lunedì 31 maggio 2010

Il costo dell'indipendenza. Orso Di Pietra

Fate attenzione, cari dirigenti dell’Associazione Nazionale Magistrati. Fate attenzione nel continuare a sostenere che il blocco degli aumenti contrattuali per il pubblico impiego che riguarda anche gli stipendi delle toghe costituisce un attacco diretto all’indipendenza della magistratura. Perché insistere su questo tasto significa stabilire che l’indipendenza della categoria non è un valore assoluto ma può avere ed ha un prezzo preciso. Quello che attualmente oscilla tra i 1680,50 euro netti dell’uditore giudiziario con meno di sei mesi di anzianità ai 29.569,96 euro del Primo Presidente della Corte di Cassazione. Come dire che l’indipendenza è variabile. Secondo la regola che “tutto ha un prezzo”! (l'Opinione)

Ciampi e il colpo di stato. Davide Giacalone

Le parole di Carlo Azelio Ciampi sono pesanti e gravissime, sebbene non chiare ed inequivoche. Escludiamo, anche solo per giocosa ipotesi, che si tratta del volgare lancio per un libro in uscita, quindi facciamo i conti con le cose che ha detto a Massimo Giannini, e da questi pubblicate su La Repubblica. Ovvero: 1. sono convinto che, nel 1992, sia stato tentato il colpo di Stato; 2. le bombe mafiose servirono a favorire la nascita di un “aggregato imprenditoriale e politico”; 3. è ora di sapere chi ordinò quella strategia e cosa celava, in tal senso rimandando al libro di prossima uscita, di taglio autobiografico. Il quotidiano romano, senza neanche forzare troppo, presenta il tutto come l’ennesima conferma di quel che molti hanno già supposto: Silvio Berlusconi usò la mafia per agevolare, anzi, imporre la propria ascesa al governo. Ciampi è persona seria. Abbiamo il dovere di prendere seriamente quel che dice. Mettiamo che sia come lui dice, o, meglio, come lui lascia intendere: Berlusconi è l’apice di un disegno criminale. Va bene, ma i conti non tornano. Per niente.

Il presupposto di tale tesi consiste nel credere che la mafia abbia avuto un organico rapporto con il potere politico, o, se preferite, che sia il potere politico ad averlo avuto con la mafia. Che ci sia un “terzo livello”, nel quale s’incontrano la forza economica e militare della mafia e quella legislativa e governativa di certi politici. Giovanni Falcone sosteneva che tale presupposto era una solenne cretinata e, per quel che conta, penso che avesse ragione. Cosa nostra è uno stato nello Stato, che non ha alcun bisogno d’essere riconosciuto. Non contesta agli sbirri il diritto di dar la caccia ai criminali, contesta ai cittadini il diritto di rivolgersi agli sbirri. Può darsi che Falcone si sbagliasse, che non avesse capito nulla della mafia, o che, come sostenne Leoluca Orlando Cascio, dei disonorati e dei loro legami politici fosse complice. Ma, forse, un’idea di questo tipo andrebbe sostenuta con qualche argomento, se non proprio dimostrata. Vale per Ciampi, come vale per Pietro Grasso e per chiunque altro.

Ciampi dice che nel 1992-1993 si corse il rischio del colpo di Stato. Credo che si trattò di una realtà, non di un’ipotesi. Nel 1992 ci furono le elezioni politiche e la coalizione che le vinse era composta da partiti che, nel 1994, non erano più neanche sulle schede elettorali. Tutti cancellati per via giudiziaria. Un ordine dello Stato, la magistratura, divorò un potere dello Stato, legittimato dal voto. Ma non è questo, ne sono sicuro, cui si riferisce Ciampi. Solo che, all’epoca dei fatti, egli era presidente del Consiglio, e negli anni successivi fu Presidente della Repubblica. Uno nella sua posizione o sa delle cose, e allora dovrebbe dirle, o non le sa, e allora dovrebbe far attenzione ad alludere. Aggiunge che ne parla nel libro autobiografico, che, c’è fatto subito sapere, sarà edito da “Il Mulino”. Lo comprerò, giuro, non appena si poserà sul bancone del libraio. Ma, come dire, il lancio mi pare un po’ forte.

Bombe e stragi mafiose, ricorda Ciampi, cessano alla vigilia delle elezioni del 1994. Furono quelle vinte da Berlusconi, con la neonata Forza Italia. Missione compiuta, insomma. Già, peccato che il governo Berlusconi fu divorato in pochi mesi, al suo posto fu messo un governo sostenuto dall’opposizione e, due anni dopo, le elezioni le vinse l’Ulivo, con Romano Prodi. Cos’è, si sono arresi, i mafiosi? Il colpo di stato, l’ascesa criminale di Berlusconi, ha portato a qualche mese di governo, del tutto inconcludente, e poi basta? E’ una domanda legittima, non provocatoria. Parto dall’idea che Ciampi sia persona seria, per bene e in pieno possesso delle facoltà mentali, ma non riesco a capire come il ragionamento si regga in piedi. Mi aiuti, per favore.

Falcone saltò in aria a Capaci. E’ storia di quella stagione di sangue. Mettiamo, come ritengo credibilissimo, che in quell’azione vi furono complicità non solo mafiose, che le colpe di quell’assassinio ricadano anche su ambienti politici. Ma quali? Berlusconi? Mha, e perché? Non risultano elementi di frizione, o pericoli imminenti, dati dall’azione di quel magistrato. E’ noto, invece, che egli fu avversato dalle correnti di sinistra, che contro di lui si mosse Luciano Violante, che per togliergli la possibilità di combattere la mafia si mobilitò Magistratura Democratica (con alcune eccezioni). E noto che di Falcone non si fidavano quelli del pool Mani Pulite. E si è saputo che stava lavorando, con il procuratore di Mosca, sui canali di riciclaggio del denaro, coincidenti, in parte, con quelli che il Kgb utilizzava per far uscire soldi, anche destinati al Partito Comunista Italiano. Dite che quell’animale di Giovanni Brusca, sotto il comando di quella bestia di Totò Riina, lo abbiano ucciso per fare un favore a Berlusconi? Può essere, ma mi aiutate a capire come ci siete arrivati?

Poi saltò in aria Paolo Borsellino, e, anche qui, è credibilissimo che la bomba omicida non veda innocenti anche mandanti non punciuti, non mafiosi. Ma chi? Invece di cercare le carte scomparse, ammesso che siano esistite, perché non provate a leggere quelle rimaste: Borsellino riteneva che per trovare la traccia degli assassini di Falcone si dovesse lavorare all’inchiesta mafia-appalti, preparata dai carabinieri. Dopo la sua morte quell’inchiesta fu smembrata, a cura della procura di Palermo (possiamo consideratala un: apparato dello Stato?) e quei carabinieri trascinati sul banco degli imputati. Dite che tutto questo sia stato fatto per favorire l’ascesa di Berlusconi, e non per coprire le complicità industriali, nazionali e non, della mafia, i suoi canali di reimpiego del denaro, che portano più alla Madonnina che a Santa Rosalia? Può essere, ma dateci qualche cosa in più che non sia un luogo comune privo di senso. Grazie.

Poi la mafia tacque. Poi le presunte trattative furono interrotte. Non ebbe alcun beneficio? Perse i referenti politici? Mica mi convince, perché nei mesi e negli anni successivi alle stragi e alle presunte trattative un numero sconcertante di macellai mafiosi uscì dalla galera e si diede alla bella vita. Non servirono decreti, non fu necessario occupare il governo, essendo bastevole utilizzare con sapienza la legge sui pentiti e rivolgersi a magistrati particolarmente attenti. Ma queste cose non si dicono e non si scrivono. Troppo pericoloso. Salvo che non si sia degli incoscienti, come chi qui firma.

In quanto alle parole di Ciampi, che spero vorrà approfondire, voglio dire una cosa: vede, Signor Presidente Emerito, dicono di Lei che sia figlio di quella “cultura azionista” che ha esercitato egemonia sulle cose della Repubblica, annettendosi un potere privo di consenso elettorale, io non lo credo affatto, forse perché di quella cultura sono a mia volta figlio (magari bastardo, faccia Lei), però, quando si parla di cose assai delicate si devono usare parole nette, senza alcun margine d’equivoco, essendo pronti a pagarne le conseguenze. Si discuterà altrove di cosa sia stato l’azionismo, né, del resto, può assimilarsi tutto, da Emilio Lussu a Ugo La Malfa, ma una matrice dovrebbe pur sopravvivere, non piegando la morale e le idee alla piccole necessità contingenti. Sicché, a me pare, si può fare non solo l’opposizione a Berlusconi, ma anche ritenerlo una disgrazia, senza per questo ricorrere ad argomenti che rischiano di consegnarli anche l’aureola del salvatore dalla follia.

venerdì 28 maggio 2010

Che fine ha fatto D'Avanzo? Annalena Benini

La mattina del 26 febbraio uscì su Repubblica un articolo di Giuseppe D’Avanzo, intitolato come da tradizione “La prova delle menzogne”. Terminava così: “Non lascerà l’Italia, ma l’affliggerà con nuove leggi ad personam (processo breve, legittimo impedimento), utili forse a metterlo al sicuro da una sentenza, ma non dal giudizio degli italiani che da oggi potranno giudicarlo corruttore, bugiardo, spergiuro anche quando fa voto della ‘testa dei suoi figli’”. Il soggetto era sempre lo stesso. Da allora, il nulla. Dopo tre mesi di “assordante silenzio” e di “incolmabile vuoto”, come scriverebbero i colleghi di D’Avanzo, è giunto il momento di porre fine al mistero sul grande cronista e vicedirettore ad personam di Repubblica. I lettori e i cittadini hanno il diritto di sapere. Ecco perché abbiamo deciso di pubblicare queste dieci domande, che in altre circostanze avrebbe potuto rivolgersi lo stesso D’Avanzo.

1) Qual è la ragione che la tiene lontana dalla corruzione, dalla legge bavaglio, dalle liste di Anemone, dalle ultime dichiarazioni del presidente del Consiglio?

2) Corrisponde al vero che, dopo una vacanza a Sharm el Sheikh, stava per consegnare un’inchiesta in sette puntate che avrebbe cambiato il destino del paese ma si è rifiutato di pubblicare articoli che rechino accanto al titolo un post-it giallo?

3) E’ mai stato a feste di compleanno a Casoria?

4) Ha mai visto “La pupa e il secchione”? Se sì, in base alla sua esperienza investigativa, ritiene che le ragazze siano davvero così ignoranti o siano invece molto bugiarde?

5) Comprerebbe un’auto usata da Carlo Bonini? E uno skateboard dal direttore Ezio Mauro?

6) Può dirsi certo che, nonostante i recenti dissapori a mezzo stampa con Marco Travaglio, i botta e risposta, le vacanze e la querela di Travaglio nei suoi confronti, lei non è al momento in trattative per passare alla concorrenza, cioè al Fatto Quotidiano?

7) Alla luce di quanto non è emerso in questi mesi, è forse in cura in una clinica specializzata perché soffre di sexual addiction?

8) Può escludere di essere stato in qualche modo influenzato dal finale di “Lost”?

9) Le hanno proposto un offensivo prepensionamento e lei ha chiesto la liquidazione di Michele Santoro?

10) Ritiene che ci sia un “progetto eversivo” che la minaccia? Può garantire di non aver usato né di volere usare intelligence e talpe in redazione per scoprire cosa dicono di lei in sua assenza? (sappia che ogni giornalista viene dileggiato dai colleghi, non se la deve prendere, nemmeno se le fanno l’imitazione appena si gira).

P.S. Nel caso in cui le risposte non siano soddisfacenti, o vengano superate dagli eventi, il Foglio si riserva di pubblicare le nuove dieci domande da allegare ogni giorno al giornale in dieci comodi post-it. (il Foglio)

giovedì 27 maggio 2010

Generazione Neet. Davide Giacalone

Giovani svogliati, non competitivi, creativi solo a chiacchiere. La fotografia è stata scattata, ancora una volta, dall’Istat, che osserva la lievitazione inquietante dei “neet”, giunti a due milioni, vale a dire che già avevano un lavoro e sono divenuti not in education, employment or training, cioè non lavorano, non studiano, non si formano. A questi si aggiungono quelli che a lavorare non hanno mai cominciato. Dal 1983 sono cresciuti del 28,9% coloro che, fra i 30 e i 34 anni (giovani?), rimangono a vivere con mamma e papà. Non escono perché non hanno soldi e lavoro, mica perché si sono affezionati, e non hanno soldi e lavoro perché non escono. Gli esclusi da ogni attività sono aumentati considerevolmente, nel corso del 2009, sia al nord (+ 85 mila) che al centro (+ 27 mila), ma superano il milione al sud.

