domenica 31 gennaio 2010

Il partito che fu e Delbono. Davide Giacalone

C’era una volta la dirigenza comunista, che in Bulgaria andava a fare i corsi d’aggiornamento. Ora ci sono gli amministratori di sinistra, che in Bulgaria comprano case, in società con un missino. C’era una volta un partito totalizzante, che ben prima del fisco, e senza neanche chiedere il quadro RW, avrebbe fermato il compagno investitore e l’avrebbe strapazzato. Ora c’è una sopravvivenza partitica, che neanche riesce a reagire quando i compagni amministratori volano per il mondo a spese della collettività. Gli scandali bolognesi non sono la fine di un mondo, ma gli effetti di un mondo finito. Lo stesso che ora si vanta di un Delbono dimesso, per questioni di femmine, e omette di ricordare che Bassolino è ancora al suo posto, per questioni di potere.

Un tempo si diceva di Bologna che era la città delle tre “T”: tette, torri e tortellini. Il sindaco, Flavio Delbono, è caduto sulle prime. E non s’è più ripreso. Ma sbaglia chi crede che questa sia solo una storia da provincia pecoreccia, perché Bologna era anche la capitale dell’amministrazione di sinistra, il vessillo di quel buon governo comunale e regionale sul quale generazioni di compagni hanno fantasticato e gonfiato il petto. Quel che succede oggi è solo la conseguenza di ciò che è in corso da tempo: quel sistema sta crollando. Non per gli attacchi che subisce dall’esterno, ma perché si decompone al suo interno.

Regioni e comuni “rossi” hanno dimostrato, nel tempo, una stabilità amministrativa sconosciuta nel resto d’Italia. Molti loro amministratori sono stati ottimi sindaci, ma la forza elettorale non derivava dai loro meriti, bensì da una struttura politica che modellava e governava un blocco sociale. Un blocco al quale non si sfuggiva, che il tempo ha progressivamente spaccato. Ragioniamoci, e vedrete che anche l’esuberante sessualità di Delbono è un segno che porta alla fine.

Alcune, vaste zone d’Italia furono rosse subito dopo la Liberazione, e tali sono restate per un tempo infinito. Il collante non era solo la propaganda. Che l’Unione Sovietica fosse il paradiso dei lavoratori non lo credevano in paradiso, ma nemmeno i lavoratori. Il fatto è che in quelle terre il partito era tutto. Nascevi e ti mettevano un nome di battaglia. Muovevi i primi passi, e tiravi i calci al pallone presso la Casa del Popolo, per poi far tornei con quegli smidollati borghesucci dell’oratorio. La Casa del Popolo, del resto, era anche la sede del glorioso Partito Comunista Italiano, nonché una proprietà immobiliare intestata ad una cooperativa, della quale facevano parte tante persone, ma a patto d’essere iscritte al partito: se uscivi dal partito, perdevi la quota. Per mettere su famiglia prendevi una compagna, magari educata dalle suore, ma pur sempre conosciuta in quelle passeggiate di montagna in cui i pionieri, ragazzi come te e come tutti, si vestivano manco fossero partigiani. Ti dicevano: si deve conoscere la montagna, non si sa mai. I più imbecilli ci credevano, e qualcuno l’hanno preso mentre sparava sul serio. Intanto ci hai conosciuto la moglie, e va bene così. Se i genitori non ti lasciavano la casa, andavi a prenderne una delle cooperative, diventando socio. Per riempire il frigorifero facevi la spesa alla cooperativa, diventando socio. Se andavi a caccia ti accompagnava l’Arci, associazione del tempo libero, naturalmente comunista. E anche se alle donne preferivi gli uomini, l’Arci ti organizzava, come se ci sia bisogno d’associarsi per sollazzarsi in double-face. Compravi la macchina e il partito ti assicurava, con l’Unipol. Andavi a lavorare e il partito ti tutelava, con la Cgil. Ti associavi ad altri per coltivare il campiello, e il partito ti assisteva e aiutava, con la Lega. Ti dava la banca, le feste popolari, le cose da pensare e quelle da dire. E tutto questo ha retto per un tempo infinito, come se intere lande fossero finite dentro una goccia d’ambra. Rossa.

La macchina era diretta da uomini del partito, che provvedevano alla vita di ciascuno. Era il comune a dovere dare la licenza per costruire il supermercato e, guarda caso, la dava solo alla Coop. Anche la bocciofila, era quella dell’Arci. E alla vendemmia tutti si abbracciavano, essendo parte dello stesso popolo, con gli stessi ideali, con i medesimi e venerati capi. Il partito comunista di quei tempi, del resto, dava indietro un discreto servizio: i dirigenti erano controllati. E’ vero, infatti, che erano rari i casi di ladrocinio e arricchimento personale, al contrario di quel che avveniva ai democristiani che smaneggiavano con i palazzinari romani. Il partito era occhiuto, e prendeva solo per sé il diritto di maneggiare mazzette, tangenti, favori e privilegi. Non erano zone più oneste, ma solo meno libere e più socialmente controllate.

Vale anche per i costumi personali, fino alla patta dei pantaloni. I comunisti erano moralisti e bacchettoni, e anche quando il grande capo, Palmiro Togliatti, si prese una compagna che non era sua moglie, ci fu chi ebbe da ridire. Nelle lussurie della provincia poteva capitare che il tal dirigente locale non disdegnasse l’avventura nel fienile, poi divenuta un pomeriggio nell’alberghetto fuori mano, ma la pagava, passando da assessore ad amministratore di cooperativa, per poi essere assegnato al reparto gay del tempo libero e della cultura. Dante Alighieri non era nessuno, in quanto a contrappasso. Un tempo il sindaco non poteva permettersi di lasciare la seconda moglie (pare incinta) per continuare a girare il mondo con la segretaria.
Sarebbe intervenuto il partito e gli avrebbe sigillato le mutande, avviando la procedura (discreta, silenziosa, direi: curiale) di retrocessione.

Ma mentre il sistema di potere restava in piedi, gli uomini cambiavano e il partito si disfaceva. Le ideologie finivano (era ora) nella pattumiera, lasciando libera la via agli arrivisti, ai cultori dei rapporti trasversali. Alla fine, come pare sia capitato a Piacenza, il sindacato avvertiva che sarebbero arrivati dei controlli in cantiere. Un allarme non del tutto coerente con gli interessi dei lavoratori, che, però, non sono più comunisti, e manco italiani. I capi delle Coop spiano i dipendenti e li sfruttano, trattenendo pure i loro soldi. I capi di Unipol hanno paccate di soldi all’estero, con i quali fanno le pernacchie ai militonti. E tutto questo si vede e stravede. Sicché, quando viene lanciato l’appello alla difesa della rossa Bologna, magari con qualche foto della Resistenza, i compagni, memori del pessimo servizio reso da Sergio Cofferati, non dimentichi dell’essere stati usati per assicurare prebende ai dirigenti, e consapevoli che il mondo degli affari è entrato in quei palazzi che si pretendono virginei, ha un moto di sana disillusione. Ma andate ….

E’ finita. Non saranno i prodiani a rimediare, semmai si candidano ad approfittare. E’ finita e noi, che contro quel mondo, contro quel blocco sociale, ci siamo battuti per una vita, quasi ci lasciamo prendere da un pizzico di nostalgia. C’era del buono, in quel mondo, ma ora c’è Delbono, a ricordarci che c’era anche molto male, molta chiusura, molta paura della libertà. E’ finita, ed è bene che sia così.

Così il Pci degli ipocriti fece abortire la Jotti. Mario Cervi

Piero Melograni - che è uno storico di valore e che oltretutto, essendo stato militante del Pci, può avere conoscenza di vicende interne a quel partito - ha rivelato che Nilde Iotti fu costretta ad abortire. La compagna del Migliore non potè, per l’opposizione della dirigenza comunista, dargli un figlio. Togliatti ne aveva già avuto uno, Aldo - con gravi problemi psichici - dalla moglie Rita Montagnana, e poi adottò una bambina, Marisa Malagoli, figlia d’un operaio ucciso in scontri tra forze dell’ordine e dimostranti, a Modena. A Nilde Iotti sarebbe stato in sostanza vietato di portare a termine la gravidanza nel nome d’una suprema moralità di partito. Moralità di tipo borghese, per usare il linguaggio della sinistra: adottata tuttavia, ufficialmente, da chi proprio a sinistra ostentava il suo essere puro e duro in confronto alle sguaiatezze e mollezze capitalistiche. È di Melograni - confortato da scritti e testimonianze - la responsabilità delle sue affermazioni: che comunque non hanno nulla d’inverosimile, anzi.
Non è gradevole dover rimestare colpe e trasgressioni molto datate, che dovrebbero rimanere private se non riguardassero un personaggio della statura di Togliatti, e uno schieramento con le connotazioni del Pci. I cui eredi non si stancano di ripeterci, oggi, che i comportamenti personali dei leader, compresi quelli d’alcova, appartengono pienamente al dibattito politico, cosicché da una D’Addario qualsiasi si può o piuttosto si deve risalire a chi se l’è portata a letto: per bollarlo come indegno di rivestire cariche importanti. Se questo vale per i viventi deve valere, sul piano storico, anche per i defunti.
I comunisti d’antan - qualche volta anche i postcomunisti odierni - hanno voluto esibire un’etica superiore a quella degli avversari. Superiore in tema di denaro pubblico («forchettoni» erano i Dc, tangentocrati i socialisti, loro niente nonostante l’oro di Mosca); superiore in tema di castigatezza privata. Il Pci ostentava un volto austero, tutto Botteghe Oscure e Frattocchie, senza cedimenti alle frivolezze dei mollaccioni. Questa ostentazione di virtù trovava espressioni perfino grottesche per bocca dei massimi capi e dei più dotati apprendisti. Un promettente Enrico Berlinguer, inviato nel 1946 in Unione Sovietica come dirigente delle organizzazioni giovanili comuniste, aveva così risposto a chi s’era permesso di rivolgergli qualche domanda sulle ragazze di lassù. «Nel Paese del socialismo le donne non hanno bisogno di nessun orpello per attrarre gli uomini. In Urss non ci sono donne, ci sono compagne sovietiche». Una risposta da burocrate e da puritano, quale era - nel suo conformismo che Guareschi avrebbe definito trinariciuto - l’onesto Berlinguer.
Invece gli orpelli funzionavano, sia nel Paese del socialismo reale sia per gli uomini del socialismo reale. Due dei quali - Palmiro Togliatti e il suo successore Luigi Longo - ebbero un analogo itinerario sentimentale e maritale. Immerso dopo tante ambasce nella dolce vita italiana, Togliatti s’invaghì - mentre era sposato alla Montagnana con cui aveva vissuto il soggiorno in Urss e il terrore d’una possibile funesta ira staliniana - della giovane compagna Nilde Jotti. Longo era sposato a Teresa Noce, ma anche lui, finiti i tempi duri, ebbe in uggia la moglie. Felice Chilanti, che di Longo condivideva l’ideologia e che ne ha scritto una biografia, narrava così la svolta: «Un pomeriggio Longo posò sul suo tavolo un vasetto di cristallo di Boemia, non so se un regalo del suo amico Clementis (Vladimir Clementis, già ministro degli Esteri cecoslovacco, fu mandato alla forca insieme al suo accusatore Rudolf Slansky in una terribile purga staliniana, ndr) e mandò un fattorino a comprare una rosa rossa. Mise la rosa nel vaso, sul suo tavolo, poco prima che entrasse nel suo studio la dirigente dell’Udi Bruna Conti. Che divenne la sua seconda moglie».
Questi rocciosi capi d’un partito roccioso ostentavano una pruderie monacale ma praticavano alla grande la commistione tra lavoro e letto. Sarebbe stata roba di prim’ordine per Dagospia. Ma l’esempio non è andato perduto, vedi alla voce Delbono, sindaco di Bologna. (il Giornale)

