lunedì 31 dicembre 2012

ArchivioAndrea's Version

31 dicembre 2012

C’è lo spread che sale e scende. C’è la Borsa sulle montagne russe. C’è il titolo di stato che oscilla, oggi costa troppo domani chi lo sa. C’è l’aumento delle tasse che non vede la fine. C’è l’aumento delle tariffe che non vede la fine. C’è il costo eccessivo dell’energia. C’è la flessione forte del mercato della casa. C’è il crollo dei mutui. C’è la relativa debolezza delle banche, con conseguente difficoltà di accesso al credito. C’è la diminuzione dei consumi, o meglio, la forte diminuzione dei consumi. C’è recessione, quasi depressione. C’è il welfare inadeguato. C’è la crescita che non cresce. C’è incertezza diffusa. Non mi dispiacerebbe essere Veronica Lario.

venerdì 28 dicembre 2012

Inaccettabile, insopportabile, indecente? Gianni Pardo

StampaE-mail
              
  

Image
L'Italia è stata per vent'anni divisa in due fazioni, i berlusconiani e gli antiberlusconiani. Chi siano questi ultimi è facile dirlo: sono coloro che riguardo a Silvio Berlusconi vanno dalla semplice ostilità politica al disprezzo ed anche ai picchi dell'odio. Più difficile è stabilire chi sia un berlusconiano: infatti qui si va da chi ha una grandissima stima del Cavaliere, e lo sosterrebbe contro venti e maree, a coloro che si rassegnano a votarlo in mancanza di meglio. Non ignorano i suoi limiti e se votano per il suo partito, comunque si chiami in quel momento, lo fanno solo per arginare la sinistra. Ma con questo può dirsi che siano berlusconiani? Se vi offrono una zuppa di ceci o un soufflé al formaggio, e siete allergici al formaggio, sceglierete i ceci, e questo non significherà né che vi piacciano molto i ceci né che non preferireste una langouste à l'armoricaine.

Il fenomeno è comunque eccezionale per la sua analogia con qualcosa che ha impazzato in Italia per oltre mezzo secolo: l'antifascismo maniacale. Nessuno ha dimenticato che per gli adepti della sinistra chi non fosse di sinistra era fascista. Ho sentito chiamare fascisti i liberali, incluso il sottoscritto. Ciò dimostra che non si trattava di una dialettica politica ma di un discrimine religioso integralista. Per il salafita, per il talebano, non c'è spazio per la tolleranza: è ugualmente un nemico da abbattere l'ateo, il cristiano, o anche il musulmano moderato, la donna che studia, il bambino che ha strapazzato una pagina del Corano. Osama Bin Laden è arrivato a staccarsi dalla casa regnante saudita perché l'ha trovata insufficientemente fedele all'Islàm.

Con questo schema, in Italia riguardo al fascismo si è passati da una affermazione all'altra, poco importa quanto fondate: l'Italia (non gli Alleati) ha vinto la guerra contro il fascismo; questa guerra l'hanno vinta i partigiani; i partigiani erano soprattutto comunisti; chi non si è unito a loro era fascista. Per conseguenza finale tutti quelli che non sono comunisti sono fascisti.

Nel caso di Berlusconi l'atteggiamento della sinistra, e anche di alcuni che non sono di sinistra, è stato analogo: quest'uomo è talmente spregevole, dannoso, stupido, ignorante, vizioso, volgare, ridicolo, corrotto e criminale, che chiunque non sia risolutamente disposto a condannarlo senza attenuanti, e ad accettare come incontestabili le calunnie più fantasiose sul suo conto, è un berlusconiano. Così si spiega che mezza Italia sia stata definita colpevole della più imperdonabile delle colpe. Tanto è vero che Fini, non appena ha manifestato il suo odio per il Caimano, si è visto abbuonare perfino l'ignominia di essere (stato) un fascista d.o.c.

In realtà la qualifica di berlusconiano la maggior parte delle volte è sbiadita più o meno quanto lo era la qualifica di votante per la Democrazia Cristiana. Viceversa coloratissimo e in altorilievo è colui per il quale chiunque non sputi, secondo il rito, quando si nomina il Cavaliere, è sul suo libro paga. Certo, gli si potrebbe dire: «Tu sei antiberlusconiano, ma se io non sono antiberlusconiano ciò non significa che per ciò stesso sia berlusconiano». E tuttavia è improbabile che l'altro capirebbe un'affermazione così contorta. La sua visione del mondo è chiusa ad ogni sfumatura, ha il soffitto basso. Per lui è anatema qualunque affermazione che possa essere vista come un apprezzamento dell'Inaccettabile. Se qualcuno dice che è riuscito a creare un impero dal nulla, gli risponde che l'ha fatto con l'aiuto di Craxi, chissà con quali imbrogli criminali, e dunque non è un imprenditore di successo, è un disonesto colossale. Mentre gli altri imprenditori, si sa, sono gigli di campo. Se uno dice che pochi uomini politici sono passati dal nulla al potere come Berlusconi, perfino più velocemente di Napoleone, ne ricava l'accusa di essere talmente berlusconiano da avere osato paragonarlo a Napoleone. Se uno trova divertente una barzelletta che l'Insopportabile ha raccontato, ci si indigna perché la storiella non solo non è divertente, ma è irrispettosa delle donne, delle suocere, della Guardia di Finanza.