Quel che spaventa non è solo il dato, ma la tendenza a credere che lo si possa accettare. Tanto per fare un esempio: dovendosi varare misure per fronteggiare la crisi non si aprono i mercati, non si chiamano i giovani all’impegno, ma si fa l’esatto contrario, congelando l’esistente e prorogandolo finché possibile. Le colpe dei nonni si abbattono sui nipoti, dopo avere fatto dei padri una generazione di mantenuti. Un giorno si dirà che era evidente, che nessuno poteva realmente credere si potesse andare avanti tenendo all’infinito i giovani in scuole non formative e in piazze festeggianti non si sa cosa. Ma nel giorno che viviamo, al contrario, sono in tanti a credere che si possa far finta di niente.

C’è un giacimento con un’enorme falla, che disperde la ricchezza tutt’intorno. Quel che colpisce non è solo lo spreco, ma l’inquinamento che produce, il progressivo sporcarsi dell’intero ambiente. Non mi riferisco al petrolio del golfo del Messico, ma ai giovani d’Italia. Li bruciamo ogni giorno, con allegria e rassegnazione. Li consideriamo eterni debuttanti, anche ad età che furono quelle dei padri di famiglia. Li mariniamo in un sistema dell’istruzione non meritocratico e non competitivo, addestrandoli alla condotta dell’avanzamento per anzianità, invitandoli non all’eccellenza, ma alla non bestialità. Li teniamo fuori dal mercato del lavoro, facendo loro credere che si tratta di un modo per preservarli dalla precarietà. In compenso finanziamo, per il tramite delle famiglie, e finché possibile, svaghi e perdite di tempo, inducendo la convinzione che il consumo sia un diritto e la produzione un’eventualità. Tutto questo ha effetti devastanti sull’intero ambiente.

L’economia italiana cammina ad una velocità inferiore a quella dei grandi Paesi sviluppati, che pure non se la passano bene. La distanza relativa è aumentata, nel senso che le previsioni attribuiscono agli altri un pochettino di sviluppo in più, mentre noi siamo inchiodati ad uno zero virgola in meno. Queste, però, non sono previsioni meteorologiche, non sono l’anticipazione di ciò che non dipende dalla nostra volontà, sono le conseguenze dei nostri difetti. Il primo dei quali è avere cercato, in tutti i modi, di cancellare il valore del merito, lo stimolo della competizione, il premio alla qualità. I giovani ricercatori italiani, sia nel pubblico che nel privato, guadagnano la metà di quelli francesi o tedeschi. Cosa credete che facciano, i più bravi? Se ne vanno. I laureati fra i 24 e 34 anni raggiungono, quando va bene, l’80% del guadagno della media di tutti i laureati, in ambito Ocse. In Francia e Germania arrivano al 90, negli Stati Uniti al 93. Da noi essere giovani è uno svantaggio, nei mercati dinamici, invece, un’opportunità.

Abbiamo una disoccupazione giovanile impressionante, anche se gli indici complessivi ci collocano sotto la media europea. La spiegazione si trova nel modo in cui facciamo i conti: non consideriamo disoccupati quelli che non lavorano, ma avevano un posto e ricevono un sussidio; non quelli che, non avendo altro da fare, sono iscritti all’università; non le donne che non cercano attivamente lavoro. Abbiamo, contemporaneamente, bassi tassi d’attività e bassi tassi di disoccupazione. Una magia possibile solo perché i numeri non rispecchiano la realtà. Vale anche per i salari, a proposito dei quali Luca Ricolfi ha sostenuto che non è vero che i nostri lavoratori dipendenti sono i peggio pagati d’Europa, perché i conti vanno fatti considerando le minori ore lavorate e la minore qualità. Non ci si meravigli, allora, se non cresce un Paese nel quale lavorano poche persone, per poche ore al giorno, per pochi anni nella vita, e senza gran qualità. Il miracolo è che stia a galla.

Lo scrivo e riscrivo inutilmente, perché non si trova la chiave per aprire la porta del cambiamento. La ragione è che siamo ancora troppo ricchi per provare dolore, e i giovani sono tropo viziati e ben pasciuti per covare ribellione. Si tira avanti, osservando le scene di crisi, ammirando quelle di sviluppo, come fossimo al cinema, come se fossero finzione scenica, senza sentirci coinvolti.

Guardate quel che accade in Grecia, dove i problemi erano noti a tutti, i conti non tornavano in modo plateale, gli sprechi erano evidenti, eppure c’è voluta una micidiale batosta, una speculazione del mercato e un’umiliazione politica per trovare la forza di dire basta. E guardate in casa nostra: c’è voluta la fifa blu per arrivare a dire che, al momento buono, chiuderemo le province con meno di 220.000 abitanti, ma non quelle confinanti con l’estero (?!). Quando la casa brucia è naturale che si metta mano ai secchi, ma la saggezza consiste nel predisporre impianti antincendio. Nel caso delle nostre società, quelle dell’Europa occidentale, è necessario prendere atto di quanto si sia deformato il modello di welfare state, passato da solidarietà collettiva a protezione dei privilegi, da altruismo cosciente a egoismo incosciente, divenendo una macchina che droga la politica, pagandone il consenso. E’ un meccanismo costoso, non più sostenibile.

Proviamo a guardare, con un certo sforzo, le cose dal lato positivo: l’enormità dei problemi impone una rottura, consegnando alla politica una forza che questa, in sé, non aveva trovato. Il tempo, però, non scorre gratis. Ne abbiamo già buttato via parecchio.

mercoledì 26 maggio 2010

Altro successo della magistratura italiana. Christian Rocca

Il socialista Rino Formica, dopo 17 anni, è stato assolto. (Camilloblog)

martedì 25 maggio 2010

La cricca delle coop che boicotta Israele. Fiamma Nirenstein

È uscito da poco un libro che spiace non sia stato ancora tradotto in italiano: si chiama The Israeli Test e l’autore, George Gilder, sofisticato economista che gode di fama internazionale, spiega che il mondo deve a Israele in termini di scienza dell’agricoltura, medicina, software, una prodigiosa, inverosimile quantità di gratitudine.

Il mondo sarebbe molto peggiore senza l’aiuto di questo piccolo Paese impegnato nella sua quotidiana lotta di sopravvivenza. C’è chi lo capisce, ed ha così superato l’Israeli test. Ma molti di più invece, poiché ottusi dall’ideologia, non sono in grado di superare l’esame: è il caso delle Coop, il consorzio nazionale delle cooperative di consumatori, e della Conad che piamente hanno ieri piegato la fronte sotto le pressioni di un gruppo di Ong e associazioni varie che hanno chiesto loro di boicottare i prodotti israeliani agricoli importati dalla società Agrexco, perché lo 0,4% di questi prodotti, non contrassegnato col marchio dei lebbrosi come nei sogni delle Ong, potrebbe invece provenire dai Territori della Giudea e della Samaria. Questo ha reso agli occhi dei fanatici delle Coop e della Conad indispensabile gettare giù dagli storici scaffali delle Coop tutti quanti i prodotti israeliani.

Non ha importanza, come vorremmo che dicesse ad alta voce ai suoi amici delle cooperative rosse Bersani, che per coltivare quella frutta e quella verdure da sessant’anni gli israeliani, tutti gli israeliani, si sono spaccati la schiena senza risparmio, che hanno insegnato a tutto il mondo come irrigare a goccia, dare lezioni su come far fiorire di prodotti indispensabili persino il deserto. Che importa di fronte a un mostro detto colono che, qualcuno forse se lo ricorda, a Gaza, lasciò le sue serre piene di fiori e pomodori ciliegia, ed esse furono consegnate ai palestinesi e immediatamente fatte a pezzi dalla rabbia di Hamas. I coltivatori del West Bank per la Coop devono crepare di fame con le loro famiglie come i contadini ucraini ai tempi di Stalin.

I prodotti israeliani sono inquinati per le cooperative di "violazioni dei diritti umani", come dicono quelli del gruppo "Stop Agrexo": ma sarebbe interessante sapere se per i prodotti cinesi, e che so, di molti paesi orientali, del Medio Oriente e dell’Africa viene fatto lo stesso esame "diritti umani". Altrimenti c’è da pensare che qualcosa non vada proprio con Israele. Il "direttore qualità" della Coop dottor Mario Zucchi afferma di "avere esaminato con attenzione" la richiesta del gruppo che in occasione della "Giornata della Terra" ha "coordinato la sua azione" in vari supermarket della Coop e della Conad: ne fanno parte le ong Attac, Pax Christi, Federazione della Sinistra, Fiom Cgil, Forum Palestina, Un Ponte Per (quello delle due Simone) e non possono mancare anche due gruppi di ebrei antisraeliani, sempre utilissimi, l’Eco, ebrei contro l’occupazione, e le Donne in Nero. In genere tra le lobby contro i rapporti fra Ue e Israele e per il disinvestimento ci sono attivisti che non dormono mai, boicottatori full time che si dedicano a una continua campagna di delegittimazione di Israele accusato di tutti i peggiori crimini, apartheid, crimini contro l’umanità... il fine ultimo è la cancellazione dello Stato ebraico.

C’è chi non ha voglia di rendersene conto, ma la sinistra italiana più rocciosa si è da tempo avventurata su questa strada, è storia vecchia. Ma che le grandi, storiche catene di supermarket si alleassero al crimine di condannare simbolicamente e teoricamente Israele a morire di fame, è una penosa novità. Oltretutto boicottare coerentemente Israele significa buttare alla spazzatura una valanga di invenzioni indispensabili. Chi ha il coraggio, per restare alle scoperte recenti, butti quella dell’esame del sangue che classifica per curarla la sclerosi multipla, il congegno che ristora l’uso di arti paralizzati, la nuova invenzione che aiuta i bambini con disturbi gravi a respirare nel sonno, le recenti cure dell’Alzheimer, la riparazione del Dna, l’eliminazione delle manifestazioni del Parkinson. Se si vuole boicottare Israele con coerenza bisogna eliminare il telefonino, i cui moderni miglioramenti sono figli della sede israeliana della Motorola, e anche il computer, i cui stupefacenti sviluppi sono stati pensati dalla Intel in Israele... e questo è un piccolo spicchio della realtà.

Avanti dunque ai boicottatori, che la Coop e la Conad restino nel mondo della menzogna sinistrese, su di loro permane la vergogna di aver disprezzato il contributo irrinunciabile che Israele dà al mondo. (il Giornale)

Intercettando torti e ipocrisie. Davide Giacalone

Adesso s’innesta la marcia indietro, nella speranza che tornare al testo approvato alla Camera dei deputati, in tema d’intercettazioni, svelenisca il clima e faciliti le cose. Se avessero provato a seguire i ragionamenti che qui svolgevamo, assai per tempo, non si troverebbero negli attuali, inutili guai. D’intercettazioni telefoniche si parla a vanvera: se ne fanno più che altrove, se ne pubblicano i testi come fossero romanzi d’appendice, ma non per questo abbiamo più sicurezza e più giustizia. Sui giornali compaiono spazi gialli, con scritte surreali: senza le intercettazioni non avremmo scoperto questi reati. Roba da matti: in nessuno di quei casi c’è lo straccio di una sentenza definitiva, quindi dell’accertamento di un reato. Si parla, invece, di roba capovolta, come la libertà di stampa o quella d’indagare. Sicché, prima di argomentare sulle ingiustificabili colpe governative, sento il bisogno di dire che l’ipocrisia al cubo dà proprio il voltastomaco.

Un giornalismo prostrato alle procure, composto da velinari, rivendica il diritto di scambiare per informazione le ipotesi d’accusa, considerando notizie gli orecchiamenti sulle vite private. A questo giornalismo non manca la libertà, ma la dignità professionale. La degenerazione ha fatto talmente tanta strada che si teorizza apertamente il diritto alla difesa per i sospettati, da esercitarsi, però, non in tribunale, ma sui giornali. Oramai non c’è più neanche orrore di quel che si scrive, anzi, s’è persa la capacità d’inorridire, tanto è regredita la cultura, tanto s’è storto il diritto. I copisti, inoltre, sono servi attenti a rispondere al padrone, quindi le carte delle procure vanno subito in pagina, ma facendo attenzione a non disturbare i propri finanziatori e cercando d’infastidire quelli altrui. Non è libertà, non è concorrenza, non è diversità d’opinioni, ma equidistribuzione della miseria. Se il giornalismo fosse una cosa seria non aspirerebbe a copiare, ma ad essere fonte d’inchieste. Ma figuratevi! A noi capitò di farlo, un lavoro di quel tipo, e ci ritrovammo spiati da gente pagata con i soldi di Telecom Italia, mentre aspettando d’avere giustizia diventeremo vecchi.

Detto ciò, la legge in discussione non serve ad un fico secco e contiene notevoli corbellerie. Non metterà il bavaglio a nessuno, perché non risolve niente. Serve solo al centro destra, per farsi del male. Com’è consuetudine, da anni.

