martedì 30 aprile 2013

Lunardi, l'ingegnere dimenticato. Vittorio Feltri

«Scusi ingegner Pietro Lunardi! Scusi proprio!». Questo bigliettino dovrebbe sottoscriverlo non dico il popolo italiano, che oggi non è di buon umore e sbranerebbe chiunque sia stato ministro della Repubblica, ma almeno il gruppazzo dei giornalisti autori della pubblica impiccagione della reputazione di Lunardi. Non vedendo nessuna possibilità di assistere in vita ad un simile episodio, lo faccio io.
Scusi, ingegnere.
Lunardi fu messo sotto accusa per una palazzina acquistata dal Vaticano. L'avrebbe pagata troppo poco, e lo sconto sarebbe stato il premio delittuoso di una buona parola per indirizzare finanziamenti così da sistemare un museo vaticano. Coimputato il cardinale Sepe. Ho subito pensato: impossibile. A parte l'onestà dell'uomo, da me sperimentata nel momento della prova più dura, so per diretta esperienza come i preti siano capaci di tutto, ma sugli immobili non farebbero sconti neanche se si presentasse la Sacra Famiglia la vigilia di Natale. Poi, quella notizia me la sono scordata e ho creduto nella solita lentezza della giustizia. E siccome la vita è complicata, non ho più avuto occasione di frequentare l'ingegnere per domandargliene conto.
Sapete com'è finita la vicenda? Archiviata, archiviatissima. Una bolla di sapone. Non coincidono date, non è vero che il prezzo era incongruo. Sarò anche stato distratto, ma non ricordo un trafiletto che sancisse l'innocenza del nostro. L'ho appreso poche ore fa. Mi ero a dire il vero chiesto, nei mesi scorsi, perché Lunardi, un ministro eccellente tra il 2001 e il 2006, non si fosse ripresentato in politica. Aveva fatto ripartire i cantieri con la famosa legge obiettivo, in seguito aveva imposto ad un'Italia indisciplinata la patente a punti, salvando centinaia di vite. Risposte generiche dagli addetti ai lavori, allusioni al fatto di cui sopra. Ci ho creduto, altrimenti almeno gli uomini del suo partito - ho pensato - l'avrebbero trattenuto. Invece no. Innocente eppure sacrificato. Perché? Chi conosce un po' la vita, anche senza aver fatto il militare a Cuneo, sa cosa accade quando uno è bravo, troppo bravo, e non ha leve di potere per cacciar via i lupi. Comincia per «i». Traduco: invidia.
Ho telefonato a Lunardi, per domandargli del suo destino e se mai gli avessero domandato la disponibilità per un ministero, visto che a suo tempo ero stato io a proporre una campagna di stampa per imporlo (con successo e con soddisfazione, grazie all'intelligenza di Berlinguer). Ci siamo visti nel suo ufficio di Milano, sede della Rocksoil, dalle parti di piazza San Marco. Prima di descrivere che cosa ci ho visto dentro, qualcosa di splendido, Lunardi mi ha messo in mano le carte giudiziarie, il cui sunto ho proposto poco sopra. Zero al cubo. Mi fermo qui sul versante della carta bollata.
Ho trovato Lunardi in forma splendida. Ha già il plastico di progetti fantasmagorici. Della politica, anzi dei politici, mi dice: «Ho conosciuto gente splendida, Berlusconi è unico. Ma su tanti altri mi viene da dire: quanta incompetenza. Non potevo far massa con quella gente lì. Ora sto da dio». Non fa nomi, è un signore. Posso dire che a me viene un po' di magone? Perché sbattiamo fuori i migliori dall'arena pubblica? Tra poco ci sarà il centenario di Machiavelli, avrei voluto che questo Ingegnere fosse un po' più machiavellico, e io sarei tranquillo, con tanti asini fatti fuori e un cavallo di razza, un Varenne, a correre con i nostri colori.
Molte cose che ci siamo dette sono fatti nostri. Ma altre le voglio riferire, perché utili. Egli ritiene necessario insistere sulle grandi opere, fattore di trascinamento di tutta l'economia, infrastrutture insostituibili per dare sostegno alla competitività del Paese e anche simboli di una certa grandezza positiva.
Per questo è pro-Tav, con convinzione. A differenza mia è anche un fervente sostenitore del Ponte di Messina, e ce l'ha con Monti e Passera che l'hanno bloccato. Sostiene sarebbe tranquillamente finanziato dai privati, ad esempio il Qatar, e consentirebbe a sei milioni di persone di non essere isolate (che non a caso viene da isola).
Non posso dire che cosa ha sul tavolo, mi vincola alla riservatezza. Posso dire che è un progetto meraviglioso e riguarda i mondiali di calcio del 2018. Qualcosa di assolutamente geniale, nel deserto, un deserto trasformato. Ma basta così. Vedo ovunque, sparsi sugli scaffali, volumoni suoi in varie lingue. Anche in cinese, dove è ritenuto il non plus ultra in fatto di tunnel, e lo chiamano nelle università con gli onori di un Nobel. Mi faccio confessare l'ultima: ha in ballo lo studio di una galleria che attraverserà le Ande, per un collegamento ferroviario tra Buenos Aires e Santiago del Cile, e l'idea è di sfruttare - d'intesa con il Nobel Carlo Rubbia - questa perforazione per piazzare sotto la Cordigliera un immenso laboratorio sul modello di quelli del Gran Sasso. Ne manca uno infatti di questo tipo nell'emisfero sud.
Ma ero qui nello studio per altro. Per un dovere di giustizia e per il piacere dell'amicizia. L'amicizia nata dal cozzare di due teste dure e arciconvinte ciascuna di aver ragione. Aveva ragione lui, e salvò migliaia di vite, e permise il ritorno della vita in una regione. Parlo dell'alluvione della Valtellina, 1987. In un Paese appena appena più capace di gratitudine e meno invidioso, lo si innalzerebbe più su di un Nobel. Avrebbe già delle strade e delle piazze dedicate in vita, sarebbe stato collocato come una gloria sullo scranno di senatore perenne.
Ormai ci sono e per togliervi la curiosità racconto l'antefatto.
Ho conosciuto Lunardi quando, tranne gli scienziati, nessuno sapeva chi fosse. Siccome non sono uno scienziato, appartenevo al gregge di chi belava paura e incertezza. Era il 1987. Non erano belle circostanze. C'era stata, dopo l'alluvione, la frana che aveva causato molti morti in Val Pola, tra Bormio e Grosio, lungo l'Adda. Sull'alto versante montuoso della Val Pola, che si stende ai piedi del monte Zandila, martedì 28 luglio, alle 7.23, venne giù, con un fragore somigliante a uno schiocco di frusta, un intero pezzo del monte Zandila: in mezzo minuto, 40 milioni di metri cubi di terra, roccia, sassi riempirono il fondovalle, si incastrarono, in basso, nella strozzatura della valle. Morirono 7 operai al lavoro per ripristinare la statale 38 dello Stelvio e 28 abitanti di Aquilone (non fu travolta dalla frana ma divelta dallo spostamento d'aria).
Il Corriere della Sera mi spedì da quelle parti come inviato e come coordinatore di parecchi cronisti. Non bastavano i morti di quel giorno e dei giorni precedenti. Incombeva il peggio. Si era formata una barriera naturale che bloccava il deflusso delle acque dell'Adda. Una parete di 50 metri: insieme solida ma instabile. Il rischio assai prossimo era che la pressione del sinistro lago artificiale sfondasse la diga. Che fare? Continuavano a scatenarsi temporali, il livello delle acque cresceva di 20 centimetri ogni ora. La prospettiva era di un'ondata di violenza spaventosa, capace di distruggere ogni località del fondovalle, fino a Sondrio e oltre.
L'ingegner Lunardi (chi è questo qua?) prende su di sé la responsabilità: la tracimazione controllata. Ci litigai. Non mi convinceva. Com'era possibile che per svuotare un vaso colmo di liquido se ne dovesse aggiungere dell'altro? Non me ne capacitavo. Be', ebbe ragione lui. Domenica 30 agosto 1987 la Valtellina cominciò a tornare se stessa, l'Adda fu di nuovo quel fiume vivace e buono dei Promessi sposi. E l'ingegner Lunardi per me diventò l'Ingegnere. Ingegnere nel senso più completo e umano del termine. Mi spiego. Di solito si pensa all'ingegnere come a una persona seria, la quale fonda le sue scelte sulle certezze della fisica e della matematica. Giusto, e nell'età delle chiacchiere e dei sentimentalismi, dei valori proclamati ma mai misurati, è un complimento da incartare e portare a casa. Nel caso di Lunardi e del suo modo di vivere, intendere in questi termini l'identità ingegneristica è però totalmente riduttivo. Lunardi infatti è uno che installa sui numeri e sulle certezze della scienza la fantasia e la creatività capaci di salvare la vita a tanti. La Valtellina sta lì a provarlo.
Ingegnere - non ci vuole molto sforzo a capirlo - viene da ingegno, da genio. Se un uomo è tale lo si capisce solo nel momento della prova. La Valtellina fu quella prova. Star lì, scegliere, mettere la faccia e la firma quando uno potrebbe fuggire, dedicarsi a disegni avveniristici di immensi ponti.
Anni dopo, rividi Lunardi. Pensavo di dover sopportare qualche sua battuta ironica sulla mia insipienza. Ammise invece che potevo aver ragione, ma bisognava decidere, e lui scelse, mettendo sul piatto la propria testa. Dopo anni in cui avevo smesso di frequentarlo lo ritrovo intatto nel suo coraggio. Bastonato dagli attacchi pretestuosi, ma l'anima e il cervello sono rimasti vigorosi.
Uno così lo si vorrebbe sempre nei posti dove si decide il destino di molta gente. Per questo mi battei perché fosse scelto da Berlusconi come ministro delle Infrastrutture. Pietro Lunardi per me è il prototipo dell'Ingegnere. L'Ingegnere Perfetto. Uno cui darei in mano non solo le chiavi di casa e dell'auto, ma quelle del Vesuvio, se i vulcani avessero le chiavi e io ci abitassi vicino. Mi dà sicurezza. Ora gli ho chiesto scusa a nome di tutti, anche di chi non sa neanche chi sia. Lunardi sì che è una riserva (d'ingegno) della Repubblica. (il Giornale)

