giovedì 27 ottobre 2011

Lunedì il pieno costa meno

Non so se quello che mi accingo a scrivere possa rientrare nella categoria della polica, ma poco importa: certamente riguarda la vita di tutti i giorni.
Mi riferisco al prezzo della benzina.
Negli anni settanta, quando il prezzo non era liberalizzato, gli aumenti venivano annunciati dalla radio il giorno prima e immediatamente si formavano lunghe code ai distributori per fare il pieno.
Oggi il prezzo del carburante è sostanzialmente libero e la concorrenza si fa sentire, anche se potrebbe "alzare di più la voce".
Guardando i prezzi delle varie Compagnie si possono notare differenze, che si amplificano con il "fai da te", anche di 15/20 centesimi. Considerando che un'auto di media cilindrata ha un serbatoio che può contenere una cinquantina di litri, il conto è presto fatto: il risparmio va dai 7 ai 10 euro.
Ebbene, a rigor di logica- laddove i distributori sono uno dietro l'altro- trovo assurdo non privilegiare il meno costoso. Invece, nonostante l'evidente convenienza, le pompe più economiche non sono prese d'assalto e l'utenza si spalma su tutti i distributori come se il prezzo non fosse determinante.
Sarebbe una bella cosa se badassimo di più a risparmiare e a dare, soprattutto i giovani, la giusta importanza al denaro: se ci permettiamo questi piccoli lussi in anni "magri" vuol dire che non siamo poi tanto messi male o siamo incoscienti e irresponsabili.
Considerando che le pensioni saranno sempre più ridotte e sempre più dilazionate, la necessità di risparmiare è impellente e necessaria.
Il 31 ottobre di ogni anno si celebra la Giornata mondiale del Risparmio: lunedì prossimo facciamo il pieno dove la benzina costa meno!

lunedì 24 ottobre 2011

Quella inutile lezione della Merkel e di Sarkozy. Giuliano Ferrara

Angela Merkel e Nicolas Sarkozy meritano parole chiare e fredde. A nome dei loro paesi pretendono di guidare l’Unione europea e da due anni non sanno come fare. “Gestione disastrosa”, è il referto stilato dal capo dell’area euro Jean-Claude Juncker. La Germania è una grande economia motrice e la locomotiva ha sbuffato fino a ora, alla grande, con le esportazioni sulla sezione del mercato mondiale che tira. La Francia gode di infrastrutture ad alto livello e di un sistema decisionale gaullista. Ma Berlino da sola non ce la fa, e il suo sistema bancario è impaniato nella crisi del debito sovrano. Lo stesso vale per Parigi, che ha in più alle spalle una crescita patologica del debito pubblico ben oltre i parametri, goffi e cucitile su misura, di Maastricht, e nel presente soffre di un deficit troppo alto rispetto a quello dei partner e di una crisi finanziaria e bancaria di proporzioni più che rilevanti ( la fine ingloriosa di Dexia insegna, ma è solo un anticipo). Nessuno in Europa è in grado di dare lezioni ad alcuno dei Paesi fondatori.

Secondo il grande economista liberal Paul Krugman, un ebreo americano di genio al quale per qualche ragione è stato perfino comminato un premio Nobel, alla radice della crisi da debito, dell’altalena di sfiducia e speculazione in cui si dondolano i mercati finanziari, c’è il moralismo punitivo a sfondo calvinista che ha fatto dell’euro l’unica moneta al mondo priva di una banca centrale capace strutturalmente, non episodicamente, di fare la funzione delle banche centrali: il prestatore di ultima istanza. Aggiungiamo l’eco culturale della Repubblica di Weimar, l’idea apocalittica che il mostro inflazionista sia sempre in agguato, sempre sbuffante, sempre scalpitante dietro ogni angolo della storia, e che i bravi, gli operosi, i capaci, i parsimoniosi alla fine sono destinati a condividere la miseria comune con le cicale. Balle. L’inflazione si sta rivelando al momento un pericolo remoto, malgrado i potenti stimoli iniettati dagli americani nel circuito della liquidità dopo la crisi dei derivati e dell’immobiliare al quale erano collegati. E il debito, checché ne pensino economisti di valore ma a volte poco fantasiosi, come Alessandro Penati di Repubblica, si cura con la sua diluizione in altro debito, specie in emergenza, con la riduzione dei gradi di patrimonializzazione dell’economia, senza nuove tasse depressive, e con l’impiego delle risorse nella crescita economica a colpi di decise riforme liberalizzatrici e privatizzatrici.

Se questo è vero, e mi sembra difficile che una diagnosi convergente dei massimi economisti keynesiani e dei massimi economisti liberisti possa essere smentita da qualche improvvisato nuovo pensiero, Berlusconi è forse l’unico che possa dare, non dico lezioni, ma indicazioni puntute e responsabili ai suoi partner. Quale Berlusconi? Quello che non si lagna, che non si accoda, che non aspetta, che non scarica il barile, che non ha timidezze e complessi verso nessuno, il Berlusconi vero che non ha mai messo piede in Confindustria, che creava ricchezza e valore e mercato quando si accumulava il debito pubblico, e anche grazie al debito pubblico che ha reso ricco e forte (paradossalmente) questo Paese; quello che crede nella libertà delle aziende e delle persone e del lavoro, che ha promesso una storica rottura delle vecchie regole, sia quando è entrato in politica sia di recente, quando la crisi da debito prometteva sinistramente di diventare la boa intorno alla quale fare girare i soliti giochi di potere.