Il fanatismo è profondamente fastidioso. Il miscredente si è allenato per secoli a sopportare i bigotti della Chiesa Cattolica, ha fatto il callo all'accusa di essere fascista e sperava ora di avere un po' di pace. Invece negli ultimi lustri si è ricominciato. Pareva che l'Indecente non avrebbe più partecipato alla campagna elettorale, soprattutto visto che, a quanto pare, perderà, e abbiamo sperato che alla nazione sarebbero state risparmiate le solite raffiche di fervore antiberlusconiano. Invece l'Inammissibile, fra gli altri difetti, ha quello di essere spietato. Anche se dirlo non ci salverà dall'accusa di essere berlusconiani. (Legno storto)

Agenda vuota. Davide Giacalone

In attesa di sapere se in politica si scenda o si salga, essendo questo l’avvincente dilemma dietro cui si nascondono riflessioni e suggestioni alte o profonde (ecco un altro opposto coincidente), e neanche potendo escludere che in politica si entri o ci si butti, restando inteso che è il candidarsi l’azione più esposta a interpretazioni diverse, essendo possibile farlo senza effettivamente farlo, ecco, nel mentre si resta in tale trepidante attesa, si potrebbe anche dedicarsi a qualche cosa di serio. Come le 25 pagine firmate da Mario Monti, dedicate al programma minimalista di “cambiare l’Italia e riformare l’Europa”.

Lasciamo perdere le discordanze di genere e numero, segnalanti un copia incolla cui è adusa la letteratura accademica. E rassegniamoci a non potere proporre una disamina puntuale, il che comporterebbe riprodurre il testo e commentarlo. Mi limito a 13 punti. Con una sola premessa: a occhio, potrebbero firmarlo chiunque e potrebbero farselo scrivere tutti. Basta non essere allergici al banale. Veniamo al merito.

1. Si apre proponendo che il Parlamento europeo abbia un mandato costituente. Ottimo: sia il Parlamento a fondare gli Stati Uniti d’Europa. La questione è che taluni sono contrari, e il Parlamento medesimo ha una claudicante e vernacolare base democratica. Sicché la mera enunciazione dell’obiettivo lascia il tempo che trova. Fa tanto “europeista”, ma spiega anche perché tale europeismo è inutile.

2. All’Europa si devono chiedere politiche di “maggiore crescita”. Tale programma fa capo alle forze politiche che, in Francia si opposero a Sarkozy e in Germania si oppongono alla Merkel, farlo proprio dopo avere rivendicato il merito di avere ristipulato l’accordo con l’asse Merkel-Sarkozy è fantasioso.

3. I tedeschi, del resto, non hanno neanche tutti i torti. Osservano che la riforma del mercato del lavoro fatta dal governo tecnico italiano, quello che si supponeva (erroruccio) non dovesse cercare voti, è meno incisiva di quella fatta dal governo tedesco, che non solo i voti li cercava, come si conviene in ogni buona democrazia, ma era anche di sinistra. Segno che l’Italia rilutta assai a mettersi sulla via della competitività.

4. Chiudendo la pagina internazionale si legge che Monti annette a sé il merito di avere portato l’Italia ad avere una politica più filoeuropea e più amica degli americani. La fantasia non ha limiti, ma io ricordo un voto all’Onu che testimonia il contrario. E vedo che in India siamo rimasti da soli, ricevendo due militari prigionieri come fossero eroi. Ora che si fa?

5. Spread, è vero: 100 punti base in meno equivalgono a 20 miliardi d’interessi risparmiati. Ma il problema è: perché, in condizioni sostanzialmente immutate, prima sale, poi scende, poi risale, quindi ridiscende? Se il tasso d’interesse deriva da scelte che non sono nazionali la nostra politica è irrilevante. Ciò è capitato anche a Monti, che se mette le penne del pavone per lo spread odierno fa torto all’intelligenza sua e nostra.

6. E’ vero: la crescita è possibile solo con la finanza pubblica in ordine. Ma se tale ordine è cercato non con riforme, non con tagli, ma con aumenti fiscali, non solo non c’è crescita, ma c’è sicuro suicidio.

7. Ridurre il debito pubblico al 60% del pil, in 20 anni, è cosa giusta. Ma come? Se, ancora, la via fosse fiscale ci dissanguiamo prima. Mentre sul fronte delle dismissioni le 25 pagine sono vuote. Di un vuoto inquietante.

8. Il vuoto c’è anche in campo fiscale, perché promettere meno tasse è da comizietto domenicale, se non si spiega come (e vale per tutti), mentre supporre che la differenza possa raccogliersi presso i “grandi patrimoni” è comizietto ideologico, recessivo, aggressivo e deprimente.

9. Proclamare la “piena digitalizzazione della pubblica amministrazione” è meritorio, ma il governo Monti ha appena fatto il contrario, posponendo al 2017 la digitalizzazione dei libri di testo, nelle scuole, che si sarebbe potuta fare subito, avrebbe comportato risparmi e maggiore qualità. Tutto il capitolo istruzione parla solo di maggiori spese, niente qualità, concorrenza, mercato. Si dice, per scuola e non solo: avanti la meritocrazia, si premino i migliori. Giusto, ma non significa un accidente se non si aggiunge: i peggiori e gli inadeguati fuori. Dalle cattedre e dai banchi. La meritocrazia a senso unico è il nulla.