sabato 30 gennaio 2010

Basta con il politically correct. Maria Giovanna Maglie

È infatti vero senza tema di confronti con le cifre, con i dati, con l'esperienza della nostra vita quotidiana, che l'immigrazione clandestina ha come primo risultato negativo l'aumento della criminalità, è vero insomma che gli stranieri, extracomunitari e non, che entrano nel nostro Paese e che ci restano senza alcun permesso, diventano in parte sostanziosa dei derelitti, spesso dei delinquenti. È altresì vero che averlo detto serenamente e semplicemente equivale a infrangere un tabù che i politically correct di casa nostra, e tutti i politici tradizionalisti e conservatori, non sono disposti a vedere infranto, ne va della loro residua capacità di raccontare chiacchiere invece di pensare a programmi politici decenti. Gli esponenti dell'opposizione, la sinistra in specie ma anche una parte del mondo cattolico affezionato alla dottrina sociale, sono ferocemente affezionati a un linguaggio di buone intenzioni e di nessuna assunzione di responsabilità, recitano come stanca litania che i rom sono tutti perseguitati, che il burqa va rispettato perché ognuno ha diritto alla propria identità, che bisogna accogliere i dannati del mare, che il governo è razzista, e via riempiendosi la bocca di luoghi comuni.
C'è da chiedersi con quale coraggio il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, accusi Berlusconi di chiamarsi fuori dalla modernità, lui, Bersani, che guida, si fa per dire, un partito che nella prima consultazione seria di primarie in Puglia è stato sconfitto da un candidato, Nichi Vendola, che con ammirevole sincerità non teme di dichiararsi comunista, proprio quel sistema illiberale e dittatoriale, oltre che fallimentare in qualsiasi gestione economica, che la storia ha seppellito insieme al secolo passato. Chissà quanto moderno, quanto squisitamente contemporaneo si deve sentir oggi Bersani mentre si prepara, obtorto collo, ad accodarsi alla campagna comunista di Puglia. Ci racconterà convinto di quanto sia giusto accogliere anche stupratori e ladroni, e intanto forza gulag, e ritiriamo fuori le spinette di Lenin.
Se invece vogliamo dare un contributo alla verità, e così facendo allontanare le motivazioni irragionevoli ed estremistiche dei troppo buoni e dei cattivi ad ogni costo, dobbiamo stare proprio alle cifre che accompagnano l'assioma immigrazione clandestina uguale a maggiore tasso di criminalità. Non è una gran novità, intendiamoci, lo sanno bene tutti i governi europei di qualunque ragione politica, lo sa l'Olanda che ha bloccato i flussi di bulgari e romeni dopo anni di ubriacatura dell'accoglienza, lo sa la Spagna di Zapatero che assegna compensi straordinari agli agenti dei commissariati delle grandi città nei quali viene fermato il numero più alto di irregolari. Difendersi è giusto, perché negli ultimi venti anni la quota di stranieri condannati e denunciati è perlomeno triplicata, e perché le cifre che troverete su Libero sono fin troppo chiare nell'elenco di reati e di numeri. Ve ne cito uno solo, odioso: nel 1998 gli stranieri condannati per stupro erano il 5,9 per cento, nel 2004 il 27,3, siamo in attesa di vedere il dato di oggi, aspettatevi di spaventarvi.
Non è che arrivino in Italia tutti già criminali, anche se, dai tempi dell'apertura delle frontiere albanesi al più recente scriteriato sì senza attesa alla Romania, di mascalzoni usciti dalle patrie galere e attirati dal mito dei mancati controlli italiani, ne sono arrivati a frotte. È soprattutto che chiunque arrivi in un Paese senza un permesso di soggiorno, senza un lavoro, senza proprio idea di cosa fare, e restando nel Paese in simili condizioni si impoverisca e si incattivisca sempre di più, finisce col pensare di ricorrere al crimine. Non lo scelgono tutti, lo scelgono in molti. Ecco che le iniziative contro la clandestinità di questo governo non solo sono sensate, sono giuste perché rispondono alle sacrosante richieste dei cittadini, sono anche l'unico modo perché lo sbandierato pericolo del razzismo resti solo, o in buona parte, una chiacchiera da salotto o terrazza radical chic. (Libero)

venerdì 29 gennaio 2010

Inquinamento zero: difficile ma non necessario. Francesco Ramella

Sembra che nulla sia cambiato rispetto a vent’anni fa. Fa freddo, gli impianti di riscaldamento sono al massimo, le condizioni atmosferiche sfavorevoli alla dispersione degli inquinanti e, anche se il traffico è lo stesso che a maggio o settembre, la concentrazione di polveri nell’aria sale vistosamente. E si torna a parlare di emergenza e ad adottare provvedimenti di limitazione del traffico. Sembra che non sia cambiato nulla. Ed invece è cambiato moltissimo. In meglio.

Anche se in pochi sembrano esserne consapevoli, la qualità dell’aria nelle nostre città è drasticamente migliorata. L’atmosfera era come una stanza piena di polvere. Un po’ alla volta l’abbiamo ripulita ed oggi non rimangono che pochi residui. Ma come è potuto accadere? La risposta è semplice: si chiama tecnologia. In tutti i settori, dall’industria alla produzione di energia elettrica, al riscaldamento, agli autoveicoli, sono stati compiuti straordinari progressi. E così, anche se consumiamo più energia, continuiamo a riscaldarci più o meno allo stesso modo nonostante ci raccontino che il pianeta si sta surriscaldando drammaticamente e usiamo l’auto più di una volta, le emissioni di inquinanti atmosferici sono state abbattute. Abbiamo buttato l’acqua sporca e tenuto il bambino.

Non c’è ragione per cambiare strada. Politiche volte a limitare il traffico degli autoveicoli, soprattutto quelle che intervengono indistintamente nei confronti dell’intero parco veicolare, hanno uno sfavorevole rapporto costi/benefici. Basti pensare che, per ottenere lo stesso risultato in termini di riduzione delle emissioni che vent’anni fa era possibile con il fermo di cento veicoli, oggi sarebbe necessario impedire la circolazione a circa mille auto. Per tornare alla nostra stanza impolverata: è relativamente facile effettuare una pulizia grossolana. Poi, via via che si riduce la quantità di sporco residuo, il compito si fa più impegnativo. Oltre una certa misura è ragionevole fermarsi. Il traguardo da raggiungere non è quello di eliminare l’ultimo granello: quando pensiamo che lo sforzo per migliorare la pulizia sia superiore al risultato che possiamo ottenere, ci fermiamo. Lo stesso atteggiamento dovremmo avere quando trattiamo il problema della qualità dell’aria nelle nostre città.

L’ottimo non è, a differenza di quanto sembrano pensare a Bruxelles, l’inquinamento zero ma la condizione in cui, un’azione più drastica non è giustificata. Già oggi siamo molto vicini a questo risultato. E nei prossimi anni, “naturalmente”, grazie al progressivo rinnovo del parco veicolare ci avvicineremo ulteriormente. Non servono ulteriori accanimenti che, non solo danneggiano gli automobilisti, ma si ritorcono contro la stessa collettività che si vorrebbe tutelare. Più auto che circolano significano maggiori entrate fiscali per lo Stato e gli enti locali. E, quindi, più risorse a disposizione di tutti. Sarebbe forse il caso di ricordarselo più spesso. E, perché no, cominciare ad immaginare una politica dei trasporti che non abbia come obiettivo quello di ostacolare in qualsiasi modo l’uso dell’auto. Ma, piuttosto, rendere migliori le condizioni di circolazione: un’auto che viaggia a 40 km/h inquina molto meno di una che è in coda.

Lo si può fare, anche senza spesa pubblica aggiuntiva grazie alla costruzione di strade sotterranee a pedaggio. Viaggiare meglio sotto per vivere meglio sopra. (Ibl)

martedì 26 gennaio 2010

C'era Delbono a Bologna

La vicenda delle annunciate dimissioni del sindaco di Bologna dimostra ancora una volta la faccia di bronzo dei compagni.

Se Flavio Delbono ha la coscienza a posto, non dovrebbe dimettersi: la giustizia faccia il suo corso e alla fine ci sara' l'assoluzione.
Se, invece, il suo comportamento non è stato specchiato, si è dimesso troppo tardi, vanificando la possibilità di accorpare le amministrative alle regionali.

Ma quello che sconcerta è la "beatificazione" del sindaco uscente da parte del Pd che vorrebbe far passare le dimissioni come la dimostrazione di chi abbia anteposto la città ai propri interessi, mentre qualcuno più in alto (ogni riferimento a Berlusconi è puramente casuale) non si dimette.

Altro motivo di scandalo sono i viaggi, anzi le missioni, che gli assessori fanno spesso e in luoghi esotici a spese nostre: mai una trasferta in Albania per vedere da vicino i guasti del comunismo...

Ultima nota, ma non ultima per gravità, è il fatto che per l'inchiesta a carico di Delbono, aperta in campagna elettorale, era stata chiesta, dal Procuratore generale ora in pensione, l'archiviazione.
Il nuovo Procuratore ha ritenuto, invece, che fosse necessario proseguire nelle indagini e, a questo punto, sono fioccati gli avvisi di garanzia.

Allora la faccia tosta sta nel voler ribaltare la realtà: un sindaco che si presume portasse con sè la fidanzata in "missione" a spese dei contribuenti, che viene raggiunto da avvisi di garanzia, si dimette per il bene della sua città tre giorni dopo il termine utile per accorpare le elezioni, determinando un lungo commissariamento?

Facciamo male a pensare che sia stato costretto dai compagni a togliersi di mezzo perché oramai si era bruciato?
Si fa peccato a ritenere che si sia voluto spegnere il faro che illuminava troppo da vicino il modo di agire di certe amministrazioni?
Nessuno ha difeso Delbono quando sono arrivati gli avvisi, ma ora è un "santo" per aver dato le dimissioni: come mai i compagni non hanno preso posizione subito a suo favore?
Forse è una prassi quella di spendere i soldi dei contribuenti in modo allegro e senza regole?

La mela marcia è stata tolta dal cesto in fretta e furia per scaricare il compagno che forse ha sbagliato.
Ma non importa se è colpevole o innocente: l'importante è aver salvato la faccia (di bronzo) del partito.

giovedì 21 gennaio 2010

Banca Coop. Davide Giacalone

Mediobanca analizza il mondo delle Coop, guarda i numeri, studia la struttura, e dà ragione a quello che qui abbiamo scritto. Avevo sostenuto, tra l’altro, che i supermercati Coop sono una mascheratura, per ottenere un vantaggio fiscale, un tradimento del dettato costituzionale. Dopo la pubblicazione dell’articolo ho ricevuto reazioni che si dividevano in due categorie: dipendenti ed ex dipendenti, che applaudivano, mentre i rossi militanti del carrello inveivano. Adesso Mediobanca, con il rapporto R&S, avverte: guardate che le Coop sono una banca. E’ vero, ma sleale.

Il vantaggio fiscale, che rende sleale la competizione, ruota attorno ad una finzione: coloro che posseggono quote delle cooperative non sono considerati investitori, o risparmiatori, come vale per qualsiasi altra società o banca, ma “soci”, intendendosi per tali dei soggetti direttamente coinvolti nella finalità mutualistica della cooperativa, senza alcun fine di speculazione. Per tale motivo, e facendo riferimento all’articolo 45 della Costituzione, il regime fiscale per i soldi versati dai soci è di favore: 20, anziché 27% degli interessi. Aliquota che, fino a due anni fa, era del 12,5%.

Grazie a questo vantaggio, e con i soldi versati da quelli che si pretende siano soci, ma, in realtà, sono dipendenti o clienti, le Coop si finanziano ad un costo inferiore, rispetto agli altri. Quindi, alla fine, non ci si deve stupire se, con 11,7 miliardi di fatturato, equivalgono al doppio dei loro concorrenti. Se possono disporre di 957 punti vendita, contro i 135 di Esselunga (per avere un riferimento), complice anche la benevola accoglienza, alle cooperative riservata dalle amministrazioni locali amiche. E non c’è da stupirsi se, grazie al meccanismo descritto, le Coop raccolgono un “prestito soci” pari a 11,3 miliardi, vale a dire il doppio del risparmio raccolto da Mediolanum (sempre per avere un riferimento).

Il finanziamento a basso costo consente di fare cassa per pagare i fornitori, in questo modo tagliando i tempi, rispetto ai concorrenti. Siccome nessuno fa beneficenza, è ragionevole supporre che avendo maggiore disponibilità liquida, e pagando prima, le Coop spuntino migliori prezzi. E questo altera la concorrenza, già zoppa per gli altri motivi.

Una parola sui “soci”, e i loro “prestiti”. Dopo avere letto l’articolo mi ha scritto uno dei dipendenti, anticipando Mediobanca e raccontando che il supermercato è, appunto, una banca, ma affermando che i versamenti non sono affatto volontari, perché si ha la facoltà, ma di fatto l’obbligo, di versare lo stipendio sulla tessera Coop, che può essere utilizzata come un bancomat. E’ chiaro? Non solo sono fiscalmente avvantaggiati, ma esercitano, sui dipendenti, un controllo ed una guida che sarebbe considerata abominevole in qualsiasi altro luogo.

Che ci fanno, con tutti questi bei soldoni? Esattamente quel che avevamo scritto: una parte va in attività finanziarie, che, facendo marameo alla Costituzione, sono speculative per definizione, e una parte serve a consolidare il potere economico e politico. Con quei soldi, le nove grandi Coop hanno in portafoglio il 57,23% della Holmo, società holding, che, a sua volta, controlla Unipol (quella di Consorte e Sacchetti, quella di “abbiamo una banca”, quelli dei 50 milioni all’estero, per intenderci). Non contente, hanno comprato anche 5,5% della banca Unipol, così come posseggono il 3,62% di Montepaschi di Siena, che non solo rientra nella galassia politico-amministrativo-finanziaria del potere rosso, ma è anche l’altro socio in Holmo. Della serie: meglio tenersi per le palle, che non si sa mai. E siccome, a forza di giocare con la finanza, ci si prende gusto, hanno anche il 90,05% della Singest, società d’intermediazione mobiliare. Cosa, tutto questo, abbia a che vedere con il costituzionalizzato ideale cooperativo, con la mutualistica ed il ripudio della speculazione, è mistero glorioso di fin troppo facile soluzione.

