazione di tutti e tre i gradi di giudizio entro l'inizio del 2012. Provate voi, vittime di reato o imputati da anni in (vana) attesa di giudizio, a chiedere altrettanta premura: si accettano scommesse sull'esito dell'istanza!

Per il processo Mills l'organo di autogoverno delle toghe ha infranto persino il sacro comandamento della solidarietà corporativa: al presidente del collegio giudicante Francesca Vitale, nonostante il recente trasferimento ad altro impegnativo incarico e a dispetto del parere nettamente contrario della diretta interessata, il Csm ha imposto l'applicazione al dibattimento per evitare anche solo il rischio che la sostituzione in corsa di un giudice potesse determinare un rallentamento fatale per l'incombente prescrizione.

Il caso Mills, soprattutto, rappresenta il tentativo (forse inconsapevole) di far passare per pirla colui che la stessa Procura di Milano in altri frangenti dipinge come un caimano senza scrupoli. Il pm De Pasquale, infatti, accusa il Cav. di aver corrotto David Mills per addomesticare la sua testimonianza al processo All Iberian. Ma pochi sanno che al processo All Iberian l'avvocato inglese fu convocato come testimone dell'accusa, con la sua deposizione ostile fece condannare Berlusconi in primo grado (sentenza cancellata dall'assoluzione nei successivi gradi di giudizio), e alla chiusura del dibattimento entrò in conflitto con Fininvest-Mediaset con l'accusa di essersi appropriato dei dividendi da dieci miliardi di lire che quella società aveva generato. Dopo tutto ciò, nonostante tutto ciò, il premier gli avrebbe versato ex post la bellezza di 600mila dollari per ringraziarlo di tante premure. Va bene che Silvio è come la Caritas, ma questo è troppo!

A questo punto c'è davvero da sperare che il processo Mills si svolga in fretta e arrivi presto il giorno della requisitoria: se c'è ancora qualcuno che nutre dei dubbi sullo stato patologico della giustizia italiana, lo invitiamo ad ascoltare un pubblico ministero che chiede l'arresto del presidente del Consiglio del suo Paese per aver corrotto e ricompensato un testimone che lo aveva fatto condannare. In caso di referendum confermativo dopo l'approvazione del ddl Alfano, non si potrebbe immaginare uno spot migliore a sostegno della riforma. Già pronto anche lo slogan: meno male che De Pasquale c'è! (l'Occidentale)

Proviamo a fare chiarezza su Fukushima e sul nucleare italiano. Ezio Bussoletti

Ventimila morti accertati, per ora, e forse molti di più ancora sconosciuti aspettano di essere ritrovati ed identificati; una sfortuna terribile ma anche una buona dose di imperizia ed errori hanno aggravato una situazione che già la natura aveva pesantemente condannato.

Il Giappone lo tsunami lo conosce; da sempre, insieme ai terremoti, questi fenomeni accompagnano la vita quotidiana del popolo del Sol di Levante. Ma, ancora una volta, ecco che una serie di concause ha fatto saltare tutte le previsioni mettendo il paese in ginocchio, come non succedeva dalla fine della seconda guerra mondiale ed ecco che ai danni naturali si sono aggiunti quelli prodotti dall’uomo: la crisi della centrale di Fukushima. Questi giorni le notizie si sono accavallate e, spesso, i media invece di rappresentare un punto fermo, dando certezze, si sono arrampicati su interpretazioni fumose, non fondate sui fatti, con l’unico risultato di far nascere inutili paure nell’opinione pubblica persino in Italia. Al resto ci hanno pensato i politici, almeno qualcuno, capaci di dire tutto ed il suo contrario a distanza di ore nell’inseguimento del consenso emotivo invece di svolgere un ruolo di rassicurazione e di chiarificazione di quanto stava accadendo.

Ma proviamo almeno noi a chiarire le idee e ragionare con pacatezza invece di dover ascoltare frasi come quelle che hanno circolato del tipo “ecco la dimostrazione che il nucleare è obsoleto”, “ è necessario un ripensamento” e via dicendo.

Prima di tutto analizziamo i fatti. La centrale di Fukushima, basata sulla tecnologia americana delle centrali ad acqua bollente, era quasi a fine vita, con circa quaranta anni di esercizio e, quindi, realizzata negli anni 70’ e progettata 10 anni prima. Questo vuol dire che i suoi livelli di sicurezza erano al di sotto di quanto si fa da anni in Europa e nel resto del mondo ed ancora più bassi delle nuove centrali di terza generazione che si prevede (dovrei dire si prevedeva?) di costruire in Italia.

La sua posizione sul bordo del mare, in una zona ad alto rischio sismico come è il Giappone, era avvenuta costruendola con sistemi antisismici che hanno perfettamente funzionato dal punto di vista ingegneristico, infatti tutti i manufatti hanno perfettamente retto al terremoto. L’errore è arrivato sulla “previsione” della forza dei potenziali tsunami che si potevano generare al nord del Giappone. Sino al 10 marzo scorso la forza e la posizione dei terremoti rispetto alla costa, mai così vicini come quello verificatosi, faceva prevedere delle onde potenziali non superiori ai 5 metri di altezza. Da qui la costruzione di un muro di contenimento delle acque di 6 metri. La natura però non è stata d’accordo: il sisma si è prodotto molto più vicino alla costa di quanto fosse mai stato previsto e le onde hanno raggiunto gli 8 metri con punte anche di 10 metri. L’inondazione della centrale è stata inarrestabile e pesante. Ecco il primo errore: una previsione di rischio troppo ottimista che ha determinato l’inizio del dramma a causa dell’inondazione degli impianti. Il secondo, conseguente del primo, è non aver pensato a piazzare i gruppi elettrogeni e le pompe di circolazione dell’acqua di raffreddamento non al suolo ma a vari metri più su; il risultato è stato che tutti i sistemi sono andati in corto circuito portandosi appresso i danni conseguenti dell’arresto della centrale, dell’evaporazione dell’acqua nel nocciolo e nelle piscine di stoccaggio delle barre di combustibile non più utilizzabili ma ancora fortemente cariche di radiazione.

Le esplosioni di idrogeno e la distruzione, anche parziale, dei tetti delle singole unità sono il derivato di un altro fenomeno ben conosciuto: quando un reattore si surriscalda al suo interno si sviluppa idrogeno; normalmente esiste una sorta di camera di compensazione che assorbe il gas facendolo ricombinare con l’ossigeno per trasformarlo in acqua. Il sistema non ha funzionato e l’idrogeno si è espanso facendo saltare i coperchi superiori dei contenitori esterni. Il perché non è ancora noto, errore di progettazione o altri problemi dovuti all’allagamento precedente? Lo sapremo a bocce ferme quando sarà possibile effettuare un’analisi completa di quanto è accaduto.

L’ultimo errore, certo il più grave, è stato quello di aver voluto salvare la centrale a tutti i costi cercando di farla ripartire. Quando i noccioli delle unità hanno cominciato a scaldarsi rapidamente ci potevano essere due scelte: convogliare acqua di mare verso le turbine per raffreddare tutto l’impianto sacrificando il funzionamento futuro delle macchine ma tenendo la temperatura bassa oppure, bloccare ogni singolo reattore, isolandolo, cercando di raffreddarlo singolarmente nonostante si stesse scaldando da due ore dopo l’arrivo dello tsunami. Scelta, quest’ultima, dettata dalle procedure, che però non prevedevano un’inondazione di quella portata, e che si basava sulla speranza di fare ripartire le macchine come se nulla fosse accaduto. La logica economica ed il poco coraggio hanno prevalso determinando i danni seri che si sono prodotti, soprattutto sull’ambiente e la popolazione circostante.