In un Paese civile non s’intercetta né tanto né poco, ma quel che serve, e non ci si mette ad ascoltare quelli che si pensa possano essere colpevoli (come stabilisce scioccamente il testo in discussione), ma quelli che si ritiene siano pericolosi. Solo che, nei Paesi civili, questa roba la fanno le polizie e al magistrato si arriva solo se si trova qualche elemento di colpevolezza. Altrimenti si butta tutto e nessuno lo verrà mai a sapere. Da noi, ed è questa la follia, i magistrati non sono i garanti della libertà e della sicurezza d’ogni singolo cittadino, ma i suoi accusatori, indagatori e intercettatori. Quando hanno finito, per legge, depositano gli atti, e quando li hanno depositati, per barbarie, li si considera pubblici, quindi li trovate sui giornali, a cura dei copisti. E va così quando va bene, perché poi ci sono i magistrati specializzati nel far filtrare la notizia quando fa comodo a loro, prima del deposito, utilizzando il servogiornalista di fiducia. Se non si mette mano a quel meccanismo (e credo si possa farlo stabilendo che mai le intercettazioni sono prove e mai si depositano) tutto il resto è vaniloquio. Fin qui nessun magistrato ha condannato il collega che diffonde notizie, mi spiegate perché dovrebbero condannare i giornalisti soci dei colleghi?

Anche dire che si possono pubblicare le notizie solo al momento dell’udienza preliminare è una bella idiozia. Il problema da risolversi riguarda l’incivile distanza fra il momento in cui diventa noto che sono accusato e quello in cui mi assolvono. Questo è il nodo, lì si deve agire. Se ci si limita a dire che la notizia può essere diffusa dopo il rinvio a giudizio è come accettare l’idea che quel passaggio menomi la presunzione d’innocenza, quindi compiere un nuovo passo verso il baratro.

Il sottosegretario statunitense, per il canto suo, dovrebbe far la cortesia di documentarsi. Da noi si spendono, pro capite, più soldi che negli Usa, per le intercettazioni. Ma questo è niente. L’ultima volta che, per il tramite d’intercettazioni, si sono messe le mani addosso ad un presunto terrorista islamico, consegnandolo ad agenti americani, gli uomini delle nostre forze dell’ordine ne hanno rimediato un processo per rapimento. Lo sapeva? E ha idea che l’Italia è l’unico Paese del mondo civile in cui chi intercetta è collega di chi giudica? Se vuole il nostro sistema, se lo prenda. A me dia in cambio il suo, per favore.

Una nuova legge ci vuole, eccome, ma su tutta quanta la giustizia. Quella relativa alle intercettazioni, è una pezza colorata, che neanche copre il buco. Esempio pratico: il pm passa le intercettazioni, come passa ogni altra carta che serve ad accusare, con un click il giornalista socio le invia ad un sito straniero amico, mettiamo austriaco, a quel punto la notizia torna in Italia. Che si fa: la leggono gli austriaci, cui non gliene cale un piffero, e non gli italiani? Ci hanno pensato, quei geniacci che da anni cambiano la legge senza mai imbroccare il diritto?

Sì, certo, l’opposizione fa anche più pena. Cambia posizione a seconda delle stagioni e delle telefonate, va a rimorchio dell’ultimo forsennato in toga, manifesta e firma per quel che (in realtà) detesta. Vero. Ma mica è una gara a chi ha più torto. Né è una soluzione mettere la fiducia, perché questo serve solo a far approvare quel che sarà subito dopo aggirato, per giunta avendo fatto la parte di quelli che vogliono imbavagliare la libertà. Gli unici imbavagliati, invece, sono gli italiani che subiscono accuse e non possono difendersi, che vengono massacrati e poi assolti, sputtanati e poi rilasciati, torturati e poi compatiti. Ma di quelli, diciamocelo, non frega niente a nessuno, salvo qualche fissato, che si fa nemici per ogni dove.

domenica 23 maggio 2010

"Siamo un paese impazzito". Christian Rocca

«Sarebbe gradita una risposta, per esempio, a un semplice quesito. Chiunque legga una decina di giornali quotidiani o di settimanali stranieri, in lingua francese, tedesca e inglese, non è mai, si dica mai, mai nella vita, incappato nelle lenzuolate delle intercettazioni di cui si parla, che sono l’oggetto della contesa, che sono il succo dei pezzi e delle paginate pubblicate in italiano dai nostri giornali, e poi sceneggiate con doppiatori, nel modo più suggestivo e drammatico possibile, nelle trasmissioni televisive più sporcificanti del mondo. Mai. E perché? Perché altrove non si intercetta? Perché altrove non si delinque o non si indaga? No. Semplicemente per questo: perché altrove, anche dove esistono mafie e criminalità organizzate, anche dove accadono fenomeni di lobbying e di corruzione politica, non si usa pubblicare lenzuolate di intercettazioni come materiale per l’intorbidimento delle acque, per la grande sputtanopoli che tutto confonde in un generico e demagogico disprezzo per la vita privata delle persone pubbliche».(Giuliano Ferrara, sul Foglio di lunedì)

Il prezzo della Mercedes. Massimo Gramellini

Dopo aver strillato al complotto, alla truffa, al pericolo per la democrazia, Mercedes Bresso ha ritirato il ricorso contro la vittoria del suo rivale Roberto Cota nelle recenti elezioni del Piemonte. In cambio la Lega si è limitata a togliere il veto alla conferma della signora nel prestigioso incarico di presidente del Comitato delle Regioni europee. «Ho accettato la mediazione raggiunta per consentire a uno svelenimento dei rapporti nell’ottica di un reciproco riconoscimento», ha spiegato Bresso in una neo-lingua dai significati oscuri, eppure fin troppo chiari.

Abbiamo smesso da tempo di credere che chi fa politica sia dotato di una spina dorsale più solida di quella di noi comuni mortali. Ci accontenteremmo che appagasse le sue ambizioni personali senza sovrapporle ai destini della democrazia. Una precauzione che dovrebbe valere soprattutto per coloro che chiedono il voto agli elettori di sinistra, ergendosi a paladini degli ultimi. Mai visto Robin Hood mettersi d’accordo con lo sceriffo di Nottingham. Sarà anche vero che tutti hanno un prezzo, ma la presidenza di un comitato sembra un saldo di fine stagione. Una mancia, se paragonata per esempio alla liquidazione di Sant’Oro. La prossima volta che le toccherà di «consentire a uno svelenimento dei rapporti nell’ottica» suggeriremmo a Bresso di farsi assistere anche lei dal manager di Santoro e Paola Perego, Lucio Presta. Si tratterà di un «reciproco riconoscimento». (la Stampa)

giovedì 20 maggio 2010

Michele intercetta la cassa Rai. Paolo Pillitteri

Faceva un po’ ridere,in queste ore, il dibattito infuocato al senato fra sostenitori delle intercettazioni, fra cui un avvocato di grido, il senatore Luigi Li Gotti e il sottosegretario alla giustizia, Giacomo Caliendo, già ottimo magistrato. Faceva ridere, cioè, il ribaltamento delle posizioni: l’avvocato scatenato a favore delle intercettazioni a go go, a strascico, a tutto gas, manco fossimo nella Germania dell’Est e della Stasi; l’ex magistrato, invece, molto più cauto, prudente, preoccupato delle violazioni della privacy, consapevole dei costi e dell’uso e abuso, dei tempi delle intercettazioni prive di sostanziali necessità. C’era poi un altro dettaglio in un siparietto mediatico che faceva quasi piangere, per l’insulsaggine dell’assunto di una parlamentare o esponente della società civile (de sinistra). Ha inneggiato all’uso delle intercettazioni (e dei Pm) perché lei non ha nulla da temere, non ha nulla da nascondere, ha la coscienza pulita, pura e trasparente come un foglio candido, extrastrong. Il problema, signora mia, non è il timore o meno di finire nella rete a strascico del grande orecchio di Genchi, o di avere la coscienza pulita, immacolata, lavata (con Perlana?), il problema è in sè. Riguarda lo strumento di intercettazione e la violazione della privacy, l’irruzione immotivata nella tua vita, l’essere sbattuti, senza un perché, in prima pagina da stampa e Tv. Il problema è, dunque, la tua libertà, la tua esistenza, il tuo diritto al privato. Altrimenti siamo in uno stato di polizia. E, infatti, ci siamo molto vicini. Il dibattito sulle intercettazioni rivela questo strato limaccioso al fondo della nostra società, in un mix di rancore, giustizialismo, invidia sociale e antipolitica, dove risultano pressochè inconciliabili i grandi principi di una cultura liberale e di una giustizia gestita con tutti i crismi delle garanzie per il cittadino. Sicchè, lo stesso dibattito nella società civile, sulla stampa e persino fra gli editori, è stato manipolato e mutato in una sorta di ordalia manichea pro o contro il governo, a favore o contro le intercettazioni, fra onesti e disonesti, ponendo i primi fra coloro che non hanno paura delle intercettazioni e i secondi fra quelli che le vorrebbero ma solo se indispensabili, in caso di gravissimi indizi.

Come ai tempi delle grandi firme da apporre: contro gli Usa nel Vietnam, contro Calabresi, contro la Dc, contro Agnelli&Pirelli ladri gemelli, contro Reagan, contro Craxi, contro Bush, e, soprattutto contro Berlusconi, le case editrici hanno firmato contro. Unica eccezione, la presidente di Mondadori, Marina Berlusconi, detta anche “buon sangue non mente”, anche per aver difeso gagliardamente il padre sulla vicenda di Saviano. Ma per una Marina che non ha paura di aver coraggio c’è anche chi ha il coraggio di non aver paura di passare all’incasso, dopo aver gestito per mesi le due o tre ore di “AnnoZero” i cui testi sono stati, prevalentemente, le dichiarazioni di pentiti, come Spatuzza contro Dell’Utri o di collaboranti come Ciancimino jr, sempre contro Dell’Utri. E neppure sono mancate le intercettazioni recitate, lette con passione, interepretate a regola d’artre, fornendo aiutini e aiutoni a Pm poi diventati deputati europei, dopo aver sfasciato ministri e governi (di sinistra) con inchieste finite in un (quasi) flop. Da Marina Berlusconi a Michele Santoro, due capitoli dello stesso canovaccio. Con una differenza: che della prima si può parafrasare quanto ebbe a dire di Anna Kuliscioff (la compagna coraggiosa e volitiva di Turati) lo storico Antonio Labriola in una lettera ad Engels: “A Milano non c’è che un uomo, che viceversa è una donna, la Kuliscioff”. Del secondo, il mitico giacobino un tanto al chilo Michele chi? Santoro, si può concordare coll’affilato giudizio di Aldo Grasso, “è sempre in missione per il suo ego: dalla trincea all’incasso”. (l'Opinione)

Lo stupore di Clementina. Orso Di Pietra

Clementina Forleo ha dichiarato di essere molto delusa del comportamento che l’ex collega Luigi De Magistris tiene da quando ha abbandonato la magistratura e si è fatto eleggere all’europarlamento nelle liste dell’Italia dei Valori. A deludere la Forleo è soprattutto la contraddittorietà di De Magistris, che denuncia gli errori della magistratura, che definisce “massoni” buona parte dei magistrati, che condanna l’operato del Consiglio Superiore della Magistratura. Ma che al tempo stesso si oppone senza se e senza ad ogni ipotesi di riforma in grado di correggere deviazioni così clamorose. La valutazione di Clementina Forleo è sacrosanta. Ma ciò che stupisce è il suo stupore. Non sapeva che chi va con Di Pietro impara a dipietrare? (l'Opinione)

L'ideale senile e forcaiolo dei giornalisti del Fatto. Lodovico Festa

“Convinto di avere agito ancora una volta per il pubblico”.
Dice Michele Santoro all’Unità (20 maggio).
Nel senso sessantottesco che il privato è pubblico, e viceversa?

“Raccontava Bangkok in fiamme il fotoreporter italiano ucciso”.
Dice un titolo dell’Unità (20 maggio).
C’è molto imbarazzo sulla stampa de’ sinistra tutta intenta a denunciare il regime berlusconiano per qualche multa a chi infrange il segreto istruttorio, nel mentre che in Thailandia si spara sui seguaci di un magnate televisivo che chiedono libere elezioni.

“Così sembriamo né carne né pesce”.
Dice Emanuele Fiano al Corriere della Sera riferendosi al Pd (20 maggio).
Né carne né pesce? Polli?

“Spazzare via il movimento altermondialista; la cui efficacia argomentativa e la cui passione nella critica del potere fece, come è evidente, paura al potere stesso”.
Dice Giovanni Russo Spena su Liberazione (20 maggio).
Il comportamento brutale della polizia al G8 di Genova è evidente al di là delle sentenze emesse dalla strampalata magistratura italiana: però che De Gennaro e i suoi arrivassero ad avere paura dell’efficacia argomentativa del movimento altermondialista, bé questo ci riesce veramente difficile da credere.