10. Sui rifiuti c’è scritto che vanno smaltiti in modo virtuoso, ma non come. Serve un piano nazionale, servono poteri per imporre, serve l’uso sensato dei soldi. La Tares, imposta dal governo, va in direzione opposta.

11. Su patrimonio culturale e turismo si dicono le solite menate, ma nulla di concreto. Serve apertura al mercato, chiamata dei privati, piano dei trasporti, estensione delle operatività stagionali (in Sicilia si fa il bagno a Natale!), il che comporta coerenza fiscale e diversa legge sul lavoro.

12. Capisco che anche il professore debba versare il suo obolo alla retorica anti-casta, ma quando si legge che l’indennità parlamentare non deve essere cumulabile con nessuna altra attività, prima ci si chiede cosa dovranno fare gli scrittori, ma mentre si prova a dare una risposta sorge prepotente un’altra domanda: e le pensioni (plurale) del professor Monti, già cumulate con l’indennità? E’ un terreno che non mi piace, ma lui ci si rotola.

13. Infine, prima di scrivere che “nei mesi scorsi l’Italia s’è data per la prima volta una disciplina legislativa per la lotta alla corruzione”, oltre a chiamare un addetto alle virgole, sarà il caso di dotarsi di senso del ridicolo. Perché una simile castroneria comporta l’esclusione da qualsiasi esame di diritto, di storia e di logica.

Con il che non sono affatto prevenuto nei confronti di chi sale e di chi scende, solo m’induce un certo fastidio chi pensa che tutti gli altri siano scemi.

venerdì 21 dicembre 2012

E se politica e banche avessero esagerato nella rincorsa a Lady Spread? Stefano Cingolani

                                   

Ora il differenziale Btp-Bund ondeggia senza curarsi di governo e voto. L’Abi infatti ringrazia più Draghi che Monti

Che lo spread sia un imbroglio è un grido di battaglia politico. Che sia un enigma è un dato di fatto. La differenza tra i titoli decennali italiani e tedeschi è sotto i 300 punti base, e nei giorni scorsi ha sfiorato i 287, la quota obiettivo indicata da Mario Monti per passare il testimone e dichiarare vittoria. Come mai? Certo non può essere la legge di stabilità che mostra tutti i difetti delle solite finanziarie; tanto meno questa coda sfilacciata di legislatura o le grandi riforme nel cassetto. E allora? Tenere la barra dritta, garantire continuità e rigore nei conti, assicurare il pareggio del bilancio nei termini prestabiliti sono premesse indispensabili. Tuttavia, i fondamentali dell’economia italiana restano gli stessi e alcuni indicatori chiave sono persino peggiorati: la recessione è più forte del previsto, il debito pubblico ha varcato i duemila miliardi e continua a salire rispetto al prodotto lordo.
Un bell’aiuto arriva dalla Grecia che forse vede un barlume nella notte. Gli imprenditori tedeschi sono più ottimisti. L’accordo sul bilancio americano sembra imminente in barba a tutti gli articoli dei menagrami sul baratro fiscale. Insomma, il clima esterno s’è rasserenato e in una economia nella quale le percezioni contano quanto le azioni, tutto fa brodo. Ma incide anche un altro, importantissimo fattore, che ieri l’Assobancaria (Abi) ha messo in evidenza: “L’allentamento delle tensioni sui mercati finanziari è il risultato della decisa azione da parte della Bce”, e non tanto “dell’apprezzamento generale delle politiche” nazionali e comunitarie, scrive il rapporto di previsione per il prossimo anno. L’Abi ha in mente l’intervento di Mario Draghi in agosto e quel bazooka (l’Omt) pronto anche se resta in armeria. Ma non solo. Facciamo un passo indietro di un anno, quando venne varato il programma straordinario di sostegno alle banche, con prestiti illimitati all’un per cento. In due tranche, sono stati erogati mille miliardi di euro. Le banche italiane hanno prelevato dal bancomat Bce circa 250 miliardi, di questi ben 147 sono serviti ad acquistare titoli di stato. Oggi nella pancia del sistema bancario nazionale ci sono circa 340 miliardi in Btp (176 miliardi), Bot, Cct, Ctz. Ciò ha consentito il successo delle aste sui nuovi titoli e ha spento la speculazione su quelli già emessi. Un effetto sistemico, dunque, stimolato anche dalla moral suasion della Banca d’Italia. Ma nulla è gratis. In uno scenario di tensioni, paura, sfiducia tra le stesse istituzioni finanziarie, l’utilizzo dei prestiti per comperare titoli ha spiazzato il credito alle famiglie e alle imprese.
I bilanci si sono riempiti di zavorra. Banca Intesa, secondo le stime di Mediobanca R&S, ha da sola 80 miliardi in titoli della Repubblica italiana, pari a una volta e mezza il suo capitale netto; Unicredit ne conserva per 41 miliardi, due terzi del capitale disponibile. Venderli è suicida, bisogna aspettare che cambi il vento, tenerli vuol dire immobilizzare grandi risorse. L’Abi calcola che, rispetto a un anno fa, i prestiti alle famiglie e i mutui per l’acquisto di case sono a crescita zero, il credito al consumo è sceso di sei punti. Dunque, le banche hanno salvato l’Italia, ma non gli italiani. I quali debbono far fronte alle proprie esigenze finanziarie intaccando i risparmi o la ricchezza accumulata in passato. L’enigma dello spread non è risolto, ma appare più chiaro. Analizzando l’ottovolante dello spread che i giornaloni continuano a pubblicare su mezza pagina, si vede chiaramente che la correlazione tra picchi degli interessi e decisioni politiche è vera solo in un periodo di tempo relativamente breve, tra ottobre e novembre dello scorso anno, quando si consuma il governo Berlusconi. C’è una nuova impennata tra l’inverno e la primavera, nonostante il taglio alle pensioni e le misure fiscali del decreto salva Italia varato da Mario Monti. Poi i tassi italiani salgono e scedono con quelli spagnoli. Da settembre in qua lo spread tra Madrid e Roma si allarga di circa cento punti base, ma le due curve continuano a muoversi in sintonia. Di qui ad aprile non esisterà nessun governo in grado di andare oltre il day-by-day, quindi che cosa può impedire una nuova tempesta? Certo un miglioramento della situazione spagnola, ma soprattutto la forte voglia di tornare a muoversi, comprare, vendere, investire, fare profitti. Insomma, gli animal spirits. La moneta è stata nascosta sotto un materasso globale, al caldo rifugio dei Bund tedeschi, dei T-bond americani e dei titoli francesi che danno un rendimento inferiore a due punti percentuali. Ma così, non si fanno utili e non si mette in moto l’economia.