La corsa alla crescita commerciale ed all’arricchimento è uno sport salutare. Per chi lo pratica e per la collettività che lo circonda. Si devono rispettare le leggi, naturalmente, altrimenti si tratta di disciplina diversa. Nel caso delle Coop, però, è proprio il travestimento a sfregiare il mercato, dato che si applicano al più grande gruppo della distribuzione le regole che erano state concepite per gli agricoltori che si riunivano in cooperativa, mettevano in comune i macchinari, portavano l’uva all’ammasso presso la cantina sociale e così provavano, mettendo capitale e lavoro nelle stesse mani, a farsi strada in un mercato in cui la loro singola dimensione era troppo piccola. Minuscola. Qui abbiamo a che fare con un gigante, e lo tassiamo come fosse un lillipuziano. Senza contare che il capitale se ne sta ben lontano dal lavoro.

Tutto questo, al netto della documentata eventualità che i loro amati soci-lavoratori, nonché finanziatori, li abbiano anche spiati. Li considerano preziosi, e hanno ragione. Lo è anche la trasparenza del mercato e la parità di condizioni nella competizione, ragione per cui, del tutto a prescindere dall’eventuale questione penale, alla materia occorre mettere mano.

mercoledì 20 gennaio 2010

L'avviso a Vendola. Davide Giacalone

Nichi Vendola può essere felice: qualche anno fa l’avviso di garanzia non avrebbe posto fine solo alla sua vita politica, ma direttamente a quella civile. Ora, grazie a cose positive, come la lunga, solitaria e maltrattata battaglia di noi garantisti, e a cose negative, come la bancarotta della giustizia, sicché non contano più le innocenze, non contano le condanne e non contano le accuse, la partita si gioca in condizioni diverse. Vendola può dire che le accuse a lui rivolte sono un modo per inquinare la vita politica, senza che gli diano del berlusconiano, senza che la magistratura associata gli dia dell’eversore. Se la goda.

L’avviso a Vendola, dicono, è un “atto dovuto”. Questa storia è ridicola: o sono tutti atti dovuti, e sono tutti atti voluti. Non ci sono regole particolari, per i figli della gallina rossa. Piuttosto, si ragioni sulla forma e sulla sostanza, vale a dire, sulla giustizia e sulla sanità, per trarne utili lezioni.

L’inchiesta si trascina da tempo, condita con le solite intercettazioni telefoniche, ed è proprio una conversazione, fra il governatore della regione ed un assessore, risalente alla primavera 2008, ad avere indirizzato le indagini. In quella Vendola chiedeva conto della nomina di un primario. L’avviso di garanzia arriva adesso, a pochi giorni dalle primarie e a poche settimane dalle elezioni regionali, ma la notizia dell’indagine, con i particolari del rapporto dei carabinieri, circola da due mesi. Insomma, mettiamola nel modo più accomodante: le lentezze della giustizia trascinano un procedimento che, inevitabilmente, si sovrappone ed interferisce con la vita politica. E’, lo ripeto, la più accomodante delle ipotesi.

E veniamo al merito. Il candidato al posto di primario è persona di livello e Vendola chiede conto del perché non viene scelto. L’assessore, dal canto suo, non nega le qualità del potenziale primario, ma fa presente di riceve molte pressioni in senso contrario. Vendola, insomma, in questa rozza semplificazione, è dalla parte del bene, tant’è che, oggi, afferma che gli si dovrebbero fare i complimenti. Invece no, perché gli sfugge la cosa più rilevante: per quale ragione due politici stanno discutendo di chi deve fare il primario? La risposta è: perché il sistema sanitario italiano, pedestremente regionalizzato, non solo è lottizzato e politicamente spartito, ma ad un livello sempre più basso. Il dovere di un politico, in questa condizione, non è quello di piazzare il primario migliore, perché nessuno saprà se è realmente tale o solo un suo devoto cliente, ma quello di smontare la macchina burocratico clientelare che umilia i tanti sanitari di livello.

Guardate i bilanci regionali, sono quasi tutti scassati. Guardate dentro i debiti, e ci trovate prevalentemente la sanità. Ciò è dovuto al fatto che si prestano ai cittadini servizi di valore superiore alle tasse riscosse? Sì, ma solo in minima parte. La più significativa profondità del buco si deve al fatto che la spesa sanitaria è completamente fuori controllo. Esempio: una qualsiasi fornitura può essere pagata diversamente non solo da regione a regione, o da città e città, ma delle singole Asl. Le multinazionali centralizzano gli acquisti, per evitare creste e furti, noi abbiamo decentralizzato l’acquisto delle siringhe, per moltiplicare entrambi.

A questo si aggiunga un elemento decisivo: la spesa sanitaria è così vasta da alimentare interessi più forti della politica che pensa, o pretende, di amministrarli, pertanto capita che sia gli affaristi che i funzionari più potenti siano divenuti “trasversali”, nel senso che fanno affari con gli uni e con gli altri. Questo, però, non evidenzia la serenità dei rapporti fra i due poli politici, ma la loro subalternità agli interessi economici. Detto in maniera più brutale: la politica può anche inzupparci il biscotto, ma non conta nulla.

Significativo, in tal senso, quel che ha detto l’assessore pugliese alla salute, Tommaso Fiore: “Devo capire se sono stato un anno lì dentro a governare un sistema criminale oppure no. Ci sono tre possibili alternative: o questa teoria (l’accusa n.d.r.) è falsa; o questa teoria è vera e quindi io non ho il diritto, come capo criminale, di parlare; oppure io sono un imbecille, non essendomi accorto di tutto questo e quindi ugualmente non ho il diritto di parlare”. Ha ragione, e nella sua stessa condizione si trova Vendola, come chiunque amministri quella macchina senza avvertire che va cambiata.

Concludendo: se le accuse sono fondate, o meno, potremo saperlo solo attendendo un verdetto, non istruendo processi in piazza, e siccome la giustizia italiana fa pena, contiamo di avere Vendola e compagni al fianco, da ora in poi, nella nostra battaglia per il diritto ed i diritti. Se non ci saranno, come suppongo, se continueranno a campare al vento dell’antiberlusconismo, alimentato anche da giustizialismo, meritano di pagare l’ingiusto prezzo delle inchieste. Se le accuse sono fondate, invece, meritano la condanna. Se non lo sono, infine, ma loro non avevano capito, meritano d’essere mandati a casa. Cosa che possono fare prima i militanti della sinistra e, poi, gli elettori pugliesi.

martedì 19 gennaio 2010

Cari bamboccioni impreparati. Luca Ricolfi

La maturità di un ceto politico, così come quella di un individuo, si misura anche dalla capacità di cogliere l’ironia, lo scherzo, l’umorismo, più in generale di capire in che registro avviene un discorso. La stessa frase, ad esempio «vorrei essere in Antartide con i pinguini», a seconda del tono, del contesto e di chi la pronuncia può significare che mi sto preparando a un viaggio avventuroso ma anche, più banalmente, che i miei commensali sono di una noia mortale.

Purtroppo la capacità di riconoscere e usare i registri è fra le facoltà che stiamo perdendo, come giustamente ci ha ricordato Cesare Segre in un bell’articolo di pochi giorni fa sul «Corriere della Sera». Una conferma di tale perdita ci viene dalle reazioni alla proposta del ministro Brunetta di stabilire «per legge» che a 18 anni i giovani devono lasciare la famiglia. Non è bastato che il ministro stesso, forse consapevole del livello di immaturità del circo mediatico, abbia specificato subito che lo diceva «un po’ scherzando».

Nonostante l’evidente natura paradossale della proposta (una norma dirigista e illiberale proposta da un liberale come Brunetta!), si è immediatamente scatenato il putiferio del dibattito, delle accuse, delle messe a punto, delle prese di distanza. Giornalisti, ministri, parlamentari, dopo una settimana di cronache sul terremoto di Haiti, hanno immediatamente preso la palla al balzo per posizionarsi e criticare Brunetta, credendo o fingendo di credere che davvero il ministro avesse in mente una legge capace di costringere i genitori a espellere di casa i figli al compimento del diciottesimo anno di età. E’ un peccato, perché la provocazione di Brunetta tocca un tema serissimo, su cui vale la pena farci qualche domanda vera. Da molti anni le statistiche ci dicono che in nessun Paese occidentale i figli restano in casa con mamma e papà così a lungo come in Italia. Perché?

Per anni l’interpretazione dominante è stata che le cause sono essenzialmente economiche: poche occasioni di lavoro, mercato degli affitti congelato, proliferazione delle «università sotto casa». Da un po’ di tempo si stanno facendo largo anche letture meno economiciste, che avanzano il sospetto che c’entrino anche il familismo e il deficit di responsabilità individuale tipici della società italiana. Alberto Alesina e Andrea Ichino, ad esempio, in un bel libro appena uscito da Mondadori (L’Italia fatta in casa) ipotizzano che la lunga permanenza in famiglia sia anche il frutto di una scelta, ossia delle preferenze degli italiani. E Lucetta Scaraffia sul Riformista, citando una ricerca dell’Istat, fa notare che quasi metà dei «bamboccioni» restano in famiglia non per necessità, ma perché in casa si trovano fin troppo bene.

C’è un aspetto, tuttavia, che resta quasi sempre in ombra, e che invece a mio parere meriterebbe più attenzione: le scelte scolastiche dei giovani italiani. Fra i molti record negativi dell’Italia c’è anche il fatto che in nessun altro Paese sviluppato sono così tanti i giovani che potremmo definire nullafacenti, nel senso che né lavorano né studiano. Se a questo aggiungiamo il fatto che il numero di giovani che riescono a laurearsi è circa la metà di quello medio europeo, e che ai test PISA sui livelli di apprendimento i risultati dei nostri quindicenni ci collocano agli ultimi posti in Europa, forse riusciamo a vedere un’altra faccia del problema dei bamboccioni. E cioè che il guaio dei giovani italiani non è solo l’attaccamento a mamma e papà, la preferenza per i comodi della vita familiare, il deficit di responsabilità individuale, ma il fatto che la loro preparazione media è così bassa da impedire loro l'accesso a posti di lavoro di qualità. Detto più brutalmente, siamo noi che li stiamo ingannando, è la finta istruzione che forniamo loro a renderli così deboli. Quel che è successo è che da molti anni la scuola e l’università italiane non solo rilasciano pochi diplomi e poche lauree, ma rilasciano titoli formali più alti del livello di istruzione effettivamente raggiunto. La conseguenza è che abbiamo un esercito di giovani che, per il fatto di avere un titolo di studio relativamente elevato (diploma o laurea), aspirano a un posto di lavoro di qualità, ma per il fatto di essere più ignoranti del giusto difficilmente riescono a trovare quello che cercano. Un sistema di istruzione ipocritamente generoso illude i giovani e ne innalza il livello di aspirazione, un mercato del lavoro spietato li riporta alla realtà. Con tre conseguenze empiriche, che le cronache di questi giorni propongono crudamente alla nostra attenzione.

Primo. In un concorso pubblico per vigili urbani nemmeno i laureati riescono a superare decentemente le prove scritte, e quindi nessuno viene ammesso agli orali, e tanto meno assunto (concorso di Grosseto). Secondo. Ancora una volta un genitore si trova condannato dalla magistratura a mantenere figli ultratrentenni che non trovano un lavoro «adeguato» (l’ultimo caso a Bergamo).

Terzo. Nella crisi gli italiani perdono il lavoro (800 mila posti di lavoro in meno in 2 anni) mentre gli immigrati lo guadagnano (400 mila posti di lavoro in più in 2 anni).

Si potrebbe pensare che dipenda solo dal fatto che gli immigrati sono meno istruiti degli italiani, e per questo motivo si accontentano di lavori poco qualificati. Ma non è così, perché il livello di istruzione medio di italiani e stranieri è quasi identico. La differenza è che gli immigrati vogliono innanzitutto lavorare, e per questo accettano posti molto inferiori al loro livello di qualificazione. Mentre gli italiani pretendono di lavorare in posti adeguati alla loro istruzione formale, e raramente si chiedono se c'è una ragionevole corrispondenza con la loro istruzione effettiva. (la Stampa)

lunedì 18 gennaio 2010

Commozione indotta. Massimo Fini

Un paio di anni fa, a Roma, nel popoloso quartiere di Porta Pia, un portinaio che stava pulendo delle vetrate al quarto piano di un palazzo perse l'equilibrio e precipitò sul selciato, morto. La gente che passava aggirava il cadavere oppure disinvoltamente lo scavalcava, badando bene a non inzaccherarsi le scarpe. La settimana scorsa passavo per via Fabio Filzi, a Milano, una strada piena di negozi e di gente. Un uomo era riverso per terra, la testa fra il basello del marciapiede e la strada.

La gente passava, guardava e tirava dritto. Lo feci anch'io. Avevo fretta. Ma dopo cinquanta metri mi bloccai. “Ma sono diventato pazzo, indifferente a tutto, disumano, solo perché potrei mancare un appuntamento che mi preme?”. Ritornai sui miei passi e mi chinai sull'uomo. Era un ubriaco in coma etilico.
Poiché era caduto proprio davanti a un grande magazzino, una Upim mi pare, chiesi alla guardia giurata che vi stazionava davanti se aveva chiamato l'ambulanza. “No” rispose. “La chiami”. “Non è affar mio”. “Come non è affar suo? È affare di tutti”. “È solo ubriaco”. “Ma non vede che sta male?”. Intanto poiché io mi ero fermato ed ero chino sull'uomo si era formata una piccola folla di curiosi. Ma non faceva nulla, era lì solo per godersi lo spettacolino fuori ordinanza.