“Molti di noi hanno cominciato a fare i giornalisti spinti da un’ideale giovanile”.
Dice Antonio Padellaro sul Fatto (20 maggio).
E hanno finito a fare i forcaioli spinti da un ideale senile. (l'Occidentale)

D'Alema e De Benedetti. Davide Giacalone

Carlo De Benedetti non è un berluschino e Massimo D’Alema non è un caso umano. Se la piantano d’insultarsi in piazza e provano a ragionare, forse, si chiarisce ad entrambe perché la sinistra è divenuta vuota d’idee e colma d’arroganza e supponenza. Sono così abituati a dar lezioni che, in mancanza di discenti consenzienti, s’arrangiano a darsele fra di loro. Per giunta dicendo spropositi: tutte le democrazie funzionanti hanno una classe politica professionale, così come, in tutte, la forza del capitale si scarica sulla politica, premendo in un senso o nell’altro.

Se il paragone, introdotto da D’Alema, fra l’ingegnare e il cavaliere, immaginando il primo sia eguale al secondo, ma più piccino, si riferisce al reddito o al successo, siamo nel puro campo delle linguacce. Ma se intende additare paragonabili vicende imprenditoriali, si sbaglia. Silvio Berlusconi può essere detestato per innumerevoli ragioni, ma la sua ricchezza non è stata costruita con soldi dello Stato. Quella di De Benedetti sì. Non è una differenza da poco, al netto d’ogni altra considerazione. Se, invece, il paragone si riferisce al fatto che entrambi sono uomini ricchi, che cercano d’influenzare la politica, anche in questo caso si è fuori strada: tutti gli imprenditori, anche quelli piccoli, svolgono attività di lobbing, vale a dire d’influenza, il che è del tutto lecito (meglio sarebbe se anche trasparente), ma mentre De Benedetti ha comprato un giornale partito, e con quello guida la mano della sinistra, Berlusconi s’è direttamente candidato, chiedendo il voto agli italiani. Che la seconda cosa sia una minaccia per la democrazia è tesi che può essere concessa solo a due categorie di persone: gli svampiti e gli avvampati.

Propongo una lettura più ragionevole, e, se lor signori permettono, più di sinistra: a furia di gestire il potere senza prendere la maggioranza dei voti, e a furia di far affari con la spesa pubblica senza rinunciare a condannare sia la spesa pubblica che gli affaristi, a furia di supporre che l’arresto di tutti gli avversari avrebbe loro consegnato il potere assoluto, questi soggetti hanno trascurato un dettaglio, ovvero che l’Italia non li ama e non li vuole, cosa che Berlusconi ha sfruttato, coalizzando forze disomogenee. La cosa bislacca è che, in nome della democrazia, pretendono di avere ragione contro gli elettori. Da ricovero.

Non è affatto vero, come il cosmopolita De Benedetti pretende di farci credere, che solo in Italia un imprenditore s’è dato alla politica, visto che tale costume è largamente diffuso, oltre che naturale. Il punto è un altro: l’Italia è l’unico esempio d’azzeramento, in costanza di democrazia, dei partiti politici, ad opera del congiunto lavoro svolto dalla magistratura e dai comitati d’affari. Il nostro problema non è l’esistenza dei partiti, ma la loro scomparsa, non è che esistano politici di professione, ma che siano stati cancellati. Di ciò De Benedetti ha largamente approfittato (vogliamo parlare della concessione telefonica che ebbe, da un governo privo di maggioranza elettorale e frutto del commissariamento giustizialista?), sicché oggi faccia la cortesia di non sdottoreggiare.

Massimo D’Alema, dal canto suo, ha diverse ragioni, ma anche torti rilevanti. E’ vero che, nel 1992, fu tra i dirigenti comunisti che guardarono con sospetto all’ondata manettara, aiutato dalla sua stessa formazione culturale, che gli fa considerare la politica come regista della realtà, e non come oggetto delle iniziative altrui, ma è anche vero che si allineò in fretta, non risparmiandosi bassezze, nell’errato presupposto che quello sconcio avrebbe giovato alla sua parte politica. Come non si può dimenticare che, una volta giunto a Palazzo Chigi, mostrò tutta la debolezza di una sinistra ideologica che prima ha avversato il mercato, considerandolo fonte d’ogni nefandezza, e poi s’è inginocchiata al suo cospetto, adorandone i falsi dei. Insomma, farsi prendere per i fondelli e sponsorizzare la scalata a Telecom Italia, abbagliati dall’idea che si trattava della prima grande offerta pubblica di acquisto e scambio, senza porre mente al fatto che la proprietà sarebbe divenuta lussemburghese, e da qui dispersa nei paradisi fiscali, è stata una prova di pesante impreparazione, volendo escludere (come escludo) la compartecipazione.

D’Alema e De Benedetti possono anche continuare a prendersi a padellate sulla testa, rimproverandosi i rispetti errori o, come hanno fin qui fatto, accusandosi reciprocamente di roba imprecisa e fantasiosa, ma lo spettacolo racconta la drammatica arretratezza della sinistra italiana, la sua mancanza di cultura di governo, il suo essere preda di moralismi senza etica. Sono queste le cause che hanno generato l’implosione, ed è il crollo ad averli resi succubi del modello culturale avversario, il detestato, ma praticato, berlusconismo.

Tutto questo è capitato perché la sinistra italiana, a causa della guerra fredda e grazie ai soldi sovietici, è stata lungamente abitata da uomini e culture nemici della libertà, politica e di mercato. Perché la sinistra democratica, anche quella socialista, è stata minoranza, per poi essere schiacciata con violenza. Perché il mondo degli affari, ruotante attorno a quella sinistra ideologica, pretendeva di parlare le lingue e mostrarsi moderno, ma, nella realtà, s’accomodava al più antico dei guasti: arricchirsi smaneggiando e alle spalle altrui. Se questo è il “fare”, oh, meglio quelli che conducono una vita contemplativa.

mercoledì 19 maggio 2010

Che fine hanno fatto i garantisti? Tiziana Maiolo

Le inchieste giudiziarie sugli appalti e sui Grandi Burocrati di Stato non sono solo “cricca” e clientele. Rappresentano anche una novità importante, l’accettazione ormai consolidata da parte di tutti di certi metodi della magistratura che sono sicuramente disinvolti e poco osservanti delle procedure. E che un tempo avrebbero destato scandalo. Oggi solo silenzio.

Prendiamo in esame due fatti, apparentemente non collegati tra loro, i novanta giorni di carcere preventivo dell’ex amministratore delegato di Fastweb Andrea Scaglia e la mancata carcerazione dell’architetto Zampolini. Stiamo parlando di fatti diversi e di magistrature diverse. Pure c’è una costante di comportamenti che dovrebbe mettere in allarme i giuristi, e non solo loro. Furono i Pubblici Ministeri di Milano che, fin dal lontano 1992, dichiararono senza pudore: ”Non è che noi teniamo in carcere la gente che rifiuta di confessare, è solo che scarceriamo quelli che parlano”. Una logica non da Stato di diritto, ma piuttosto da processi alle streghe.

Si ha quindi la sensazione - pur senza sottovalutare la gravità di certi comportamenti - che una volta di più ancor oggi si confonda il reato con il peccato. Andrea Scaglia, a norma del codice di procedura penale, non avrebbe dovuto neppure essere arrestato. Si è consegnato spontaneamente (era all’estero) non appena ha saputo di essere ricercato, inoltre non rivestiva più alcun ruolo dirigenziale all’interno di Fastweb, difficilmente quindi avrebbe potuto ripetere il reato o inquinare le prove. Ma Scaglia ha avuto un grande torto, quello non solo di dichiararsi estraneo agli addebiti che gli venivano mossi, ma anche di non fare atto di contrizione, di non consegnare la sua anima di pentito nelle mani del magistrato-sacerdote. Solo per questo si trova oggi ancora in custodia cautelare (al proprio domicilio) dopo 90 giorni di carcere.

L’architetto Zampolini stava per essere arrestato per una serie di reati molto gravi dalla magistratura di Perugia. Fu salvato da un giudice che pose (a parer nostro, correttamente) una questione di competenza territoriale e solo per questo motivo respinse la richiesta dei Pubblici ministeri che sollecitavano una serie di arresti. Fu così che l’uomo sospettato di esser stato il “braccio armato” del grande elemosiniere, l’imprenditore Anemone, decise di fare di tutto per non finire in carcere. Comprensibile. Meno comprensibile l’immediata rinuncia da parte dei Pubblici ministeri perugini ( che nel frattempo avevano vinto su Roma la battaglia della competenza territoriale ) a quel provvedimento di custodia cautelare che pochi giorni prima pareva così urgente.

La cosa più grave sono state le dichiarazioni degli stessi magistrati, presi dall’entusiasmo per avere tra le mani il primo “pentito” di questa novella “tangentopoli” che non è politica perché non finalizzata a rimpinguare le casse dei partiti, ma anche perché riguarda più i Grandi Burocrati di Stato che non i politici. Che cosa hanno detto i Pm? Semplicemente che non occorreva più arrestare l’architetto Zampolini, perché ormai stava collaborando. Come se un collaboratore di giustizia non potesse ad esempio (magari proprio anche con le sue dichiarazioni) tentare di inquinare le prove. Come se non potesse ripetere ancora il reato o decidere all’improvviso di tagliare la corda. Ma Zampolini si è venduto l’anima, ha ammesso i propri peccati e soprattutto quelli degli altri. Quindi si è salvato dal rogo.

I Pubblici ministeri non sono cambiati, e non rileva se siano o meno “toghe rosse”. Le regole e le procedure continuano a essere per loro fastidiosi orpelli. L’opinione pubblica prevalente non è cambiata. Non ci sono più le fiaccolate degli amici di Di Pietro a fare i girotondi intorno al palazzo di giustizia di Milano, ma le tricoteuses sono sempre tutte lì, con la loro ferocia.

Che cosa di nuovo sotto il sole, dunque? Solo un particolare, piccolo piccolo. E’ che non si sentono più le voci dei garantisti, di coloro che incitavano al rispetto delle regole, chiunque fosse l’imputato, il sovversivo, il terrorista, il tangentista, il mafioso. O più semplicemente il signor “chiunque” di cui parla il codice quando fissa comportamenti e consequenziali sanzioni.

C’è un grande silenzio, schiacciato dal sacrosanto scandalo destato dalla sproporzione tra la crisi economica che continua a mordere, i privilegi di pochi sempre più insopportabili e la spudoratezza dei furti di Stato. Sacrosanto scandalo, cui dovrebbe però accompagnarsi massimo rigore formale. Invece c’è tanto silenzio.

Ci vorrebbe più coraggio, oggi. Ma il coraggio è sempre quello di don Abbondio: se uno non l’ha, non se lo può dare. (l'Occidentale)

martedì 18 maggio 2010

La mossa. Davide Giacalone

Possiamo anche continuare a prenderci in giro, ma parlare dei tagli ai guadagni del personale politico, a cominciare dai parlamentari, ricorda la scoperta de “la mossa”, ad opera di Ninì Tirabusciò, interpretata da una sfavillante Monica Vitti. Ricordate? La giovane aveva grandi ambizioni culturali, desiderando divenire protagonista del teatro di prosa, culturalmente impegnato. Ne rimediava, però, solo miseria e umiliazioni. Un giorno le capitò di trovarsi sulla scena, scoprendo che una formidabile sculettata mandava il pubblico in visibilio, procurandole fama e saziandole la fame. Ecco, il dibattito odierno somiglia a “la mossa”.

I cittadini sono discretamente imbufaliti con il mondo politico, di cui non apprezzano la perdurante inconcludenza. A questo s’aggiunge una mai esaurita vena qualunquistica, che suppone essere di pubblico giovamento la cancellazione di tanti privilegi inutili. Ricevo innumerevoli messaggi in tal senso, cui rispondo senza cedere alla facile ricerca del consenso, che non serve a nulla, ma invitando a ragionare. Ora, però, siamo al colmo, perché il qualunquismo è praticato dagli stessi che ne dovrebbero essere il bersaglio. Pertanto, è bene invitare loro, signori ministri e signori parlamentari, a essere seri.

Dal punto di vista dei numeri, quindi delle grandezze economiche, quei tagli sono pressoché irrilevanti, ma avrebbero una funzione diversa, non meno importante: dare il buon esempio. Solo che quello offerto è cattivo. Perché se sei al governo e sei parlamentare non rilasci interviste proponendo tagli, li fai. E se i colleghi non te lo impediscono, mettendoti in minoranza, li denunci all’opinione pubblica. Al contrario, farsi belli dando veste ministeriale alle chiacchiere da bar equivale a sculettare per acchiappare un applauso o un urlo ingrifato. Non esattamente quel che si definisce un costume da statista. E, badate, non si tratta solo dei soldi che mettono direttamente in tasca, sui quali ci sarebbe molto da dire (i nostri parlamentari, nazionali ed europei, sono pagati troppo, ma, ad esempio, un ministro è pagato troppo poco), bensì di tutta quanta la spesa pubblica. Quella che siamo chiamati a coprire con le tasse che versiamo.