giovedì 20 dicembre 2012

Lo sapevi che Silvio...



Chi ha la memoria corta vada a leggere il sito:


http://www.losapevichesilvio.it/


mercoledì 12 dicembre 2012

La siesta. Davide Giacalone

L’idea che, nel 2013, affronteremo la campagna elettorale del 1996 è disperante. E’ passato un secolo, e non solo per lo scorrere del calendario. C’era, per dirne una, ancora la lira. Eppure sembra che le forze politiche siano rimaste allo scontro di allora: mucchio contro mucchio, con più voglia di menare che di pensare.

La cosa paradossale è che il centro destra sembra impostare una campagna elettorale nella quale finirà con il far scomparire i propri meriti, che pure ci sono: dal 2008 a oggi l’Italia ha dato prova di rigore nell’amministrazione dei conti pubblici e abbiamo il migliore avanzo primario d’Europa. Lo avevamo già con il governo Berlusconi. Ma sembra che questo merito sia divenuto una vergogna, talché ci si butta sulla propaganda un tanto al chilo. E la sinistra aiuta, sia favoleggiando di risanamenti che avrebbero appoggiato solo loro, sia abbandonandosi al solito delirio dei numeri: sale lo spread, colpa di Berlusconi (poi scende, e che si dice?); crolla la Borsa, colpa di Berlusconi (poi risale, e che si fa?).

Il problema serio del centro destra, e di Silvio Berlusconi, non è questa roba, sì malamente agitata, ma il fatto che l’Italia si trascina da più di tre lustri senza riuscire a crescere (almeno) quanto gli altri europei. Che si è promessa una discesa della pressione fiscale, che invece sale. E la contraddizione fra promesse e risultati è così stridente che il centro destra neanche rivendica un altro successo: quello della lotta all’evasione. Solo che, per ottenerlo, hanno messo loro in campo quegli strumenti odiosi che oggi affermano di volere cancellare, come fossero opera altrui. La sinistra, e anche il governo Monti, sbagliando, hanno sommato a quelli anche il moralismo fiscale, ma la sostanza è made in Berlusconiland.

Il problema gigantesco, del centro destra, è che per due volte hanno portato a casa un successo elettorale (lasciamo perdere la prima volta) e per due volte hanno fallito la prova di governo. Dice Berlusconi: abbiamo fatto molte cose buone. E’ vero, ma le avrebbe fatte chiunque fosse stato al governo per così lungo tempo. Il guaio è che non hanno fatto quelle per cui sono andati al governo: il già ricordato fisco, le liberalizzazioni, la dismissione di patrimonio per abbattere il debito, il martoriato capitolo della giustizia. Dicono: ce lo hanno impedito. No, non funziona così: se vi siete accorti (e non ci voleva molto) che le vittorie non bastavano e che la debolezza istituzionale del governo impediva tutto, avreste dovuto portare la cosa all’attenzione degli italiani, anche proponendo riforme costituzionali, non tirare a campare per tenere unita la coalizione, che comunque s’è sfasciata, per tre volte.

Qual è la cosa più importante, fatta dal governo Monti? La riforma previdenziale. Pur contenendo non pochi errori (vedi alla voce: esodati) era necessaria e urgente. Perché non l’ha fatta il governo Berlusconi? Perché la Lega era contraria. Con chi si presentano oggi alleati? Con la Lega. E’ questo il problema. Poi, certo, si può e si deve ricordare che quando la sinistra mise le mani sulla materia previdenziale lo fece per tornare indietro, cancellando lo “scalone”. Verissimo, ma le colpe della sinistra non sono meriti della destra. L’Italia ha bisogno d’essere governata bene, non il meno peggio possibile.