Oggi, grazie anche alla calma dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica, AIEA, è possibile avere un quadro preciso degli avvenimenti e delle prospettive, non rosee ma certamente meno drammatiche di quello che ci hanno fornito i media in questi giorni stimolando paure ancestrali invece di attenersi ai fatti.

Staremo a vedere e seguiremo l’evoluzione degli eventi: se le cose continueranno nella direzione che hanno preso oggi, pian piano si arriverà a ricontrollare, nei limiti del possibile, la centrale bloccando i danni che continua a produrre.

Una pausa di riflessione è necessaria anche da noi, ma non per chiederci se continuare (dovremmmo dire rientrare) nel nucleare, ma piuttosto di come gestire la situazione ed i suoi sviluppi. Alla luce di quanto è avvenuto e di quello che si sente affermare, dovremo chiederci se sono state scelte le persone giuste per programmare e gestire operazioni di una complessità non indifferente come quella della realizzazione delle centrali nucleari nel nostro paese. E, soprattutto, bisognerà chiedersi come imparare ad affrontare eventuali imprevisti.

In questi giorni si è udito di tutto, dall’opposizione come dalla maggioranza di governo. E così non si va da nessuna parte, né serve esorcizzare qualcosa che è apparso nettamente non essere conosciuto da chi avrebbe dovuto invece conoscerlo.

Non possiamo ignorare da una parte la sicurezza della generazione 3 dei reattori e, dall’altra, che l’Italia è circondata da centrali elettriche che usano combustibile nucleare. Urlare no al nucleare non cambia la situazione e le eventuali radiazioni non si arrestano alle Alpi se continuiamo a rimanere un paese denuclearizzato, come alcuni amerebbero fossimo, anche se pur sempre inquinato da petrolio e carbone. (l'Occidentale)

Chi governava, nel 1993? Davide Giacalone

Chi governava, in Italia, nel 1993? Sono convinto che quando Carlo Azelio Ciampi risponde ai pubblici ministeri, affermando di non avere saputo nulla di quel che il suo stesso governo andava facendo, sia sincero. E sono convinto che Giovanni Conso sia un galantuomo, sebbene non propriamente uno statista, e che dica, anche lui, quella che era la verità percepita: cancellai il carcere duro, per i mafiosi, in modo da lanciare un segnale distensivo, per fermare le stragi. Stava dialogando, se non proprio trattando. Ma se questi due uomini dicono la verità, la domanda è: chi governava, in quell’anno tragico e determinante? Chi fa il furbo, o, meglio, il democristiano, è Oscar Luigi Scalfaro, che quasi sembra suggerire la versione concordata, quella comoda per la coscienza e per la bugia, utile a inquinar le prove: Conso agì per ragioni umanitarie. Figurarsi! Ma Conso smentisce e ribadisce, da galantuomo.

Il tema è decisivo, niente affatto storico. Pesa nel presente. Vi propongo, allora, una cronologia ragionata. Ci porta in una zona ad altissimo pericolo, in un buco nero nazionale, nel postribolo ove fu concepita questa bastarda seconda Repubblica.

Due sono le tesi fin qui sostenute, entrambe false: a. le bombe mafiose servivano a intimidire e bloccare le forze del cambiamento; b. quelle stragi erano contro il governo Ciampi (lo sostiene l’interessato) e si placarono facendolo fuori e mettendo a frutto la trattativa avviata, per il tramite di Vito Ciancimino, con Forza Italia. Che tali tesi siano false lo dimostra il calendario.

Giovanni Falcone fu assassinato il 23 maggio 1992. Il 19 luglio successivo salta in aria Paolo Borsellino. Governava Giulio Andreotti e la prima esplosione portò Scalfaro al Quirinale. Sappiamo, dai collaboratori di giustizia, che Falcone poteva essere comodamente accoppato in un ristorante romano, ma si scelse il grande botto. Sappiamo che Falcone e Borsellino erano due magistrati perdenti, messi in minoranza dalle correnti politicizzate e dalla sinistra. Sappiamo che Falcone doveva incontrare il procuratore di Mosca, collaborando ad un’indagine sul sovrapporsi dei canali finanziari per il riciclaggio mafioso e per la fuoriuscita di soldi sovietici, destinati anche al finanziamento del Partito Comunista Italiano. Sappiamo, infine, che Borsellino era rimasto l’unico a credere nell’inchiesta mafia-appalti, condotta dal Ros dei Carabinieri e voluta da Falcone. Morto lui, morta l’inchiesta.

Messi in fila i fatti, quelle due bombe tolsero la vita a due servitori dello Stato, affondarono Giulio Andreotti nella corsa alla presidenza della Repubblica, lasciarono libero il campo all’uso politico dei presunti (molto presunti) pentiti di mafia, predisposto da Luciano Violante, e consegnarono al pool milanese di mani pulite il monopolio assoluto nell’incarnazione della giustizia. Ci sono, allora, tre possibilità: a. che non vi sia nesso alcuno fra le azioni mafiose e quelle politiche; b. che i mafiosi siano fessi, sicché affossarono quelli che li favorivano; c. che non lo siano per niente, spianando la strada a quelli che li avrebbero favoriti. La prima ipotesi è negata da tutta la pubblicistica di sinistra, la seconda dal buon senso. Resta la terza.

Fra il giugno del 1992 e l’aprile del 1993 governa Giuliano Amato. Ministro della giustizia: Giovanni Conso. Quest’ultimo redige un decreto legge per uscire dal manipulitismo. Il governo lo concorda con Scalfaro. Il decreto viene approvato dal Consiglio dei ministri. La procura di Milano si rivolta e Scalfaro non firma. Il colpo allo Stato è ancora in corso.

Ciampi diventa capo del governo (il primo a non essere neanche parlamentare, quindi mai eletto da nessuno) nell’aprile del 1993. Come ministro della giustizia sceglie Conso, appena reduce dall’avere preso il citato sganassone, a cinque dita. Ma Conso è un galantuomo, e allora non disse: presidente, ma se l’abbiamo rivisto assieme, riga per riga. Tacque. Da qui in poi la cronologia è decisiva.

Ciampi sostiene che le “stragi” furono contro di lui, ma morirono, in tutto, dieci persone. 14 maggio, via Fauro, Roma: attentato fallito, nessun morto. 27 maggio, Georgofili, Firenze: 5 morti. 27 luglio, via Palestro, Milano: 5 morti. 28 luglio due bombe: San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro, Roma. Messe in modo da non far vittime. 31 ottobre, presunto (lo sappiamo solo dai pentiti) attentato allo stadio Olimpico, Roma. Fallito. Immeditamente dopo, novembre 1993, Conso toglie i mafiosi dal carcere duro. Fine degli attentati. Ora, secondo voi, i mafiosi sono proprio così incapaci, con attentati che falliscono e bombe che non fanno morti? O stavano ricordando un debito da saldare? Chi aveva tratto beneficio dalla morte di Falcone e Borsellino, chi dai pentiti che sbucano come funghi e raccontano balle? Il governo Ciampi durò fino al maggio del 1994, e i mafiosi andarono in letargo. Dopo avere incassato la non umanitaria benevolenza di Conso.