lunedì 29 aprile 2013

Estetica governativa. Davide Giacalone

Non si giudica la formazione di un governo usando i canonici dell’estetica, ma della politica. Si può continuare a parlare di giovani e di donne, come se si trattasse del galateo circa il posizionamento dei commensali a tavola, così come ci si può trastullare nel vuoto del cambiamento e del rinnovamento, ma poi le chiacchiere stanno a zero e la sostanza prevale. Siamo immersi in un’area monetaria che si ostina a penalizzare i nostri interessi, abbiamo la sola forza delle piccole e medie aziende che esportano e continuiamo a svantaggiarle con il credito che manca, abbiamo contribuenti cui continuiamo a raccontare la favola degli sgravi avviandoli, però, verso due portentosi aumenti di pressione fiscale. Cosucce da affrontare, ma che vengono posposte al grande gioco del piccolo governante.

Il governo Letta è politico, o non è. Il Partito democratico ha fatto di tutto per evitare che vi prendessero parte uomini di peso. Un nome per tutti: Massimo D’Alema. Il ragionamento è: il governo non ci piace; Enrico Letta andava bene a fare il vice segretario senza poteri, non certo il capo del governo; l’alleanza con Berlusconi ci ripugna; quindi teniamo fuori le bandiere e spartiamoci le poltrone fra la terza e la quarta fila. Perché, lo si tenga presente, gli intransigenti de sinistra sono attivissimi nel tentativo di piazzarsi. Tale ragionamento non va considerato sull’inutilissimo piano moralistico, ma considerando il suo clamoroso errore politico: se accedi a una alleanza scomoda hai interesse che duri e porti a casa dei risultati, così la spieghi e giustifichi, se, invece, disprezzi e compri (o ti fai comprare), va a finire che il governo dipende dall’odiato alleato, cade in fretta e la sinistra ne ricava tutti i danni possibili.

E’ dal 25 febbraio scorso che per tentare di evitare una rottura la sinistra si sta tritando. E il futuro immediato non promette nulla di buono. Ve lo immaginate uno schema in cui Letta siede a Palazzo Chigi e Matteo Renzi prende la guida del partito? Roba da fare una colletta per tutelare i comunisti dall’estinzione. Avevano tutto loro, quelli del vecchio gruppo dirigente del Pci, che è sempre stato il medesimo, con il solo ritiro dei defunti. Per causa di forza maggiore, comunque, altrimenti sarebbero ancora lì. Avevano tutto e non sono stati capaci di niente. La nascita del governo Letta è all’insegna di ciò. Se ne può essere felici? No, perché questo porterà il Pd a rompersi, nel senso di dare forma a quel che è già evidente, e risposterà la fu sinistra democristiana a coprire il ruolo d’estremismo etico. Una corsa al delirio che porta alla caduta del governo.

Mi chiedono: suvvia, ma anche a destra ci saranno divisioni e problemi, no? Accipicchia! In un anno furono capaci di deglutire ed espellere una vittoria elettorale irripetibile. Certo che ne hanno. Ma hanno anche due cose: a. un capo politico, che solo i gonzi credono sia un padrone; b. un generosissimo avversario politico, che lungi dal profittare dai guai di un’area in crisi di leadership futura si producono in eroismi circensi pur di dire: ci sono prima io, sono io quello più in crisi, sono io che non ho un leader, io quello che ha diritto di schiantarsi per primo. In tale situazione, non è difficile capire perché Silvio Berlusconi non lasci passare giorno senza ripetere: andiamo avanti, è un lavoro promettente.

Sarebbe anche divertente, se non fosse che costa e ha stufato. Letta avrebbe dovuto prendere l’incarico e presentarsi con la lista dei ministri il giorno dopo. Avrebbe avuto gli stessi problemi e i medesimi avversari, ma assai più forza. Non avrebbe dovuto fare intervenire nuovamente Giorgio Napolitano, che da lord protettore si trasforma in tutore del minore. Poi, per carità, possiamo anche metterci a contare quante donne e quanti giovani ci si trova. Ecco, se può essere utile, fornisco un parametro: fra i disoccupati sono dominanti.
Pubblicato da Libero

giovedì 25 aprile 2013

Il sospetto universale. Ernesto Galli della Loggia

«L'inciucio!». Molti italiani si stanno ormai abituando a giudicare la politica nell'ottica di quest'unica categoria demonizzante, e quindi a vedere le cose e gli uomini della scena pubblica del loro Paese in una sola luce: quella del sospetto universale.

La prima caratteristica della categoria dell' inciucio , quella che la rende così facilmente utilizzabile, è la sua indeterminatezza. L' inciucio , infatti, come insegnano i suoi denunciatori di professione, si annida dovunque. Potenzialmente esso riguarda tutto e tutti. Può consistere nella sentenza di un tribunale, in un articolo di giornale, nella decisione di qualunque autorità, in una trasmissione televisiva, in tutto. Ma soprattutto è inciucio la trattativa, l'accordo, il compromesso espliciti, così come pure - anzi in special modo! - l'intesa tacita che su una determinata questione si stabilisce per così dire spontaneamente tra gli attori politici di parti diverse. Tanto più che perché di inciucio si possa accusare qualcuno non c'è bisogno di alcuna prova. Per definizione, infatti, l' inciucio si svolge nell'ombra, al riparo da occhi indiscreti. E dunque, paradossalmente, proprio la circostanza che di esso non si abbiano tracce visibili diviene la massima prova della sua esistenza. In questo senso la categoria d' inciucio , nella sua indeterminatezza e nella sua indimostrabilità, costituisce una sorta di versione in tono minore di un'altra ben nota categoria, da decenni ai vertici dei gusti del grande pubblico: la categoria dei «misteri d'Italia» con la connessa tematica del «grande complotto». Ogni vero inciucio , infatti, contiene inevitabilmente un elemento di «mistero», e d'altra parte ogni «mistero» non implica forse chissà quanti inciuci ?