Quando succedono tragedie come quella dell'Aquila o di Haiti gli italiani sono prontissimi a metter mano al portafoglio. Vespa raccontava l'altra sera che solo attraverso il suo programma aveva raccolto quattro milioni di euro. E anche questa volta, per la ben più lontana Haiti, gli italiani si sono mossi con rapida generosità. C'è un legame fra questi comportamenti apparentemente così contraddittori? Sì. L'uomo ha una capacità limitata di emozionarsi, di soffrire per gli altri, di solidarizzare. Non può farlo per il mondo intero. Invece la Tv globalizzata lo costringe a questo esercizio. Un tempo, poiché non vedevamo nulla, ci importava assai poco di un terremoto ad Haiti, per quanto terrificante.

In una bella commedia anni '50, "Buonanotte Bettina", Walter Chiari si chiedeva: “Se schiaccio un bottone e muore un cinese in Cina ho veramente ucciso qualcuno?”. La distanza contava. Oggi la Tv ha abolito questa distanza. Ma a noi di un terremoto ad Haiti continua a non importarci nulla. Però, poiché, diversamente da Walter Chiari, che non vedeva il cinese ucciso in Cina, ci sentiamo in colpa per questa indifferenza, ci precipitiamo a mandare denaro. Ma questa mitridatizzazione delle emozioni, cui ci costringe la continua sollecitazione dei media, finisce per colpire anche il nostro vicino, colui che potremmo veramente e concretamente aiutare o per il quale potremmo provare un'autentica compassione. Ho vissuto per una decina di anni fra Italia e Svizzera (avevo una fidanzata che abitava a Lugano) e ho potuto notare che gli svizzeri sono instancabili, ancor più degli italiani, nello staccare assegni per qualsiasi calamità che capiti in qualsiasi posto del mondo.

Nel periodo in cui ero lì un immigrato italiano, un giorno, prese un kalashnikov e fece fuori, d'un colpo, sei svizzeri (con la sotterranea soddisfazione della comunità italiana di Lugano). Quale il movente? Viveva da vent'anni nella Confederazione e non era riuscito a farsi un solo amico svizzero.La Modernità ha abolito le distanze. Noi siamo in contatto, via Tv o Internet, con il mondo intero. Con tutti e con nessuno. Conosciamo tutti ma non il vicino della porta accanto. Spargiamo la nostra emotività per tutto l'orbe terracqueo ma, al momento del dunque, non siamo in grado di riservarla al vicino, al vero "prossimo", che è colui che possiamo toccare e che, come nota lo psicologo junghiano Luigi Zoja in uno splendido libro, è scomparso dalla nostra vita ("La morte del prossimo", Einaudi). (Ariannaeditrice.it)

E su Mannino "Il Fatto" preferì tacere. Gianluca Perricone

Cerca che ti ricerca…nulla, niente di niente. Loro definiranno pure il Corriere come il Pompiere della Sera (a causa del tentativo di stemperare i toni del dibattito politico da parte del quotidiano di via Solforino), ma come definire quelli de Il Fatto e la loro creatura di carta? Il Fatto dei Manettari? La Gazzetta del Procuratore? Il Quotidiano del pm? Prima pagina del rosso giornale “togato” di venerdì 15 gennaio: tra gli altri, editoriale di Travaglio su/contro Craxi (“Craxi Driver”), rinvio alle pagine 2 e 3 su/contro il direttore del Tg1 Minzolini (“Tg1, lui lo ha ridotto così”) colpevole di aver svolto in tv un intervento su Craxi, incipit articolo di Gianni Barbacetto su/contro Craxi (“Quei lingotti di Bettino”), incipit articolo di Luca Telese su/contro il Minzolini di cui sopra (“L’ex squalo, da ecce bombo a telesilvio”) e qualche altra “perla” su clochard, Haiti, Bonino ed interrogazione parlamentare bipartisan sul caso Del Turco. Ma della innocenza (sentenziata il giorno prima dalla Cassazione, al termine di una vicenda giudiziaria durata ben sedici anni dei quali quasi due trascorsi agli arresti) dell’ex ministro Calogero Mannino, niente, neppure una “breve”, nemmanco una riga. Va bene, si potrebbe anche affermare che, forse, non è stata giudicata notizia da prima pagina. E’ vero, ma neppure nelle restanti diciannove c’è traccia di quella assoluzione definitiva arrivata dopo un periodo che, da solo, costituirebbe già di per sé una vergogna. E se poi consideriamo i quasi due anni di detenzione ai quali è stato sottoposto un innocente, il fenomeno assume contorni finanche stomachevoli. Ma questo sono cose che ai “manettari de Il Fatto” non sembrano interessare. Per loro non è successo nulla. Eppure Marco Travaglio non ha perso occasione, nel passato, di sancire “a prescindere” il concorso esterno di Mannino con i poteri mafiosi; nondimeno Gian Carlo Caselli, che delle vicende giudiziarie dell’attuale deputato Udc ne sa parecchio ed almeno qualche considerazione di massima – se non proprio le scuse all’ingiustamente accusato – poteva anche scriverla. Invece nulla, il vuoto assoluto. E questa sarebbe l’informazione libera e senza padroni? E questo sarebbe un giornale privo di pregiudizi e al di sopra delle parti? Ma per piacere… (l'Opinione)

domenica 17 gennaio 2010

Proprio così: non ci siamo! Antonio Martino

Le recenti dichiarazioni del presidente del Consiglio, orientate prima a farci sperare che – finalmente! – avremmo avuto la tante volte promessa riforma tributaria e poi a deluderci per l’ennesima volta, dichiarando che per adesso almeno non se ne parla proprio, sono state variamente commentate e potrebbe apparire superfluo insistere ulteriormente sull’argomento. Ma insistere si deve ed è quanto intendo fare adesso.

Maurizio Belpietro sul Libero, giornale da lui diretto ha sintetizzato quella che a me sembra una tesi sacrosanta: non ci siamo, non ci siamo proprio. E’ dovere di tutti ma in particolare di quanti lo hanno sostenuto per quindici anni nella sua lotta politica dirglielo e senza mezzi termini: la riforma tributaria è sempre stata un impegno solennemente assunto e ampiamente sbandierato di Berlusconi, di Forza Italia, del Pdl, del centro-destra e non saranno certamente le platealmente false giaculatorie sulla crisi che non ce lo consente a farci perdonare la più plateale, vergognosa ed ingiustificata inadempienza del nostro amato presidente del Consiglio. Non dia retta ai sondaggi, dimentichi i suoi indubbi passati successi, non si culli sull’ovvia considerazione che non esistono da nessuna parte alternative credibili. Se non mantiene e subito, senza indugi di sorta, il suo impegno di darci un fisco migliore potrà fare affidamento soltanto sulla delusione prima e il disprezzo poi di quanti in lui credono.

La contraddittorietà delle due dichiarazioni del Silvio nazionale dimostra a mio parere alcune cose importanti. Anzitutto, essa fa giustizia della strumentale interpretazione della prima come “propaganda pre-elettorale” (come se fosse la prima volta che Berlusconi promette una drastica riforma fiscale). Se, infatti, la promessa di abbattere le aliquote fosse stata fatta per ottenere consensi utili per le prossime elezioni regionali, non sarebbe stata smentita così rapidamente, sarebbe stata lasciata galleggiare fino alle elezioni salvo essere ritrattata subito dopo.

In secondo luogo, se ci chiediamo perché la promessa iniziale sia stata fatta, perveniamo all’ovvia conclusione che evidentemente Berlusconi è convinto che quella riforma sia necessaria e utile all’economia italiana. Del resto, se così non fosse quella riforma non sarebbe stata promessa tante volte lungo un così elevato numero di anni.

Perveniamo così a quello che è il vero quesito importante della faccenda: perché quella promessa è stata disattesa? Perché Berlusconi, che in quella riforma crede, non la ha finora realizzata pur avendone avuto la possibilità sia nel quinquennio 2001-2006 sia negli ultimi due anni? A quella domanda si può rispondere molto facilmente ma non esaurientemente. Vediamo.

Come ricorda Sergio Rizzo (Corriere della sera, 11 gennaio) da candidato del “patto Segni” l’attuale ministro dell’economia bollò la proposta di aliquota unica che faceva parte del programma di Forza Italia nel 1994 come “miracolismo finanziario”. Il commercialista più pagato d’Italia evidentemente ha preferito in questo caso essere coerente ed ha quindi continuato ad opporsi a qualsiasi riforma tributaria. Gli è andata bene nel 2001-2006 e sembra gli stia andando bene anche stavolta. L’esistente, da cui ha lucrato onorari da capogiro, finora non è stato nemmeno scalfito; il “fisco di Visco” continua imperterrito ad impedire all’Italia di crescere, ai ricchi di evitare di pagare le tasse, ai furbi di fare i loro comodi ed ai consulenti tributari di arricchirsi.

Poco importa che questo sistema fiscale frutti pochissimo allo Stato, che punisca il lavoro, scoraggi il risparmio e gli investimenti, riduca a zero la crescita economia del paese, sia causa di iniquità intollerabili, a qualcuno va bene così e, siccome il qualcuno in questione è persona che conta, non si cambia nulla.

Questa a mio parere la spiegazione, forse presentata con eccessiva crudezza ma sostanzialmente vera; però non esauriente perché non spiega per quale mai motivo, stando così le cose, Berlusconi continui ad affidare le sorti della nostra economia e la sua personale credibilità a persona che gli impedisce di realizzare quanto ha reiteratamente promesso. Non esiste un articolo della Costituzione vigente che reciti: “in caso di governo di centro-destra tutti i poteri economici devono essere affidati a Giulio Tremonti”. Chi o cosa, in nome di Iddio, costringe Berlusconi a continuare a contraddirsi, promettendo il cambiamento ed infliggendoci invece l’immobilismo? Io non lo so ma la mia ignoranza non mi pesa eccessivamente. (IBL)

"Repubblica" ha un virus. Massimo De Manzoni

Se il Giornale titola in prima pagina sul grande flop dei vaccini contro l’influenza A, altrimenti detta «suina», non c’è da meravigliarsi: questo quotidiano è stato sin dall’inizio a dir poco scettico sul Grande Allarme Mondiale Per La Terribile Epidemia. Ma se a fare lo stesso è la Repubblica beh, la cosa assume tutt’altro aspetto. Il giornale di De Benedetti, infatti, è stato il più accanito e pervicace in Italia, e forse nel mondo, nell’alimentare il panico nei confronti della «nuova spagnola», lo spaventoso morbo che avrebbe mietuto milioni di vittime senza risparmiare nazione alcuna. Ricordiamo giorni e giorni di titoloni, paginate a mazzi: quattro-sei-otto al colpo. E ricordiamo anche il consueto tono di accusa nei confronti del governo che «non fa niente», che «resta a guardare», che «si perde in chiacchiere mentre gli altri Paesi si dotano di vaccini», che «ha chiesto un numero di dosi di farmaci inferiore al necessario».
Adesso che il flagello è arrivato e se n’è andato, rivelandosi per quello che il Giornale, in perfetta solitudine, aveva subito sostenuto essere, una modesta influenza di gran lunga meno pericolosa della stagionale, può il quotidiano di Largo Fochetti far finta di nulla e mettersi ad accusare il governo di aver comprato «23 milioni di vaccini inutili»? Può piangere sui 200 milioni di euro versati? Può fare le pulci al ministro per le condizioni capestro che si è fatto imporre dall’azienda farmaceutica alla quale si è rivolto? Può scoprire scandalizzato che Big Pharma, ovvero i colossi del settore, in sei mesi ha fatto guadagni colossali ed è schizzata in Borsa? No, se si conserva un minimo di decenza, non può.
In questa partita, la Repubblica non sta dalla parte della pubblica accusa, come è abituata a fare, bensì dalla parte degli accusati. Sospettata quantomeno di favoreggiamento. Perché se il governo italiano, sbagliando come tutti gli altri governi del mondo, ha buttato 200 milioni di euro in vaccini che ora dovremo pure smaltire, la colpa è sì dell’assurdo allarme dell’assurda Organizzazione mondiale della sanità, ma anche di chi lo ha rilanciato e amplificato a dismisura. Se il contratto firmato con la Novartis ci è sfavorevole, la responsabilità è di chi ha esercitato una pressione insostenibile sul ministro, mettendolo in una situazione di assoluta debolezza. Perché se un cliente richiede a un’azienda farmaceutica di produrre in due mesi un preparato che, con i vari test, necessiterebbe (poniamo) di sei mesi per essere messo a punto, è chiaro che questa, per accontentarlo, pretenda di essere sollevata da qualsiasi conseguenza derivante dalla fretta. Prova ne sia che la medesima cosa è successa in tutto il mondo.
E con ciò non vogliamo assolutamente difendere l’industria del farmaco, che anzi chi scrive ritiene abbia messo più di uno zampino nelle ultime Emergenze Sanitarie Planetarie. Ma solo fare sommessamente notare che i complici della «gigantesca speculazione» vanno ricercati tra chi ha soffiato sul fuoco, non certo tra chi ha cercato, invano, di spegnerlo.
E sì, cari colleghi. Se il vostro amico Rosario Trefiletti, il presidente di Federconsumatori che imperversa in tv e sulle vostre pagine, avesse veramente a cuore gli interessi dei cittadini, farebbe una bella class action contro Ezio Mauro e Carlo De Benedetti. Tranquilli, non accadrà. Ma se mai ci dovesse essere una Norimberga su sars, aviaria, suina e altre pandemie immaginarie, il posto di voi repubblicones sarà sul banco degli imputati. E forse allora rimpiangerete di non aver mantenuto un discreto silenzio sul Grande Flop dei Vaccini: un po’ di vergogna vi avrebbe procurato almeno le attenuanti generiche. (il Giornale)