Nel 1994 ci furono le elezioni, il cui esito doveva essere scontato: la sinistra teleguidata avrebbe dovuto vincere e governare come Ciampi, favorendo gli affaristi, non solo italiani, e senza accorgersi di quel che avrebbe fatto. Le cose andarono diversamente, vinse Silvio Berlusconi e la storia prese un altro indirizzo. Ecco, se volete rincitrullirvi di bunga-bunga, sia che v’attizzi o vi ripugni, accomodatevi pure: per gli scemi c’è sempre posto. Ma se v’interessa sapere in che Paese vivete, ponetevi quella domanda inquietante: chi governava, nel 1993?

mercoledì 16 marzo 2011

Lo strapotere dei giudici nasce dall'uso pubblico del bagnasciuga del mare. Transatlantico

L’Italia è il paese dove si può finire sotto processo per una denuncia non circostanziata che la magistratura usa per cercare conferma a un’ipotesi investigativa; dove si può essere condannati in primo e secondo grado e dopo 15 anni vedere annullata la sentenza in Cassazione per sette capi su otto e per l’ottavo vederla confermare nonostante una legge in discussione (e approvata qualche mese dopo) non consideri più il fatto come reato.

L’Italia è il Paese dove i pubblici ministeri che hanno sostenuto quell’accusa e i giudici che hanno deciso quei processi hanno fatto regolarmente la carriera, uno addirittura tentando quella politica, un altro divenendo ispettore presso il Ministero di Grazia e Giustizia.

Questo per evitare di ribadire che l’Italia è il Paese dove il pm e i giudici di Enzo Tortora sono invecchiati solo in preda all’eventuale ansia per il rimorso delle loro coscienze. Come faranno quelli di Giovanni Mercadante.

Il problema di molti processi italiani è il "libero convincimento del giudice", insindacabile al punto da non potersi neppure accertare, a posteriori, se in realtà esso si sia formato sulla base di un giudizio etico (quando non politico) anziché giuridico.

Il "libero convincimento" (implicazione del monopolio interpretativo della legge da parte della Cassazione) si accompagna all’obbligatorietà dell’azione penale e al diritto dei magistrati di essere giudicati per i loro errori da un Organo di rilievo costituzionale nel quale sono in maggioranza rispetto ai componenti designati dal Capo dello Stato e dal Parlamento. Nel 1948 furono pensati quali giusti contrappesi per garantire l’indipendenza della magistratura e l’uguaglianza di tutti dinanzi alla legge stante un Parlamento in grado di incidere sullo status di magistrati/funzionari dello Stato (stipendi, regole per la carriera, eccetera) e protetto contro accuse improvvide o pretestuose grazie all’immunità riconosciuta ai suoi membri. Oggi però sono fonte di squilibrio istituzionale.

Negli anni Ottanta iniziò a diffondersi il sospetto, poi rivelatosi fondato, che molta classe politica eccedesse nel coltivare interessi propri in nome altrui e che i partiti di opposizione sapessero. La verità era che tre decenni addietro i partiti dell’arco costituzionale avevano siglato un "patto" in forza del quale alla DC competeva l’esclusiva di governare e al PCI di decidere distribuzione dei costi e vantaggi sociali e ambedue si impegnavano a non fare riforme che potessero mettere in discussione l’impianto giuridico-ideologico della Costituzione repubblicana.
Coerentemente negli anni Settanta/Ottanta, Centro e Centrosinistra si erano concentrati sull’occupazione dello Stato e delle sue articolazioni industriali e finanziarie mentre la Sinistra sulla penetrazione nei settori dell’istruzione, della giustizia, dei beni culturali e degli enti locali, finendo per dotarsi, democraticamente e legittimamente, di una controstruttura pubblica motivata politicamente.

La Sinistra aveva compreso che col tempo la DC si sarebbe compromessa nel tentativo di conciliare interessi concorrenti che presiedevano altrettante scelte di vita aventi pari diritto e si stava preparando a sostituirla. Quella intuizione regalò alla Sinistra il governo del territorio, dell’istruzione (superiore e universitaria) e... della Giustizia ma non il governo del Paese di cui si sentì scippata da Silvio Berlusconi nel 1994.

La liason tra Sinistra e Magistratura ebbe inizio, negli anni Settanta, con la decisione del pretore Amendola sull’uso pubblico del bagnasciuga del mare. La sentenza, nonostante le ricadute sulle regole di edilizia e urbanistica, sulla proprietà privata e alcune attività imprenditoriali, fu snobbata dalla DC come atto, politicamente inerte, di un pretore d’assalto. Alla sinistra non sfuggì invece che offriva la prova della possibilità della via giudiziaria alla riforma della società italiana. E soprattutto intuì che indicava come creare fra Magistratura e una parte della società civile (quella di volta in volta interessata) il feeling indispensabile per facilitare il suo avvento al potere.

Tangentopoli doveva segnare il punto di svolta ma Berlusconi convinse gli Italiani che alcuni Magistrati avevano ceduto alle sirene del PDS (ex PCI) pronto a rappresentare i loro interessi corporativi in cambio del sostegno alla conquistare il potere.

La sentenza di Amendola fu decisiva anche dal punto di vista ideologico perché affermava il diritto del metro etico/politico per la formazione del "libero convincimento del giudice". Con quella sentenza l’Ordine giudiziario affermò inoltre il suo diritto/dovere di far prevalere i principi costituzionali (come il principio di eguaglianza sostanziale) sulla legge vigente attraverso l’interpretazione provocatoria (più che creativa) delle norme. Qualche anno dopo altre sentenze sul rapporto di lavoro dipendente (cui seguì lo Statuto dei lavoratori) dissolse i residui dubbi sulla praticabilità della via giudiziaria alle riforme.

Da allora molto è cambiato, rimane però intatta la potestà dei giudici di formare il proprio "libero convincimento" su personali parametri etico/politici di qualificazione giuridica dei fatti dunque di compensare i deficit normativi, che ritengono esistenti, ricorrendo a una giurisprudenza ermeneuticamente progrediente.

Ma questa facoltà, in una Democrazia con sovranità popolare, non può essere riconosciuta a un Ordine Giudiziario privo di rappresentatività e la cui coscienza democratica e onestà intellettuale sono valutabili solo attraverso gli atti, non giudicabili e tantomeno sanzionabili, dei suoi componenti. Se poi il 70% degli Italiani chiede oggi alla Politica di riequilibrare il rapporto fra potere e responsabilità dei giudici (inquirenti e decidenti), è della scomparsa di sintonia con i cittadini che la Magistratura dovrebbe preoccuparsi, non di una legge che nascerà minus quam perfecta visto che a decidere sulla responsabilità dei giudici saranno comunque i colleghi. (l'Occidentale)

martedì 15 marzo 2011

Il progresso senza dignità. Mario Sechi

Leggere le cose che contano, documentarsi alla fonte, parlare con gli scienziati che stanno monitorando la crisi nucleare giapponese è inutile. Ammirare la compostezza del popolo nipponico, l’autocontrollo, la dignità, la capacità di controllare la paura per sfidare il grande fuoco sempre acceso, è inutile. Tutto è fatuo in Italia. Il dibattito sull’atomo è monopolizzato dai demagoghi, dai ciarlatani dell’energia, dai verdi rinnovabili e dai rossi all’idrocarburo. Un paio di studiosi di chiara fama mi spiegavano: «Abbiamo la scienza dalla nostra parte, ma non la politica, la cultura e la classe dirigente».