Un ulteriore vantaggio che offre poi l' inciucio in termini polemico-propagandistici è che esso, di nuovo, può sottintendere tutto, il fare ma anche il non fare. Agli occhi dei suoi teorici esso è anzi soprattutto questo: è il non fare, il disertare, l'abbandono della posizione di fronte al nemico. Un aspetto, questo, che indica assai bene quale sia l'idea della democrazia che hanno i denunciatori di professione dell' anti inciucio . È un'idea per così dire bellica della democrazia, radicalmente fondata sul concetto di ostilità. Per non essere l'anticamera dell' inciucio (sempre in agguato!), la democrazia deve essere scontro permanente, continua denuncia dell'avversario e dei suoi disegni, illustrazione delle sue indegnità morali, smascheramento; ogni discorso deve sbugiardare, denudare, indicare al pubblico ludibrio.

La massima virtù civica non è la probità, è l'indignazione. Chi non si adegua, chi invece guarda alla democrazia come a quel sistema che si fonda, sì, sulle «parti» e sulla loro contrapposizione, ma anche, specialmente nei tempi difficili, sulla ricerca dell'accordo, sulla tessitura di compromessi, sulla moderazione di toni, sul riconoscimento dell'opinabilità di tutti i punti di vista (compreso il proprio, naturalmente) e della buona fede altrui, ebbene costui è già un potenziale «inciucista», un «traditore», un «venduto», degno di essere consegnato ai dileggi parasquadristici di cui per esempio sono stati vittime gli onorevoli Franceschini e Fassina nei giorni scorsi. Poiché in una tale ottica la mediazione non è il momento inevitabile di ogni prassi democratica; al contrario: ne diviene la più indegna negazione. Naturalmente ordita con i più torbidi scopi.

Inutile dire quanto abbia aiutato a radicare l'idea e la categoria d' inciucio la scoperta della spartizione, concordata per anni dietro le quinte, a opera dell'intera classe politica, di privilegi e benefici di ogni tipo e misura. Cioè la scoperta della «casta». Una realtà verissima e certo scandalosa: se si può muovere un rimprovero all'uso pubblico della quale, però, è di non avere sottolineato abbastanza che l'intera società borghese italiana è in verità una società di caste. Che la radice del male, dunque, non sta tanto nella politica quanto nella cultura, nella mentalità profonda delle classi dirigenti (e non solo) del Paese. Per cui in Italia tendono a essere una «casta» i giornalisti, i giudici, gli avvocati, gli alti burocrati, i professori, i manager, i funzionari dei gabinetti ministeriali, e così via: in vario modo tutti impegnati accanitamente a sistemare i propri figli possibilmente nello stesso mestiere, a impedire l'accesso ai nuovi venuti, ad accumulare privilegi, retribuzioni, eccezioni di varia natura, auto blu, simboli di status, diarie, cumuli pensionistici, trattamenti speciali, ope legis , e chi più ne ha più ne metta. Viceversa, declinata unilateralmente la categoria di «casta» porta a conseguenze strabilianti. Per esempio a quella di proclamare «un uomo al di fuori della politica» (Beppe Grillo) una persona certo degnissima come Stefano Rodotà, ma che comunque nei suoi ottant'anni è stato deputato dal 1976 al 1994, deputato europeo per un altro periodo, presidente del gruppo parlamentare della Sinistra indipendente, vicepresidente della Camera, ministro nel governo ombra Occhetto, presidente del Pds, e infine presidente di un'Authority, carica notoriamente di strettissima nomina politica. Qual è insomma, viene da chiedersi, il criterio d'inclusione nella «casta»? Forse non essere nelle grazie degli «anticasta»?

Ma il punto decisivo - lo sappiamo benissimo, senza che ce lo ricordino i professionisti dell' anti inciucio - è che nella politica italiana c'è Berlusconi. Vale a dire il bersaglio di un'indignazione obbligatoria - del quale, a dire di costoro, bisogna a ogni occasione chiedere l'ineleggibilità, la revoca dell'immunità, l'incriminazione, e quant'altro - mentre il solo evitare di farlo, non parliamo dell'avere un qualsivoglia rapporto con lui o con la sua parte, significherebbe, sempre e comunque, l' inciucio più vergognoso. Quando si discute di Berlusconi o con Berlusconi, infatti, se non si vuole passare per collusi il sistema è semplice: ogni sede pubblica deve divenire l'anticamera di una Corte d'assise. Il fatto che da vent'anni egli abbia un seguito di parecchi milioni di elettori (spesso la maggioranza) appare ai custodi della democrazia eticista un dettaglio irrilevante. Non già l'espressione di un problema della storia italiana, di suoi nodi antichi che solo l'iniziativa, le risorse e le capacità della politica, se ci sono, possono sciogliere. No: solo un problema di codice penale o poco più. E in ogni caso, male che vada, un'occasione d'oro per lucrare un po' di consenso mettendo sotto accusa chi si trovasse a pensare che le cose, come spesso capita, sono invece un po' più complicate. ( Corriere della Sera)

martedì 23 aprile 2013

Germania declassata. Davide Giacalone

Mentre l’Italia cerca di districarsi dal groviglio istituzionale, e mentre le irragionevoli rigidità imposte da Pierluigi Bersani hanno allungato l’assenza di un governo, nella pienezza delle sue funzioni (e della sua legittimazione democratica), fin oltre l’elezione del presidente della Repubblica, il mondo che ci circonda corre. Incurante della nostra distrazione. Egan-Jones, agenzia di rating minore, ma che è anche la prima ad avere declassato gli Stati Uniti, poi seguita dalle altre, declassa ora la Germania, portandola ad A da A+. Ieri Moody’s ha invece confermato la tripla A ai tedeschi, ma ha aggiunto che l’outlook (la previsione) volge al negativo.

La ragione del declassamento sta proprio nella fragilità delle banche tedesche, a cominciare da Deutche Bank. Egan-Jones svolge un ragionamento che ricalca quello che qui avevamo anticipato: se i numeri rendono necessario un aiuto di Stato, nell’ordine dei 100 miliardi di euro, il debito pubblico tedesco non solo è il più grande, in termini assoluti, ma raggiunge e supera il 100% del pil. A questo si aggiunga che il debito pubblico dei tedeschi, come anche quello dei francesi, è cresciuto, negli ultimi cinque anni, assai più di quello italiano. Quindi non solo abbiamo problemi comuni, ma la nostra condotta è, proprio adottando la dottrina teutonica, più virtuosa della loro.

Ciò non significa che “mal comune mezzo gaudio”, né toglie nulla alle arretratezze strutturali del nostro mercato, che da troppi anni attende riforme che non arrivano, o arrivano smozzicate, significa, però, che un governo degno di questo nome avrebbe il dovere e l’opportunità di toglierci dalla vetrina degli esempi negativi e, anzi, far valere il peso politico dei molti sacrifici già fatti.

A questi dati va aggiunto l’approfondimento fatto dal Fondo Monetario Internazionale sulle nostre banche, che si rivelano patrimonialmente più solide di altre, in giro per l’Europa. Ancora una volta: non significa che stiamo bene, ma che non siamo malati infetti da tenere in isolamento, per evitare il contagio, ma, semmai, che la severità imposta dalla Banca d’Italia dovrebbe essere un modello per gli altri.

Il fatto è che tutti gli altri hanno sistemi istituzionali senza posti vacanti e governi pienamente insediati. Il tempo fin qui devastato è un costo che imponiamo al nostro sistema produttivo. Uno svantaggio competitivo che non intacca la parte improduttiva della spesa pubblica, ma azzoppa l’Italia che corre e che ancora porta a casa risultati ragguardevoli, in giro per il mondo. Ci siamo fatti del male da soli, insomma, anche consentendo che ci venissero affibbiate colpe che non abbiamo e messi in conto penalità che non meritiamo. Chi crede che il problema sia solo estetico guardi a questi scenari, più che convincenti per risolversi a farla finita. Tornando ad occuparci di cose che non siano il retrocucina della politica politicante.