Questo film sta per essere trasmesso la sesta volta: 1994 – Berlusconi, la sorpresa (il più bello, come spesso capita); 1996 – Berlusconi, la sfortuna; 2001 – Berlusconi, il ritorno; 2006 – Berlusconi, la sconfitta; 2008 – Berlusconi, la vendetta. E ora? 2013 – Berlusconi, il rieccolo. E sarebbe ancora un film accettabile, se non fosse che c’è il rischio di vedere: Berlusconi, il gesto disperato. E se vincesse? Non potrebbe governare, ancora privo di una classe dirigente lontanamente degna di questo nome. E se perdesse? Proverà a essere il miglior perdente, in modo da avere un peso laddove vincesse una sinistra a sua volta priva di maggioranza e a sua volta destinata a sfasciarsi.

L’Italia non merita di dovere scegliere fra questo e l’asse Vendola-Cgil. E l’uomo che diede rappresentanza all’Italia produttiva e ragionevole, non interamente a ridosso della spesa pubblica, non è giusto finisca con il prendere in ostaggio quegli elettori, condannandoli a votare quel che non servirà e a farsi bollare come ipnotizzati dal declino. Il centro? Suvvia, non scherziamo. Qui va a finire che prevale lo schema siculo. Che la sciasciana “linea della palma” prenda il sopravvento. Ci si fermi a ragionare. Tutti.

venerdì 7 dicembre 2012

Ok Silvio! Però facce nuove

Avrei preferito Berlusconi al comando di truppe fresche e con un nuovo simbolo, ma tant'è.
Rassegnamoci a vedere ancora il volto di chi ha veramente lavorato nell'interesse degli italiani e che non si sia fatto lusingare dal profumo del potere.

Quelli bravi che credono nella "missione" lavorino dietro le quinte, facciano i consiglieri e lascino che le loro idee camminino con le gambe di altri.
Certi personaggi che scaldano i banchi del Parlamento da troppi anni, si dovranno rassegnare alla rottamazione ed uscire di scena.

Purtroppo in Italia basta una mezza legislatura che si rimane parlamentari a vita e non ci si rassegna all'idea di tornare cittadino comune: senza contare che nella sinistra fare il politico è diventato un mestiere. Si entra nella sezione di partito con i calzoni corti e si percorre tutto il cursus honorum fino alla morte, perché il pensionamento non esiste in poltica.

Allora, Sivio, priorità assoluta: facce nuove. Poi sistemiamo la giustizia con relativo problema carceri, tagliamo sprechi e privilegi, abbassiamo le tasse, vendiamo un po' di immobili del demanio che non servono più, mettiamo in riga la burocrazia e facciamo funzionare la macchina statale che è piena di sabbia negli ingranaggi.

Questo, ovviamente, se vinceremo. E vinceremo!

lunedì 3 dicembre 2012

Forza Silvio!

Silvio ridiscendi in campo, abbiamo bisogno di te.

Non possiamo ascoltare i discorsi di Bersani che parla da premier come se avesse già la vittoria in tasca.

Diciotto anni fa hai creato un movimento dal nulla in tre mesi, adesso ne hai cinque: riparti da zero e metti insieme una squadra tutta nuova, un nuovo simbolo e un nuovo nome.

Lascia che il Pdl vada alle elezioni con Alfano e la vecchia classe dirigente e giochi le sue carte: tanto sarete sempre dalla stessa parte a difendere il centrodestra dalle sinistre.

Sono certo che ci sono ancora moltissimi italiani che credono in te, ma solo in te e non nell'apparato, e ti voteranno con convinzione.

Aspetto tue notizie.

domenica 2 dicembre 2012

ArchivioAndrea's Version

2 dicembre 2012

E dice che adesso fa il segretario sul serio, e allora che decide lui, e poi che farà le primarie, e poi che dipende se l’Amor nostro si candida o no per le primarie, e poi aspetta, e dopo che ha aspettato aspetta ancora, e osserva, e ripete che lui fa il segretario sul serio, e conferma che aspetta, e intanto osserva, che cosa osserva? Osserva quel che fa Berlusconi. E Berlusconi rinvia, e lui non fa una piega, e Berlusconi scende in campo, e lui: allora, se Berlusconi scende in campo… e Berlusconi non scende più in campo, e lui: allora se Berlusconi non scende più in campo… E quello ririscende in campo, e allora niente primarie. Ci si chiede che cosa aspetti, l’Assemblea generale dell’Onu, a riconoscere Angelino Alfano come osservatore non membro del Pdl.

venerdì 30 novembre 2012

La vittoria del partito superstite. Luca Ricolfi

Domenica sera sapremo chi, fra Bersani e Renzi, sarà il candidato premier del centro sinistra. E forse sapremo anche chi ci governerà nei prossimi anni, visto che la coalizione guidata dal Partito democratico ha buone possibilità di vincere le elezioni, né possiamo escludere che, oltre a vincere le elezioni, riesca persino a formare un governo. Si capisce dunque il clima surriscaldato di questi giorni, un clima che si è fatto rovente soprattutto intorno a due nodi.