L’Italia, un Paese senza centrali nucleari, dipendente dalle importazioni di gas e petrolio, con una bolletta energetica per il 2011 proiettata verso i 60 miliardi di euro (erano 51 l’anno scorso), ha deciso di lanciare un dibattito senza capo né coda sul disastro. Il terremoto e lo tsunami hanno provocato diecimila morti e il Belpaese mette in un angolo questa tragedia per alimentare una gazzarra politica radioattiva. Possiamo decidere di non far niente di niente e tenerci centrali tradizionali che inquinano l’aria e rilasciano gas da respirare a pieni polmoni, ma dobbiamo ricordare che in Francia ci sono 58 reattori atomici in funzione, così pure in Slovenia (un reattore) e nella verdissima Svizzera (cinque reattori). Dobbiamo tener presente nei nostri calcoli piccoli piccoli che nel mondo sono in attività 442 reattori, che i tedeschi, gli spagnoli, gli svedesi, gli ucraini, i rumeni, gli olandesi, i finlandesi, i bulgari, producono energia atomica.

L’Europa brulica di reattori, per non parlare della Cina, della Russia e degli Stati Uniti, dove l’amministrazione Obama fa del nucleare un fattore di energia pulita e sicura. Pubblichiamo la tabella degli impianti attivi e di quelli in costruzione nelle pagine interne. È materiale altamente istruttivo. Ma non per noi italiani. Nessuno spegnerà i reattori, perciò sarebbe stato più serio ragionare così: è impossibile dominare la natura, la sua grandezza ci riduce a un puntino nel cosmo - quel che siamo - ma dobbiamo chiederci se riusciamo a dominare la potenza dell’atomo e sfruttarne la fiamma eterna in sicurezza. Tutto vano. Prevedo il tramonto di ogni progetto italico: vinceranno quelli del Nimby, Not In My Back Yard, non nel mio cortile. Prevarranno quelli che vogliono il comodo progresso per sé ma scaricandone i costi sugli altri. Siamo vicini ai giapponesi, ma lontani dalla loro dignità. (il Tempo)

domenica 13 marzo 2011

Se il magistrato crede di essere Dio in terra. Marcello Veneziani

Ridurrei l’intera riforma della giusti­zia a un solo articolo: il magistrato non è Dio in terra. Non è infallibile, non è onnisciente né onnipotente, non è al di sopra del bene e del male, non è neutra­le, non è depositario unico e autorizzato della Verità, non può entrare dappertut­to e occuparsi di ogni cosa in cielo, in ter­ra e in ogni luogo. Perché il problema vero della Giusti­zia è di natura teologica. Da quando dila­g­a l’ateismo e non crediamo più alla Veri­tà Unica e Assoluta, da quando non fun­zionano più neanche i surrogati teologi­ci, ovvero le ideologie, abbiamo lasciato il ruolo di Dio al Magistrato. Lui stabili­sce i confini della vita e della morte, occu­pandosi di bioetica ed eutanasia. Lui de­cide la sorte di famiglie, minori, adozio­ni.

Lui stabilisce quali reati perseguire e quali no, di quali occuparsi e quali far marcire negli anni. Lui decreta se il politi­camente scorretto è perseguibile a nor­ma di legge oppure no, giudizi storici in­clusi. Lui impone se devi cedere o no la casa di tua proprietà e i tuoi leciti guada­gni alla tua ex moglie, e decide se tutela­re i tuoi diritti elementari o se adottare una giustizia compensativa e distributi­va, fondata sul principio egualitario che devi dare per la sola ragione che guada­gni di più. Lui entra nella vita privata e decide quando la sessualità è reato e quando invece è libera privacy. Lui deci­de i palinsesti, reintegra i giornalisti, in­dica cosa devono fare e di fatto decide la linea editoriale dei tg. Lui può forzare e reinterpretare le leggi e di fatto modifi­carle attraverso le sentenze.

Lui può ro­vesciare i verdetti della volontà popola­re. Lui è il Supplente di Dio e può inter­cettare e sputtanare anche la vita più inti­ma. Lui non paga se sbaglia. Ma che Lui non sia Dio in terra non c’è bisogno di dimostrarlo attraverso complicate pro­ve teologiche, ne basta una empirica: se il 90% dei reati resta impunito, se i tempi d’attesa di giudizio restano così lunghi, se il tasso di errore è così elevato, insom­ma se la Giustizia fa così schifo, vuol dire che non è nelle mani di Dio ma nella mi­gliore delle ipotesi di comuni mortali. Anzi a volte ometti, discesi dal verbo omettere. (il Giornale)

venerdì 11 marzo 2011

Palle sgonfie. Davide Giacalone

Nella lunga, estenuante partita fra la giustizia e la politica, il governo ha segnato un punto. Le regole del gioco, però, non prevedono un tempo limite, la fine della partita non è affidata al cronometro (come nel calcio o nel basket), ma la si agguanterà solo quando uno dei due avrà vinto (come nel tennis). Da anni siamo fermi. Prima “vantaggio”, poi “parità”. Anziché avvincente, la disputa, s’è fatta noiosa e lo stile, oramai, lascia a desiderare. In ogni caso, puntando su riforme costituzionali il governo allunga il passo, per diverse ragioni.

Intanto perché la giustizia si può rimetterla a posto anche con riforme ordinarie, se non addirittura con provvedimenti organizzativi, ma sono vicoli ostruiti dallo scontro fra poteri, strade sommerse dallo straripamento delle toghe. Basta che un soggetto o una maggioranza s’avviino in quella direzione che subito echeggia la schioppettata penale. E quando qualche riforma si riesce a farla, provvede poi la Corte Costituzionale a bruciarla, con sentenze assai dubbie, quale quella sull’inappellabilità delle assoluzioni. Quindi: volete che per riformare la giustizia si riformi la Costituzione, così risolvendo il conflitto fra pezzi dello Stato? Eccovi serviti.

Ulteriore vantaggio deriva dal fatto che le riforme proposte non solo sono di buon senso, non solo sono considerate normali nei Paesi civili, ma erano in gran parte condivise da uomini della sinistra, quando le modifiche costituzionali si doveva farle utilizzando la bicamerale presieduta da Massimo D’Alema. Chi cambia idea solo per ragioni di schieramento non ci fa mai una bella figura.

C’è dell’altro: molti già gridano che la Costituzione non deve essere toccata, quasi sia un testo sacro. Peccato che è già stata riformata tante volte, che i Costituenti la scrissero in modo che fosse modificabile, che quanti gridano sono gli stessi che la cambiarono con maggioranza risicatissime e un attimo prima che la legislatura finisse (2001, riforma del titolo quinto), e che, come se non bastasse, se ne stanno buoni e zitti quando la Costituzione la si calpesta anziché cambiarla, come da molti anni avviene ogni volta che si tratta di eleggere il presidente della Corte Costituzionale.

Il vantaggio, per il governo, consiste quindi nel far fare alla sinistra la parte dei conservatori, asserviti alle toghe politicizzate, dei voltagabbana e degli irragionevoli. Ma la partita continua. Perché quelle proposte divengano riforme occorre molta determinazione, una marcia forzata (la fine della legislatura s’avvicina) e il mantenere una condotta simile a quella adottata dalla sinistra (che la ricordata riforma della Costituzione la fece a “colpi di maggioranza”). A questo s’aggiunga che è pur lecito cambiare la Costituzione, ma sarebbe saggio limitare gli ambiti. Se si mette al fuoco la carne giustizia, quella sull’impresa e sul lavoro e nel frattempo si fa il federalismo, allora occorre un braciere chiamato assemblea costituente.