Ce ne stavamo qui solitari, a scrivere che l’eccesso di spesa pubblica è causa di disfunzioni e disservizi, che, come capita per la giustizia, si dovrebbe spendere meno per avere di più, ma avevamo anche l’impressione di parlare con il muro. Abbiamo argomentato, per mesi e mesi, che il sistema pensionistico è non solo troppo dispendioso, ma largamente ingiusto, che l’età pensionabile deve crescere se non si vogliono lasciare i giovani a bocca asciutta. Abbiamo ripetutamente dettagliato il perché la spesa sanitaria non cresce per salvaguardare la salute, ma per favorire affari che la danneggiano. E ci hanno sempre risposto: le cose non vanno poi male, per ora non è il caso di far cambiamenti, durante la crisi non si devono spaventare gli italiani. Che se c’è una cosa che fa paura è l’immobilismo e la mancanza di riforme profonde. Sta di fatto che siamo arrivati, adesso, a parlare di tagli senza avere fatto le riforme, che è, di gran lunga, la cosa peggiore. Noi ritenevamo, e riteniamo, che debba essere affrontato tutto intero il modello di welfare state, perché divenuto clientelare ed ingiusto, in modo da salvarne le finalità sociali. Stando fermi, invece, ci si trova a doverlo tagliuzzare da ogni parte, lasciandone immutato il modello insostenibile, quindi limitandone gli effetti sociali. Il tutto si riassume in due concetti: a. fallimento della politica e, b. ineludibilità dei vincoli di bilancio.

Abbiamo a lungo parlato della crisi come di un’occasione, di una leva con cui sollevare una vettura impantanata (da almeno quindici anni) e rimetterla sulla via dello sviluppo. Ora ce la sorbiamo per intero, la crisi, ma come disgrazia. La cosa che è riuscita meglio, a questo governo, è stata la chiusura delle casse, il non spendere mentre altri dilapidavano. Bene, ma è anche vero che l’Italia è stato il primo Paese ad entrare in recessione e, ora, l’ultimo (fra i grandi) a uscirne. Con molta, troppa lentezza. I tagli che oggi s’annunciano si doveva farli prima, proprio perché c’è uno strato enorme di spesa improduttiva nel quale si può incidere provocando dolore solo a quelli che ne campano, senza danneggiare il resto della società. Certo, è inutile piangere sul latte versato e il tempo trascorso, e può essere utile anche dare segnali esemplari. Prendere in giro, però, ammaliare con “la mossa”, significa soffiare sul fuoco, senza neanche spostare le chiappe.

Allora, tacciano. Muti. E ci facciano leggere, entro una settimana, il provvedimento con cui gli emolumenti parlamentari scendono del 30%, che significa, comunque, riscuotere 10.000 euro al mese. Taglino, subito, l’80% delle auto di servizio, togliendole a tutti gli enti e a tutti i funzionari dello Stato, lasciando un parco ristretto, che serva per ragioni di lavoro e non per essere prelevati da casa e portati al ristorante. Non risolve, ma aiuta. E ci mostrino la tabella di marcia che porta, entro l’estate, ai primi voti parlamentari per ridefinire le competenze degli enti territoriali, chiudendo le duplicazioni inutili, mettendo mano anche ad un capovolgimento totale del sistema sanitario, divenuto il più incurabile dei malati. C’è molto altro ancora, da mettere in cantiere, ma che siano cose concrete e immediate, senza sbrodolamenti in qualunquismo di Stato e imitazione dell’avanspettacolo.

domenica 16 maggio 2010

E' qui la festa dei luogocomunisti anti-Cav. Luigi Mascheroni

Qualsiasi sia il semantema del prefisso «anti-», di solito agli intellettuali va bene. Ma la parola per cui impazziscono, che li manda in choc adrenalinico, è «Berlusconi». Il vero intellettuale, che secondo il noto luogo comune, o è di sinistra o non è, trova la propria essenza e la stessa ragion d’essere, oggi, nel proclamarsi «anti-berlusconiano», in tutte le declinazioni possibili. Le quali, proprio a dimostrazione di quella libertà di espressione e di pensiero che nel nostro Paese l’intellighenzia nega a parole incarnandola nei fatti, si sono manifestate platealmente al Salone del libro di Torino. Kermesse, come si dice in questi casi, che ieri ha celebrato una solenne Messa cantata in suffragio del Governo unico, i cui officianti per quantità e prestigio coprono l’intero arco ideologico della sinistra No-Cav, dalla «A» di Asor Rosa alla «Z» di Zagrebelsky. Tutta gente che grida da anni al pensiero unico e allo stato totalitario, trovando però stranamente – ovunque - numerose e liberali tribune per urlarlo.
GLIELE HANNO CANTATE A CHIARELETTERE. Il mattutino è stato recitato alle ore 10, quando un rappresentativo panel dell’antiberlusconismo militante è stato radunato dall’editore Chiarelettere nella Sala Gialla per parlare del Libro viola di Gianfranco Mascia, del pamphlet Dopo di lui il diluvio di Oliviero Beha, del saggio-denuncia Assalto al Pm di Luigi De Magistris e dell’antologia giornalistica anti-italiana Senz’anima di Massimo Fini. In nome del più originale anti-berlusconismo, il primo ha detto che «l’Italia è affetta da un pericoloso analfabetismo di ritorno e ha perso la maniera di comunicare per via del monopolio delle tv private e pubbliche di Berlusconi» e che l’ignoranza diffusa nel Paese, che parte dai tempi del Drive-in, è strategica al controllo politico delle coscienze: «La scuola della Gelmini vuole insegnare di meno, mentre gli studenti vorrebbero studiare di più», e che insomma bisogna organizzarsi «per abbattere Berlusconi». Beha ha detto invece che «non basta resistere ma bisogna reagire» perché «Berlusconi in questi vent’anni ha legalizzato l’illegalità attaccando e aggredendo la Costituzione». De Magistris, che quando parla sembra sempre più identico a Massimo Troisi, ma con minore credibilità, ha profetizzato che il film di Totò in cui la Fontana di Trevi viene venduta ai turisti americani diventerà realtà, perché «presto il ministro Bondi venderà anche il Colosseo, e poi si privatizzeranno persino le coscienze» (!). Mentre Fini, che almeno ha dalla sua la simpatia, ha detto che non dobbiamo preoccuparci più di tanto perché «Berlusconi finirà per autocombustione, quando sarà portato via da un’ambulanza per aver aperto l’impermeabile davanti a un gruppo di ragazzine fuori da un scuola media femminile».
LIBERA DISSIDENZA IN LIBERO STATO. In refettorio, alle ore 12, si sono radunati Gustavo Zagrebelsky, Rosy Bindi e il direttore della Repubblica Ezio Mauro per un dibattito su Stato e Chiesa. Ha introdotto l’abate Ernesto Ferrero, che rivolgendosi alla Bindi ha confessato: «Mi si stringe il cuore quando ti vedo in televisione di fronte a certi personaggi...», lasciando in sospeso se si riferisse a La Russa o a Bondi o a Fini. Comunque, Zagrebelsky ha suggerito, invece di togliere l’8 per mille, di abolire Tremonti; la Bindi ha tuonato contro certi cardinali che telefonano ai parlamentari per dire come votare; mentre Ezio Mauro ha stigmatizzato la politica della Destra che usa strumentalmente la religione cattolica. Tutti si sono trovati concordi nel dire che «si sta scollando una civiltà giuridica» e che siamo «in un momento molto delicato». Ci sfugge completamente a chi e a che cosa si riferissero. Amen.
DA CHE PULPITO, MERCEDES. «In politica serve il coraggio della radicalità nel senso della chiarezza delle posizioni», così l’ex presidente del Piemonte, Mercedes Bresso, intervenendo alla presentazione di un libro significativamente intitolato Guerra e pace, ha ricordato, da Sinistra, la necessità di metterci la faccia, cosa che non fa la Destra. Dimenticandosi però di quando, con grande coraggio, tolse l’ultimo capitolo del suo romanzo dedicato al patron del Grinzane Cavour Giuliano Soria, poco prima che il volume andasse in stampa e poco dopo che il vecchio amico-professore era finito in manette. Il tempismo della chiarezza delle posizioni.
TACI, IL GOVERNO TI ASCOLTA. All’ora del Vespro, per i chiostri del Salone già correva voce che quasi tutti gli editori si sono mossi per protestare contro il disegno di legge sulle intercettazioni all’esame del Senato. In poche ore si sono moltiplicate le firme a sostengno dell’appello «per la libertà di stampa e i libri» scritto dal Gruppo editoriale Mauri Spagnol: «Il ddl sulle intercettazioni - recita il documento - così com’è rischia di compromettere un diritto dei cittadini tutelato dalla nostra Costituzione: quello di informazione e di critica». Ma la critica, non era morta?
IL NOME DELLA COSA. A compieta, il monaco Umberto Eco evoca il passato per parlare del presente, spiegando, con dotto luogo comune, che «la memoria è importante, ma oggi soffre di tre malattie: l’eccesso di ricordi, l’eccesso di filtraggio, la confusione delle fonti. Malattie cui dobbiamo far fronte, se vogliamo tramandare qualcosa alle generazioni future e salvarci l’anima». Da chi, preferisce non dirlo.
DAL VANGELO SECONDO MARCO. La preghierina della buonanotte, come di rito, l’ha recitata Marco Travaglio, alla fine di un’estenuante giornata già vista e già vissuta tante volte, leggendo brani del suo libro-Vangelo Ad personam davanti a un pubblico di fedeli in trance anti-berlusconiana. Nella grande sala dei Cinquecento, Gran Inquisitore Marco Travaglio, giudici a latere Peter Gomez e Roberto Scarpinato, si è ri-celebrato l’ennesimo processo al Cavaliere, con condanna preventiva in contumacia. E senza avvocati difensori. È la sagra dell’antiberlusconismo ossessivo-compulsivo: «Quando le leggi le faceva il Parlamento, mentre oggi...»; «In questo momento la situazione è a grande rischio...»; «Sono stati zittiti i giornalisti indipendenti...» (applausi); «mentre i giovani non trovano lavoro i vertici della politica continuano a vivere da nababbi con i soldi pubblici rubati a questo Paese» (molti applausi); «Berlusconi esercitava un potere mafioso anche quando c’era la sinistra al governo» (questa l’ha detta Barbara Spinelli). Non si salva nessuno: dalle mazzette di Gianni Letta ai fatti di mafia di Cosentino, da «il migliore di tutti, in senso ironico», Guido Bertolaso «lì lì per saltare» a Marcello Dell’Utri, che è ancora senatore. Del resto, come dice il peggiore dei luoghi comuni, «il Parlamento è lo specchio del Paese». È curioso ma è la stessa cosa che si dice, per il mondo culturale, del Salone del libro. (il Giornale)

giovedì 13 maggio 2010

Immobilismo atomico. Davide Giacalone

Gli unici atomi che girano, in Italia, sono quelli che movimentano il nervosismo delle persone serie, di quanti hanno a cuore le sorti collettive e non solo quelle delle campagne propagandistiche. L’unica energia, da fonte nucleare, che si produce è quella dei dibattiti e delle chiacchiere, aventi ad oggetto sempre le stesse cose, trite e ritrite, prive del benché minimo senso della realtà. Da noi ti senti domandare: e dove le mettiamo le scorie, che sono un problema irrisolvibile? Come se non lo risolvessero quotidianamente, in tutto il resto del mondo assennato.

72 firme, raccolte nel bel mondo di quanti sono intelligenti, studiosi, pensosi e di sinistra, chiedono al Partito Democratico di dirsi favorevole all’energia nucleare. Dicono, i colti, che l’atomo non è né di destra né di sinistra. Folgorante. Non l’atomo, ma tale aguzza intuizione. Perché, si deve riconoscerlo: un intellettuale di sinistra è sempre un intellettuale di sinistra, e che diamine! Se fosse vero il presupposto, però, non si capisce perché raccogliere firme solo a sinistra e rivolgersi solo alla sinistra. Conosco la risposta: solo a sinistra ci sono coscienze sensibili e culture raffinate, e solo a sinistra politici che sanno leggere e rispondere. Il che potrebbe anche essere vero, se non fosse che Pier Luigi Bersani ha già tolto il dubbio a tutti: non siamo contrari all’atomo, non per principio, siamo contrari all’energia atomica se la relizza un governo che non è il nostro. Per comprendere la sottigliezza occorre un acume che a me manca.

Se quelli dell’opposizione non s’opponessero ad opporsi, prediligendo il contrapporsi senza idee e senza costrutto, avrebbero impostato la cosa in maniera assai diversa, e certamente più scomoda per il governo. Prima di tutto si sgombera il campo dalle macerie di un dibattito demenziale, che è forse la più grande ed incancellabile colpa dei socialisti d’un tempo: non esiste la possibilità di rifiutare l’energia nucleare. E’ una solenne cretinata supporlo, e i “comuni denuclearizzati” sono luoghi che annunciano all’ingresso l’essere abitati dalla stupidità. Siamo circondati dalle centrali nucleari, destinate ad aumentare. Punto, il resto son bubbole. Posto ciò, le scelte politiche devono riferirsi a dove fare le centrali e quale tecnologia utilizzare, con tutto quel che segue, dalla sicurezza al trattamento delle scorie.