Se Berlusconi capisse, e mi sembra che sia sulla buona strada, quanto rapidamente può girare la ruota dell’intelligenza degli italiani, ché quella della fortuna è più volatile, e quanto converrebbe a lui stesso ma soprattutto al Paese una svolta dura, radicale, scandalosa e preziosa nella direzione di un’economia della libertà, quelle parole chiare, fredde, incisive, al summit europeo, e poi sempre, sistematicamente, in tv e nel Paese e nel circuito internazionale, si deciderebbe a tirarle fuori. Le parole da sole non bastano. Il debito lo onoriamo e siamo in grado di ridurlo con l’avanzo primario da primi della classe e il pareggio di bilancio, le nostre banche soffrono le conseguenze della solidarietà con il circuito impazzito del credito mondiale ma stanno meglio di quelle francesi e inglesi, il nostro patrimonio è immenso anche per ragioni patologiche, perché sebbene cattolici e dissipatori in realtà risparmiamo come ossessi e gli imprenditori attribuiscono dividendi spesso rinunciando a investire in ricerca e innovazione (ne tengano conto i giovani caprini di Confindustria riuniti senza i politici a far chiacchiere nell’isola bella).
Siamo in condizione di non subire alcun processo, come predicano per la gola i disfattisti troppo furbi alla Scalfari e alla De Benedetti, e possiamo dire la nostra a voce alta e con la testa all’in su. Basta che Berlusconi faccia il suo mestiere fino in fondo, sacrosante e serie riforme liberali, provvedimenti di finanza straordinaria capaci di foraggiare l’economia reale, insomma le cose stesse per cui fa politica da quasi vent’anni. (il Giornale)

Il laugh-in del Foglio, domani tutti a ridere davanti all'ambasciata di Francia

L'appuntamento alle 17 a piazza Farnese. Ci saranno Antonio Martino e Giuliano Ferrara

Domani martedì alle ore 17 in piazza Farnese, davanti all’Ambasciata di Francia, si terrà un “laugh-in”, cioè un sit-in scanzonato di allegra e serissima protesta contro la ridanciana pretesa di scaricare sull’Italia i guai di un governo direttoriale disastroso dell’area euro. Delle prodezze di Nicolas Sarkozy, alias Louis De Funès, parleranno con garbo e fermezza Antonio Martino e Giuliano Ferrara. La manifestazione è promossa dal quotidiano Il Foglio.

domenica 23 ottobre 2011

Zero politici. Davide Giacalone

I giovani manifestanti dei cortei indignati, così come i giovani industriali si fanno un punto d’onore del non avere politici fra i piedi. Quel che hanno da dire preferiscono dirlo da soli e non trovano, fra i politici d’oggi, qualcuno con cui valga la pena discuterne. In più ci tengono, entrambe le gioventù, a mostrarsi indisponibili al fornire ad altri una tribuna. Sembrano l’incarnazione dell’indipendenza e della libertà, invece sono la pietrificazione della solitudine e dell’inefficacia. Alla fine si ha l’impressione che fatichino a fare i conti con la realtà.

Jacopo Morelli, che guida i giovani confindustriali, dice che siccome dalla politica arrivano “zero risposte” loro preferiscono starsene con “zero politici”. Aggiunge che tale posizione non deve essere considerata un cedimento all’antipolitica, ma una sollecitazione al passare dal dire al fare. Spero la prenda come un’autoesortazione, in modo che anche loro comprendano la necessità di passare dal lamentarsi all’agire. Gli propongo un piccolo test (sono ancora riuniti a Capri, per il loro annuale convegno): chieda ai presenti di alzare la mano se sono dei giovani imprenditori che hanno avviato una propria iniziativa e di tenerla abbassata se figli d’industriali. Gli auguro di contare molte mani, ma temo se ne sollevino poche. Nell’essere figli d’imprenditori, ovviamente, non c’è nulla di male, e se, in tale condizione, ci s’impegna nel lavoro anziché nel gozzovigliare con le ricchezze di famiglia si è degni di buona considerazione, ma il problema, appunto, è che il nostro mercato è troppo poco elastico e i giovani che fondano le imprese sono troppo pochi. Crede che tutta la colpa sia della politica? Si sbaglia, di molto.

I manifestanti di sabato scorso, al netto dell’esercito terrorista, cui si risponde con la repressione, chiedono che non si paghi il debito, che si offrano garanzie agli esclusi, che si assicuri un posto di lavoro a chi lo chiede. Sono stati in moltissimi, in questi giorni zuppi di viltà ed ipocrisie, a pronunciare la seguente e ridicolissima frase: ci si deve sforzare di comprendere le loro ragioni. No, si deve provare a trovare qualcuno che abbia la testa e la faccia per dire loro che non stanno né in cielo né in terra. Quei ragazzi chiedono di potere proiettare nel futuro il mondo storto dei loro padri e dei loro nonni, colmo degli errori che oggi ci costano un così alto debito pubblico. Più che dei rivoluzionari sono dei reazionari. Credono, loro, che i guasti con cui dobbiamo fare i conti siano tutti colpa della politica? Si sbagliano, alla grande.