Il tutto senza dimenticare che il capitolo giustizia, dopo i fuochi costituzionali, prevede i roghi giudiziari. Vero è che il presidente del Consiglio veste l’amianto da anni, ma è difficile credere che il tragitto non preveda danni. Se la maggioranza procederà a testa bassa, verso riforme che riguardano tutti, e se l’opposizione s’incanterà nella cantilena imbambolata dell’“ad personam”, forse potrà vedersi la fine della partita. In caso contrario, resteremo inchiodati al tie-break, giocato con palle oramai sgonfie.

giovedì 10 marzo 2011

La madre di tutte le riforme

Il cardine della riforma della giustizia è la divisione tra giudici e Pm: pone al centro la parità tra accusa e difesa. Il giudice diventa colui che è davvero sopra le parti, perché non è più pari al Pm.

Finora i piatti della bilancia erano sbilanciati a favore dei magistrati: da una parte c'erano giudici e Pm, dall'altra il cittadino solo. Ora invece i piatti sono stati messi su un unico piano: in una condizione di parità.

Altro punto fondamentale: la responsabilità civile dei magistrati, al pari di tutti gli altri dipendenti dello Stato. Se sbaglia il medico è responsabile e il cittadino può citarlo. Così potrà avvenire anche per il magistrato. Si attua il principio della legge uguale per tutti.

La riforma non riguarderà i processi in corso alla data della sua entrata in vigore, pertanto non si potrà assolutamente parlare di legge ad personam, ma di legge fatta nell’interesse di tutti i cittadini.

Cari compagni. Davide Giacalone

Nel centro destra c’è chi s’illude di poter essere il successore di Silvio Berlusconi, faticando a comprendere che i voti non sono come il fatturato dell’azienda di famiglia e che gli spazi politici vanno interpretati, non ereditati. La cosa più impressionante, però, è che nella trappola sono caduti per primi quelli della sinistra, i quali, quando saranno privati di Berlusconi, non sapranno neanche più di cosa sono la sinistra. Ne è sintomo l’ultima sceneggiata, che segnala un inquietante vuoto mentale: prima raccolgono le firme per chiedere le dimissioni di Berlusconi, poi si accorgono di avere avuto l’appoggio di Pippo, Pluto e Paperino, quindi provvedono a dir lo sproposito dei dieci milioni e, alla fine, non contenti della performance, consegnano il tutto a Gianni Letta. Il significato è chiaro: Silvio, sei tutti noi, salvaci da noi stessi, resisti, dura, rimani, decidi tu cosa fare, altrimenti noi non solo non sappiamo che dire, ma neanche a chi dirlo.

Cari compagni della sinistra, molti di voi sono stati comunisti per l’orrore d’essere stati fascisti, altri per moda, altri ancora perché qualcosa sentivano di dover essere, pur non capendone il perché. La storia vi ha condannato ad essere gettati fra i relitti inguardabili. Le cose che diceste e scriveste paiono anche a voi vergognose, tanto è vero che, a chi ve le rammenta, non sapete dire altro che: ancora credi all’esistenza dei comunisti? In fondo vi sentite morti, e ne comprendo il dramma. Però, vedete, una democrazia ha bisogno di una sinistra che possa andare al governo, di forze alternative a quelle di maggioranza, che si candidino a far progredire il Paese, non solo a vendicarsi. Vi pare possibile che la sinistra, in Italia, s’incarni in reduci della sconfitta e in adoratori dei governi tecnocratici? Credete pensabile che si possa oscillare fra l’affabulazione vendoliana e il corteggiamento di Mario Monti, passando per un prodotto dell’economia socialistizzata dell’Emilia Romagna, che si esibisce nelle stazioni ferroviarie con cartelloni che non dicono un bel niente?

Fuggire al dialogo sul tema della giustizia è suicida. Il centro destra ha commesso molti errori, alcuni dei quali intollerabili (e qui non abbiamo fatto sconti), ma voi li avete coperti con errori ancora più grandi. Non vi siete accorti che state balbettando, nel mentre chiedono d’arrestare un vostro parlamentare, laddove è solare che non deve essere arrestato? Ricordate che il vostro ultimo governo è caduto per mano delle procure? Siete prigionieri delle vostre paure, della vostra cattiva coscienza e della vostra inconsistenza. Luciano Violante vi ha condotto nei pasticci, ma è anche il più intelligente fra voi, sicché mena ancora le danze, fa il ragionevole, dialoga, poi chiude, il tutto con la vostra parte politica che si limita a pigliar schiaffi e far la faccia di chi li merita.

Pensare di andare al referendum sul nucleare mettendosi dalla parte del più logoro luogocomunismo, pensando d’essere i socialisti degli anni ottanta (fu una delle loro colpe più grandi), anzi, pensando di essere Claudio Martelli, significa qualificarsi come inadatti a governare qualsiasi cosa. Ma non avete imparato? Metteste all’Enel un ecologista, Chicco Testa, che ha cambiato casacca e ora vi dà lezioni. Quanto contate di potere continuare, in questo modo. Per non dire dell’acqua: ma davvero v’apprestate allo sforzo demenziale di far credere che la si privatizzi? Vi comportate da minoranza che vuole restare tale, perché ha paura delle cose che farebbe se divenisse maggioranza. Naturalmente voterete per l’abrogazione del legittimo impedimento, perché almeno in quello vi soccorre la vostra unica bussola: Berlusconi. Ma quando avrete finito di farlo non avrete ottenuto un fico secco, se non di andare a rimorchio di un giustizialista fascistoide. Alla faccia della sinistra!

In attesa che Massimo D’Alema e Walter Veltroni concludano vegliardi il congresso della Federazione Giovanile Comunista, in corso da quaranta anni, stabilendo chi dei due ce l’ha più adattabile, non credete che sia fin troppo chiaro il bisogno di cambiare classe dirigente? Non c’è un solo vincente da salvare, siete agevolati. E se continuate, come a Torino, a cancellare quel che arriva dall’esterno per candidare quel che si crede eterno, diventerete la barzelletta della più grottesca conservazione.

Vi dirò, quel Matteo Renzi (non me ne voglia), se la smette di fare il Jovanotti sinistrato, non è poi male. Ne avete altri? Che il cielo ve li benedica. Metteteli in pista. Il berlusconismo è una stagione durata a lungo e non terminata, cercate di non esserne gli ultimi e patetici alfieri.

mercoledì 9 marzo 2011

Compagni, sulla giustizia non tiratevi indietro. The Front Page

Compagne e compagni, sulla riforma della giustizia non tiratevi indietro!

Le preoccupazioni che vi abbiamo illustrato nell’appello garantista si sono purtroppo drammaticamente confermate. Siamo in presenza di una ulteriore degenerazione del quadro politico, in chiave illiberale, conservatrice, giustizialista e mediatica: perciò se si discuterà davvero di giustizia, non tiratevi indietro.

La riforma della giustizia è urgentissima. E deve essere una riforma garantista perché il nostro sta diventando il Paese meno garantista d’Occidente. E il potere della magistratura sta diventando squilibrato rispetto agli altri poteri.

Che cosa vuol dire garantista? Tre cose: primo, aumento delle procedure di garanzia per gli imputati (per esempio separazione delle carriere, responsabilità civile dei giudici, riduzione delle intercettazioni e della loro diffusione); secondo, riduzione delle pene; terzo, depenalizzazione dei reati minori. La scelta garantista può essere solo antirepressiva, e su questo la sinistra deve essere protagonista di una grande battaglia, care compagne e cari compagni, perché sono temi nostri e dobbiamo imporli a una destra che non li ama. Questo è il momento buono.