Un’opposizione che volesse sembrare tale avrebbe gioco facile, perché il governo annuncia il proprio favore al nucleare, ma la maggioranza non dispone di un solo amministratore locale che abbia fin qui detto l’unica cosa sensata: la mettete nel nostro territorio, ma ci riempite di agevolazioni e benefici. Al contrario, invece, sono molti gli amministratori di centro destra che hanno proclamato la loro eterna contrarietà. E già sarebbe grave, se non fosse che anche il capo della loro parte politica, nonché presidente del Consiglio, ha, talora, fatto loro da sponda. Come in Puglia, dove, per perdere la faccia, oltre alle elezioni, s’è detto: qui non si fanno centrali, perché la regione è autosufficiente. Che sarebbe come dire agli argentini: qui non si alleva più bestiame da macellazione, altrimenti ci viene la gotta a tutti.

Un’opposizione che non coltivasse l’orrore di se stessa avrebbe trovato qualche cosa da dire, circa il fatto che il governo abbia sostenuto di potere indicare i primi siti, anzi no: le modalità per la scelta dei primi siti (e, lallero, campa cavallo), dopo avere convinto la popolazione che trattasi di una gran bella cosa. E che le abbiamo fatte a fare, le elezioni, se gli eletti subordinano le decisioni al preventivo gradimento? E, un’opposizione puntuta, avrebbe anche colto l’occasione offerta dalla mesta vicenda del ministro competente (per materia, intendo), osservando che, pur favorevoli al nucleare, si spera che a trattare con i fornitori si mandi qualcuno che faccia meno affidamento sull’inconsapevolezza dei benefici ricevuti.

Invece niente, nella più classica tradizione della sinistra, colma di menti troppo vaste per non sbatacchiare fra di loro, non hanno trovato di meglio che indirizzarsi un appello interno, accusandosi vicendevolmente d’essere arretrati e ideologicamente chiechi, come d’essere avventati e pregiudizialmente incoscienti. Uno splendore, che rischia di nascondere la grande intuizione collettiva, che unisce destra e sinistra: il nucleare non è una fonte d’energia, ma di dibattito. Meno si fa e più se ne può parlare, con gran benefico della vecchia generazione verde, che può ora riprendere la parola. Sia per ribadire le castronerie d’un tempo, sia per partecipare di un altro grande filone antropologico nazionale: il pentitismo che pretende di dare lezioni a quelli che avevano ragione.

Così, una chiacchiera tira l’altra e tutte quante ci costano un botto, perché l’energia la compriamo, a caro prezzo, da chi le centrali nucleari le ha. E’ esattamente a questo punto che il copione prevede l’intervento del solito saccente, incaricato di dirci che il futuro, quello vero, è nell’eolico e nel solare, nelle fonti rinnovabili. E a noi, cui girano anche le pale ed arroventano i pannelli, toccherà rispondere che l’una cosa non esclude l’altra e tutto concorre a renderci energeticamente indipendenti. Ma tutto cosa? Che qui gli unici soldi che scorrono sono quelli degli incentivi, per fonti non convenienti, e quelli dei cittadini, per fonti estere!

Concludendo: condivido l’appello dei 72 e condivido la scelta del governo. Peccato che non producano un accidente.

Caro Cav, non badi ai nemici: è il suo momento d’oro. Giancarlo Perna

Se mai c’è stato un momento d’oro per il Cav, è questo. D’accordo, i magistrati sono in agguato. Ma è routine e non vale la pena farsi distrarre. Inutile pure che il Cav si inalberi perché Serena Dandini lo piglia per i fondelli su Raitre. Se ne infischi! Idem per Sabina Guzzanti che fa la parodia degli sforzi fatti per l’Aquila. Lasci che si sfoghi, è il suo modo di «realizzarsi». Dica anzi a Sandro Bondi di andare a Cannes invece di tapparsi al ministero e fare l’offeso. Le sorrida, mandi delle rose. Chi se ne impipa di quello che dicono queste ragazze. Mica tutti possono essere d’accordo col governo e il centrodestra. Se poi esagerano, sono maleducate, se la vedranno loro con gli spettatori. Ma lei, Cavaliere, non stia lì a rimuginare. Badi al sodo, tanto è lei che ha avuto i voti per governare. Non si tratta nemmeno di vedere il bicchiere mezzo pieno. Le sta davvero andando tutto a gonfie vele. E, se permette, glielo dimostro.
A Bruxelles, con Tremonti, ha fatto un figurone. Siete stati voi a pungolare l’Ue sulla Grecia e contro la speculazione internazionale. Non sono io a dirlo: ve lo ha solennemente riconosciuto Giorgio Napolitano. Il presidente è un ex comunista e un uomo di Palazzo. Immagino che, all’inizio, abbia avuto qualche prevenzione. Le vostre biografie sono agli antipodi. Eppure è da tempo al suo fianco. È come se si fosse convinto che il centrodestra abbia più a cuore il Paese dell’opposizione da cui proviene. È stato semmai lei che ha misconosciuto l’equilibrio di Napolitano. A volte con ingiustificata rudezza come per il Lodo Alfano bocciato dalla Consulta. Comunque, al vostro rientro da Bruxelles, il presidente ha detto: «L’Italia ha fatto la sua parte e l’ha fatta nel senso giusto, sollecitando più l’Europa contro ogni ripiegamento su meschini e indifendibili egoismi nazionali». È una lode nel merito e nelle intenzioni. Più di così.
Il giorno prima, Napolitano aveva anche dato una mano a Bondi sul contestato provvedimento che riordina i contributi allo spettacolo. Mentre gli artisti l’hanno presa malissimo con scioperi e insulti, il capo dello Stato è andato al premio David di Donatello e ha fatto un discorsetto controcorrente che ha lasciato di stucco la platea. Ha detto in sintesi che siamo alle prese con una crisi finanziaria globale e che perciò ci vuole «ancora più intelligenza nel selezionare le risorse finanziarie pubbliche anche per le attività culturali, artistiche e cinematografiche». Ossia, ha dato ragione al ministro e torto ai cineasti. Quelli ci sono rimasti di peste tanto è vero che nei loro comunicati e organi di stampa, facendo buon viso, si sono limitati a dire che il discorso era stato bellissimo censurando però il passaggio non gradito. Questo, caro Cav, è un altro punto per il suo governo. Piuttosto c’è da dire che Bondi - temendo forse le contestazioni - al David non si era fatto vedere. Sarà timidezza o amore del quieto vivere ma è bene che il ministro vinca queste ritrosie più da seminarista che da politico. Urge un incontro a quattr’occhi.
Ripeto - egregio Cav - il suo è un momento d’oro. Non solo Napolitano le è vicino, perfino l’inquieto Pierferdy Casini si è dato una calmata. L'estate scorsa voleva «un governo di emergenza democratica» contro di lei. Un nuovo Cln, con l'Udc e tutto il ventaglio delle opposizioni, per metterla da parte. La proposta mandò in brodo di giuggiole l’ipersinistro Paolino Ferrero che esclamò: «Bravo! Noi per sconfiggere Berlusconi ci alleiamo anche col diavolo». Bene, ora Pierferdy ha capito che accantonarla è cosa più grande di lui. Così, per tornare in qualche modo nella stanza dei bottoni, giorni fa ha prospettato un altro tipo di governissimo. Tutti insieme, destra, sinistra e la sua inutile Udc, per fare le riforme. Ma presieduto da chi? Da lei, proprio da lei, egregio Cavaliere. Se non è chiedere scusa, è quantomeno andare a Canossa.
E non è finita. Ha seguito il Convegno del Pd di Cortona? Liti a fiumi ma su un punto accordo unanime: abbiamo sbagliato tutto. L’invidia per la Lega si tagliava a fette e così c’è stato un rovesciamento radicale sul problema dell’immigrazione. Troppi ingressi, va tirato il freno. Sembravano la fotocopia di Bossi e del Fini che fu. Fassino, per incoraggiare i compagni sulla nuova strada, ha ricordato il motto dei laburisti inglesi: «Venire in Gran Bretagna è un privilegio e non un diritto». Come dire: facciamolo nostro. Poi ha ammonito: «Porte meno aperte». A chi gli ha chiesto se la sinistra era stata fin qui troppo permissiva, ha risposto: «Un conto era quando l’immigrazione era al 5 per cento. Ora siamo tra i 10 e il 15». Insomma, voltafaccia totale. E questo ancora, Cav, è darle completamente ragione sia pure con un decennio di ritardo.
Non vorrei adesso ringalluzzirla troppo, ma piove davvero sul bagnato. Ha letto la lettera sul nucleare indirizzata a Bersani da 72 tra scienziati - Veronesi e Margherita Hack in testa - e tizi vari del Pd? Sono mille volte più dalla sua parte che da quella dei compagni. Va bene criticare il governo - dicono in sostanza i firmatari - ma è «incomprensibile la sbrigatività e il pressappochismo con cui nel Pd» si manifesta «l’avversione in alcun modo giustificata al reingresso dell’Italia nelle tecnologie nucleari». «Siamo l’unico Pese del G8 che non produce energia nucleare». «Occorre evitare che nel Pd prenda piede un atteggiamento elitario e snobistico che isolerebbe l’Italia dalle frontiere dell’innovazione». Splendido. La chiusa è pure meglio: «Il nucleare non è di sinistra né di destra». Un liscio e busso dell’accidente ai cavernicoli dei partito! Lei fa la figura del precursore. Loro quella degli attardati col fiatone.
Non sono affari miei, ma va detto che il suo raccolto è completato dalla felice conclusione finanziaria del suo divorzio: pagherà dieci volte meno di quanto richiesto da controparte. Vede bene che non ha davvero da lamentarsi. Ora può mettere completamente la testa alle riforme.
Ci sono i magistrati. Giusto. Ma un po’ deve sopportare. Scajola dovrà pure spiegare la storia della casa e Verdini perché si occupa di pale a vento quando il Pdl ha bisogno delle sue cure. E poi, senta, lei ha un modo certo di saggiare la buona fede delle toghe: riformi la Giustizia. Se passa dalle chiacchiere al dibattito parlamentare, la magistratura sarà attentissima a evitare abusi per non essere accusata di ammutinamento. Prenderà così due piccioni con una fava: realizza il programma e richiama i giudici alla serietà. Se invece perde il treno, perde se stesso. (il Giornale)