La colpa della politica, da molto tempo a questa parte, consiste nel non essere stata migliore del mondo di cui era espressione. Di avere amministrato il consenso senza essere capace di aggregarlo attorno a idee nuove, in questo modo illudendo e illudendosi che il tirare a campare fosse già un risultato apprezzabile. Tale colpa ce la trasciniamo dietro dall’eclissi dell’ultimo sforzo riformista, più o meno coincidente con l’appannarsi del centro sinistra (preistoria, me ne rendo conto, ma senza conoscerla sarà complicato costruire un futuro che non sia la mesta riproposizione del presente). Ci sono stati alti e bassi, ma da troppo ci trasciniamo senza mettere in campo un ideale che non degeneri in ideologia. Questa colpa politica, però, coincide con l’avere aderito a quel che gran parte della società chiedeva: dai sussidi alle imprese bollite, che avrebbero meritato di fallire, al mantenimento di posti di lavoro improduttivi, dagli appalti pubblici gestiti in regime di connivenza fra amministratori e imprese, all’allargamento della spesa pubblica per proteggere intere fasce sociali dal mercato. Pensare che si possa fuggire alle responsabilità dicendo che è tutta colpa della politica equivale a credere che si possa ripulire il mondo con la mannaia giustizialista, come si fece nel biennio 1992-1994, con il risultato di ritrovarsi con una politica peggiore e una corruzione superiore. Un capolavoro.

Il problema, allora, non è quello di stabilire se invitare, o meno, un politico a un convegno, o consentire che sfili in un corteo, contorniato dal solito nugolo di telecamere alla ricerca di qualcosa da trasmettere e non di qualcosa da raccontare. E il problema non è neanche quello di schierarsi da una parte o dall’altra, anche perché, se ne saranno accorti, i non schierati si ritrovano su fronti opposti, il che dimostra l’inutilità del disallineamento. La sfida, se hanno l’ambizione di coglierla, è ben diversa: prendere atto che gli ostacoli al cambiamento non sono i cattivoni della politica, i quali, più che altro, sono dei ciarlieri incapaci allo sbaraglio, ma il fatto che gli interessi alla conservazione sono diffusi, permeando anche le sale capresi e i cortei multicolori, e limitarsi a declinare l’elenco dei diritti o quello delle doglianze è cosa di fenomenale inutilità, perché si deve essere capaci di costruire consenso e alleanze in grado di forzare il blocco del sempre uguale e aprire il Paese e il mercato all’ossigeno della realtà. Che è dura, ma promettente.

Dalla politica non si deve fuggire né sfuggire, ma essere capaci di farla. Il resto è propaganda, non meno stucchevole di quella politicante.

sabato 22 ottobre 2011

Il web tra mercanti e podestà. Vittorio Macioce

Francesco Datini non ha mai conosciuto il web. Non poteva. Questo mercante di Prato, morto nell'agosto 1410, ci ha lasciato un ricchissimo archivio di lettere e registri. Qualcuno lo considera l'inventore dell'assegno. Di certo c'è che fece un largo uso della lettera di cambio, che permetteva di andare in una banca e ricevere l'equivalente in denaro. Datini conservava tutto, quasi sapesse che i posteri erano interessati alle sue carte. Non aveva figli e, quando morì, lasciò tutto il suo capitale a un ospedale per gli orfani. Il suo testamento cominciava così: "Nel nome d'iddio e del quattrino". Nelle sue lettere il mercante non solo raccontava affari e preoccupazioni, ma dava anche consigli sul mestiere. E proprio questi sono interessanti per capire come la filosofia del mercante sia molto utile a chi si muove sul web.

Datini dice che per fare affari in quel far west delle libere città medioevali un saggio commerciante doveva tutelare la sua reputazione. Il buon nome era tutto. Nessuno avrebbe mai fatto affari con individui ambigui, chiacchierati o con qualcosa di losco o da nascondere nel loro passato. Datini diceva che il nome del mercante doveva essere trasparente e la sua condotta pulita. Non era fondamentale che andasse in chiesa, ma di lui si doveva sapere che "rispettava i contratti". La furbizia era un peccato che prima o poi sarebbe venuto a galla. Era oltretutto inutile stare lì a nascondere la verità o a cancellare i fatti, perché la rete di venditori e compratori era attentissima a rintracciare le malefatte di chi aveva davanti. Stesso discorso per chi non aveva un passato limpido. Un uomo con troppi segreti e senza identità era molto sospetto. Forse anche per questo Datini scriveva e archiviava tutto.

L'altra qualità di un buon mercante era fare tesoro delle informazioni. Le conoscenze e le notizie sono nella rete delle città mercantili un patrimonio fondamentale. Sapere che in una certa fiera si vendeva una certa merce significa affari e denaro. Un mercante di Pavia prima di partire per Troyes doveva informarsi se i suoi prodotti avrebbero avuto concorrenza o se determinati eventi avrebbero potuto danneggiare il suo viaggio. Buon nome, trasparenza e informazione erano i requisiti di chi partecipava alla rete mercantile al tramonto del Medio Evo. «L'aria delle città rende liberi», diceva un proverbio tedesco, ed effettivamente i contadini che arrivavano in città spesso lo facevano per ricominciare un'esistenza libera dagli obblighi e dai vincoli di dipendenza cui dovevano sottostare nelle campagne. Chi invece possedeva capitali, in città poteva impiegarli con maggior profitto nelle attività mercantili e manifatturiere.