sabato 16 gennaio 2010

Ennesimo fascicolo contro il Cavaliere. Giorgio De Neri

Le pratiche a tutela del Csm, aperte a causa di dichiarazioni di Silvio Berlusconi contro singoli magistrati o contro tutta la magistratura associata, sono ormai a cifre da record. In questo anno e mezzo di governo siamo ormai a quota cinque, a partire dalla prima che riguardava il processo Mills, su sette aperte in tutto. L’ultima risale allo scorso 8 settembre per battute contro le procure di Milano e Palermo dove erano già in incubazione da mesi le rivelazioni di Spatuzza. Lo scorso dicembre anche il capo dello Stato Giorgio Napolitano aveva avvertito il plenum che forse era il caso di darsi una calmata ma gli interessati hanno fatto orecchie da mercante. Così adesso l’ultimo “casus belli”, a ben vedere, salta fuori per una semplice battuta, magari di cattivo gusto, quella con cui, illustrando mercoledì il fantomatico piano carceri di Ionta, il Cav si era lasciato sfuggire che “certi pm sono peggio di Tartaglia”. Tartaglia ovviamente è il presunto psicolabile che a momenti lo accoppava tirandogli in faccia una statuetta in miniatura raffigurante il Duomo di Milano poco prima dello scorso Natale durante uno dei tanti bagni di folla cari al premier. Giorgio Napolitano aveva invano invitato il Consiglio Superiore della Magistratura a mantenere “serenità ed equilibrio” nell’analisi delle pratiche a tutela di magistrati oggetto di accuse da parte di Silvio Berlusconi. L’auspicio del presidente della Repubblica era contenuto in una lettera che il consigliere del presidente della Repubblica per gli affari dell’amministrazione della Giustizia Loris D’Ambrosio aveva inviato al vicepresidente del Csm Nicola Mancino. Napolitano aveva ribadito “l’esigenza di fare un uso responsabile e prudente dell’istituto delle pratiche a tutela dei magistrati, che ora, in seguito a una modifica regolamentare, è stato ancorato a stringenti e rigorosi presupposti”. Invece alla prima nuova occasione, e altre di certo non mancheranno visto il caratterino del Cav, rieccoli piombare pavlovianamente nel riflesso di difesa corporativa, che ieri ha scandalizzato molti membri della maggioranza, tra essi il portavoce Daniele Capezzone, il ministro dei beni Culturali Sandro Bondi e il vice capogruppo al Senato Gaetano Quagliariello, che non hanno perso l’occasione per dettare alle agenzie dichiarazioni di fuoco sull’ingerenza delle toghe nella politica. Diversa invece, e ovviamente, è stata la valutazione data dall’opposizione, che nel caso del Pd appoggia i giudici non per convinzione ma solo per marcare la differenza rispetto al Pdl. Mentre in quello dell’Idv, e segnatamente del suo esponente e portavoce ufficiale del movimento Leoluca Orlando, l’adesione ai concetti espressi dal Csm si fa più convinta. Anche nei toni: “Le continue aggressioni di Berlusconi ai magistrati sono un atto di terrorismo istituzionale”. Ipse dixit e quindi Amen. (l'Opinione)

Prima che gli ermellini parlino. Davide Giacalone

Fra quindici giorni saremo sommersi dalle nenie lamentose, tradizionalmente inauguranti l’anno giudiziario. Saremo aggiornati sul quadro del disfacimento, posto che ciascuno darà la colpa a qualcun altro, confermando la generale irresponsabilità dei protagonisti. Prima che lo strazio cominci, vi segnalo due nomi, invitandovi a considerazioni non conformistiche e banali: Calogero Mannino e Giovanni Sbraga. Il primo sapete chi è, il secondo, con ogni probabilità, non lo avete mai sentito nominare.

Mannino, esponente importante della democrazia cristiana, siciliana e nazionale, riceve un avviso di garanzia nel febbraio del 1994. Lo arrestano un anno dopo. Se avesse voluto e potuto inquinare le prove, lo avrebbe già fatto, se fosse voluto fuggire all’estero sarebbe già andato, in quanto alla reiterazione, omesse altre considerazioni, era impossibile, visto che lo avevano già fatto fuori. L’arresto, pertanto, sarebbe considerato incivile in tutti i Paesi civili. Non tale, è l’Italia. Lo scarcerano nel novembre del 1995, dopo avere passato nove mesi in carcere ed essere divenuto una larva. Lo mandano ai domiciliari, fino al gennaio successivo. Altra, inutile umiliazione. Lo processano per sei anni. Assolto, nel luglio del 2001. Basta, in un Paese civile la faccenda si chiude lì, con le scuse dello Stato ed essendo durata già troppo a lungo. La procura, invece, ricorre, e in appello, nel maggio del 2004, lo condannano. La cassazione cancella la condanna e ordina un nuovo processo di secondo grado, che lo assolve ancora, nell’ottobre del 2008. Giovedì scorso la parola fine.

Ha detto Mannino: “mi hanno tolto un pezzo di vita”. Sapendo di cosa parlo, non concordo. Il pezzo di vita è stato tolto all’Italia, alla vita collettiva, alla credibilità delle istituzioni.

Sbraga era solo un sindaco di paese, Subiaco. Inquisiscono lui e la giunta, nel 1992, arrestando dodici persone (chiedo scusa se non li cito tutti). Lo tengono settanta giorni a marinare in quel di Regina Coeli. L’11 gennaio scorso è stato assolto. In primo grado. Ci sono voluti diciotto anni per fare un grado di giudizio. Dice Sbraga: “ho ancora gli incubi”. Lo capisco. Ma l’incubo più grosso è quello collettivo, quello di un Paese ostaggio della malagiustizia, che non riesce ancora a riscattarsi.

Mannino lo sa: l’accusa dura lustri, l’assoluzione un solo giorno. Egli è innocente, ma qualsiasi ruminante, che presta servizio nel giornalismo o nella politica, potrà dire di lui: al centro di inchieste, lungamente detenuto, accusato di reti infamanti. Sbraga ancora non lo sa, ma l’ingiustizia è cieca. La procura ricorrerà, tanto non le costa. Paghiamo noi.

In tutti i sistemi di diritto esiste sempre la possibilità dell’errore. Non è eliminabile, non del tutto. La mostruosità del sistema italiano è che più sbagli e più fai carriera. I procuratori protagonisti di queste vicende ne hanno guadagnato in visibilità, scalando poi una carriera fatta d’anzianità e destinazioni. Sono stati gratificati nel loro amor proprio, ed hanno messo a frutto i loro eroismi per sgomitare e scansare quelli che sgobbano silenti. E quando, fra quindici giorni, gli ermellini racconteranno la giustizia ai cittadini, diranno che sì, le cose non funzionano come dovrebbero, ma ci sono pochi soldi (ne spendiamo troppi), pochi magistrati (ne abbiamo un esercito), pochi cancellieri (una folla), e, poi, c’è la politica, che intralcia. E l’ultima cosa è anche vera, perché il legislatore ammacca, scassa, salda, sega, incolla, ma non sa riformare. Si giochicchia con robetta insulsa, ma si ha paura a mettere le mani nella macchina. Si provvede agli indulti o ai posti in carcere, ma si fa finta di non sapere che più della metà degli ospiti sono innocenti. Così come, naturalmente, c’è un sacco di colpevoli in circolazione. Ma la causa è la medesima: una giustizia pessima.

Il problema vero, però, non è questo. Se lo fosse, lo si risolverebbe. Non è difficile. Il problema è che la misera della politica italiana è germogliata nel fin troppo concimato terreno della magistratura corporativizzata e correntizzata. O viceversa, fate voi. Della giustizia non importa niente, perché Mannino sarà colpevole, da assolto, Berlusconi lo si vuole colpevole, senza sentenza. Sicché, alla fine, neanche le condanne valgono una cicca, e quel che conta e la guerra per bande. E Sbraga se ne sta lì, inutilmente devastato. Senza che noi sapremo mai se fu un buon o un cattivo amministratore, come, adesso, non si può dire che gli amici di Andreotti hanno sfregiato la Sicilia e non si può sostenere che Mannino aveva un’idea diversa dalla mia, circa la spesa pubblica. Non si può, perché questa sarebbe politica, che presuppone idee, cultura e morale. Invece, ci tocca il teppismo cieco del moralismo senza etica.

Ora andiamo pure alle cerimonie d’inaugurazione, l’unico luogo dove s’esibiscono le toghe rosse, con il collo di pelliccia.

Si governa solo coi decreti-legge. Renato Brunetta

Caro Direttore,
ciclicamente si levano scandalizzate voci sull’abuso dei decreti-legge e sull’eccesso dei poteri normativi del governo. Michele Ainis, fine studioso, rilancia l’argomento, addebitando peraltro la gravità del fenomeno alla seconda Repubblica, nella quale «è diventato un’emergenza pure un raffreddore».

Giorni fa, per aver semplicemente detto un’ovvietà, e cioè che anche la prima parte della Costituzione e anche l’art. 1 (nel riferimento al lavoro) potrebbero essere modificati, sono stato additato al pubblico ludibrio. Chissà cosa succederà dopo quanto sto per dire: sul tema dei decreti-legge c’è una grande ipocrisia e che i decreti-legge sono stati e sono la nostra salvezza. E non da oggi ma dai primi giorni della neonata Repubblica. I decreti-legge sono da sempre l’unico strumento per governare questo Paese. Inutile stracciarsi le vesti o puntare il dito sul governo pro tempore. Ricordo Ingrao nel 1978 tuonare, da presidente della Camera, contro la lesione dell’autonomia del Parlamento. Tutti i governi di centro, di destra e di sinistra hanno fatto un uso sempre più abnorme dei decreti-legge. Un’abnormità che è andata intensificandosi assai prima dell’avvento della Seconda Repubblica. Chi non ricorda le infinite reiterazioni degli Anni ‘80 e primi Anni ‘90? Decreti-legge a catena che mantenevano, a volte per anni, una legislazione provvisoria, magari modificandola in continuazione e che venivano sanati con la legge di conversione a decorrere persino da due anni prima.

Certo, l’avvento della cosiddetta Seconda Repubblica ha reso il fenomeno ancora più evidente, ma ciò dipende dal fatto che è nata anche proprio per superare l’immobilismo nel quale si era avvitata la prima. È sorta sulla fondamentale svolta per cui le maggioranze parlamentari rispondono ai cittadini e non dipendono dalle alchimie di maggioranze parlamentari a geometria variabile. Per fortuna ci sono i decreti-legge. Altrimenti nemmeno quel poco o tanto che si fa, si riuscirebbe a farlo, o si dovrebbe farlo al costo di negoziati infiniti, come accadeva con le leggine approvate in commissione, durante la Prima Repubblica.

E, dunque, senza ipocrisia dobbiamo dirci onestamente come stanno le cose. L’uso eccessivo dei decreti-legge è una conseguenza, non una causa. La conseguenza di istituzioni parlamentari antiquate e di una cultura politica assemblearista che continua a resistere. Una cultura fondata sull’idea che il ruolo dell’opposizione non sia criticare e controllare, preparandosi a vincere le successive elezioni, ma codecidere e urlare alla lesa maestà del Parlamento se la maggioranza non contratta ogni misura.

Si potrebbe rinunziare all’eccesso di decreti-legge? Certo. Se insieme si rinunziasse alla cultura della codecisione e della malintesa centralità del Parlamento e del misticismo del potere di emendamento. Solo nei Parlamenti dell’800 le leggi nascevano dall’assemblea dei deputati. Nei Parlamenti di oggi le leggi sono atti voluti dal governo, per l’attuazione del proprio indirizzo politico. Non sono io a dirlo, ma Luigi Einaudi, il quale nel 1944 così parlava del parlamentarismo inglese: «La teoria dice che gli elettori eleggono i membri della camera dei Comuni e che questa è la vera sovrana: fa e disfà i ministeri, fa le leggi . La realtà di oggi è tutta diversa. La Camera dei comuni non fa né disfà i ministeri, non vota mai le leggi le quali abbiano origini nella camera medesima e vota quasi sempre e soltanto i disegni di legge che le sono messi innanzi dal governo». Ma vi immaginate che putiferio succederebbe se Berlusconi dicesse queste cose? In quanti si strapperebbero le vesti in nome della sovranità del Parlamento?