mercoledì 12 maggio 2010

I rivali di Silvio. Storia di dieci suicidi illustri. Marcello Veneziani

Questa è la storia di dieci piccoli indiani, riferita ai dieci politici italiani di professione che dovevano fondare la Seconda Repubblica e invece affondarono, con le loro mani o con quelle del loro partito.
È in sintesi la storia politica di questi anni attraverso dieci suicidi, diretti o provocati, modulata sul celebre romanzo di Agatha Christie... E poi non rimase nessuno, un giallo che prendeva lo spunto da una filastrocca americana dell’Ottocento, Ten little niggers, Dieci piccoli negri. Il romanzo racconta di dieci persone invitate a soggiornare nell’Isola Negra ed eliminate una dopo l’altra. Una storia accompagnata da un ritornello che si ripeteva ad ogni eliminazione: solo nove ne restar, solo otto ne restar... fino all’ultimo che si conclude con «e nessuno ne restò».
Ma rivediamo in sequenza i dieci piccoli indiani della nostra Repubblica.
In principio fu Mariotto Segni, che inventò la carrozzeria della nuova Repubblica, la bicicletta detta bipolarismo dell’alternanza; ma poi non seppe andarci su, non pedalò verso uno dei due poli e così cadde dalla bicicletta da fermo. Lavorò per un sistema bipolare ma non accettò di interpretare il ruolo alternativo alla sinistra, rifiutò gli inviti a farlo e lasciò così lo spazio ad un outsider giulivo, Silvio Berlusconi. Disperso Segni, solo nove ne restar...
Salì allora sulla bici Achille Occhetto, che la ribattezzò la gioiosa macchina da guerra. Ma la macchina si inceppò, non calcolò bene le varianti del percorso, l’onda antipolitica che salì dal Paese e andò a sbattere contro l’outsider di prima, che aveva nel frattempo coalizzato altri outsider della Prima Repubblica, il missino Fini e il leghista Bossi, più ripescaggi di dc e affini che avevano capito la fine del terzismo e la necessità di schierarsi in uno dei due poli. Perduto il prode Achille, solo otto ne restar.
Provarono allora, con la noiosa macchina da guerra, Romano Prodi, un ciclista tenace e gommoso, mezzo outsider e mezzo impastato, che riuscì, aiutato dalle circostanze ambientali, giudiziarie e politiche, a spuntarla per ben due volte. Ma bucò con governi brevi e malmessi, sostituiti o saltati in corso d'opera. Il Mortadella fu affettato dai suoi stessi alleati che da premier uscente non lo ricandidarono. Imbalsamato Prodi, solo sette ne restar.
Venne la stellina di Rutelli, bello di mamma, cocco de Roma, che fu candidato contro il Berlusca, dopo un decennio di sindaco romano e ciclista. Moderato e progressista, radicale e pian pianino clericale, Rutelli fu battuto da Berlusca, eclissato con i Verdi e infilzato dal rigurgito della sinistra frustrata, che voleva tornare ad avere la guida della coalizione. Giubilato Rutelli, solo sei ne restar.
Lungo il tempo si consumò, per stadi come uno sputnik sovietico lanciato nello spazio, anche il Massimo della Sinistra, detto D’Alema. Fu bruciato per gradi, con una Bicamerale ridotta a camera ardente, poi guidando un governo usurpato ma spazzato dalle urne, quindi con le batoste avute nel suo partito e una serie di guai di ogni genere, banche, barche, scarpe, case, signorine per la sua corrente e via dicendo. Fu bruciato nella corsa al Quirinale, poi in Europa e ovunque, infine si fece spernacchiare in Puglia da Vendola. Insomma, perse lungo la strada il carisma del Migliore. Sbianchettato anche D’Alema, solo cinque ne restar.
Fu il turno del fratellastro Walter Veltroni, compagno e nemico di lui da sempre. Aveva creato tante aspettative con la sua sinistra dei Puffi, aveva fatto il sindaco di Roma riducendo la Città Eterna a una fiction, aveva spazzato via ogni sinistra, ma alla fine perse pure lui la sfida col Berlusca. Allora minacciò di andarsene in Africa, si finse scrittore, ma restò senza mestiere. Spupazzato anche Veltroni, solo quattro ne restar.
Si tentò allora con il suo clone in versione cattolico-emiliana, Dario Franceschini, venuto dalla Margherita, e pure lui sfidò il feroce Berlusca con una campagna elettorale da passeggio. Non fece in tempo a sentirsi un leader che il povero Franceschini fu spazzato via da una sconfitta e dai mal di pancia della sinistra che tornava a reclamare la guida del partito. Sgonfiato Franceschini solo tre ne restar.
E qui ci tocca passare all’altro versante, dove la stagione dei mal di pancia cominciò con Marco Follini. Fu lui il sottile precursore degli scismatici, il primo vicepremier che si mise in proprio, attaccando il Berlusca e ritenendo di essere il capofila di una lunga serie. Invece finì da solo, prima passò alla Margherita, poi ai crisantemi. Spuntato lo spillo Follini, solo due ne restar.
A ruota, dopo anni, seguì la pista il suo sodale Pier Ferdinando Casini, che non ce la fece più ad aspettare l’abdicazione del sovrano e a sentirsi ragazzo, pretese le chiavi di casa e alla fine si fece un pied à terre tutto suo. Ma restò lì, nell’azzurra terra di mezzo, come il Messaggero di una nuova dc in terra che poi non si vide. Evaporò pure Casini ed uno solo ne restò.
Quell’ultimo si chiamava Gianfranco Fini, era cresciuto all’ombra di Almirante, e da lui aveva appreso l’arte del comizio e del parlare in tv. Poi la botta di vita con la fine della Prima Repubblica, la discesa di Berlusconi, la regìa di Tatarella, l’alleanza e infine - chi l'avrebbe mai detto - il Potere. Ma il Potere unito all’Impotenza di sentirsi secondo, gli fece perdere la testa, così si mise in proprio e finì a guidare da presidente della Camera un gruppuscolo di parlamentari; quasi l’otto per mille, come l’obolo alla Chiesa.
Scemato anche Fini, nessuno dei politici di professione restò in piedi. Così sono rimasti in auge solo gli antipolitici: Berlusconi su tutti, più due tribuni della plebe, Bossi in sua difesa, e Di Pietro in sua accusa. A sinistra invece c’è solo un difensore d’ufficio, Bersani. Questa è la breve storia della Seconda Repubblica in dieci suicidi, raccontata nello stile di Agatha Christie.
P.S.: Berlusconi sarà lieto di sapere che l’assassino nel giallo di Agatha Christie era un giudice. (il Giornale)

lunedì 10 maggio 2010

Berlusconi fa lo statista, altri persi in polemichette. Daniele Capezzone

Scena uno di un weekend italiano. Silvio Berlusconi, forte di una linea elaborata con Giulio Tremonti e condivisa da tutto il governo, vola a Bruxelles, fa asse con Sarkozy e convince i partner europei di una linea tempestiva ed efficace per circoscrivere gli effetti della crisi greca, evitando nuovi assalti della speculazione internazionale. Quattro i punti essenziali: la costituzione di un fondo europeo di salvaguardia, un vero e proprio “super-salvadanaio” per fronteggiare le situazioni di emergenza; impegno della Bce ad acquistare i titoli dei Paesi in difficoltà (purché, ovviamente, questi si impegnino a rigorose misure di risanamento); emissione potenziata, da parte della stessa Bce, di eurobond; novità sul fronte del rating, che non può rimanere ostaggio delle insondabili volontà di tre agenzie private.

Scena due dello stesso weekend italiano. Walter Veltroni torna in campo, in un seminario di corrente, a Cortona, e attacca a testa bassa Bersani e D’Alema. Motivi del contendere? Sì o no all’alleanza con l’Udc, e il modello di partito più auspicabile per il Pd.
Scena tre. Ad una osservazione assolutamente sennata e ragionevole, animata da totale buon senso, di Gaetano Quagliariello, il quale ha fatto notare che sarebbe lunare consentire a quattro-cinque tenutari di talk-show di “pompare” nuove formazioni politiche per via televisiva, attraverso il “format” della rissa tra esponenti del Pdl, fa seguito una serie di reazioni - politiche e giornalistiche - stizzite e rabbiose.

Scena quattro. A quaranta giorni dal successo elettorale, la situazione nel Lazio appare in alto mare, tra la comprensibile irritazione della neopresidente della Regione, il tira e molla dei partiti vogliosi di assessorati, le rivendicazioni locali e localistiche dei rappresentanti dell’una o dell’altra provincia.Chi scrive ama la politica, e sa bene che essa non è fatta solo di grandi idee e di grandi scenari, ma pure di un faticoso e non sempre gratificante lavoro di bottega: comporre gli interessi, gestire il “fattore umano”, supportare il lavoro sui contenuti attraverso una “macchina” funzionante. Tutto giusto, per carità: però c’è un limite. E non sfugge a nessuno la distanza che passa tra la dimensione da statista in cui Silvio Berlusconi è riuscito a muoversi, e - invece - le polemichette modeste in cui sembrano intrappolati troppi altri protagonisti della scena italiana. Sarebbe anche loro interesse darsi obiettivi più ambiziosi: altrimenti, poi, non avranno il diritto di sorprendersi se gli italiani continueranno a preferire Berlusconi rispetto al (semi)vecchio e (semi)nuovo personale politico di sinistra, di destra e di centro. (il Velino)

Buco nell'ozono non fa più paura. TGCOM

Sembrerà incredibile, ma è vero. A venticinque anni dalla sua scoperta, il buco nell'ozono non fa più paura. Stando a un gruppo di scienziati che ha monitorato e studiato il fenomeno, la catastrofe annunciata si risolverà infatti con un lieto fine. Entro il 2080, stando a quanto riporta Repubblica, grazie soprattutto al bando dei prodotti cfc, lo strato che ci protegge dai raggi ultravioletti si richiuderà completamente.

Scoperto nel 1985 al Polo Sud dallo scienziato britannico Jonathan Shanklin, il buco nell'ozono aveva messo subito in allarme il mondo intero, costringendo l'Onu a far firmare il protocollo di Montreal per l'abolizione dei clorofluorocarburi, responsabili dell'assotigliamento della fascia di gas protettiva.

"Ricordo con all'epoca il pubblico attendeva con ansia delel risposte dai governi. Le videnze scientifiche erano forti e chiare: c'era un legame tra l'assottigliamento dello strato di ozono e il cancro della pelle - ha spiegato Claudio Cassardo, che insegna meteorologia, fisica del clima e dell'atmosfera all'università di Torino.

Nel giro di 25 anni la situazione però sembra essere radicalmente cambiata e gli esperti, con cauto ottimismo, prevedono un ripristino totale dei buchi d'ozono. "Oggi è ancora presto per parlare di una guarigione - ha precisato ancora Cassardo - I gas nocivi restano infatti per parecchi anni nell'atmosfera prima di svanire. Al momento osserviamo una riduzione della velocità di assotigliamento dell'ozono. Credo che ci vorranno altri 25 anni prima che lo strato inizi a crescere di nuovo".

Le dimensioni del buco, del resto, dipendono molto dall'andamento delle stagioni e ogni anno cambiano notevolmente. L'allarme, stando ai tecnici, dovrebbe comunque cessare completamente nel 2080, quando lo strado di ozono tornerà ai livelli del 1950, anno in cui ha iniziato a calare di spessore. (TGCOM)

sabato 8 maggio 2010

I finiani la scissione la fanno in tivvù: è chic e non impegna. L'uovo di giornata

E’ bastato dire una cosa semplice semplice e si è scatenato il fini-mondo. Coi finiani, appunto, sugli scudi per ciò che Gaetano Quagliariello ha “osato” dire in un’intervista a Il Tempo. Il ragionamento suona così: dentro il partito si discute, si articolano le posizioni ma poi si decide ''e alla fine la voce all'esterno è e deve essere unica. Altrimenti ci sarebbero due partiti''. Il vicepresidente dei senatori Pdl non nega che all’interno del partito si sia creata una dissidenza e che lo scontro tra Fini e Berlusconi sia avvenuto. Bene ha fatto la stampa a raccontarlo e bene hanno fatto le trasmissioni tv di approfondimento politico a invitare gli esponenti delle due diverse posizioni.

Tutto normale per la settimana successiva alla direzione nazionale, molto meno se si continua così perché “non si può pensare che d’ora in avanti diventi un'abitudine che due persone elette tra le file dello stesso partito vengano invitate nei salotti del piccolo schermo in quanto portatori di due posizioni diverse”, avverte Quagliariello che cita l’esempio del Pd che al suo interno ha una maggioranza e una minoranza, peraltro già certificate dalle primarie . Ma non per questo, “ai dibattiti tv viene invitato un rappresentante dell'area Bersani e uno di quella Franceschini. C'è un esponente del Pd, che prende posizioni con sfumature differenti in base alla corrente di provenienza, ma che nel momento in cui parla rappresenta la voce unica del Pd. Con noi ultimamente questo non avviene e quel che viene fuori è un’immagine falsata del partito”. E se i politici “possono e devono evitare” declinando qualche invito in tv, chi dovrebbe tornare a “rispettare le regole della comunicazione politica – un esponente per un partito - sono gli editori e i conduttori dei talk show televisivi”, dice l’esponente pidielle . Sui finiani rileva la contraddizione di fondo: “Si sono sempre detti contrari a un partito fatto di correnti tradizionali. Ora però si stanno comportando come se appartenessero a una fazione diversa dalla nostra”.

Dalle truppe del presidente della Camera si leva la voce del pasdaran Carmelo Briguglio che si domanda, stizzito, se Quagliariello pensa di “imporre che nei talk-show il Pdl sia rappresentato da un solo esponente. Che vogliamo fare ? Mandare un documento del partito alle redazioni perchè si uniformino?”. Il botta e risposta va avanti coi fedelissimi dell’ex leader di An , Italo Bocchino e Fabio Granata. Il primo in linea di principio dà ragione a Quagliariello ma poi gli rigira l’interrogativo polemico: “Ma chi decide chi va in tv? Al momento mi sembra che manchino le regole per stabilirlo''. Il secondo, in nome del pluralismo e dell’arricchimento reciproco tra storie e culture diverse, serve l’affondo: “L’intervento di Quagliariello mi sembra del tutto inopportuno e se fosse preso sul serio sarebbe anche grave. Come si fa a teorizzare in un partito moderno sulla base del pensiero unico?”.

Da segnalare la replica del senatore Luigi Compagna che con una punta di sana ironia domanda ai colleghi finiani se non si intenda “introdurre una sorta di manuale Cencelli delle esternazioni, di tipo pentapartitico: Lega, Pd, Idv, minoranza interna finiana e Udc”, osservando che "apprezzabile mi pare al riguardo la castità della maggioranza interna berlusconiana. Ovviamente la libertà di informazione è tutt'altra cosa, come del resto il vero manuale Cencelli del buon tempo antico”.