Quelle città furono un esperimento storico di libertarismo, una rivoluzione che aveva gli stessi principi culturali e di innovazione di questa stagione. Henri Pirenne avrebbe detto che in fondo siamo fortunati. Lo storico francese nel 1927 scrisse un saggio su Le città del Medioevo. Ogni volta che ripensi a quello che è avvenuto negli ultimi tre lustri ti viene in mente il suo nome. Pirenne racconta la nascita di quelle isole di società aperta, ancora incerte e insicure, in una galassia di feudi. Sono appunto quelle città che nel X secolo rompono i tradizionali rapporti dell'individuo con il potere. Sono una frattura. È la nascita dell'Occidente, un fuga verso la libertà. Queste città nascono intorno a un mercato, che è un luogo dove si scambiano merci, ma anche idee, conoscenze, dove si intrecciano relazioni, qualcosa di nuovo e avventuroso rispetto alla comunità tradizionale della società chiusa feudale, dove l'orizzonte e i confini sono quelli della terra, qualcosa di concreto, solido, perfino rassicurante, e con rapporti sociali rigidi.

Tu sei quello che nasci. Il tuo destino è già scritto, segnato, predisposto. La città, in quel momento storico, rappresenta invece un concentrato di libertarismo, l'uomo sceglie la responsabilità e il rischio di disegnare sulla mano la linea della sua fortuna. Sceglie di indossare l'identità che più gli assomiglia, quella che a torto o a ragione sente sua. Non è un viaggio semplice. Questo mercante con l'ansia della libertà è un pioniere che si muove in un mondo che gli è ostile. È un deviante, che rinnega i principi della Chiesa e del potere laico. È un nemico dell'ordine costituito. C'è in lui qualcosa di anarchico e di blasfemo, condito con una voracità e un'ambizione sovrumana. La sua filosofia di vita si può riassumere con un «siate affamati, siate folli».

È per questo che ogni volta che ti chiedono di parlare del web pensi a questo signore francese, patriarca della storiografia sul medio evo. Chissà cosa avrebbe pensato Pirenne della nascita della rete, dei social network, di questi orizzonti che all'improvviso diventano sempre più vasti e immateriali? Qualcosa che supera gli Stati tradizionali, con un sapere confuso e popolare che straborda dai canali della cultura e dell'informazione e si riversa in un metamondo dove il confine tra vero e falso, individuale e collettivo, copyright e open source è sottile, ambiguo e in continuo divenire. Le città medioevali non nascono da un'architettura razionale. Sono casuali, improvvisate, il flusso degli eventi dipende dalle relazioni tra gli individui, tra i gruppi di interesse e ogni scelta è gravida di conseguenze infinite, difficili da prevedere o ingabbiare.

La storia poi ci dirà che questo «stato nascente», questa situazione inebriante, durerà poco. I litigi tra le corporazioni e il potere soffocheranno in fretta la vocazione libertaria delle origini. A un certo punto per fuggire da una guerra tra bande e fazioni, una sorta di tutti contro tutti, i capibastone cittadini affideranno il loro destino a un signore, un podestà, qualcuno super partes, spesso un capitano di ventura straniero, come accadde a Pisa con Castruccio Castracani. A quel punto la città torna ad essere un'altra cosa. Quello che a Pirenne interesserebbe se si fosse trovato a fare i conti, come accade a noi da testimoni oculari, con social network, blog, motori di ricerca e roba simile sono i principi culturali di queste «nuove città», con le sue cattedrali e le sue università. È un mondo dove i vecchi «chierici», con la patente ufficiale in carta da bollo, smarriscono inesorabilmente il loro ruolo. Al loro posto ci sono soggetti che ai contemporanei appaiono più o meno come barbari, gente che sta rinnegando i pilastri della vecchia cultura.

Ma chiunque siano questi «mercanti» o «costruttori» per fare fortuna devono sviluppare gli stessi valori dei «marcatores» medioevali: coraggio, intraprendenza, individualismo, ansia di ricchezza e una ricca rete di rapporti e conoscenze. La forza delle città medioevale era la sua apertura, la condivisione si tramutava in potere. Ma quali erano i tesori dei mercanti? Qualcuno dirà che dovevano essere ricchi. Non del tutto. Serviva un capitale di partenza, magari da chiedere in prestito alle prime banche. Ma era una condizione necessaria, non sufficiente. I mercanti di successo dovevano essere lesti nell'intercettare le informazioni che vagavano in giro. Dovevano avere una rete di conoscenze e dei punti fermi dove approdare. Ma soprattutto dovevano fare i conti con l'etica. In un mondo malfidato come quello medioevale la buona reputazione era tutto. Il mercante era costretto a mostrarsi senza maschere, vero, affidabile.

Pensateci. Il web non cancella nulla. C'è una dittatura della memoria. Se dici cazzate prima o poi ti scoprono. Se il tuo profilo è falso prima o poi ti sgamano. Ogni tua azione, pensiero, parola, filmato che finisce in rete prima o poi rischia di saltare fuori. La verità è la virtù fondamentale di chi si muove sul metaverso. Il web non è né di destra né di sinistra, ma i suoi pionieri lo hanno attraversato con lo stessa filosofia libertaria e individualista dei mercatores. Quello che faranno, e stanno facendo, le masse è invece un'altra storia. (Notapolitica)