Primo nodo: il centro-sinistra prenderebbe più voti con Renzi o con Bersani? Quasi tutti i protagonisti ritengono di saperlo, ma nessuno lo sa veramente. Secondo alcuni Renzi porterebbe al centro-sinistra diversi milioni di elettori disgustati dalla politica e/o delusi dal centro-destra, secondo altri provocherebbe la spaccatura del centro-sinistra e la nascita di un raggruppamento politico alla sinistra del Pd. Probabilmente succederebbero entrambe le cose, visto che Renzi è detestato da una parte dei suoi stessi compagni di partito, ma è impossibile stabilire se il saldo fra voti persi e voti conquistati sarebbe positivo o negativo.

Secondo nodo: l’accesso al ballottaggio. Vedremo come evolveranno le cose nelle prossime ore, ma quello che è evidente fin da adesso è che, limitando la partecipazione al ballottaggio di domenica prossima, l’apparato del Pd sta pagando un prezzo piuttosto alto per garantire l’affermazione del suo segretario. L’idea che per accedere al secondo turno si debba portare una «giustificazione» (come a scuola!), e che ci sia un organismo politico (il «Coordinamento Provinciale delle Primarie Italia Bene Comune», in pratica i funzionari del Pd) deputato a vagliare se la giustificazione è valida oppure no, è semplicemente grottesca, un buffo riflesso burocratico-stalinista che rischia di ritorcersi contro chi l’ha inventato. Perché è vero che chiudere l’accesso al ballottaggio avvantaggia Bersani, che ha già vinto al primo turno, ma è anche vero che, sul piano simbolico, avvantaggia Renzi, se non altro perché mostra di che pasta sono gli apparati per la cui rottamazione il sindaco di Firenze si batte. Senza contare la reazione di chi, escluso dal ballottaggio, negherà il suo voto al Pd alle elezioni vere, un sentimento e un’intenzione che ho già avvertito da più parti.

L’attenzione del pubblico e dei media su questi due nodi, tuttavia, rischia di non farci cogliere la straordinaria trasformazione del paesaggio politico che – in questi mesi – si sta producendo sotto i nostri occhi. Non solo la nascita di protagonisti nuovi (Grillo e il Movimento cinque stelle) e l’autodistruzione di protagonisti vecchi (Berlusconi e il Pdl), ma la vera e propria mutazione che sta scuotendo il maggior partito della sinistra. La sfida di Renzi, anche se dovesse terminare domenica con una sconfitta, sta cambiando e cambierà definitivamente il Pd. Dopo quella sfida, e grazie a quella sfida, il Pd avrà per la prima volta – accanto alla componente socialdemocratica tuttora maggioritaria – una componente liberalsocialista o di «sinistra liberale» di peso politico non trascurabile. Il Pd del futuro non sarà più un partito diviso fra comunisti e cattolici, o fra massimalisti e ortodossi, ma un partito in cui la componente socialdemocratica (oggi ben rappresentata da Bersani) e quella liberaldemocratica (oggi ben rappresentata da Renzi) competeranno per la guida del partito.
Il processo non è ancora compiuto, perché la componente liberale sta prendendo forma e coraggio solo in questi mesi, e quella socialdemocratica non è ancora pienamente tale: se lo fosse Renzi non verrebbe trattato da tanti compagni e compagne di partito come un traditore, un emissario del nemico, un corpo estraneo, o un ospite indesiderato. Ma la direzione di marcia è questa, ed è piuttosto veloce, a giudicare dai consensi che Renzi ha conquistato in pochi mesi.

Ma c’è anche un altro aspetto che merita forse di essere notato. Il mondo politico della seconda Repubblica è oggi un incredibile cimitero di rovine, su tutti i piani. Quasi tutti gli uomini e le donne che hanno occupato gli schermi televisivi negli ultimi venti anni hanno perso ogni credibilità. In giro non si sentono più idee ma solo «dichiarazioni» di nessun interesse, messaggi più o meno in codice ad uso e consumo dei soli politici. I partiti si sono dissolti, travolti dalle inchieste giudiziarie e dall’indifferenza dei cittadini. La destra è un’armata allo sbando, senza progetti e senza senso del ridicolo. Il centro nasconde, dietro l’evocazione rituale – quasi un mantra – di Monti e della sua agenda, il suo vuoto spinto di idee e di uomini.

In questa situazione il Partito democratico, di cui personalmente ho sempre visto e sottolineato gli immensi difetti, si staglia come l’unico «monumento» della seconda Repubblica che ha saputo sopravvivere al terremoto che il ceto politico ha provocato a sé stesso. Ha un’organizzazione, una rete di sedi e di militanti, un dibattito interno. Con le primarie ha saputo creare l’unico evento significativo di riavvicinamento dei cittadini alla politica. E con Renzi e Bersani ha offerto due candidati che possono piacere più o meno a ciascuno di noi, ma sono comunque fra i migliori politici in circolazione in Italia.