Non diciamo che, con Berlusconi al governo, non se ne deve parlare. Perché così si perde una grande occasione e si legittima l’uso personale e partigiano del tema della giustizia. Invece sono milioni i cittadini e le imprese che hanno a che fare con i tribunali. Se si sostiene a priori che con una parte non si deve parlare, si avvallano i teoremi contrapposti: tutti i magistrati sono di parte, tutti i politici (della parte avversa) sono corrotti.

Non diciamo che “non è il momento perché la magistratura è in prima fila nella lotta alla corruzione”. La magistratura non è una forza di combattimento. Non deve esserlo. I magistrati sono diversi tra loro, nei comportamenti, nell’esercizio della professione e nei loro interessi materiali. Le loro opinioni vanno certo ascoltate, come quelle di tutti i gruppi professionali o sociali. I loro rappresentanti, però, non possono pretendere di piegare l’interesse generale ai loro fini. Non possono ignorare i problemi dei cittadini sottoposti ad una giustizia lenta, costosa, inconcludente e condizionata da logiche mediatiche. Non può più accadere che un magistrato celandosi dietro l’obbligatorietà dell’azione penale scelga a chi, come e con quanto impegno dedicarsi, e come coinvolgere i media, secondo logiche personali e irresponsabili. Lo diciamo prima di tutto a difesa della magistratura, della sua insostituibile funzione, della sua efficacia e della sua autorevolezza.

Carriere limpide e non intercambiabili tra chi formula l’accusa e chi giudica e per questi dev’essere super partes ed equidistante tra accusa e difesa; forme di rappresentanza, di governo e di responsabilità civile eguali e compatibili con quelle di tutti i cittadini e finalmente estranee ad ogni logica di casta; durata dei processi; certezza e correttezza nei procedimenti di indagine, compresa la riservatezza e la non strumentalizzazione dei materiali raccolti; l’uso appropriato e certo delle intercettazioni; un ricorso davvero limitato alle necessità reali dei provvedimenti di restrizione della libertà prima dei processi; la corrispondenza dei risultati all’impegno e al talento dei giudici: sono tutti argomenti che la sinistra e le forze democratiche hanno messo più volte all’ordine del giorno, in singole proposte di legge e avviando un dialogo con le altre forze politiche.

Del resto le proposte messe sul piatto dall’attuale titolare della Giustizia, il ministro Alfano, non sono così lontane dalla bozza Boato approvata da tutti (tranne Rifondazione) ai tempi della Bicamerale. Ma da allora non si è fatto nulla. La giustizia dovrebbe essere la chiave per l’affidabilità e il funzionamento corretto del Paese. Invece è terreno di contrapposizioni esclusive e aprioristiche che paralizzano tutto e tutti. In questo modo la politica è consegnata all’esito dei processi, a loro volta anticipati nel massacro mediatico, mentre il destino di intere aree del Paese è affidato alle misure militari contro il sistema criminale. Tra le ragioni dei mancati investimenti nel nostro Paese non c’è la criminalità, ma il cattivo funzionamento della giustizia. Lo scontro politico si è ridotto ad una faida tra le armate del crimine e quelle della giustizia, tra i crociati dell’etica e gli anticristi della corruzione e della prostituzione diffusa.

L’assenza di una seria riforma della giustizia è una responsabilità di lunga data, reiterata dai governi di centrodestra nonostante le ricorrenti petizioni di principio. E’ però una necessità sociale ed istituzionale, una condizione per ripristinare il terreno della politica vera. Facciamola nostra. Non lasciamo alibi a nessuno, non consentiamo che l’occasione si disperda. Non blocchiamo il confronto, e lavoriamo semmai perché si discuta di contenuti, finalità e indirizzi dei provvedimenti chiamando il Parlamento a far bene e al più presto.

Massimo Micucci
Fabrizio Rondolino
Piero Sansonetti
Claudio Velardi

Il corpo delle donne 2. Striscia la notizia

http://www.striscialanotizia.mediaset.it/video/videoextra.shtml?12761

lunedì 7 marzo 2011

Il politically correct ha rovinato la sinistra; attento, Silvio! Marianna Mascioletti

In principio fu il politicamente corretto.
Una magia linguistica che non è servita, per dire, a ridare la vista ai ciechi, ma in compenso li ha trasformati in “non-vedenti”, senza peraltro, per la verità, migliorare tangibilmente (almeno in Italia, dalle altre parti non sappiamo) le loro condizioni di vita.

Alla base di questo atteggiamento, diffuso in più o meno tutto il mondo occidentale, c’è, fondamentalmente, la convinzione che si debbano moderare i toni del linguaggio per evitare di offendere singole persone o categorie ritenute “svantaggiate”, più deboli, spesso discriminate per le loro condizioni oggettive più che per loro colpa.
L’intento è sicuramente lodevole, i risultati un po’ meno: quello che era un atteggiamento sostanzialmente condivisibile si è tramutato in un campo minato di divieti non scritti, proteiformi, per cui per tutti, e tanto più per un personaggio pubblico, è pericoloso dire praticamente qualunque cosa, poiché chiunque potrebbe saltar su strepitando di sentirsi offeso (e, naturalmente, pretendere immediata e pubblica ammenda) per la categoria che ritiene di rappresentare.

Insomma, questa ormai onnipresente e onnicomprensiva correttezza politica ha prodotto proprio il contrario di quella società più aperta alle minoranze che voleva realizzare: ci ritroviamo tutti l’un contro l’altro armati, tutti appollaiati come falchi ad aspettare che il nemico dica qualcosa di “offensivo” per poter cominciare ad elevare grida di sdegno, indignati come donne, come uomini, come vecchi, come giovani, come qualunque cosa in quel momento ci faccia comodo essere.

A queste condizioni, pare che la realtà delle cose conti meno della loro definizione: gli strilli d’indignazione partono non a seconda di ciò che l’avversario fa, ma di come lo chiama. Nessuno s’indigna più, banalmente e semplicemente, come persona, ma ci si indigna ”a pezzi”, per argomenti, per aree tematiche, con conseguenze disastrose per il dibattito politico.

Quando non si riescono più a sostenere delle argomentazioni logiche, ci si rifugia nella comoda scappatoia del sentirsi offesi come esponenti di una qualunque minoranza. Il risultato?
Il risultato è che rimanere minoranza è diventato quanto mai comodo: perciò, visto che tutti sono occupati a salvaguardare i privilegi particolari – quasi sempre solo verbali – derivanti dal far parte di questo o di quel gruppo sociale “discriminato”, quasi nessuno ritiene che gli convenga impegnarsi seriamente in battaglie volte ad eliminare le discriminazioni.

Per molto tempo, in Italia ma non solo, il monopolio del politicamente corretto è appartenuto alla sinistra, che, se da una parte si faceva promotrice della ribellione contro l’ordine costituito, dall’altra cercava di costituire secondo i propri canoni un nuovo ordine, i cui cardini fossero i concetti di “giusto”, “rispettoso”, “tollerante”. Sulla carta, un progetto bellissimo.

Peccato però che, per realizzarlo, negli ultimi trent’anni abbiamo visto salire in cattedra personaggi sempre più improbabili, convinti di essere “la parte migliore del Paese” in virtù della loro appartenenza politica, i quali avevano lo scopo dichiarato di insegnare la giustizia e il rispetto a noialtri incolti barbari (nonché, ça va sans dire, “parte peggiore del Paese”).