Come nasce e si biforca il conformismo. Marcello Veneziani

«Fui definita fascista e questo, come si sa, è il modo migliore per eliminare per sempre un autore». Come ha ragione Susanna Tamaro, lo ricordo oggi che si consegna il deprecato premio Acqui storia. Gli autori classificati come fascisti o simili cessano di esistere agli occhi censori della Mafia di stampo culturale.
Una volta emessa la scomunica accadono due effetti: chi è di sinistra si adegua all’anatema e procede a isolare e cancellare il Reprobo Difforme, chi è moderato cerchiobottista non concorda, ma temendo l’accusa di collaborazionismo, si accoda e finge che l’autore maledetto non esista. Certificata così la scomparsa, quell’autore-come dice la Tamaro - è «eliminato per sempre».
Oggi ha una possibilità di redimersi: deve dichiararsi antiberlusconiano. Così viene sospesa la pena e rientra tra i viventi. Ma chi per una vita non si è accodato alla retorica sinistrese e antifascista pensate che possa accodarsi per opportunismo al coro antiberlusconiano?
E così, pur non essendo berlusconiano ma conservatore, cattolico tradizionale o di destra, l’autore incassa una duplice squalifica.
Ha speso una vita a scrivere cose scomode e scorrette? Ora si becca pure l’infamia di farsi etichettare come servo. Cosa resta da fare a quell’autore? Rinnegare tutto o rinnegarsi lui.
Mentre lui viene «eliminato per sempre », la Consorteria protesta per la libertà in pericolo a causa del «bavaglio alle intercettazioni ».
Si mettono a tacere le idee, ma non le mignotte... Tappano la bocca al dissenso, l’aprono alla dissenteria. (il Giornale)

lunedì 17 ottobre 2011

Fenomenologia dell'estintore. Davide Giacalone

L’estintore serve ad estinguere. Ufficialmente le fiamme, volendo, però, ci si può estinguere dell’altro. Mediamente pesa cinque chili scarico e tredici se pieno. Non occorre essere degli esperti in fisica per immaginare quale forza e quale peso assume un oggetto del genere se scagliato contro un bersaglio. Lanciandolo contro una vettura se ne può estinguere parte consistente, riducendola ad un rottame. Lanciandolo contro una persona si può estinguerla alla vita, o menomarla per sempre. La fenomenologia dell’estintore indica una conclusione incontrovertibile: chi lo usa per fini non ortodossi non ha in animo di segnalare la propria insoddisfazione, ha deciso di fracassare e uccidere. In qualsiasi Paese assennato chi venga beccato a brandirne uno finisce in galera. Se riesce ad usarlo ci resta a lungo. Ed è su questo, sull’assennatezza dell’Italia, che la fenomenologia dell’estintore segnala follie.

Dieci anni fa un manifestante, a Genova, si trovò esattamente in quella condizione: aveva in mano un estintore, raccolto dopo che già era stato usato per colpire una camionetta dei Carabinieri, e con quello si dirigeva verso i militari. Voleva colpirli? Dubito vollesse far vedere quant’era forzuto, tanto più che faceva caldo (era luglio), vestiva una canottiera, ma anche un passamontagna. In qualsiasi Paese assennato sarebbe finito in galera, e con lui i suoi numerosi complici. Da noi è diventato un eroe. Dalla camionetta un Carabiniere ha sparato e il potenziale assassino è morto. Non sarebbe dovuto accadere, il compito di fargliela pagare sarebbe spettato alla giustizia. Purtroppo andò così. Davanti alla giustizia ci finì il carabiniere. Lui, lo strumento della repressione. Mamma mia: la “repressione”. Perché, che altro si fa, in qualsiasi Paese assennato, se non reprimere e punire certe condotte? C’è la via italiana: s’intitola al violento una sala del Parlamento. Nel medesimo si elegge un suo genitore. Il nostro eroe, il nostro fenomeno dell’estintore, ha il suo tabernacolo, ove lo si può adorare.

Guardate le foto: dieci anni dopo la stessa scena. Guardate il carabiniere che scappa: lo avessero preso lo avrebbero bruciato e macellato. Se avesse sparato lo avrebbero processato. Se avesse ucciso ci sarebbe un martire: il mancato assassino. Guardate l’estintore odierno, guardate quello di allora. Due domande: chi sono? come se ne esce?

Non sono manifestanti, non sono movimenti politici, sono fanatici della violenza, squadracce organizzate, persone che s’esercitano in occasioni politiche o sportive, pur di affermarsi distruggendo. Chi li manovra? Si generano nel fanatismo, s’alimentano di nichilismo, prosperano nel vuoto. Posta la massa di manovra, possono poi essere utilizzati. Può accadere in modo pianificato, più facilmente e frequentemente, invece, basta lasciarli esistere. Al resto provvedono da soli. Qui sta una prima chiave, per uscirne: nessuna copertura, nessuna condivisione, nessuna pelosa comprensione, si deve poterli respingere e arrestare al solo comparire. Alcuni manifestanti, a Roma, ne hanno consegnati tre alle forze dell’ordine: bravi, grazie. Basta il casco, indossato senza moto, e si fanno scattare le manette. A New York le hanno usate per molto meno.

La repressione è giusta. Vanno spazzati via, a tutela dei manifestanti e del loro diritto a protestare (anche quando si ritiene, come ritengo, che abbiano torto). Vanno arrestati e condannati, a tutela dei cittadini. Ma la repressione non è affare di Carabinieri e Polizia, spetta alla giustizia. I “riots” londinesi sono stati arrestati, processati e condannati nel giro di pochi giorni. Negli Usa sono finiti davanti al giudice (e liberati) in giornata. Il nostro giudice quando interverrà? Si accettano scommesse, ma sull’anno. Eppure questa è l’unica via d’uscita legittima, perché solo il processo, non le foto o i questurini, divide i colpevoli dagli innocenti. Vale per qualsiasi reato, e in qualsiasi caso i tempi italiani violano i diritti di tutti: accusati, vittime e società.