Insomma il Partito democratico gode oggi di un prestigio relativo altissimo. Un prestigio che è tanto più significativo, o sorprendente, se pensiamo che anch’esso è coinvolto in diverse inchieste, anch’esso è pieno di personaggi che non avrebbero reso orgoglioso Enrico Berlinguer. E’ questo prestigio relativo che spiega il fatto più interessante del nuovo panorama politico che si è andato consolidando negli ultimi mesi: il dibattito programmatico, le alternative fra cui scegliere, le poche idee sulle quali vale la pena scontrarsi, sono ormai quasi tutte dentro il Partito democratico. Ai suoi militanti, o a molti di essi, tutto questo sembra divisione, lacerazione, una ferita dolorosa. A Gramsci, invece, sarebbe parsa una (strana) forma di egemonia. La società italiana è così allo sbando che l’ultimo partito rimasto, anch’esso piuttosto logoro, disastrato e pieno di acciacchi, rischia di diventare l’unico luogo in cui si gioca davvero il futuro del Paese. Ecco perché la competizione fra Renzi e Bersani non indebolisce il Partito democratico, ma semmai lo rende più capiente, più capace di intercettare gli umori della società esterna. C’è solo da sperare che questa opportunità sia colta e coltivata, piuttosto che gettata al vento: magari anche lasciando che, domenica, chi vuole votare sia libero di farlo. (la Stampa)

Una ignobile marchetta al mondo arabo. Federico Punzi

              
  
Image
Un'altra brutta, ignobile pagina di politica estera (dopo l'incredibile vicenda dei due marò, da ben 288 giorni prigionieri e sotto processo in India, con il nostro governo incapace di muovere un dito!) è quella che ci regalano il presidente Napolitano, il premier Monti, e il ministro degli esteri Terzi schierando l'Italia a favore della risoluzione che riconosce alla Palestina, o meglio all'Anp, lo status di «stato non membro osservatore permanente» all'Onu. Una posizione che lungi dal favorire il processo di pace, lo indebolisce, aumentando le tensioni diplomatiche e ponendo le premesse per ulteriori rivendicazioni che alimenteranno gli estremismi. Questo voto, infatti, rappresenta – e così lo presenteranno i palestinesi e i paesi arabi – una "validazione" de facto da parte della comunità internazionale dei confini pre-1967. Riconoscendo all'Anp lo status di "Stato", seppure non membro, l'Onu ne riconosce implicitamente il territorio, quindi i confini, su iniziativa unilaterale dei palestinesi. Il che rende praticamente carta straccia gli accordi di Oslo (quelli che Hamas disconosce e che il nuovo Egitto dei Fratelli musulmani non vede l'ora di poter disconoscere), secondo cui uno Stato di Palestina sarebbe dovuto nascere a seguito di negoziati bilaterali.

Attenzione, questo è un punto fondamentale: perché il territorio, i confini, la statualità, sono le uniche merci di scambio che Israele può offrire in cambio di pace, della fine delle minacce alla sua esistenza. Se la questione dello Stato palestinese e del suo territorio viene risolta prima, o quanto meno "pregiudicata", al di fuori di un negoziato bilaterale, si toglie a Israele l'unica arma negoziale per ottenere la pace. Ecco perché si tratta di un voto profondamente anti-israeliano e chi ai vertici delle nostre istituzioni non lo capisce è o incompetente o in malafede.

Inoltre, un governo che volesse rilanciare il processo di pace non premierebbe con un tale riconoscimento i palestinesi, che per quattro anni si sono rifiutati di riaprire i negoziati con Israele. Per non parlare, poi, delle iniziative che potrebbe avviare l'Anp presso l'Onu grazie al nuovo status, tanto che lo stesso governo Monti ha chiesto ad Abbas di «astenersi dall'utilizzare l'odierno voto dell'Assemblea generale per ottenere l'accesso ad altre agenzie specializzate delle Nazioni Unite, per adire la Corte penale internazionale o per farne un uso retroattivo». Raccomandazione indicativa di come i palestinesi tenteranno di strumentalizzare il voto di oggi.

«Siamo molto delusi dalla decisione dell'Italia», è stata la reazione dell'ambasciata israeliana a Roma. Nel comunicato del governo naturalmente si spiega la decisione con la volontà di «rilanciare il processo di pace», la soluzione "due stati per due popoli", ma la geografia del voto rivela le motivazioni reali. L'Italia ha votato sì insieme agli altri paesi europei del Mediterraneo, mentre contro si sono schierati Usa, Canada, Gran Bretagna e Germania. E' evidente, quindi, che il vero scopo è accattivarsi le simpatie dei paesi arabi, vicini dell'altra sponda del Mediterraneo, contro il diritto di Israele all'autodifesa, contro la pace, la giustizia e i diritti umani degli stessi palestinesi e degli altri cittadini del mondo arabo.

Non meno grave, dal punto di vista istituzionale, che un governo tecnico, nato per far fronte ad un'emergenza finanziaria, ribalti la politica mediorientale italiana senza il pronunciamento del Parlamento che l'ha espressa non dieci anni fa, ma in questa stessa legislatura. (il Legno storto)

giovedì 22 novembre 2012

Porcheria fiscale. Davide Giacalone

Diciamo subito tre cose: a. le tasse si pagano; b. la pressione fiscale è troppo alta; c. le complicazioni fiscali, l’accanimento burocratico e la morbosità accertativa circa l’uso che ciascuno fa dei propri soldi sono intollerabili. La prima ha a che vedere non solo con l’onestà personale, ma anche con la sostenibilità collettiva. La seconda è questione economica di primaria importanza, cui abbiamo dedicato e dedicheremo molta attenzione, sicché oggi mi sia consentito saltarla. La terza è la tortura supplementare inflitta alle persone oneste, che non è affatto vero possano star tranquille e nulla temere. In tal senso, mentre il redditometro è uno strumento utile per accertare la fedeltà fiscale dei cittadini, il redditest è una bischerata moralistica con effetti recessivi.