Date le premesse, non c’è bisogno di un padre della psicanalisi per spiegare come mai, sulla stragrande maggioranza del popolo italiano, il politically correct non abbia fatto granché presa; sentirsi continuamente sul banco degli imputati di un invisibile tribunale (la cui giuria, per di più, è formata da gente tipo Massimo Giannini) non è esattamente, se non per una piccola minoranza di masochisti, un quadro ideale di felicità.

In un contesto così subdolamente soffocante, l’irriverenza di un Berlusconi è arrivata come una ventata d’aria fresca: ecco finalmente un politico che sembra dire pane al pane, che sembra dare importanza alla sostanza e non alla forma, che non si mette in cattedra a giudicare chi non dice “diversamente azzurro” per indicare il colore rosa.

Esasperati dal politicamente corretto, stufi di sentire grida di scandalo ogni volta che cercavano di esprimere un’opinione leggermente fuori dai canoni ammessi, molti, tra cui chi scrive, non si sono sentiti di condannare troppo duramente certi episodi, pur obiettivamente inopportuni, della vita politica del nostro premier, come le corna nelle foto ufficiali o il chiamare Barack Obama “abbronzato”.

Giusti o sbagliati che siano, comunque, i modi diretti di Berlusconi si sono imposti nella politica italiana, innescando, all’estremo opposto rispetto ad una sinistra sempre più bacchettona, un’escalation di esternazioni e gesti sempre più triviali. La strategia, a quanto pare, ha funzionato: gli italiani lo amano, l’opposizione non riesce a tenergli testa (a meno, forse, di non arruolare quel raffinato gentleman di Oliviero Toscani), Lukashenko e Putin lo adorano (di Gheddafi, nell’incertezza del momento, meglio non parlare), insomma, la sua intrinseca scorrettezza politica ha vinto su tutto il fronte.

Da qualche tempo, però, lo spettro del politicamente corretto ha cominciato ad aggirarsi anche nel PDL. L’ultimo, in ordine di tempo, ad averlo incrociato è stato il senatore Alessio Butti, che, ispirato, ha creato il seguente capolavoro di acrobazia verbale: “Minzolini è fazioso, ma in modo sano“.

Una frase che fa il paio con l’arrampicata sugli specchi di Maurizio Sacconi, il quale non ci sta a passare per uno che segue in tutto e per tutto i dettami del Vaticano, perciò si definisce “laico”, ma in modo “adulto”. Che poi la “laicità adulta” coincida in maniera quasi perfetta con l’ “ateismo devoto”, che coincide a sua volta con l’ascoltare, in materia di scienza, i vescovi e non i medici, beh, questa è una questione secondaria.

Presidente Berlusconi, dia retta: se li lascia fare, questi tra un anno ce li ritroviamo a bacchettare i non-conformi peggio di Concita De Gregorio.
Immagini la scena: quando qualche prete vecchio stampo oserà definirsi “clericale”, gli piomberà addosso Sacconi, gridando “No! No! Cattivo! Clericale è una parolaccia! Devi dire laico adulto!”


La prego, Presidente, usi i suoi poteri taumaturgici, cerchi di frenare questa deriva. La smetta di farsi “contestualizzare” le bestemmie, non ceda a chi nelle sue (presunte) elargizioni di denaro a miss Ruby Rubacuori vede nient’altro che carità cristiana, torni a fare corna anziché baciare mani (a conti fatti, le corna convenivano di più), e soprattutto, per l’amor del Cielo, la smetta di fare continuamente l’offeso.

Guardi che così i suoi elettori non si divertono più, eh. Ci faccia questo piacere, ritorni agli ameni siparietti di una volta che ci facevano tanto ridere.
Altrimenti, beh, altrimenti… noi italiani abbiamo un carattere piuttosto birichino, dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro.

Prima o poi, per dispetto, potremmo pure finire per eleggere una persona seria. (Libertiamo)

Dalla parte del machete. Davide Giacalone

Tagliare la spesa pubblica non sarebbe affatto impopolare, se solo ci riuscissero. Con un debito pubblico giunto al 119% del prodotto interno esistono due strade: o si taglia la spesa pubblica o si taglia (mediante tasse) quella privata. Basta un rialzo dei tassi d’interesse, previsto per aprile, che già ci s’incammina sulla seconda strada. Meglio la prima. Per tagliare la spesa pubblica si può benissimo utilizzare il machete, servendosi anche di decespugliatori e seghe motorizzate. Il Presidente della Repubblica teme che ci si possa fare del male, con le lame pesanti, ma ci si può mutilare anche con le forbicine, se solo le si ficca nel punto sbagliato. E qui siamo al punto: nessuno conosce veramente questo mostro, la spesa pubblica.

E’ da quando sono nato che sento parlare di tagli alla spesa pubblica improduttiva. Da altrettanto tempo sento dire che non ci si riesce perché i cittadini beneficiati si ribellano. Ma non ha senso: se quelli che pagano sono più numerosi di quelli che incassano, per la stessa evidente ragione per cui i derubati devono sempre essere più numerosi dei ladri (altrimenti questi ultimi s’accanirebbero contro colleghi), i tagli dovrebbero essere popolarissimi e acclamati. Solo che il chirurgo è bendato e il paziente nascosto, il che complica le cose. Allora si procede con i tagli “lineari”, vale a dire un tot in meno per tutto e per tutti, il che è sia inutile che ingiusto. Inutile perché fatto con la limetta, laddove serve la mannaia, e ingiusto perché si umilia la spesa buona e si premia quella cattiva. Come procedere? Faccio due esempi, in sanità e giustizia, di come si possa tagliare, anche con la scure, migliorando la qualità del servizio.

Noi non abbiamo un servizio sanitario nazionale, ma tanti servizi sanitari regionali, dove il controllore e il controllato quasi sempre coincidono. Trattiamo i medici come funzionari e non come professionisti. Pensiamo che la spesa sia funzione delle (presunte) malattie e non dei risultati. Abbiamo un numero spropositato di ospedali, in diversi dei quali i dipendenti sono più numerosi dei malati. Tagliare: pochi grandi ospedali e tanti pronto soccorso. Si obietta: così si potrebbe dover prendere il treno per andare a trovare il congiunto. Vero, ma sempre meglio che prendere l’autobus per il funerale. Tagliare: gli acquisti devono essere centralizzati, finendola con lo scandalo di materiale che cambia prezzo a secondo di chi paga. Tagliare: i medici siano pagati a prestazione, come quando c’erano le mutue.

Discorso analogo per la giustizia: abbiamo troppi tribunali. Tagliare: i grandi tribunali funzionano in modo più produttivo ed evitano l’insorgere di continue incompatibilità. Tagliare: la digitalizzazione della giustizia c’è già costata due occhi della testa, ma i risultati sono miseri, perché la spesa è stata fatta in modo scoordinato e dissennato, quindi: centralizzare. Tagliare anche il personale: abbiamo magistrati al di sopra della media europea, in quanto al personale di cancelleria si usi, dove serve, il personale sovrabbondante di altre amministrazioni pubbliche (ve ne trovo a camionate). Tagliare i costi di gestione: affidandoli a manager che ne rispondano, il cui reddito sia funzione del risultato, e non a magistrati inadatti, a loro volta prigionieri d’amministratori irresponsabili.