Pubblicato da Libero

sabato 20 aprile 2013

L'errore e l'orrore. Davide Giacalone

La candidatura di Romano Prodi è stata segno della disperazione a sinistra, della resa del Pd ai fantasmi del proprio passato, del tentativo di evitare la spaccatura (che non sarà evitata) accettando la scomparsa del disegno politico. Ma è anche una candidatura che segnala un errore di Matteo Renzi e un orrore di Beppe Grillo.

Seguo il gran rottamatore fin dall’epoca della prima Leopolda, con simpatia. In tanti gli riconoscono il fascino della comunicativa e la voglia di rinnovamento. Trovai più interessanti i contenuti. L’Italia avrebbe molto da guadagnare, ove la sinistra fosse incarnata non da residuati fossili di un’ideologia sconfitta dalla storia, ma da gente più attenta alla concretezza e alla quotidianità. Posto ciò, cosa ci fa Renzi appresso a Prodi? I maligni possono rispondere: fatali attrazioni fra due ex democristiani. Non sono maligno. Ma il prodismo, con le sue rimembranze di Ulivo e Unione, è il contrario del renzismo. Ne è la negazione.

Con che credibilità Renzi può reclamare il ritiro della vecchia classe dirigente, se poi diventa alfiere del sua più eccelsa incarnazione? Si può obiettare che la presidenza della Repubblica, per sua natura e per Costituzione, non è una serra per germogli, semmai un bosco per alberi secolari. Vero, ma con Prodi siamo in piena apologia della quercia. Albero a cui la sinistra s’impiccò di già. E poi, scusi, perché Franco Marini sarebbe un dispetto agli italiani e Prodi un favore? Sono figli della medesima cultura consociativa, entrambe espressione della spesa pubblica quale collante sociale. Insomma, anche senza scomodare il fantasma di La Pira (frequentato da Prodi), la scelta di Renzi sembra tanto politicista, tutta proiettata all’interno del Pd. Sicché la considero un errore. Un punto d’incoerenza. E la buona politica soffre l’incoerenza più d’altri vizi.

Sul fronte ortottero neanche lo pongo, il problema della coerenza. Non è cosa. Ma non basta l’opacità digitale per dare contezza di un visibile paradosso: il popolo frinente, i militanti del vaffaday, i detestatori d’ogni castismo, si sarebbero connessi e, spontaneamente, dovendo indicare dei nomi per il Colle, saltò loro l’uzzolo di votare per Stefano Rodotà e Prodi? E’ un’ipotesi che fa ridere assai più del bravissimo Grillo, nella sua precedente vita professionale.

Quei due hanno un lungo e medagliato cursus honorum nei palazzi della politica, dei partiti e degli incarichi parapolitici. Né si vede perché le pensioni di Giuliano Amato siano uno scandalo e quelle di questi due attempati giovanotti dei giusti tributi al loro valore. Comunque la si giri non ha senso. O, meglio, ne ha uno del tutto diverso: Casaleggio&Grillo, artefici mirabili di un fenomeno che resterà nei libri di storia (non scherzo), hanno piazzato quei due nomi per dinamitare il Partito democratico. La cosa sensazionale è che ci sono riusciti, perché quel partito è oramai un ammasso di pulsioni inconciliabili e di politiche evanescenti. I vecchi non sanno più come difendere il loro passato e i giovani si sono formati alla retorica nuovista che ha fin qui impedito ogni novità.

Avere messo Prodi fra i presidenziabili è servito per offrirgli una sponda preziosa, senza la quale non sarebbe riemerso dalla duplice distruzione delle vittorie elettorali dilapidate. E se oggi non votano Prodi, se non lo fanno da subito, è solo perché (giustamente, dal loro punto di vista) vogliono rimarcare i propri meriti e far pesare il loro patronaggio. Avere fra i rivoltosi del “siete circondati” l’ex presidente del partito assediato e l’ex capo della coalizione da dissanguare è un formidabile grimaldello per chiudere definitivamente la storia di quell’area politica. Disegno cui gli assediati collaborano, senza neanche farsi ingannare da un cavallo di legno, ma invocando l’ingresso di chi, per espugnarli, si rivolse loro e da loro ottenne viatico.

Rodotà è un politico per caso, e per vanità. Ma Prodi è un professionista astuto e vendicativo. E’ escluso che si ritrovi fra quei dieci nomi (nove, scusate, perché quel furbacchione di Grillo si ritirò) senza avere prima trattato tale posizionamento.

Ecco perché quello dei rottamatori è un errore, ma quello pentastelluto è un orrore.
Pubblicato da Il Tempo

martedì 16 aprile 2013

Cultura a destra? Viva e vegeta nonostante il Pdl. Alessandro Gnocchi

Il Popolo della libertà vuole ripartire dalle idee. Giustissimo: le ha trascurate troppo a lungo..

 
Sul Giornale, nei giorni scorsi, esponenti di spicco del Popolo della libertà quali Fabrizio Cicchitto e Mariastella Gelmini hanno avviato una discussione interessante: il centrodestra, per ripartire, avrebbe bisogno di una iniezione di cultura. È un auspicio tanto giusto quanto sorprendente perché il partito non ha dato l'impressione, nell'azione politica degli ultimi anni, di fare tesoro delle energie sprigionate da aree culturali non riconducibili alla sinistra. Senza troppi giri di parole: la cultura di destra, dal 1994 a oggi, ha offerto tanto ma i politici di destra, con le dovute eccezioni, non parevano sempre interessati. Nella gestione della Rai, dei ministeri chiave in campo culturale, delle istituzioni cittadine, s'è visto assai poco ispirato alla «cultura di destra». Spesso le buone intenzioni di partenza sono rimaste lettera morta, in questa sede non conta dire perché. Anche gli intellettuali sbarcati a Roma, dal compianto Piero Melograni a Marcello Pera, non sembrano nel complesso aver ricoperto un ruolo decisivo.

Liberali, cattolici, post-missini: fuori dal Parlamento c'è una enorme concentrazione di forze con proposte forti ma chi le sta a sentire? Sono senza interlocutori politici al punto che c'è gente (di destra) che sostiene che tutto sommato, quando c'è qualche progetto concreto in ballo, sia meglio cercarsi interlocutori istituzionali di sinistra. Almeno c'è qualcuno con cui parlare anche se poi ti dirà di «no». Dall'altra parte, la nostra, invece ti attende il nulla.
Il Pdl avrebbe un bacino inesauribile di idee a cui attingere, se lo volesse. Salvo rare eccezioni, nessuna delle persone che qui saranno nominate è etichettabile come «di partito»; qualcuna non si definisce neppure di centrodestra; tutte attribuiscono un valore fondamentale alla propria autonomia. Non vogliamo certo arruolare nessuno. Vogliamo piuttosto segnalare intellettuali accomunati da un lavoro serio che va in una direzione diversa (se non propria opposta) rispetto alla sinistra. Intellettuali che quindi dovrebbero «interessare» al Popolo della libertà all'improvviso affamato di cultura.

L'Istituto Bruno Leoni è un punto di riferimento imprescindibile per chiunque, sia pure con sfumature diverse, appartenga all'universo liberale e libertario. Produce paper, convegni, corsi di studio, libri e seminari. Dalla cultura, all'economia, passando per l'ambiente e l'urbanistica: non c'è settore che sia scoperto. Nel suo organico ci sono fuoriclasse come Carlo Lottieri, Alberto Mingardi, Carlo Stagnaro, Filippo Cavazzoni, Serena Sileoni. Il «padre spirituale», oltre a Leoni, è Sergio Ricossa.