Un’ultima annotazione, sarebbe importante se il prof. Ainis riconoscesse anche qualche elemento positivo, nel 2009 sono stati adottati - malgrado il terremoto in Abruzzo - solo 18 decreti-legge, la cifra più bassa dal 1960 ad oggi. (la Stampa)

giovedì 14 gennaio 2010

Cassazione, assolto Mannino dopo 17 anni (23 mesi di carcere). il Velino

L'ex ministro democristiano Calogero Mannino, attualmente deputato dell'Udc, è stato definitivamente assolto dai giudici della IV sezione penale della corte di Cassazione. Hanno confermato l'assoluzione della seconda sezione penale della corte d'appello di Palermo del 22 ottobre di due anni fa, che lo aveva processato due volte a causa dell'annullamento con rinvio della Suprema corte, per il reato di concorso in associazione mafiosa. L'ex ministro, secondo le accuse della procura della Repubblica di Palermo, nell'81 avrebbe stretto un accordo con i boss agrigentini e palermitani, garantito da Tony Vella, un mafioso agrigentino e da Gioacchino Pennino, esponente della corrente cianciminiana, diventato successivamente collaboratore di giustizia. "Dopo essersi ben comportato con i boss della sua provincia l'imputato si legò anche ai clan palermitani che gli diedero fiducia, puntando su di lui con un patto elettorale che gli garantì voti tra l'83 e il '92".

Il processo a Mannino ha superato per durata ogni record. La sua vicenda giudiziaria inizia formalmente il 24 febbraio del 1994:gli fu notificato dalla procura della Repubblica di Palermo un avviso di garanzia per concorso in associazione mafiosa per indagini iniziate l'anno prima, appena dopo l'arrivo di Giancarlo Caselli alla guida della Dda palermitana. Il 13 febbraio del 1995, su ordine di custodia firmato dal gip di Palermo, Alfredo Montalto, fu arrestato perché avrebbe potuto depistare le indagini. Fu rinchiuso nel carcere romano di Rebibbia e rinviato a giudizio il 28 ottobre successivo. Nel carcere romano restò fino al 15 novembre del '95 quando fu scarcerato per il grave stato di salute (era stato colpito da una neplagia maligna ed aveva perso 33 chili di peso) ed obbligato agli arresti domiciliari fino al 3 gennaio del 97. Il processo di primo grado si aprì il 28 novembre del 1995 e dopo un dibattimento lunghissimo, più di 300 udienze, 25 pentiti, 400 testimoni citati ( dei quali 250 dall'accusa) fu assolto il 5 luglio del 2001. In appello, nel maggio del 2004, fu condannato a cinque anni e quattro mesi. Il 12 luglio del 2005 la Cassazione a Sezioni unite annullò la decisione e ordinò un nuovo processo dal quale fu assolto alla fine del 2008.

I media sparano contro il Cav. ma sulle tasse non c'è stato dietrofront. Lucia Bigozzi

Rebus tasse. Silvio Berlusconi diventa il bersaglio del fuoco di fila – amico e non – che oggi sta nero su bianco in tutti i quotidiani. L’accusa bipartisan rivolta al Cav. riguarda quella che viene considerata una retromarcia, un dietrofront, un annuncio atteso da anni, auspicato, chiesto a gran voce da imprenditori, liberi professionisti, dipendenti, famiglie, sindacati. Insomma, una questione tanto strategica come la riduzione della pressione fiscale che il premier e il governo di centrodestra si sono rimangiati nel breve spazio di un weekend, piegandosi alla diktat rigorista del superministro dell’Economia Giulio Tremonti.

E così basta scorrere i titoli, leggere articoli al fulmicotone, per avere il quadro delle accuse e delle recriminazioni. Dal quotidiano della famiglia Berlusconi Il Giornale che tuona sul “Pasticcio delle tasse” con tanto di fondo del direttore Feltri, a Libero che con il direttore Belpietro titola in prima pagina “Caro Silvio, non ci stiamo”. Da Repubblica che a pagina 9 offre un retroscena sullo stop di Giulio a Silvio un attimo prima della conferenza stampa a Palazzo Chigi, a Il Riformista che parla di “Stato confusionale” (focalizzando l’attenzione su fisco e giustizia) e di “Frenata sulla svolta fiscale”, mentre per il Corriere della Sera “Berlusconi frena sulle tasse”. La sinistra, ovviamente ci mette sopra il carico da novanta con in testa Bersani che per coprire la mancanza di idee e di coraggio sul fronte delle riforme, attacca il governo sul fronte tasse parlando di “giravolta” nella quale si è prodotto un esecutivo “irresponsabile”.

Noi dell’Occidentale non siamo mai stati teneri con le titubanze, gli stop and go del Cav. su importanti capitoli dell’azione di governo o su riforme strategiche anche e soprattutto in campo economico. Lo abbiamo fatto, ad esempio, senza reticenze o scrupoli di sorta, sulla questione dell’abolizione di una delle tasse più odiose ed inique: l’Irap. In quel caso e parliamo di una manciata di mesi fa, non esitammo a criticare l’annuncio di Berlusconi subito seguito (allora sì) da una correzione di tiro e di rotta, registrando il no netto di Tremonti che alla fine, strappò al Cav. l’archiviazione della pratica.

Ma oggi sulla riforma fiscale e il nodo tasse non ci sembra che Berlusconi abbia fatto annunci e poi se li sia rimangiati. Perché, in sostanza, il premier in questi giorni non ha mai detto che nel 2010 ridurrà il carico fiscale, semmai ha confermato che non lo aumenterà, come scritto nel programma elettorale del centrodestra. La riforma tributaria si farà e sarà graduale, cioè modulata da qui alla fine della legislatura e resa compatibile con i due fattori dai quali non è possibile prescindere: la tenuta in ordine dei conti pubblici (l’Italia ha il debito pubblico più alto rispetto ai paesi dell’Ue) come chiede Bruxelles e l’andamento della crisi internazionale che impone prudenza.

Adesso, il primo passo è il riordino e la semplificazione della macchina fiscale alla quale in questo anno l’esecutivo metterà testa e mani. Semmai, Berlusconi ha rilanciato quello che è sempre stato il suo pallino, fin dal ’94: l’idea di arrivare a due aliquote iperf, una al 23 per cento e una al 33 per cento. Ma non ha mai detto che il 2010 sarà l’anno della riduzione delle tasse ed è anche per questo che proprio dopo il Consiglio dei ministri in conferenza stampa ha dichiarato che il tema delle tasse lo terrà fuori dalla campagna elettorale per le regionali.

Noi stiamo alle dichiarazioni che Berlusconi dal 6 gennaio passando per l’intervista a Repubblica del 9 fino alla conferenza stampa di ieri a Palazzo Chigi ha argomentato. Eccole nella sequenza temporale in cui si sono succedute. Il 6 gennaio durante un collegamento telefonico con alcuni europarlamentari del Pdl, il presidente del Consiglio le agenzie di stampa riportano un virgolettato che dice: “Il 2010 sarà l’anno delle riforme. Partiremo con quelle della giustizia, poi proseguiremo con la scuola e soprattutto con un programma di riforma fiscale per ridurre le tasse”. Dunque Berlusconi parla di “programma di riforma” , cioè di un progetto complesso e articolato impossibile da realizzare in dodici mesi, in realtà da sviluppare nell’arco della legislatura. Nell’intervista a Repubblica, Berlusconi enuncia un proposito: “Sogno una vera riforma tributaria. Come quella che avevamo immaginato nel ’94. Con due sole aliquote. E adesso stiamo studiando tutte le possibilità per realizzarla”. Non ci sembra che in queste frasi ci siano date certe o annunci imminenti di riduzione delle tasse.

E quando Claudio Tito gli fa notare che proprio la frase sulla riforma fiscale pronunciata tre giorni prima aveva scatenato un vespaio di polemiche, lui risponde: “Con Tremonti stiamo studiando una riforma tributaria. Un progetto che avevamo indicato già nel 1994. Noi vogliamo un sistema che dia ordine, che sia meno confuso. Che non obblighi i contribuenti a rivolgersi al commercialista per pagare le tasse. Serve una semplificazione complessiva”. Tito lo incalza che nel ’94 fu lo stesso premier a proporre due aliquote irpef al 23 e al 33 per cento. La risposta del Cav. ci pare chiara: “Con il ministro dell’Economia stiamo studiando tutte le possibilità per arrivare alla fine a questo sistema. Sarebbe più razionale. Di certo, non abbiamo alcuna intenzione di aumentare le tasse. Ecco, questa è l’unica cosa impossibile”.

Fino alla conferenza stampa di ieri a Palazzo Chigi nella quale il premier mette in fila alcune precisazioni per sgomberare il campo dalle polemiche e chiarire come stanno le cose: “Nessuno di noi ha parlato di due o otto imposte, delle aliquote al 23 e 33 per cento” nel senso che quello resta l’obiettivo finale non il primo. I motivi sono chiari come pure i conti dello Stato: “La situazione attuale del debito pubblico comporterà solo interessi, una spesa di otto miliardi di euro all’anno – spiega il premier – impossibile tagliare le imposte ora” spiega il premier che aggiunge: “E’ un intervento che intendiamo fare in futuro ma le attuali condizioni di bilancio non ce lo consentono”.

Può darsi anche che dietro alle precisazioni di ieri ci sia stato lo zampino di Tremonti, che magari proprio lui in questi giorni abbia fatto pressing per riportare il Cav. dall’evocazione di una volontà alla dura realtà dei conti pubblici e della crisi da fronteggiare. Può darsi anche che Berlusconi si sia fatto prendere dalla foga di una delle idee che ha sempre avuto in testa (senza mai riuscire a realizzarle fino in fondo) e che oggi vorrebbe tradurre in fatti lasciando per questo molti margini all’interpretazione. Ma da qui a parlare di dietrofront, secondo noi ce ne corre. Piuttosto, come purtroppo è già accaduto anche nei precedenti governi Berlusconi, ci sembra che il tutto ruoti attorno a un grossolano difetto di comunicazione che applicato all’icona della comunicazione si traduce in un incredibile paradosso. Accanto a questo, la febbre da retroscenismo di molti quotidiani che preferiscono guardare dal buco della serratura anche quando la porta è spalancata.

Concediamo al Cav. queste attenuanti, in attesa di capire quando e come gli italiani pagheranno meno tasse. (l'Occidentale)

mercoledì 13 gennaio 2010

L'ordine dell'illegalità. Davide Giacalone

Non mi fanno paura gli scontri di Rosarno, temo di più la pace di Rosarno. Non inquieta una criminalità organizzata che semina il disordine praticando il crimine, perché questo è nella logica delle cose, terrorizza una ‘ndrangheta garante dell’ordine, per propiziare il medesimo crimine. Non m’impensierisce un tessuto sociale che, magari sbagliando, reagisce, mi preoccupa quando giace e s’assopisce. E non m’indigna un Osservatore Romano che definisce razzisti gli italiani, perché tanto, e non solo oltre Tevere, vale il principio di libera scempiaggine in libero straparlare, ma quando vedo il ministro degli interni leghista che indossa i panni del tutore dell’ordine nazionale, e che dice due cose che noi, meridionali e figli del meridionalismo democratico, abbiamo ripetuto inascoltati, ovvero che non si può tollerare la violazione della legge e che gli aiuti economici sono fonte di corruzione e non di sviluppo, allora avverto un senso di vertigine.
Le arance di Rosarno, come tutte quelle del nostro meridione, sono fuori mercato. Puoi anche metterci i neri schiavizzati, a raccoglierle, ma costeranno sempre di più di quelle importate dal Sud America o dalla Cina. Con una differenza: le seconde non sanno di niente. Puntare alla qualità, non solo del prodotto che cresce sugli alberi, ma anche a quello lavorato, come il succo, sarebbe dovuta essere la via maestra. Vale la stessa cosa per altri settori. Il nostro Meridione, invece s’è specializzato nella truffa e nel campare di sussidi. A chi volete che freghi qualche cosa vendere le arance, se i sussidi europei arrivavano per quintale prodotto e se era possibile imbrogliare sulla produzione? E a chi volete che interessi oggi, se 1500 euro arrivano per ogni ettaro, senza neanche volere sapere cosa cavolo ci fai? Non ci si campa, con quei soldi. E’ vero, ma in famiglia c’è il proprietario che prende i sussidi, la raccoglitrice d’olive e il coltivatore che non hanno mai visto un albero o una zolla, ma prendono i sussidi perché non occupati, c’è il cugino che fa la guardia forestale, e lavora solo quando si tratta di dare fuoco ai boschi, in modo da rinnovare il contratto a termine, poi c’è l’infermiere, con il figlio medico, la maestra, con la figlia dottoressa, e tutti insieme fanno una bella somma di contributi pubblici e lavori fatti in nero. Ed ecco spiegato il miracolo: la terra con il più basso reddito pro capite d’Italia è piena zeppa di neri al servizio del raccolto.
Ma, attenti, mica è un sistema che hanno inventato loro, è il frutto di un accordo non scritto, di un equilibrio non dichiarato, che ha gradualmente trasformato il Mezzogiorno in un regno di sussidiati, in cambio di consensi agli elargitori. S’è praticata un’anestesia sociale che ancora dura, con i giovani disoccupati che non mancano di consumare il rito serale dell’happy hour. Ascoltate le parole di Florindo Rubbettino, presidente dei giovani industriali calabresi, sentite l’orgoglio di chi sa che quella può essere terra ricca e civile, ma che va liberata dagli aiuti diretti a finanziare i pesi morti, e va liberata dalla delinquenza, che è il primo ed imprescindibile dovere dello Stato, ascoltate la voce di chi, per una volta, non chiede quattrini, ma rispetto, non chiede aiuto, ma lo offre, e domandatevi: perché il Sud non è in mano a uomini come lui? Perché la gran parte dei quattrini che affluiscono servono a finanziare la conservazione della miseria apparente e ad ostacolare la creazione di ricchezza trasparente. Ecco perché.
Razzisti i rosarnesi? Quelli che, la notte di Natale, hanno diviso il pasto con i neri accampati? Quelli che ci convivono da anni? E scusate, se magari osservano che non è bello vederli pisciare sui muri delle proprie case, perdonateli se non sono proprio felici di vedere la scuola dei loro figli confinare con un campo di sbandati e clandestini. Ma, poi, che razza di clandestini sono, se parlano con il prefetto? L’ordine e la legge, quelli veri, non vanno imposti, ma offerti ai rosarnesi, come a tutti i calabresi e a tutti i cittadini del Sud. Che non ci credono, perché già tante volte traditi.
Proprio a Rosarno hanno appena arrestato diciassette uomini della ‘ndrangheta. Si tratta, lo ha ricordato il procuratore Giuseppe Pignatone, di un’indagine in corso da tempo, che con i fatti di questi giorni non ha nulla a che vedere. Salvo il fatto che a uno dei diciassette hanno notificato il mandato di cattura in galera, visto che lo avevano già arrestato, mentre si scagliava contro neri e carabinieri. Nipote di un boss e rivoltoso con il popolo. Tanto per avere un’idea di come stanno le cose.
Tornerà la pace, ma quale? Vedrete, altri neri, magari con la pelle chiara e senza bisogno del permesso di soggiorno, andranno a raccogliere gli agrumi. In nero, perché fuori mercato. Lo sapranno tutti, come lo sapevano già tutti: amministratori locali, commissari di governo, forze dell’ordine, prefetti, magistrati e parroci. Tutti, cittadini compresi, naturalmente. Ciascuno controllerà che non si creino danni alla convivenza civile, non ci siano furti e omicidi, non si bestemmi la divinità. Ma tutti tollereranno l’illegalità, che avrà un suo ordine interno, anche quando scoppia il disagio. L’ordine dell’illegalità. La ‘ndrangheta. Che avrà comprato i terreni e riscuoterà i sussidi, che avrà sempre bisogno di una base logistica da cui far partire il commercio di droga, quindi di un territorio ordinato, i cui bisogni primari siano stati soddisfatti. Da qui, poi, i trafficanti trarranno ricchezze che ricicleranno ed investiranno altrove: in Germania, in Canada, a Torino, a Milano, come gli ultimi arrestati, che avevano le loro basi operative in Emilia Romagna. In un altrove di cui non gestiranno l’ordine, ma di cui utilizzeranno il disordine produttivo.
Si cheterà l’Osservatore Romano, si spegneranno i riflettori, noi stessi ci occuperemo d’altro, Rubbettino continuerà ad abbaiare al vento, e tutti vivranno in pace. E nella vergogna, ma è un dettaglio.