Sapete chi protesterà? Qualche sindacato di mantenuti e conniventi, i sindaci dei comuni che perderanno l’ospedale e il tribunale, accompagnati dai parlamentari locali, il presidente dell’ordine dei medici e quello degli avvocati. Sapete chi ci guadagnerà? Tutti gli altri. Allora, secondo voi, chi vince? Il guaio è che le minoranze di blocco hanno due potentissimi alleati: l’ignoranza e l’incapacità di far cambiare le cose.

Su tutto questo danzava e ora si trascina una classe politica ottusa, che non comprende il nesso fra riforme e risparmi, fra cambiamento e miglioramento, sicché s’acconcia a ripetere le stesse identiche cose che sentivo quando il telegiornale era in bianco e nero. Con l’aggravante che se ne vanno solo se incappano nella malasanità, mentre hanno imparato a resistere alla malagiustizia.

venerdì 4 marzo 2011

L'Africa e la democrazia. Ida Magli

L’Occidente è incerto su quali iniziative prendere nei confronti del terremoto che ha investito i paesi del Nord Africa. Un’incertezza giustificata dal fatto che, forse per la prima volta, non siamo sicuri che il nostro sistema di vita, i nostri valori, la nostra forma di organizzazione sociale e politica, insomma la “democrazia”, sia la ricetta adatta per risolvere tutti i mali. Nessuno si arrischia, naturalmente, a dirlo con parole chiare: da troppo tempo siamo abituati a considerare il governo democratico come l’unico degno di una società civile e ad affidare a questa convinzione ogni nostra azione anche all’estero. Ma l’Africa di oggi si presenta con caratteristiche che sappiamo di non poter affrontare con le sicurezze psicologiche e culturali del passato, mentre sembra tuttavia costringerci, proprio a causa del passato, a non abbandonarla ad un totale “fai da te”.

I motivi per i quali non ci si può affidare ai poteri taumaturgici della democrazia sono abbastanza evidenti. L’itinerario che noi abbiamo percorso è stato molto lungo ed è impossibile far “saltare” ai popoli secoli di storia religiosa, culturale, sociale, politica. Non si tratta, infatti, di imparare ad usare uno strumento, passare dal cammello all’automobile. E’ sufficiente riflettere al fatto che “democrazia” significa “uguaglianza”, consapevolezza che ogni individuo è “soggetto”, libero e padrone di sé stesso, per comprendere che questa pre-condizione della democrazia non esiste in quasi nessun paese africano. Il motivo è evidente. Nell’islamismo le donne non sono soggetto alla pari con gli uomini. Lo afferma il Corano laddove recita che “Gli uomini hanno su di esse un grado di superiorità” (II, 228). Ma è tutta la struttura sociale che rispecchia la preminenza degli uomini, la rigida divisione puro-impuro che colloca le donne nell’impurità e affida loro il lavoro della terra che a sua volta è “femmina” e quindi impura. Oltre a considerarsi esse stesse inferiori, le donne sono nella maggior parte di questi paesi, Egitto e Somalia soprattutto, condannate all’infibulazione, operazione che comporta, a parte tutte le malattie croniche dell’apparato urogenitale, gravi patologie psichiche, instabilità e depressione, che riducono di molto la loro capacità intellettuale, la coscienza di sé.

Non sono tuttavia soltanto questi dati oggettivi a rendere molto incerta la speranza che si instaurino nel Nord Africa governi democratici. Dobbiamo tenere conto dello stato di scarsa aggressività, di disinteresse per la procreazione, di atteggiamento remissivo che hanno adottato i maschi europei (senza soffermarci qui ad analizzarne le cause), che ha reso e rende quanto mai agevole, contentandoli con qualche sciopero e qualche corteo, governarli “democraticamente”. Cosa questa che ci fa forse giudicare in modo troppo positivo la democrazia, attribuendole meriti che probabilmente non possiede. Il fatto è che lo stato psicologico dei maschi europei non ha nessun riscontro con l’atteggiamento dei maschi africani. Dobbiamo stare attenti a non scambiare con forme di passività psicologica la loro inerzia nell’organizzarsi nel proprio paese per sottrarsi alla povertà, un’inerzia che pure appare assurda ai nostri occhi dato che vivono in luoghi ricchissimi che basterebbe sfruttare adeguatamente per sovvenire ad ogni bisogno. Fuggono dalla propria terra perché sono abbacinati dalla ricchezza, dallo spreco, dalla sfrenatezza dei piaceri che contraddistinguono la vicina Europa. Ma le passioni che li agitano sono fortissime; il musulmanesimo stesso è una passione. Bisognerà dunque riflettere molto prima di decidere se agire e in che modo agire. (ItalianiLiberi)

mercoledì 2 marzo 2011

Comunicato stampa. La libertà di stampa in Italia: cassata dai magistrati. Legno storto

Scritto da Redazione
giovedì 27 gennaio 2011

La graduatoria della libertà di stampa nel mondo, redatta da Reporters Sans Frontieres, ha rivelato che l'Italia nel 2009 si è classificata al 49° posto su 175 Paesi. Nel 2008 era al 44° e nel 2007 era al 35°. Secondo gli analisti dell'organizzazione internazionale francese i motivi sono principalmente due: la mafia e il conflitto di interessi del premier Silvio Berlusconi.

Non è affatto così. Un esempio lampante e attuale è Legno Storto ,la nostra libera testata giornalistica basata sul volontariato, che essendo vicina alle idee liberali e liberiste del premier Silvio Berlusconi, rischia di essere chiusa grazie al magistrato dr.Piercamillo Davigo che ci accusa di averlo diffamato chiedendo 100.000 Euro di risarcimento.

La guerra tra i pm e Berlusconi è ormai alle battute finali con lo sputtanamento a puntate, come dice oggi Belpietro su Libero, sia del Cav. che di quelli, come noi, che sostengono la sua linea politica e il suo "modus operandi".

Siamo fermamente convinti,anche alla luce della grave situazione economica e sociale internazionale (vedi Tunisia, Egitto,etc) che sia solo Berlusconi, con tutte le debolezze umane che possa avere, il politico che può salvare il nostro Paese dal baratro economico che ci attende nei prossimi anni.

Berlusconi, il "self made man" che lavora 20 ore al giorno, a differenza di tanti inutili politici, che ha puntato sul nuovo come la televisione, il massiccio intervento delle donne, in alcuni casi, vedi Carfagna, lodate anche dall'opposizione al governo, va eliminato fisicamente (lui e tutto ciò che gli sta vicino, tipo LS ) perché rappresenta, secondo la sinistra nemica della crescita, l'esempio da non seguire.

Ieri abbiamo pubblicato un articolo di elogio di Diego della Valle che, pur essendo lontano dalle nostre idee politiche, con 25 milioni di Euro salverà il Colosseo.

Rivolgiamo pertanto un pubblico appello a tutti coloro che, come noi, ritengono la libertà un bene supremo della democrazia al quale non si può rinunciare, affinché LS possa continuare la sua attività di libera informazione e commento della vita politica italiana.

Ora, o mai più, LS va sostenuto economicamente per evitare che una voce libera del web venga cassata brutalmente dallo strapotere irresponsabile di parte della magistratura italiana.

Chiediamo pertanto ai nostri affezionati lettori:

a- diffondere il più possibile la notizia

b- sostenere LS economicamente, ciascuno per le proprie possibilità, affinché non si finisca travolti dall'arroganza e dal potere "irresponsabile" di certa magistratura italiana.

Grazie in anticipo

Il Legno Storto