Dopo decenni di silenzio, ora vi sono due editori coraggiosi che hanno portato i classici del liberalismo austriaco e non solo dalle nostre parti: Liberilibri di Aldo Canovari e Rubbettino di Florindo Rubbettino sono colonne portanti della cultura liberale italiana. A cui di recente si è aggiunta, con titoli inattesi e fortissimi, la Marsilio di Cesare De Michelis. Il «giro» di autori, collaboratori, curatori, prefatori di questi «piccoli» (in realtà grandissimi) editori è di per sé una mappa del pensiero storico-filosofico non dogmatico: Giuseppe Bedeschi, Lorenzo Infantino, Raimondo Cubeddu, Dario Antiseri, Luigi Marco Bassani, Eugenio Di Rienzo, Giovanni Orsina, Fabio Grassi Orsini, Alessandro Orsini... Un po' più a destra, l'editore Bietti propone una delle migliori riviste italiane, Antarès, fucina di talenti coltivati da Gianfranco De Turris, ove si può leggere di letteratura, economia, polemiche culturali fuori dagli schemi.

Le associazioni cattoliche sono sempre state ben organizzate: svolgono un lavoro incredibile sull'istruzione paritaria dal punto di vista legale, divulgativo, economico, culturale offrendo una mole di dati impressionante e proposte concretissime per incentivare la libertà di scelta delle famiglie. Che dire poi di editorialisti e scrittori come Antonio Socci, Camillo Langone, Luca Doninelli, Davide Rondoni, Luca Negri e tutte le altre penne affilate che guardano alla Chiesa come punto di riferimento; del gruppo combattivo che fa capo a Riccardo Cascioli e al rinato quotidiano on line La bussola; del lavoro sempre coerente di editori come Lindau, Cantagalli, San Paolo, Ares?

Quotidiani. Il Foglio di Giuliano Ferrara è nato per offrire un solido retroterra culturale al neonato centrodestra, e ha fatto un lavoro esemplare. Ha fatto conoscere i valori di un partito liberale di massa, ha dialogato col mondo cattolico, ha lanciato talenti in grande numero, ha valorizzato e fatto esplodere geniacci inclassificabili come Pietrangelo Buttafuoco. Del Giornale non tocca a me dire. Però voglio ricordare chi combatte o ha combattuto, di recente e con posizioni variegate, la sua battaglia culturale sulle nostre colonne: Luca Beatrice, Beatrice Buscaroli, Giampietro Berti, Roberto Chiarini, Dino Cofrancesco, Francesco Forte, Giordano Bruno Guerri, Giorgio Israel, Luca Nannipieri, Fiamma Nirenstein, Massimiliano Parente, Francesco Perfetti, Claudio Risé, Vittorio Sgarbi, Stenio Solinas, Marcello Veneziani, Stefano Zecchi.

Internet? Social Network? Il mondo dei blogger «di destra» è da sempre all'avanguardia grazie a pionieri come Andrea Mancia fondatore, fra le altre cose, di Tocqueville.it. Mancia, Bressan, Missiroli e altri hanno saputo aggregare nella rete le forze conservatrici-liberali, prima della sinistra, ricavandone una miniera di sapere sul web.

Questo elenco è parzialissimo, chiedo scusa ai moltissimi che nell'impeto ho certamente dimenticato e ai tanti «cani sciolti» che dell'assoluto individualismo hanno fatto una religione. D'altronde non serve un elenco completo: questo è solo un piccolo esempio di cosa si agita fuori dai palazzi romani. La cultura c'è. Il partito può dire altrettanto? (il Giornale)

domenica 14 aprile 2013

Accordo o voto

Caro Mauro,
"Lo ripeto ancora una volta, in modo che nessuno possa fingere di non aver capito: le strade sono due. O accettate di dialogare con noi, di scegliere con noi il Capo dello Stato e di formare con noi il nuovo governo, oppure l’interesse del Paese e la gravità della situazione esigono che si torni subito al voto.
E bisogna farlo già a giugno, senza perdite di tempo che ci porterebbero all’autunno prossimo, o alla primavera 2014, o a chissà quando.
Il Paese, le imprese, le famiglie non possono più aspettare.".

Questo il passaggio saliente del mio discorso di Bari, che puoi leggere e commentare qui: https://www.forzasilvio.it/news/4221
Non riusciranno a toglierci la nostra positività, la nostra carica, la nostra passione, la nostra voglia di credere nel futuro, e soprattutto le nostre idee e le nostre proposte per cambiare in meglio il Paese che amiamo.

Ancora grazie per essere in forzasilvio.it.
Vi voglio bene, e anche voi continuate a volermi bene!
Viva l’Italia, Forza Italia, Viva il Popolo della Libertà!


Silvio Berlusconi

venerdì 12 aprile 2013

Chi assolve i carnefici e chi dimentica la vittima. Vittorio Sgarbi

 
Massimo Gramellini è discontinuo. Assolve i vituperati teppisti della Zanzara, il duo Cruciani-Parenzo, in nome della «sostanza». Non conta il come, ma quello che ha detto Valerio Onida.
La buona fede carpita con l'inganno non annulla le verità spontaneamente espresse. Togliamo le domande della finta Hack, restano i pensieri liberi e spontanei del «saggio».

Gramellini si occupa anche del caso Ruby; e qui si irrigidisce. Ruby deve essere per forza un burattino, manovrata dal suo carnefice. Eppure anche qua qualcosa non funziona. Nei tanti casi di pedofilia che riguardano la Chiesa, o nella vicenda locale di Don Gelmini, le vittime hanno denunciato, hanno chiesto risarcimenti, si sono manifestate come «parte lesa». Qui assistiamo alla situazione contraria, e - va ripetuto - Ruby rivendica di non essere una prostituta (punto significativo: non è in discussione e non è reato il libero rapporto di una ragazza minorenne con un uomo, è reato la prostituzione minorile), e non lamenta in nessun modo di essere parte lesa. Perché, a te, Gramellini, Ruby appare «parte lesa»? Dove e quando? Dunque, lo Stato, attraverso la Procura di Milano, apre un lungo e costoso processo nei confronti dello Stato rappresentato dal presidente del Consiglio, senza alcuna denuncia né della vittima né dei suoi familiari. E siamo arrivati al punto in cui Ruby, sputtanata, ma diventata famosa, esattamente come desiderava, una denuncia la fa. E mi pare credibile: «L'atteggiamento apparentemente amichevole dei magistrati si è trasformato in una tortura psicologica. Mi sento vittima di uno stile investigativo fatto di promesse non mantenute e domande incessanti sulla mia intimità». Mi pare credibile. Perché dovrebbe averlo scritto l'«Ufficio Sceneggiature, al lavoro in un salotto di Arcore oppresso dai quadri con la targhetta del prezzo infilata nella cornice»?

Tu, Gramellini, penserai di fare lo spiritoso, ma io i quadri di Berlusconi li conosco e non ho visto né pretese di nomi con attribuzioni fantasiose né targhette di prezzi. Però è così: Berlusconi deve essere maiale e burino. Io invece, serenamente, mi chiedo, dopo un così lungo e inutile processo, come sia possibile vedere non Ruby che protesta sulle scale del palazzo di Giustizia, ma in attesa dentro un'aula dove nessuno vuole interrogarla. Florida, continuando a non lamentare la sua condizione di «parte lesa», si chiede: «Trovo sconcertante e ingiusto che un giudice non voglia ascoltarmi». A te, Gramellini, pare un processo serio? Vedi reati gravi contro una persona e contro la società? Non ti risulta che l'attività sessuale di donne e uomini inizi prima dei diciotto anni? E che qualche ragazza sia, per così dire, «interessata»? Questa a me pare la sostanza. Le ragioni del processo non le vedo. Ma, anche non volendo aprire un'altra polemica, la giustizia in Italia vuole Corona in galera e pentiti, che hanno ucciso decine di persone, liberi. Ti sembrerà strano, ma io ho la certezza che abbia fatto più danni a Ruby la Boccassini che Berlusconi. E penso che una donna libera ha diritto, anche per interesse, di fare l'amore con chi vuole, senza essere considerata una prostituta. Semplice, no? È molto frequente. Senza il seguito di processi. A me tutto fu chiaro subito, quando a Berlusconi, che la ricordò come «parente di Mubarak», Ruby rispose: «Per me Silvio è come la Caritas». (il Giornale)

mercoledì 10 aprile 2013

I poveri ricchi di sinistra che si fingono francescani. Paolo Bracalini

Siedono da sempre nei salotti buoni e nei Cda di banche e Fondazioni. Da Colaninno a Bazoli jr, tutti in piazza con il Pd contro la miseria