Si deve tornare a parlare di giustizia. In modo strutturale, non emergenziale. Sono lustri che, inutilmente, ci si occupa di come evitare ingiustizie e politicizzazioni, posponendo la necessità far esistere la giustizia. Attenti: la fenomenologia dell’estintore può portarci ad aggravare i torti anziché far prevalere le ragioni e la ragione.

mercoledì 12 ottobre 2011

Papa, alla lettera. Davide Giacalone

La lettera che l’onorevole Alfonso Papa ha consegnato ad altri parlamentari pone questioni imprescindibili, di portata largamente superiore alla sua vicenda personale. Secondo il capo della procura napoletana, Giandomenico Lepore, “se la lettera è vera non merita commenti”. E’ vera, e merita un’inchiesta penale a carico dei magistrati di quella procura. Papa è un magistrato, un loro collega, e quel che espone presuppone reati gravissimi. Quindi non si tratta di stabilire se esiste, ma se lui è un calunniatore o i procuratori dei delinquenti. E’ un passaggio delicatissimo, che coinvolge i vertici istituzionali e tracima nel vivo dell’attività legislativa, rendendo superflua anche la discussione sulle intercettazioni telefoniche.

Papa accusa i procuratori di utilizzare la custodia cautelare non al fine di preservare la genuinità della prova, ma, all’opposto, per ricattare il detenuto e indurlo a riconoscere (almeno parzialmente) la fondatezza delle accuse e chiamare in correità il presidente del Consiglio. La sola ipotesi che una simile condotta sia possibile restituisce il profilo di un Paese in cui la giustizia è tribale, priva di ancoraggi al diritto, regredita a minaccia contro l’incolumità e la dignità del cittadino. Non è ammissibile, quindi, neanche come ipotesi. La supposizione di Papa ha un qualche fondamento? Nel caso specifico non lo so, ma non solo è del tutto verosimile, ma trova riscontro nelle parole del Presidente della Repubblica che, negli auguri di fine anno, qualche tempo addietro, condannò proprio la galera preventiva quale sistema di tortura per indurre alle dichiarazioni che i procuratori voglio sentire. Si può, pertanto, non credere a Papa, si può supporre che egli stia facendo giungere messaggi intimidatori all’esterno, ma non si può ritenere che le sue parole siano, nel nostro sistema, prive di fondamento. Ed è questo il punto decisivo, che ciascuna persona civile non può dimenticare.

In questa situazione, che senso ha incaponirsi in una riforma delle intercettazioni telefoniche, fatta male, se da quella stessa procura è già uscito di tutto, per giunta nel corso d’indagini che non le competevano? Che altro deve succedere perché ci s’accorga che la giustizia italiana ha smesso d’essere tale, degenerata com’è in una guerra per bande, togate e non? Occorrono provvedimenti assai più radicali, che non il proibire quel che sarà comunque fatto (e che è già in gran parte proibito).

Papa ha anche invitato la delegazione parlamentare in visita, nel carcere di Poggioreale, a leggere i provvedimenti del riesame, che gli confermano la detenzione in carcere perché, “in quanto parlamentare”, non potrebbe essere sottoposto, ove assegnato ai domiciliari, alle restrizioni nelle comunicazioni. Quei suoi colleghi dovrebbero portare subito la questione all’attenzione del Parlamento, acciocché nessuno possa nascondersi la mostruosità nata da un voto autodemolitorio, i cui effetti erano stati qui visti e denunciati. E’ ora che ne prenda atto il Parlamento.

Tutto questo, lo scrissi allora e lo ripeto, del tutto a prescindere dalla posizione personale del cittadino Papa, quindi dei reati che può aver commesso e del processo nel quale ha il diritto di difendersi. Proprio in quanto magistrato non lo avrei neanche candidato, perché è (da molto tempo) ora di finirla con la politica occupata e condizionata dalle toghe. Ma la condizione di Papa, oggi, è politicamente rilevante sotto due profili: a. gli organi giurisdizionali non sono in grado d’impedire l’uso distorto e corruttivo della custodia cautelare, che va rivista per tutti; b. la scelta, fatta dai deputati, di mollare un ostaggio, nella speranza di riconquistare un pezzo di piazza e di placare l’attacco alla politica, è stata, al tempo stesso, vile e folle.

La lettera di Papa c’è, come ci fu quella dell’onorevole Sergio Moroni. Vediamo quanti se la fanno sotto e fingono di non conoscerla. Provino pure a far finta di niente e faranno la stessa fine.

sabato 8 ottobre 2011

Forza gnocca

Ma veramente c'è chi crede che Berlusconi dicesse sul serio di voler chiamare il nuovo, eventuale partito "Forza gnocca"?
E' possibile che qualcuno prendesse sul serio la battuta sulle undici donne fuori dalla sua camera da letto e che ne avesse "fatte" solo otto quella notte di Capodanno?
Si può pensare che, intercettato abusivamente al telefono con una signorina, fosse serio dicendo che faceva il presidente del consiglio a tempo perso?
E quante altre battute e quante frasi dette provocatoriamente si sono bevute certi parrucconi e non solo.
Sono certissimo che il Cav, quando è da solo, quando non è spiato o intercettato, ritrovi il suo sorriso a cinquantasei denti che lo caratterizzava all'inizio della sua avventura e che il sorriso diventa una risata a crepapelle.
Le sue provocazioni hanno ogni giorno di più chi se le beve senza il minimo dubbio ed ogni giorno di più Berlusconi si convince di vivere in un Paese che non merita considerazione e che non ha alternative alla sua leadership.
In pubblico, però, deve fingere di essere preoccupato e pensoso, altrimenti il giochino si rompe.