lunedì 11 gennaio 2010

"La P2 non cospirò contro lo Stato".

La Repubblica— 28 marzo 1996 pagina 18 sezione: CRONACA di Roma

La Loggia P2 non cospirò contro le istituzioni dello Stato. Lo ha stabilito la seconda corte d' assise d' appello di Roma che ha confermato la sentenza di assoluzione nei confronti di una serie di aderenti alla organizzazione fondata da Licio Gelli. Erano appunto accusati del reato di "cospirazione politica mediante associazione". Lo stesso del quale avrebbe risposto anche l' ex maestro venerabile se una questione tecnico-giuridica (la Svizzera a suo tempo non concesse l' estradizione per questa imputazione) non l' avesso impedito. A Gelli è stata confermata la condanna a 17 anni (cinque condonati) per millantato credito e calunnia ai danni dei magistrati milanesi Giuliano Turone, Guido Viola e Gherardo Colombo. MA IL CUORE del processo era la cospirazione politica, cioè l' individuazione della vera natura della loggia segreta. "La storia del nostro paese - disse lo scorso 11 marzo il procuratore generale Giorgio Santacroce nella sua requisitoria - non passa soltanto attraverso la P2 che pure rappresenta una brutta pagina di storia e di politica civile dell' Italia". La tesi di Santacroce - che chiese l' assoluzione di tutti gli imputati dal reato principale "per non aver commesso il fatto" - è stata accolta dalla corte d' assise d' appello presieduta da Vincenzo Frunzio dopo quasi quattro ore di camera di consiglio. Severi nel sanzionare i fatti specifici - un altro imputato, l' ex dirigente del servizio segreto Gian Adelio Maletti, è stato condannato a quattordici anni per procacciamento di notizie riservate - i giudici d' appello sono stati altrettanto fermi nel non attribuire alla P2 la natura di una associazione destabilizzante. La loro decisione limita all' ambito politico, escludendo quello penale, i giudizi espressi da personalità come Sandro Pertini (fu lui uno dei primi a definire la P2 "una associazione a delinquere") e dal Parlamento. Scrissero nel 1984 i membri della commissione d' inchiesta presieduta da Tina Anselmi: "La P2 si è posta come motivo d' inquinamento della vita nazionale mirando ad alterare in modo spesso determinante il corretto funzionamento delle istituzioni". La sentenza di ieri, invece, riduce a una seppur ardita proposta di riforma istituzionale il famoso "Piano di Rinascita democratica" col quale Gelli si proponeva di diventare il "burattinaio" dell' Italia. Grande è infatti la soddisfazione dell' ex Venerabile. Trascurando la circostanza della pesante condanna per la calunnia contro i magistrati, Gelli, poco dopo la sentenza, dalla sua villa di Arezzo ha parlato col tono del vincitore: "Mi è stato restituito quanto mi si doveva senza interessi". E ancora. "Ora dobbiamo chiederci: chi pagherà le spese per quindici anni di indagini e di processi inutili? Non c' era allora nessun motivo per avviare queste indagini ma solo un teorema dei giudici. E allora bisogna che a pagare siano i giudici. A questo punto comunque speriamo che da oggi lascino riposare in pace la P2". Nell' elenco degli assolti ci sono nomi che, anche in tempi recenti, hanno occupato le cronache dei misteri d' Italia. Per esempio quello di Demetrio Cogliandro, l' ex dirigente del servizio segreto militare nella cui abitazione alcuni mesi fa fu scoperto un archivio segreto su abitudini, vizi, opinioni politiche di varie personalità. Ci sono poi l' imprenditore Umberto Ortolani, i generali Franco Picchiotti e Antonio Viezzer, il capitano Antonio Labruna, e quindi Enzo Giunchiglia, Salvatore Bellassai e Pietro Musumeci. La vicenda per la quale è stato condannato Maletti - che da anni vive all' estero - è quella della divulgazione del dossier chiamato in codice Mi.Fo.Biali che tra l' altro parlava di un tentativo, sostenuto attraverso finanziamenti ottenuti con traffici illeciti di petrolio, di dar vita a un secondo partito cattolico di stampo conservatore. La vicenda del fascicolo Mi.Fo.Biali (che fu trovato nell' archivio di Mino Pecorelli, assassinato nel marzo del 1979) è l' unica dove si è verificato un contrasto tra la tesi del Pg e la sentenza. Santacroce infatti aveva chiesto la condanna a dieci anni di reclusione del generale Antonio Viezzer, accusandolo d' essere il responsabile della sottrazione del documento. (la Repubblica)

domenica 10 gennaio 2010

Una via per Craxi e una via d'uscita per tutti noi. l'Occidentale

Qualche giorno fa, nella trasmissione "In Mezz'Ora" condotta da Lucia Annunziata, Stefania Craxi ha letto poche righe di una famosa sentenza di condanna emessa dalla IV sezione penale della Corte di Cassazione contro Bettino Craxi. Basterebbero quelle poche righe per far meritare allo scomparso leader socialista l'intitolazione di una via di Milano.

La sentenza è del luglio 1998 e riguarda il cosiddetto scandalo delle Metropolitane Milanesi. In Appello Craxi fu condannato a quattro anni e sei mesi di reclusione, cinque anni di interdizione ai pubblici uffici e oltre dieci miliardi di lire di risarcimento alla Metropolitana Milanese. Il reato era quello di corruzione e di finanziamento illecito ai partiti.

Ma il bello viene nella sentenza di Cassazione che conferma il tutto. Ecco cosa vi si legge tra l'altro: "...si può dare atto a Craxi che in questo processo non è risultato nè che abbia sollecitato contributi al suo partito, nè che ne abbia ricevuti nelle sue mani. Ma queste circostanze - che forse potrebbero avere un qualche valore da un punto di vista, per così dire, estetico - nulla significano ai fini dell'accertamento della reponsabilità penale".

Avete capito bene: i supremi giudici riconoscono che non c'era alcuna prova che Craxi avesse corrotto qualcuno o avesse illecitamente finanziato il suo partito (o se medesimo) ma tutto questo viene considerato poco più di una belluria, un elemento decorativo. In realtà quello che interessava ai giudici era condannare la sua responsabilità politica - il "non poteva non sapere" - e per farlo dovevano farla coincidere con quella penale.

Niente prove dunque, nè verifiche, nè riscontri, ma la semplice e libera convinzione del giudice che Craxi fosse un mascalzone in quanto segretario del Psi. Ne viene fuori l'immagine di una giustizia che vede insita nella sfera politica il malaffare e per questo si prefigge di contrastarla. Tutto il resto è un fatto "estetico".

In questa sentenza ci sono i semi velenosi dello scontro tra giustizia e politica che ci trasciniamo ancora oggi e da cui sarebbe ora di trovare una via d'uscita: l'idea insomma secondo cui i politici vanno tenuti a bada non per i reati che commettono ma per la politica che producono. Che può anche essere disdicevole, immorale o semplicemente non piacere. Ma dovrebbero essere gli elettori a punirla e non i giudici.

venerdì 8 gennaio 2010

Vaccinati senza vaccino. Davide Giacalone

Passata la malattia, si tende a dimenticare. Qui, invece, faremmo bene a ricordare, anche perché la malattia non l’abbiamo presa. L’influenza A, in un certo senso, ci ha vaccinati, proprio perché il vaccino non l’ha fatto quasi nessuno. Quel che è successo è molto istruttivo e politicamente rilevante. Insomma, non si può liquidarlo sotto la voce “falso allarme”.

Nell’aprile del 2009, da perfetto ignorante di cose mediche, avvertivo i lettori che i conti non mi tornavano. S’era già levato un coro isterico, partito dagli ospedali messicani, che raccontava di gente morente come mosche spruzzate d’insetticida. Si avvertivano i viaggiatori, si descrivevano i sintomi, si sdottoreggiava sull’origine di quella che neanche era chiamata epidemia, ma direttamente pandemia. Non potendo fare altro, oltre agli scongiuri, mi misi a guardare i numeri. E non trovavo i morti. O, meglio, trovavo un bel po’ di messicani passati all’altro mondo, ma non la differenza rispetto alla normalità. Oh bella, morirà pur qualcuno, in Messico, anche senza l’influenza A! Poi fu lanciata la notizia sensazionale: un caso di contagio è stato trovato a Madrid. E’ finita, il mondo è contaminato, si lesse in tutti gli idiomi. Così, anche ricordando l’influenza delle mucche e quella degli uccelli, e senza neanche volere pensare a quella delle pecore, scrissi quel che mi sembrava di vedere: c’è in giro un’epidemia, consistente nella moda delle epidemie. Aprile 2009.

Ma gli allarmi mondiali non fecero che ululare, e, oramai, era cominciata la corsa al vaccino, senza il quale non si sa se sarebbero bastati i cimiteri. In casi come questi, la cosa migliore che possa capitare è che l’allarme sia infondato. E’ capitato. E’ andata bene. Ma c’è costato troppo. Veniamo, allora, al vaccino.

La prevenzione è cosa utilissima, i vaccini sono importantissimi. Se qualcuno legge, in quel che ho scritto e adesso scrivo, una specie d’avversità ai vaccini, si sbaglia. Ma questo specifico vaccino pone problemi piuttosto grossi, che sarebbe colpevole ignorare. Il primo è d’ordine culturale: tutte (o quasi) le autorità sanitarie, nei vari Paesi, hanno premuto per l’acquisto, ma la gran parte dei medici lo hanno sconsigliato ai propri pazienti e non lo ha praticato a sé. Questa frattura è preoccupante. Oggi ci sono scorte di vaccini da smaltire, soldi sprecati da recuperare, almeno in parte, o regali da fare (è la via scelta dall’Italia), ma i medici che osservano questa scena, siano essi italiani, francesi, inglesi o tedeschi, se la ridono. Noi lo sapevamo, dicono.

Se fosse accaduto solo da noi, o solo in Francia, o in un solo posto, si sarebbe gridato allo scandalo. Essendo accaduto quasi ovunque, che si fa, si grida allo scandalo globale? Posso accettare, da ignorante, l’idea che chi è responsabile della prevenzione, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità ai vari ministeri nazionali, ecceda in prudenza. Ma se, poi, a quella prudenza non credono i medici, ovvero quelli che dovrebbero tradurla in pratica, c’è qualche cosa di profondamente guasto.