Mai visti tanti ricchi in piazza per i poveri. Non ci sarà il banchiere piddino Mussari, trattenuto a Siena da pendenze giudiziarie (intanto apprendiamo: 234mila euro di stipendio per tre mesi di lavoro a Mps nel 2012), e neppure la vendoliana Boldrini, che non ha bisogno di toccare con mano la nuova povertà italiana, avendola già scoperta sabato scorso («Non immaginavo questa povertà in Italia») nelle Marche dei pensionati suicidi.
L'ex presidente del Monte dei Paschi di Siena Giuseppe Mussari entra in Procura

Alla testa del corteo francescano del Pd - sabato a Roma - c'è Pier Luigi Bersani, origini umili a Bettola, ma una meritata vecchiaia d'oro grazie a tre pensioni, come gli rinfacciarono i renziani nelle primarie: quella da ex deputato in quattro legislature (6mila euro al mese), quella da ex consigliere regionale in Emilia-Romagna (4.400 euro al mese), più quella da ex funzionario di partito Pci-Ds (e qualche spicciolo di quarta pensione, da ex insegnante). «Molti italiani vivono in situazioni di estremo disagio, le famiglie e le imprese sono in piena emergenza, è il momento di dare risposte all'altezza» si mortifica, nel comunicato sul «corteo anti povertà», il Pd, che fra tre mesi incasserà 50 milioni di euro di finanziamento pubblico. In questo «Pd per i pd (poveri diavoli)» c'è anche Bazoli jr, l'avvocato deputato Alfredo, nipote del banchiere presidente di Intesa San Paolo Giovanni Bazoli, anch'egli storico simpatizzante dell'Ulivo e Pd, da Prodi in poi. L'attenzione alla povertà si mescola ai Cda e alle fondazioni bancarie, dove troviamo appunto, seppur francescanamente, Romano Prodi (Fondazione Cassa di risparmio di Bologna), ma pure l'ex sindaco Pd Sergio Chiamparino (Fondazione Compagnia di San Paolo), a giorni anche il senatore uscente del Pd Antonello Cabras (Banco di Sardegna), il figlio dell'ex ministro Pd Luigi Berlinguer (Banca Antonveneta), e una stirpe di sindaci e amministratori locali col pass nei vertici di Monte dei Paschi. I piedi in banca, ma il cuore nelle favelas dell'Italia impoverita.
Sarà mica quella «sinistra degli snob» che il professor Luca Ricolfi identificò così? «Quel ceto sociale, che raggiunge l'apice tra gli intellettuali, dove, soddisfatti i bisogni primari, ci si può dedicare all'arredamento della propria anima», alla solidarietà, ai sentimenti giusti, al Terzo mondo. La Boldrini è l'emblema di questa sfera sociale, ma è nel settore cinema/tv/arte che se ne pescano di più. Tutto l'indotto artistico del Pd, che ha lottizzato la Rai nei gangli vitali degli appalti cinema e produzione tv, come taluni naturali sottoscrittori della marcia anti povertà di Bersani. Dalla Dandini (700mila euro all'anno, per tanti anni, a RaiTre) a Fabio Fazio (2milioni di euro l'anno) e la solidale Littizzetto (20mila euro ogni 5 minuti di battute), forse fino a Benigni (7 milioni di euro dalla Rai in sei mesi, tra la serata sulla Costituzione e la ri-lectura Dantis). Arredare l'anima costicchia.
Ma è il Pd di Giuliano Amato? «Non capisco la domanda» risponde l'ex premier quando gli si chiede se è disposto a ridursi la sua pensione d'oro. La cifra ormai è leggenda: 31.411 euro lordi al mese. Anche Amato è in pieno spirito Pd anti povertà: «Quando tanti giovani arriveranno alla pensione - ha detto l'altro giorno agli studenti della Luiss - si troveranno con una pensione miserabile, con cui non potranno vivere e si troveranno a dormire in auto». E il professore fa subito qualcosa di concreto: appoggia la bella manifestazione Pd contro la povertà.
Con loro, idealmente, ci sarà anche Matteo Colaninno, brillante deputato Pd, erede dell'impero di Colaninno padre (Piaggio, Alitalia...) nonchè già vicepresidente della Banca Popolare di Mantova e altri lussuosi Cda. E pure, sempre idealmente tra i piddini col saio, anche i salotti buoni vicini al Pd, dal milanese Francesco Micheli, alla torinese Eva Christillin, veltroniana della prima ora e supporter del sindaco Fassino, fresca di poltrona presso banca Carige, che si somma ad altre dozzine di poltrone (presidente del Teatro Stabile di Torino, ma anche dell'Agis piemontese, ma anche dell'Anesv, ma anche del Museo Egizio di Torino, ma anche della Filarmonica del Teatro Regio di Torino etc..). «Il Pd - prosegue il comunicato - è vicino a tutti i cittadini che in questo momento stanno vivendo momenti difficili». ( il Giornale)

martedì 9 aprile 2013

Thatcher, è morta una grande. Nicola Porro

Quando nel 1979 gli inglesi sceglievano Margaret Thatcher l’Urss iniziava la sua occupazione dell’Afghanistan. La Fiat licenziava 61 operai per violenze in fabbrica e i sindacati confederali, cioè tutti, proclamarono uno sciopero di protesta. Khomeini cacciava, nel consenso generale, lo Scià di Persia. In Italia scoppiavano gli scandali dell’Eni Petromin e Mario Tanassi si faceva quattro mesi in gattabuia. La chimica privata dei Rovelli e dei Monti saltava e a Milano veniva ucciso Giorgio Ambrosoli. Sembra di parlare di un secolo fa. Pensate un po’, in quei mesi veniva inaugurata la sede del Giornale, dove è oggi e, al terzo piano, uno accanto all’altro, celebravano l’evento Silvio Berlusconi e Indro Montanelli.
Quando muore una grande personalità si cerca sempre di dimostrare l’attualità del suo pensiero, delle sue gesta. Ma davvero si può credere che oggi il thatcherismo sia ancora attuale? In effetti lo è più che mai.
Se c’è una lezione che ancora non abbiamo imparato e da cui discende gran parte della politica della Lady di ferro è il cosiddetto individualismo metodologico. Non vi spaventate, è una cosa seria, ma non così pallosa. «Non esiste una cosa come la società. La vita è un arazzo di uomini e donne, la gente e la bellezza di questo arazzo e la qualità della nostra vita dipendono da quanta responsabilità ognuno di noi è disposto ad assumersi su noi stessi e quanto ognuno di noi è pronto a voltarsi e aiutare con i nostri sforzi coloro che sono sfortunati». Non esistono i sindacati, non esiste la politica, non esiste la società. Ci sono gli individui, che alimentano questi universali. È la forza del pensiero politico liberale. Lo Stato è necessario, ma attenzione a divinizzarlo. Diceva la signora: «Chi scala l’Everest lo fa per suo sommo ed egoistico piacere ed orgoglio, anche se arrivato in cima è la bandiera inglese che issa». Rispetto degli individui e senso dello Stato. Le sue epiche e coraggiose battaglie contro i sindacati dei minatori sono solo la più eclatante testimonianza di questo modo di pensare e agire. Il bene supremo del suo popolo in contrapposizione alle organizzazioni sclerotizzate che presumevano di rappresentarlo. Pensate forse che sia passata l’idea? Basta vedere le consultazioni del quasi premier Bersani e l’incredibile peso che continua ad avere in Italia il cosiddetto metodo concertativo, per intendere la portata della rivoluzione liberale che è del tutto mancata da queste parti. È per il sano interesse del macellaio che la vostra fetta di carne è di buona qualità, ci diceva Smith, e più o meno pensava la Thatcher. Qua invece siamo ancora alla rincorsa di concetti alti e ben portati, che poi alla fine nascondono il nulla. Hayek ebbe il coraggio di raccontare il «miraggio della giustizia sociale», la Lady di ferro ebbe la forza di farne una pratica politica.
Quando nel 1990 gli inglesi decisero di cacciare la Thatcher una parte del mondo era cambiata grazie a lei e Ronald Reagan. Certo l’Europa aveva guardato da un’altra parte. Basti pensare che pochi mesi dopo l’elezione della coppia liberale, i francesi pensarono bene di scegliere il primo presidente della Repubblica socialista, Mitterrand. La Russia, l’impero del male era stato sconfitto. Gli americani avevano lanciato l’operazione «Tempesta nel deserto» in risposta all’occupazione irachena del Kuwait. La liretta era rientrata, per poco, nello Sme e il presidente della Bundesbank (allora era Karl Otto Poehl) propose, pensando a noi, l’Europa monetaria a due velocità. Ci offendemmo e definimmo il governatore «l’ultima espressione del militarismo prussiano». Ci sono i Mondiali di calcio, e la chimica, la solita chimica, passa dai Gardini-Ferruzzi all’Eni (poi si intuirà a quale prezzo). Occhetto molla il Pci per il Pds, nelle università arriva la Pantera e dal Quirinale Cossiga inizia a picconare. Mentre l’Italietta teneva il broncio a Karl Otto, la Lady di ferro si presentava ai Comuni con un tailleur blu, capelli in ordine, filo di perle discrete, sostenendo: «Il presidente della Commissione, Mr. Delors, ha detto in una conferenza stampa l’altro giorno che vorrebbe che il Parlamento europeo fosse il corpo democratico della Comunità, ha voluto che la Commissione sia l’esecutivo e vorrebbe che il Consiglio dei ministri fosse il Senato. No! No! No!». Il triplo no all’Europa dei burocrati, della moneta unica. Un no a subordinare le scelte nazionali a quelle di funzionari europei non eletti. Un no a Maastricht e alla costruzione dell’euro. Difficile non trovare qualche spunto di attualità negli argomenti della Signora Thatcher di quindici anni fa.
Prendete un buon argomento da salotto di Via Cappuccio (Milano) o downtown (New York) e vedrete come la figlia del droghiere diventata Baronessa l’abbia smontato con lucidità. Dal femminismo all’ambientalismo; dal comunismo al fascismo. È stata straordinaria non tanto per quello che ha fatto, ma per il coraggio di dire ciò che non andava detto.