Signori, una risata vi seppellirà.

venerdì 7 ottobre 2011

Letterina ai ragazzi che tirano le uova a Moody's. Linkiesta

Stamattina li ho sentiti passare sotto casa. Era presto, stavo sistemando l’apertura del giornale, raccogliendo le idee per la giornata, e pubblicando un’infografica proprio sulla scuola. E ho sentito le grida di un corteo e un megafono che gracchiava: “Chiediamo cultura, ci danno polizia, questa è la loro democrazia!”.

Confesso, ho una certa simpatia per gli adolescenti che parlano di politica, più o meno qualunque cosa dicano. La politica mi appassiona, da sempre, più di ogni altra cosa, e vedere dei giovanissimi che la impugnano - con tutte le ingenuità del caso - mi piace sempre. Stamattina invece ho provato un certo fastidio, o forse solo un po’ di tristezza, per quel motto che sembrava resuscitato dal fondo di anni in cui, verosimilmente, i loro genitori avevano l’età che loro hanno oggi. Più tardi, nel loro corteo, i ragazzi sono arrivati dalle parti della sede di Moody’s e delle banche: per tirare le uova al grido di “speculatori!”.

Avendo fatto la somma di tutto, e pur pensando che la scuola italiana sia in decadenza, mi è venuto da pensare che - dopo tutto - un giorno di scuola in più, a questi ragazzi, avrebbe fatto davvero bene. Hanno naturalmente il diritto di sognare e di arrabbiarsi: ma sapendo perchè, contro chi, e per fare cosa.

Mondadori, un esposto non è un'intimidazione. Giancarlo Perna

Con un bizzarro articolo sulla Stam­pa , Carlo Federico Grosso, ha spostato avanti l’asticella dell’antiberlusconi­smo con acrobazie da circo. Grosso è professore di diritto, fu vicesindaco di Torino eletto nelle liste del Pci negli an­ni '80 e vicepresidente del Csm negli anni '90. È anche autorevole commen­­tatore giuridico del quotidiano degli Agnelli sforzandosi di essere equilibra­to, anche se le sue posizioni sono note. Ieri,però,è uscito dal seminato com­mentando l’esposto della Fininvest - e della sua presidente, Marina Berlusco­ni - sulla sentenza d’appello che ha condannato l’azienda a risarcire 564 milioni alla Cir di Carlo De Benedetti.

L’esposto,fatto al Guardasigilli e al pro­curatore generale della Cassazione, se­gnala una ( pretesa) situazione inaudi­ta: i giudici d’appello milanesi hanno fondato la stratosferica condanna su un precedente (una sentenza di Cassa­zione) che in realtà direbbe l’opposto di quello che la corte di Milano gli fa di­re. Secondo Fininvest, la sentenza sa­rebbe stata mutilata, citando la sola parte che dà torto all’azienda e tacen­do quella che l’avrebbe assolta. Errore in buona fede o truffa giudiziaria? A ogni buon conto, essendoci in ballo l’equivalente di 1200 appartamenti, Marina ha spedito le carte ai due titola­ri d­ell’azione disciplinare contro magi­strati incapaci o infedeli. Questa mossa, così naturale in chi vuole salvaguardare i propri diritti, su­scita invece maliziose interpretazioni nel prof. Grosso. Il ragionamento pro­fessorale è questo. Se davvero la sen­tenza di condanna è viziata da un erro­re - ma Grosso dice di non poterci cre­dere- la Cassazione, cui la Fininvest ha già ricorso, annullerà certamente il giu­dizio di Appello.

Che bisogno c’è allora di fare anche l’esposto al Guardasigil­li? Non è che per questa via- e qui emer­ge la capziosità dell’illustre docente ­la presidente di Fininvest vuole «inti­midire » proprio la Cassazione che do­vrà mettere la parola fine alla verten­za? Grosso rovescia la frittata. Marina si sente vittima dei giudici che l’hanno condannata al pagamento di mezzo miliardo e lui la trasforma in oppresso­re dei medesimi. Le contesta pure il normale diritto alla difesa facendo pas­sare un esposto secondo legge per un atto sporco - l’intimidazione - se non addirittura per un reato da accertare in sede penale tipo mobbing o stalking giudiziario.Se c’è di mezzo il Cav,la fa­miglia, le sue aziende, anche il diritto a difendersi può essere irriso. Tanto lui è ricco, colpevole a prescindere, laido e bavoso.

Così gli tagliano dieci testimo­ni nel processo Mills lasciandolo sen­za testi a discarico; tentano di allunga­re i termini del procedimento facendo decorrere il reato di corruzione, non dall’incasso della tangente,ma dal mo­mento in cui il denaro è speso; gli re­spingono regolarmente le eccezioni; lasciano che a presiedere i suoi proces­si siano giudici che­hanno ampiamen­te dimostrato la loro prevenzione uma­na e politica verso l’orrido brianzolo. Insomma bastonano senza pudore il Cav, tanto lui sa perché. Torniamo al sospettoso professore di Torino.Egli lancia l’accusa di intimi­dazione, ma non chiarisce come un esposto contro i giudici di appello pos­sa intimidire quelli di Cassazione. Che c’entrano loro con i colleghi di Mila­no? L’iniziativa è semmai un atto di sfi­ducia verso i milanesi e segnala una lo­ro eventuale mancanza.