Il secondo problema è d’ordine economico ed amministrativo. Anche noi ignoranti sappiamo distinguere il vaccino contro la difterite da quello contro l’influenza stagionale, e sappiamo che il primo si prepara con calma, programmando, mentre per il secondo si deve correre, una volta individuato il nuovo ceppo. Altrettanto veloci devono essere le pratiche amministrative, per disporne l’acquisto. Ma se mi si viene a dire che s’è proceduto utilizzando le norme contro il terrorismo, perché l’evento non era prevedibile, allora m’arrabbio. Anzi, mi rendo utile, annunciando, fin da ora, che, con il prossimo autunno-inverno, manco fosse alta moda, ci sarà un nuovo ceppo influenzale. E’ tanto prevedibile, che lo prevedo da ora. Con questo, si badi, non intendo sostenere che chi ha disposto quell’acquisto, utilizzando quello strumento amministrativo, si sia comportato male. Le cose stanno in modo peggiore: in Italia non si riesce a governare la normalità, quindi si deve inventare l’emergenza.

Il terzo aspetto è relativo al contenuto del contratto. Nel mondo si usano gli standard. Posto che siamo tutti umani, e che l’influenza (falsamente) mortale è una anch’essa, perché ciascun Paese stipula contratti separati e diversi? Non è un comportamento razionale, e l’Oms serve, o dovrebbe servire, ad evitare l’irrazionalità, standardizzando.

Tanto più che poi capita di leggere, nel contratto italiano, che gli eventuali effetti negativi, o mortali, del vaccino, sono a carico dello Stato, e non della ditta che accende ceri all’influenza, vendendo le dosi. E siccome la cosa non è razionale, aumenta la diffidenza. Se si legge, in quello statunitense, che il vaccino per i cittadini contiene squalene, ma quello per i politici e i militari no, aumenta la diffidenza. Mi hanno spiegato, gli esperti, che lo squalene non fa male, salvo in rarissimi casi. Ci credo. Ma è la differenza a destare sospetto.

Sicché, siamo vaccinati dal non esserci vaccinati. Al prossimo allarme sarebbe da incoscienti non crederci, e tutti conosciamo la storiella di “al lupo, al lupo”. Ma, al prossimo allarme, specie se fiutabilmente pompato, talché un ignorante ne abbia sentito subito l’afrore, cerchiamo di capire chi è responsabile di cosa. E se non succede nulla, dopo avere speso per prevenirlo, facciamogli cambiare mestiere, o, che è pur sempre un’interessante alternativa, promuoviamolo a portafortuna internazionale.

La fermezza e l'ipocrisia. Angelo Panebianco

Sappiamo da tempo che l'immigrazione è il fenomeno che forse più inciderà sul futuro dell'Europa. Conteranno sia la quantità dei flussi migratori che la qualità delle risposte europee. In Italia sembriamo tuttora impreparati ad affrontare in modo razionale e convergente un fenomeno col quale conviviamo ormai da anni. Ci sono almeno tre temi su cui non c'è consenso nazionale e, per conseguenza, mancano codici di comportamento e pratiche comuni fra gli operatori delle principali istituzioni. Non c'è consenso, prima di tutto, su che cosa si debba intendere per «integrazione» degli immigrati. A parole, tutti la auspicano ma che cosa sia resta un mistero. Ad esempio, si può ridurla alla questione dei tempi per la concessione della cittadinanza? O ciò non significa partire dalla coda anziché dalla testa?

Poiché nulla meglio delle micro-situazioni getta luce sui macro-fenomeni, si guardi a che cosa davvero intendono per «integrazione» certi operatori istituzionali. Ciò che succede, ormai da diversi anni, in molte scuole, durante le feste natalizie (e le inevitabili polemiche si infrangono contro muri di gomma) è rivelatore. Ci sono educatori (è inappropriato definirli diseducatori?) che hanno scelto di abolire il presepe e gli altri simboli natalizi, lanciando così agli immigrati non cristiani (ma anche ai piccoli italiani) il seguente messaggio: noi siamo un popolo senza tradizioni o, se le abbiamo, esse contano così poco ai nostri occhi che non abbiamo difficoltà a metterle da parte per rispetto delle vostre tradizioni. Intendendo così il rispetto reciproco e la «politica dell'integrazione», quegli educatori contribuiscono a preparare il terreno per futuri, probabilmente feroci, scontri di civiltà. E lasciamo da parte ciò che possiamo solo immaginare: cosa essi raccontino, sulle suddette tradizioni, nelle aule, ai piccoli italiani e stranieri.

C'è poi, in secondo luogo, la questione dell'immigrazione islamica. Tipicamente (le critiche di Tito Boeri - 23 dicembre - e di altri, alle tesi di Giovanni Sartori - 20 dicembre - sulla difficoltà di integrare i musulmani, ne sono solo esempi), la posizione fino ad oggi dominante fra gli intellettuali liberal (e cioè politicamente corretti) è stata quella di negare l'esistenza del problema. Come se in tutti i Paesi europei, quale che sia la politica verso i musulmani, non si constati sempre la stessa situazione: ci sono, da un lato, i musulmani integrati, che vivono quietamente la loro fede, e non rappresentano per noi alcun pericolo (coloro che, a destra, ne negano l'esistenza facendo di tutta l'erba un fascio sono altrettanto dannosi dei suddetti liberal) ma ci sono anche, dall'altro, i tradizionalisti militanti, rumorosi e assai numerosi, più interessati ad occupare spazi territoriali per l'islam nella versione chiusa e oscurantista che a una qualsiasi forma di integrazione. E lascio qui deliberatamente da parte i jihadisti e i loro simpatizzanti. Salvo osservare che i confini che separano i tradizionalisti militanti contrari all'uso della violenza e i simpatizzanti del jihadismo sono fluidi, incerti e, probabilmente, attraversati spesso nei due sensi. Negare il problema è, francamente, da irresponsabili.

Ultima, ma non per importanza, c’è la questione dell’immigrazione clandestina, che porta con sé anche i fenomeni legati allo sfruttamento da parte della criminalità organizzata (e il caso di Rosarno ne è un esempio). Non c’è nemmeno consenso nazionale sul fatto che i clandestini vadano respinti. Da un lato, ci sono settori (xenofobi in senso proprio) della società che non hanno interesse a tracciare una linea netta fra clandestini e regolari essendo essi contro tutti gli immigrati. Ma tracciare una linea netta non interessa, ovviamente, neanche ai fautori dell’accoglienza indiscriminata.

Non ci sono solo troppi prelati e parroci che parlano ambiguamente di accoglienza senza mettere mai paletti (accoglienza verso chi? alcuni? tutti? Con quali criteri? Con quali risorse?). Ci sono anche operatori istituzionali che ci mettono del loro. Un certo numero di magistrati, ad esempio, ha deciso che il reato di clandestinità è in odore di incostituzionalità. Immaginiamo che la Corte costituzionale si pronunci domani con una sentenza favorevole alla tesi di quei magistrati. Bisognerebbe allora mandare a memoria la data di quella sentenza perché sarebbe una data storica, altrettanto importante di quelle dell’unificazione d’Italia e della Liberazione. Con una simile sentenza, la Corte stabilirebbe solennemente che ciò che abbiamo sempre creduto uno Stato non è tale, che la Repubblica italiana è una entità «non statale». Che cosa è infatti il reato di clandestinità? Nient’altro che la rivendicazione da parte di uno Stato del suo diritto sovrano al pieno controllo del territorio e dei suoi confini, della sua prerogativa a decidere chi può starci legalmente sopra e chi no. Se risultasse che una legge, regolarmente votata dal Parlamento, che stabilisce il reato di clandestinità, è incostituzionale, ne conseguirebbe che la Costituzione repubblicana nega allo Stato italiano il tratto fondante della statualità: la prerogativa del controllo territoriale. Né si può controbattere citando il trattato di Schengen, che consente ai cittadini d’Europa di circolare liberamente nei Paesi europei aderenti. Schengen, infatti, è frutto di un accordo volontario fra governi e, proprio per questo, non intacca il principio della sovranità territoriale.

La questione dell’immigrazione ricorda quella del debito pubblico. Il debito venne accumulato durante la Prima Repubblica da una classe politica che sapeva benissimo di scaricare un peso immenso sulle spalle delle generazioni successive. In materia di immigrazione accade la stessa cosa: esiste un folto assortimento di politici superficiali, di xenofobi, di educatori scolastici, di intellettuali liberal, di preti (troppo) accoglienti, di magistrati democratici, e di altri, intento a fabbricare guai. Fatta salva la buona fede di alcuni, molti, probabilmente, pensano che se quei guai, come nel caso del debito, si manifestassero in tutta la loro gravità solo dopo un certo lasso di tempo, non avrebbe più senso prendersela con i responsabili. (Corriere della Sera)

giovedì 7 gennaio 2010

Caro Boeri...di Adriano Teso. Chicago-Blog

Riceviamo da Adriano Teso, e volentieri pubblichiamo.

Caro Prof. Boeri,
ho molto apprezzato le Sue parole sull’esigenza di fare quelle riforme economiche che da troppi anni vengono rimandate. Mi permetto di ricordare le principali: i 20 interventi strutturali per lo sviluppo dell’Economia.

Vorrei però ricordare anche alcuni elementi essenziali inerenti un Suo recente articolo pubblicato su Affari e Finanza de La Repubblica e intitolato “Una tassa sul privilegio”.

In astratto credo anch’io che sia ragionevole pensare a una maggiore tassazione delle rendite (ma in un mercato globalizzato, esistono? quali sono?), ma solo con una parallela diminuzione delle imposte sugli investimenti a rischio come la ricerca e il capitale delle aziende produttive. Non bisogna, inoltre, confondere gli investimenti in borsa, necessari per lo sviluppo industriale e ad alto rischio, con le rendite di titoli di Stato – ma al netto di inflazione rendono? E la concorrenza monetaria e di tassi a livello mondiale lo permettono?

Come sappiamo, la pressione fiscale italiana dichiarata dalle fonti ufficiali si riferisce a un PIL corretto, cioè un PIL che comprende anche una stima sul sommerso. Ma dato che le tasse non si pagano sull’evasione, la pressione fiscale reale, per i contribuenti onesti, è molto più alta di quella dichiarata e supera ampiamente il 50%.

L’elevata pressione fiscale è uno dei principali mali che stanno portando al declino la vecchia Europa e soprattutto l’Italia. Vantiamo il triste primato nelle economie occidentali e forse mondiali. Le tante imposte che paghiamo non sono altro che il risultato della necessità dello Stato di coprire una infinità di stipendi non produttivi e di sprechi. Dunque, se non si riduce il costo dello Stato, sarà ben difficile riformare seriamente il fisco. Al massimo si potrà procedere a una progressiva limatura della famigerata IRAP, che tassa il lavoro nelle aziende ed i loro costi, perfino di aziende in perdita!

Capisco che il povero Ministro Tremonti abbia difficoltà ad abbassare le tasse. Deve barcamenarsi fra cali produttivi del 20%, con relativa diminuzione del gettito, un aumento della spesa per gli ammortizzatori sociali, a cui si è sommato il terremoto, una crisi mondiale senza precedenti e l’eredità di un debito pubblico enorme, fatto dalla politica dei trent’anni precedenti il suo arrivo. E il futuro non è roseo: la spesa pubblica aumenta a ritmi di oltre il 10% all’anno, malgrado il forte calo degli interessi passivi. Sarà un disastro quando i tassi di interesse torneranno a livelli normali.

Ma se questo governo non imbocca con decisione la strada dello smagrimento della pubblica amministrazione (ad esempio, le province da abolire, la diminuzione del numero dei Parlamentari, l’abolizione dei tanti uffici e delle tante procedure inutili, la cessazione di trasferimenti alle amministrazioni locali sprecone) e del funzionamento della sussidiarietà e del mercato, non ci sarà alternativa al nostro definitivo declino.

E’ paradossale che, in questo contesto, ogni tanto rispunti demagogicamente l’aumento delle tasse per i “ricchi”. Suppongo, guadagnando più di 500.000 euro l’anno, di appartenere a tale categoria. Proviamo a fare due conti. Il mio reddito lo guadagno facendo impresa. La pressione fiscale reale sul reddito che produco, fra IRES, IRAP e spese non deducibili, è mediamente del 62%. Basta dare un’occhiata ai bilanci pubblicati. Poi devo incassare il dividendo, sul quale pago un ulteriore 18,6% e con quanto mi rimane compero beni sui quali pago il 20% di IVA. Ci aggiungiamo un 3 punti fra tasse automobilistiche, ICI e altre imposizioni comunali, bolli, tasse su benzina e assicurazioni? Fatta la somma, a scalare naturalmente, ne esce una pressione fiscale del 78%. Con un simile livello di tassazione, come fa un imprenditore a finanziare nuovi investimenti necessari allo sviluppo, quando i concorrenti esteri pagano quasi la metà? Naturalmente, questi conti valgono anche per le piccole imprese.

Le cose non vanno meglio per i dirigenti, che arrivano anche loro a un bel 72%. Infatti ricavano solamente un netto del 36% rispetto al costo che sopporta l’impresa. E i versamenti previdenziali non possono nemmeno considerarli un risparmio, visto che servono a pagare le pensioni di oggi. Infine, bisogna aggiungere IVA e tasse varie, come per tutti, oltre a un minimo di costi personali per lavorare.

Non c’è Paese al mondo con tali oneri. E le soluzioni per un migliore assetto e sviluppo della nazione ci sono. Basta volere attuarle.

Resto a Sua disposizione. Suo,

Adriano Teso