pS Oggi il Sole24 ore ha affidato uno striminzito e unico commento sulla morte della Thatcher a Romano Prodi. Che senza tante ipocrisie (bisogna dargliene atto) ha criticato duramente la lady di ferro. Il giornale della Confindustria è favoloso a spiegarci come le ricette da adottare siano quelle liberali: liberalizzazioni, meno spesa pubblica, meno tasse. Ma dobbiamo dire la verità, sembra non crederci molto. é normale dunque che la signora non appartenga al pantheon del Sole e della Confinidustria.
(il Giornale)

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sabato 6 aprile 2013

Berlusconi: Otto proposte per dare una shock al Paese

Care amiche, cari amici,
mentre le altre forze politiche sembrano impegnate a perdere tempo, noi del Popolo della Libertà teniamo sempre in mente l’interesse del Paese e nella settimana che inizia il 15 aprile, presenteremo in Parlamento otto disegni di Legge che costituiscono la prima applicazione del programma che ha portato la coalizione di centrodestra a un soffio dalla vittoria nelle ultime elezioni.

Sono otto proposte concrete, che avranno un immediato impatto positivo sull’economia reale e sulla società, soprattutto per quanto riguarda la creazione di nuovi posti di lavoro. Otto punti su cui si sono espressi i cittadini e che porteremo avanti con impegno quotidiano nel nostro lavoro parlamentare.
Mentre la politica si impantana, si fa del male e ci fa del male, noi avvertiamo la necessità e l’urgenza di cambiare rotta per ridare alle famiglie e alle imprese la fiducia e la forza di andare avanti in una situazione economica davvero difficile.
Per questo motivo, sabato 13 aprile a Bari, illustreremo il contenuto di questi otto disegni di Legge, già pronti per essere presentati al Senato della Repubblica. E che riguarderanno:

1) l’abrogazione dell’Imu sulla prima casa, sui terreni e sui fabbricati funzionali alle attività agricole e la restituzione degli importi versati nel 2012;
2) la revisione dei poteri di Equitalia, con particolare riferimento alle sanzioni, alle maggiorazioni di interessi e ai meccanismi di rateizzazione;
3) il riconoscimento alle imprese - per le nuove assunzioni a tempo indeterminato di giovani, disoccupati e cassintegrati - di una detrazione (sotto forma di credito d’imposta) per i primi 5 anni dei contributi relativi ai lavoratori assunti, nonché l’esenzione, per questi ultimi, dall’IRPEF sul salario percepito;
4) il passaggio dalle autorizzazioni burocratiche ex ante ai controlli ex post, per quanto riguarda lo svolgimento di ogni attività di impresa;
5) l’abolizione dei contributi pubblici per le spese sostenute dai partiti e dai movimenti politici;
6) le norme per la riforma del sistema fiscale;
7) le disposizioni di revisione della Costituzione per quanto riguarda l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e il rafforzamento dei poteri del Presidente del Consiglio dei Ministri;
8) le disposizioni per la riforma della giustizia.

Queste nostre proposte hanno in sé la forza di un cambio di passo, di uno shock istituzionale ed economico, che tende da un lato, allo sviluppo e al rilancio della nostra economia e, dall’altro, al ritorno della fiducia nello Stato, il cui compito resta quello di creare le condizioni adatte perché i cittadini possano realizzare le proprie ambizioni e i propri progetti.
È questo che il Paese ci ha chiesto con il voto. È con questi primi atti che intendiamo recuperare l’orgoglio di essere italiani, l’orgoglio di crescere, l’orgoglio di sprigionare le energie che ciascuno ha in sé.
Grazie per l’attenzione e per il sostegno. Ci vediamo tutti sabato prossimo, 13 aprile, in Piazza della Libertà a Bari!
Un abbraccio a tutti.

Cordialmente,
Silvio Berlusconi

L'Europa ha un problema: Deutsche Bank. Nicola Porro

 



Se domani la sede legale di Unicredit o di Intesa-Sanpaolo o persino di Mps dovessero per magia essere spostate a Francoforte, il valore delle rispettive azioni salirebbe in un istante.
Per il solo fatto di abbracciare i regolamenti creditizi della grande Germania. Se, al contrario, Deutsche Bank dovesse traslocare baracca e burattini a Milano, sarebbero guai seri, per la prima banca europea. In pochi oggi mettono in discussione la solidità del sistema creditizio tedesco. Eppure se c'è un rischio per l'Europa sono proprio le banche della Signora Merkel. Che godono di immeritata reputazione. Intanto qualche numero. Delle circa duemila banche tedesche solo due di una certa dimensione sono private: Db e Commerz. Più di 1.100 sono banche cooperative, 450 sono casse di risparmio comunali e 10 casse di risparmio statali. Il sistema bancario teutonico è sostanzialmente pubblico. E le due reginette private sono davvero mal conciate.