La Cassazio­ne neanche è sfiorata. Se ammettessi­mo- come sembra curiosamente cre­dere l’esimio docente - che ogni azio­ne contro il giudice di merito sia un at­tacco alla serenità della Suprema Cor­te, cadremmo in diversi paradossi anti­giuridici. Il maggiore dei quali è che an­c­he le normali impugnazioni delle sen­tenze (che sono atti di sfiducia verso i giudici che le hanno pronunciate) da sottoporre alla Cassazione sarebbero intimidazioni contro la medesima. Tanto per dire dove porta il malanimo preconcetto. Grosso, infine, critica Marina che si è precipitata a fare l’esposto senza at­tendere, girandosi i pollici, la pronun­cia della Corte romana. Quasi una mancanza di signorilità, anzi- come al­lude - un attacco alle toghe. L’articoli­sta sembra dimenticare che il danno patrimoniale della Fininvest è in atto e che a godere i 564 milioni è oggi la Cir.

In simili circostanze, se ti senti vittima di un’ingiustizia, non aspetti i tempi lunghi della Cassazione ma fili più di un leprotto. È il sacrosanto diritto alla difesa, avvocato. Concludo con un’osservazione. Grosso è il legale del Gruppo Espresso, di proprietà di De Benedetti, patron della Cir e parte in causa nella faccen­da dei 564 milioni. Era il caso - lo chie­do anche alla Stampa - che fosse lui a intervenire su una faccenda del pro­prio cliente per dare addosso al suo av­versario? (il Giornale)

martedì 4 ottobre 2011

Assoluzione che condanna. Davide Giacalone

Possiamo far finta di credere che sia solo una sentenza, un semplice ribaltamento del giudizio di primo grado, passando dalla colpevolezza per omicidio all’innocenza. Avviene più spesso di quel che si crede. Possiamo anche spingerci a dire che la sentenza di Perugia dimostra che la giustizia funziona e sa correggere i propri errori. Ma forse è meglio guardare in faccia la realtà: l’assoluzione di quei due ragazzi condanna il modo in cui sono state fatte le indagini, il modo in cui s’è condotto il processo di primo grado e l’intero baraccone vergognoso del giustizialismo spettacolare, compresi i libri che hanno arricchito presunti esperti, che spero, da oggi, non siano mai più chiamati a svolgere quale che sia perizia a spese del contribuente.

E’ facile che qualcuno scriva, oggi, che l’Italia fa una pessima figura agli occhi degli statunitensi, i cui mezzi d’informazione si sono mobilitati per sostenere l’innocenza di una loro concittadina. Dissento: facciamo una pessima figura, è vero, ma agli occhi di noi stessi. Che dovrebbe essere ancor più grave. In quanto allo scenario globale, la giustizia italiana è già stata umiliata da francesi e brasiliani, che hanno, del tutto a torto, rifiutato di consegnarci un assassino. E’ già esposta al ludibrio generale dal suo inarrestabile e infruttuoso tentativo di condannare chi governa. E’ troppo berlusconiano sostenere che questa caccia all’uomo è incivile? No, è grandemente barbaro far finta di niente.

Nelle sue dichiarazioni spontanee la giovane imputata statunitense (non mi caverete il nome neanche ora, perché non contribuisco neanche con una goccia al dilagare infame della giustizia spettacolo) non si è difesa, ha accusato. Le sue parole sarebbero potute essere quelle di un occidentale qualsiasi che si trova a fare i conti con un buco nero tribale, o con un tribunale islamico: io mi sono fidata degli inquirenti, loro erano lì per difendermi, invece mi hanno usata e manipolata. Di questo c’è uno strascico nella condanna per calunnia. Più mite il coimputato, italiano, forse geneticamente meno attrezzato a considerare repellente la messa in scena. Mi ha colpito un particolare: la loro relazione è stata posta a fondamento del movente, raccontata come un sabba, loro, proclamandosi innocenti, ci hanno tenuto a proteggere quei loro sentimenti di allora. Come normali ragazzi, come persone cui la natura e l’età consentono di credere nel valore di un sentimento. Fosse stato un processo iraniano ne parleremmo con le lacrime agli occhi. Ma era italiano. Dovremmo piangere a dirotto.

Ma non è finita, e disinteressandomi, ora, della sorte di quei due, la cui vita è già massacrata, rivolgo l’attenzione a quella di noi tutti. Non è finita: la Corte di cassazione potrà chiudere il caso, ma potrà anche annullare la sentenza e chiedere un nuovo giudizio. Dimenticatevi Perugia: questo modo di procedere è folle. Se, avendo scopiazzato dalla formula americana, abbiamo stabilito che si può condannare solo in assenza di “ragionevole dubbio”, come mai si può credere che il dubbio non sia ragionevolissimo, se una corte, in un qualsiasi grado di giudizio, assolve? Noi riusciamo a demolire la ragionevolezza solo in base ad una finzione: chiamiamo “processo” l’insieme dei giudizi, per questo possiamo cambiarli a piacimento, sempre all’interno del medesimo “processo”. Era più che giusto quel che stabiliva la legge Pecorella: chi viene assolto non può più essere processato. La Corte costituzionale provvide a chiudere questo spiraglio di civiltà. Molti, troppi, ne pagano le conseguenze.