Viene da chiedersi: se si fosse stati in campagna elettorale, in mancanza dunque dei soliti talk show, cosa avrebbero chiesto la “minoranza” finiana: una fette delle tribune politiche in quota Pdl? (l'Occidentale)

Bidoni e bufale. Paolo Togni

Riporta il Mundo che nei mesi di novembre e dicembre del 2009 gli impianti fotovoltaici della Spagna – che traducono in energia l’irraggiamento solare – hanno prodotto in otto ore giornaliere di attività seimila megavattora di energia elettrica, per la quale i loro gestori hanno incassato quasi tre milioni di euro di incentivi statali relativi alla produzione di “energia pulita”. Niente da rilevare in proposito, se non che tale produzione è avvenuta tra le ventitré e le sette di mattina, cioè in un periodo nel quale, specialmente in inverno, l’oscurità è totale e il sole non brilla affatto. Del resto lo stesso autorevole quotidiano informa che nello stesso periodo i campi fotovoltaici della Castiglia hanno lavorato al 65 per cento del loro potenziale tra la mezzanotte e le una del mattino, contro una prestazione del 16 per cento circa tra le dodici e le tredici. Questi dati non sono invenzione giornalistica, ma frutto ufficiale delle rilevazioni della Cne, la Commissione nazionale spagnola per l’energia, la quale attribuisce il dato sorprendente al fatto che l’energia dichiarata “verde” e “da fonte rinnovabile” sia stata di fatto prodotta utilizzando potenti motori diesel e gli idrocarburi che tali macchine consumano nella loro attività. L’informazione non deve stupire: è regola che dati e fatti diffusi dai conformisti verdi e da coloro che strumentalmente vi si insinuano siano falsi, così come i loro comportamenti tendano al truffaldino e come le loro teorie siano in effetti per lo più ipotesi non comprovate e poco plausibili spacciate per verità sacrosante, a fine di lucro (spesso) o allo scopo di acquisire influenza sull’opinione pubblica e sulle istituzioni. In effetti, molte delle parole d’ordine del conformismo ambientalista sono prive di significato, asserzioni false basate su premesse errate, in buona fede o in mala fede che questo avvenga.

Basterà ricordare la panzana della inesistente fragola-pesce Ogm; la pretesa pericolosità del cosiddetto elettrosmog, negata da tutte le statistiche mediche; il sostegno ai prodotti agricoli biologici, dei quali sono tutte da dimostrare la superiorità rispetto a quelli oggetto di trattamenti chimici e la non nocività, negata da Umberto Veronesi; il progressivo peggioramento delle condizioni dell’atmosfera, che invece sono drasticamente migliorate negli ultimi decenni (basta guardare i dati volendo vederli); e, per chiudere questo che non è neanche un abbozzo di indice, ma solo un richiamo per esempi sporadici, la menzogna dell’origine antropica del riscaldamento della Terra, che sta dando luogo alla più grande truffa della storia e rischia di mettere in crisi l’economia del mondo sviluppato e il nostro stesso futuro. Su ognuno di questi argomenti ci sarebbe da intrattenerci a lungo, e col permesso dei superiori forse lo farò. Fermo dunque restando che mai come nei nostri tempi tanti uomini hanno goduto di condizioni di vita tanto buone, come è anche dimostrato dai dati sulle aspettative di vita, è comunque pur vero che ci troviamo ad affrontare problemi ambientali realmente incombenti; i quali, però, postulano un approccio migliorista, nel senso che occorre avvicinarsi progressivamente ad uno stato di cose più soddisfacente, laddove un approccio integralista potrebbe condurre a contraccolpi pesanti sulla produzione e sul benessere.

Chiarito che il primo problema ambientale sono ambientalisti e verdi, che sollevano problemi inesistenti e sostengono soluzioni cervellotiche, è sicuro che deve migliorare ancora la qualità dell’aria, proseguendo nell’andamento già evidenziato, e che ciò non può essere ottenuto impedendo il riscaldamento e i trasporti; deve migliorare la qualità delle gestioni idriche, che oggi sono insufficienti soprattutto dal punto di vista del trattamento dei reflui; occorre procedere alle bonifiche di una infinità di siti inquinati, fin qui impedita da normative talebane e da gestioni amministrative che – applicando la regola somma della burocrazia – volevano rendere difficile il facile attraverso l’inutile, e ci riuscivano perfettamente; bisogna provvedere alla messa in sicurezza di gran parte del territorio nazionale, fragile per sua natura e martoriato da improvvide iniziative immobiliari; è necessaria una finalmente intelligente tutela della biodiversità, che superi posizioni stolidamente estremiste e concili la presenza dell’uomo sul territorio con la presenza delle specie animali e naturali presenti. E c’è il problema dei rifiuti cui trovare una soluzione strutturale. Si tratta di un problema presente in Italia e in alcuni paesi in via di sviluppo: in moltissime società sviluppate, infatti, tale problema è ottimamente risolto.

I dati della questione sono abbastanza semplici: ogni uomo nella sua vita produce quotidianamente una certa quantità di materiali da smaltire, i rifiuti appunto, che sono detti Rsu (rifiuti solidi urbani) e sono in quantità più o meno proporzionale al livello di vita del produttore. Ogni processo industriale produce giornalmente una certa quantità di materiali da smaltire: i rifiuti così detti industriali, per la loro origine. I rifiuti, Rsu o industriali che siano, per ovvi motivi devono essere smaltiti, cioè eliminati. Ciò può avvenire accantonandoli dove non diano fastidio (la discarica) oppure distruggendoli (le varie forme di incenerimento). O riutilizzandoli, se ciò sia possibile: nel qual caso non si deve più parlare di rifiuti, ma di materie prime secondarie. Poiché comunque si tratta di sostanze alcune delle quali possono dare fastidio o addirittura creare rischi per la salute, il loro smaltimento o il loro riutilizzo deve avvenire secondo regole precise e fornendo alla cittadinanza tutte le necessarie garanzie igienico sanitarie.E’ evidente che la soluzione migliore è quella del riutilizzo dei rifiuti, che consente anche un forte risparmio di materie prime vergini; tuttavia l’atteggiamento “panrifiutista” di ambientalisti, magistrati e legislatori ha molto limitato nel nostro paese la possibilità di riutilizzo dei residui, finché nel 2006 una nuova legislazione, recepita poi da una direttiva europea del 2008, non ha reso più semplice e fluida l’operazione.

Ho detto che in tutto il mondo civile i rifiuti non sono più un problema, anzi la loro gestione, che avviene in genere a costi molto inferiori rispetto a quelli italiani, è un importante comparto economico, e genera utili significativi. Il motivo di questa differenza è semplice: in altri paesi (e in poche, virtuose, situazioni locali italiane) si è organizzato il ciclo dei rifiuti in maniera strutturata. In esso le varie attività – raccolta, selezione, smaltimento – concorrono a formare una vera e propria realtà industriale, gestita da un soggetto imprenditore qualificato, nella quale tutto è organizzato e coordinato secondo i migliori parametri tecnici, e al fine di produrre profitto. Che, in genere, è tutt’altro che scarso.

Il ciclo virtuoso e non parassitario dei rifiuti prevede, naturalmente, che una significativa percentuale degli stessi sia mandata a termovalorizzazione: in alcuni paesi quasi il settanta per cento del raccolto fa questa fine. Non in Italia, però. Per tanti motivi, il principale dei quali è l’estrema difficoltà, talvolta l’impossibilità, di realizzare impianti di combustione. Le cause di questa difficoltà di concretizzare opere utili per la comunità sono diverse: certamente una quota importante di queste ricade sulla incapacità e sull’ignoranza di amministrazione dei gestori pubblici. Se non si riesce a realizzare una piscina nel rispetto della normativa esistente, perché si dovrebbe riuscire con un termovalorizzatore? Tanto più che contro la costruzione di un inceneritore si risvegliano pulsioni potenti: l’ignoranza e la paura, che, combinate insieme, costituiscono una miscela esplosiva.

Nelle persone in buona fede c’è la paura per i danni che potranno derivare alla salute dei cittadini, quindi anche alla propria; ed è giustificata dall’ignoranza delle condizioni reali di operatività di un impianto di termovalorizzazione, che è obbligato a lavorare a temperature talmente alte da impedire la formazione di composti dannosi. In effetti le diossine non possono formarsi sopra i novecento gradi, e per legge un termovalorizzatore non può funzionare sotto i milleduecento. Se poi aggiungiamo che sull’argomento chiunque parla a schiovere, ci troveremo ad ascoltare frasi tra l’esoterico e il biblico: “L’inceneritore è il diavolo!” ha affermato nella fase più calda dello scontro il vescovo di Acerra. Ora, è vero che il magistero della chiesa riguarda principalmente gli argomenti spirituali, e quindi tutti hanno il diritto di mettere in non cale affermazioni su questa materia, ma la prudenza è pur sempre una virtù che i cristiani sono chiamati a esercitare sempre, e specialmente quando si tratta di temi che già di per sé hanno infiammato l’opinione pubblica. Resta da dire poi che, come hanno esaurientemente dimostrato gli approfonditi studi dell’Epa, le diossine, e in quantità notevole, vengono prodotte dai rifiuti deposti in discarica: ma a questo nessuno pensa.

D’altro canto, resa difficile la realizzazione dei termovalorizzatori, accertata la scarsa salubrità dello smaltimento in discarica, occorreva pur trovare una soluzione per il problema dei rifiuti. E così viene alla luce un altro totem del conformismo ambientalista: la raccolta differenziata, che da molte teste deboli o vuote, e da qualche illuso, è vista come la panacea di tutti i mali, la soluzione per tutti i problemi; chi non la pratica viene messo all’indice e additato come un sozzo mascalzone, nemico del bene comune. Come molti miti, anche questo è frutto di una micidiale combinazione di interessi e ignoranza, di propensione al burocratismo e di nostalgia per forme più penetranti di limitazione della libertà. Come è evidente di per sé, la raccolta differenziata va bene se è parte di un processo organico e coerente, che regga dal punto di vista economico e ambientale: essa sarà praticabile e opportuna se, e solo se, il suo bilancio sarà positivo. Il controllo sulla validità del ciclo economico, però, sarebbe possibile solo se fosse rispettata la legge che stabilisce l’obbligo della gara per assegnare il servizio, e a oggi tale norma è disattesa in maniera praticamente totale: il servizio spesso viene affidato a società capziosamente definite pubbliche, ma che sono in effetti controllate dalle forze politiche territorialmente dominanti, e il cittadino utente paga il conto a piè di lista, contribuendo così al finanziamento di quel mondo parapolitico che è una delle peggiori iatture italiane.

A questo processo contribuisce anche la raccolta differenziata: infatti occorre chiarire che raccogliere i rifiuti in forma differenziata costa alquanto più che raccoglierli in modo indifferenziato, anche se una logica corretta vorrebbe che i ricavi della vendita dei materiali differenziati debbano almeno coprire tali costi. L’Unione europea ha pienamente condiviso questa opinione, e nella più recente Direttiva sui rifiuti (dicembre 2008) dispone che la raccolta differenziata sia fattibile a condizione che sussistano necessità di carattere economico o ambientale: non dispone, in proposito, né obblighi né obiettivi quantitativi. Diversamente la legge italiana, che stabilisce, con una norma del 2006, l’obbligo per i comuni di arrivare al 65 per cento per cento di differenziazione nel 2013. Che una norma del 2006 non sfrutti tutta la potenzialità offerta da una direttiva del 2008 è ragionevole; meno facile è capire perché tali obiettivi siano stati confermati nello schema di Decreto legislativo con il quale si recepisce la Direttiva del 2008, recentissimamente approvato dal Consiglio dei ministri, dato che il mancato rispetto di una norma assurda da parte di molti comuni, facilmente prevedibile, determinerà la cessazione dei contributi regionali.

Tecnicamente, dunque, una raccolta differenziata che non faccia parte di un ciclo industriale imprenditorialmente corretto non ha senso. Nelle condizioni nelle quali oggi è perlopiù realizzata, essa per i cittadini costituisce un costo, ma non solo: è anche una gran rottura di scatole. E’ certo che raccogliere i rifiuti in vari sacchetti a seconda della loro natura, trattenerli finché venga il momento di consegnarli agli addetti o al luogo di raccolta, risolvere l’imbarazzo circa la destinazione di materiali particolari, non è il massimo della vita: conosco molti uomini di carattere mite che danno in escandescenze al solo pensiero di doversi acconciare a questi comportamenti penosi. Né può convincerci a un atteggiamento più collaborativo il pensiero che così facendo contribuiamo al migliore andamento della vita sociale, dato che il concetto stesso di differenziazione è di assai dubbia validità. Potrei trovarci una certa validità solo nel caso in cui, naturalmente effettuando gli opportuni controlli, fosse lo stesso cittadino a cedere il frutto della differenziazione ad un operatore autorizzato, ricevendone il controvalore. La soluzione per oggi e per domani? Un poderoso programma di infrastrutturazione di impianti di termovalorizzazione su tutto il territorio nazionale, nei quali mandare a combustione il tal quale. Per aver espresso queste opinioni prenderò qualche altra parolaccia dagli ambientalisti, ma tanto ci sono abituato. E poi, insulti e critiche valgono quanto vale la rispettiva fonte, quindi… (il Foglio)