Deutsche Bank è stata investita da uno scandalo da far tremare i polsi. Negli anni della crisi, hanno confessato due suoi ex dipendenti, la filiale Usa avrebbe nascosto 12 miliardi di perdite in derivati. Per farla semplice, ogni banca deve dare un prezzo di mercato ai suoi investimenti, la Deutsche non l'avrebbe fatto. Grazie a questo escamotage, non ha fatto quegli aumenti di capitale che tutte le altre banche europee hanno invece dovuto faticosamente chiedere al mercato. La storia di Commerz è ancora peggiore. Un quarto del suo capitale è oggi ancora in mano allo Stato. Negli anni della crisi finanziaria si è beccata (tra azioni in mano al Tesoro e Tremonti Bond alla tedesca) circa 35 miliardi di iniezione di quattrini pubblici: il doppio di quanto richiesto dal default cipriota e 5 volte la sua capitalizzazione di Borsa. I tedeschi a metà del 2008 costruirono un Fondo (Soffin) per aiutare le banche in stato fallimentare che aveva una potenza di fuoco di 480 miliardi (un quarto del Pil italiano). Fondo che ha prestato quattrini e comprato azioni a più non posso (la citata Commerzbank, ma anche WestLb, Hypo Real Estate e Aarel bank solo per citare le più grosse). Stiamo parlando di un Paese che gode di una grande reputazione di solidità, ma che ha un sistema bancario sostanzialmente pubblico e praticamente incasinatissimo.
Uno dei grandi manager di Unicredit ci ha confessato: «Ma secondo lei perché nel 2005 riuscimmo a comprare Hvb? Semplice: era in stato comatoso. Erano allora di moda le operazioni “cross border” e i tedeschi si volevano liberare di una zavorra».

Ci sono quattro motivi per i quali le banche tedesche sembrano, a dispetto della realtà, così solide. E si devono tutti alla loro grande influenza sulle Autorità di regolamentazione bancaria europea.
1. La banca ha bisogno di capitale per vivere. Ma le metodologie di calcolo cambiano da Paese a Paese. Un euro di mutuo in Italia assorbe ad esempio (cioè si brucia contabilmente) più capitale di quanto faccia in Germania. Insomma da noi il mestiere della banca è più difficile che in Germania solo per un regolamento più duro.
2. Si continua a spacciare un numeretto (il core capital di gruppo) come magico: più alto è, più si è in forma. Ma come dimostra il caso di Deutsche bank in America le medie sono fallaci. Se Db Germania ha 10 e America ha 4, si può fingere di avere un rapporto di 7. Ma è falso. Gli americani pretendono che la controllata tedesca a New York si ricapitalizzi, nonostante la casa madre stia in forma. È quanto successo a Unicredit che ha dovuto fare aumenti di capitale per l'Italia, nonostante la sua buona condizione in Germania. Per Mediobanca Securities questo problema in Europa ammonta a più di 100 miliardi di capitale mancante nelle capogruppo (deficit che non riguarda le banche italiane).
3. Le banche pubbliche tedesche (cioè la larga maggioranza) si finanziano a tassi statali di tripla AAA. Un tempo perché direttamente controllate proprio dai loro enti locali. Oggi perché finanziate dalla loro Cassa depositi e prestiti, che gode di un'ottima pagella. Insomma, la loro natura pubblicistica le mette in concorrenza sleale, ad esempio, con le nostre banche private che debbono andare a cercare i soldi sul mercato e non dalla nostra Cdp.
4. È inspiegabile come mai Deutsche Bank sia la banca europea più grande e, al tempo stesso, la più lontana dal soddisfare i criteri patrimoniali di Basilea 3. Non solo la lobby bancaria tedesca ha modificato nel proprio interesse tali criteri (rimuovendo ad esempio la leva finanziaria dai requisiti patrimoniali e mantenendo così la propensione anglosassone a fare i bilanci con i derivati), ma resta anche il Paese più in ritardo nell'adeguarsi a una tabella di marcia che gli istituti italiani già rispettano grazie a costosi aumenti di capitale. (il Giornale)




 

 

martedì 2 aprile 2013

Il sesso dei saggi. Davide Giacalone

I dieci saggi non meritano alcun fremore. Né positivo (e ci vuol fantasia), né negativo (e ci vuol poco). Trovo esilaranti e sconfortanti i commenti del tipo: fra loro neanche una donna. Temo si faccia confusione fra dramma e galateo. Ve lo immaginate l’infartuato che entra in camera operatoria e s’indigna: ma come, neanche una donna? Anche in questo si vede che l’Italia ha perso il cervello, giacché confonde l’ordine dei problemi: stiamo finendo nella macina, l’euro è sul punto di crollare o farci crollare, quel colpo comprometterebbe il nostro sistema produttivo, quindi la capacità di generare ricchezza, e noi facciamo finta di credere che siano i saggi il problema. Discutiamo pure del sesso dei saggi, emulando altre sviste e altri crolli.

Con la loro nomina Giorgio Napolitano giunge al capolinea. Leggo che dovrebbero lavorare non più di dieci giorni. Roba da matti: se hanno qualche cosa da dire devono farlo questa mattina, perché fra una settimana il tema del governo sparirà dall’agenda politica e sarà sovrastato dall’elezione presidenziale. E su questo è bene essere ruvidi: abbiamo denunciato, per anni, da soli, il deragliamento costituzionale del Quirinale. Lo abbiamo fatto su quei temi che ora svegliano i costituzionalisti, compreso il potere di firma. Ma, da pionieri della denuncia, sappiamo che una cosa è il deragliamento in mani politiche, altra in mani impreparate e avventurose. Napolitano ha già bloccato dei governi, come fecero anche Ciampi e Scalfaro. Ma se il prossimo presidente della Repubblica fosse uno scelto con il metodo Grasso, se la formazione politica fosse del tutto estromessa dal colle, allora il deragliamento fin qui visto sarà ricordato come stagione di ortodossia costituzionale.

Attaccare Napolitano per i saggi non ha senso, tanto quanto non ne hanno loro. Il punto delicatissimo e decisivo è un altro: non ci si può imbarcare nell’elezione del successore tenendo a palazzo Chigi Monti, e in tali condizioni. E’ questa l’affermazione più debole e, al tempo stesso, scandalosa, nel discorso di Napolitano. Per tre ragioni: a. costituzionali; b. politiche; c. economiche.

A. E’ vero che il governo Monti non è mai stato sfiduciato, ma solo perché si sottrasse al voto con le dimissioni. Ci sarebbe, dunque, un governo senza maggioranza, che in questa legislatura non ha mai avuto la fiducia, ma capace di restare in carica, potenzialmente e per gli affari correnti, per tre legislature. Mostruoso. Un simile precedente demolisce la Costituzione. B. Il dibattito sui marò ha chiarito non solo l’assenza di maggioranza, anche solo ipotetica, attorno al governo Monti, ma anche il desiderio di chi lo presiede di andar via al più presto. A questo si aggiunga che non c’è più un ministro degli esteri. Insistere nel tener tutto fermo significa incrudelire uno scontro politico che ha già tratti di totale demenzialità. C. Monti fu chiamato per recuperare peso in Europa, nel mentre la crisi dell’euro faceva salire i tassi sul nostro debito pubblico. Omessa ogni altra considerazione, oggi non conta più nulla, in Europa, e la medesima crisi dell’euro, mai risolta, ci strangola obbligandoci ad accrescere la recessione. Un euro depositato in banca a Berlino vale più del doppio di un euro depositato a Nicosia. Il sistema è già saltato. E’ escluso che si abbia tempo da perdere.

Napolitano, quindi, ha davanti a sé tre strade: 1. nominare un presidente del Consiglio, ex articolo 92, dimettersi e lasciare al successore (in quelle condizioni è possibile che sia lui stesso) il compito di sciogliere le Camere; 2. nominarlo e mandarlo alle Camere, sapendo che l’elezione del successore bloccherà il processo e rinvierà tutto al dopo; 3. lasciare che il tempo scorra, come sabbia fra le mani, in assenza di soluzione. La terza ipotesi è devastante. Le altre due chiudono il Pd. La seconda Repubblica nacque con l’idea (abortita) di affidare alla sinistra la continuità. Quella stessa sinistra conclude l’orrida stagione spaccandosi e lasciando brani delle proprie carni fra le fauci di fiere aggressive e pericolose. Una cultura scialba e onanistica credette di dover temere il Caimano, delegando al domatore il compito di tenerlo a bada. Quello stesso domatore ora guarda inorridito il dischiudersi di altre gabbie. Non è tempo di posare la frusta, ma di usarla con forza.

Pubblicato da Libero