Quando le autorità comunicano che 4.3 milioni di contribuenti non sono congrui e il 20% delle famiglie sospettate di evasione fiscale, diffondo il nulla e il terrore fiscale. Veleni. La non congruità non significa un accidente, perché la non coerenza con i modelli di consumo stabiliti in sede burocratica non accerta un bel niente. Inoltre ci sono redditi esenti o tassati con cedolare, che generano disponibilità senza andare in dichiarazione. Il sistema funzionerebbe se quel parametro fosse utilizzato solo per indirizzare gli accertamenti, i quali non dovrebbero nuocere a chi ha rispettato le leggi. Ma non è così, perché io stesso (che pago tutte le tasse, che ritengo giusto pagarle e che posso scriverlo senza timore di essere smentito, lusso non proprio diffusissimo) ho subito un accertamento fiscale, l’ho accolto con piacere, salvo prendere atto che: 1. è durato quattro mesi; 2. s’è concentrato su questioni meramente formali; 3. gli accertatori avevano una voglia matta di fare il verbale, salvo lasciare tutto al contenzioso successivo; 4. ho dovuto io documentare tutte le mie spese, ivi comprese quelle privatissime; 5. alla fine lo scherzo m’è costato seimila euro di spese, fra commercialista e documentazione chiesta alle banche. Riassunto: non solo il contribuente onesto deve temere, ma deve mettere nel conto che il solo subire un accertamento gli costerà come una tassa aggiuntiva, che si somma a quella che versa ogni anno al professionista senza il quale non potrebbe tenere i conti in ordine. Una porcheria.

Il redditest è una presa in giro terrorizzante. Dovrebbe servire a far sapere a chi lo compila se i suoi redditi sono coerenti con i suoi consumi. Ma chi mai si pone una domanda simile? E’ cretina quante altre mai! Lo so bene se sono coerenti, visto che li pago. Allora, la domanda vera è altra: i tuoi redditi dichiarati sono coerenti con i consumi emersi? Ecco, così ha un senso. Se scopro di sforare, o di essere al limite, che faccio? Contraggo i consumi o chiedo di pagare solo in nero. Nel primo caso aiuto la recessione, nel secondo aumento l’evasione. Bel risultato.

Il fatto è che il nostro fisco premia la povertà, reale o fittizia che sia, e penalizza l’onestà. Da troppo tempo le discussioni con il commercialista non si concentrano su come amministrare i propri soldi o su come far fronte ai propri debiti, ma su come fare in modo che redditi e consumi aderiscano allo schema burocratico-fiscale. E siccome chi sta sotto un minimo di fatturato ha trattamenti di favore, nessuno è disposto a superare di poco quel minimo, sicché o rinuncia al lavoro (spingendo la recessione) o propone un accordo illecito. E, si badi, quel tipo di evasione è doppiamente nociva: perché disonesta, sottraendo soldi alla collettività, e perché diminuisce la sensibilità verso l’eccessivo carico fiscale. Sono favorevole a che tutti paghino tutte le tasse anche perché diventerebbero moltissimi quelli che anziché mugugnare (nascondendosi) protesterebbero vivacemente (esponendosi).

Dobbiamo stare tutti attenti. Chi, come me, critica, affinché non si confonda il dissenso con l’alibi all’evasione. Chi esige e controlla, affinché non eserciti il proprio potere finalizzandolo ai dati consuntivi da portare, anziché al rispetto della legge e del cittadino. Chi amministra la politica fiscale, il governo, affinché non nasconda dietro un inaccettabile moralismo fiscale il mero desiderio di aumentare il gettito per inseguire una spesa fuori controllo.

domenica 18 novembre 2012

L' anniversario nero del governo tecnico. Così ci ha affossato. Renato Brunetta

È passato un anno. E per favore, lasciamo perdere le strumentalizzazioni e i luoghi comuni. Lasciamo perdere la retorica e facciamo solo i conti, con onestà intellettuale e politica.

Facciamo il bilancio di un'esperienza di governo eccezionale e di una politica economica, anch'essa eccezionale, che non abbiamo voluto noi, ma ci è stata imposta dalla Germania.
 
Tiriamo le somme di un riformismo forzato, massimalista e conservatore al tempo stesso, ma che ha finito per produrre più danni che benefici.

È giunto il tempo di giudicare il governo, i suoi ministri, per troppe volte apparsi più burocrati che autorevoli tecnici illuminati. Oppure personaggi in cerca di un futuro politico, che saltano da un convegno all'altro, da una dichiarazione all'altra, piuttosto che disinteressati servitori dello Stato.

Un nome per tutti: Corrado Passera, un misto di velleità, impotenza, luoghi comuni e presunzione. Con gli altri membri dell'esecutivo ostaggi, più o meno consapevolmente, dei loro ministeri, degli interessi costituiti, del gattopardismo romano. Viziati dai troppi decreti legge, dalle troppe fiduce, poste e ottenute, dal non dover rendere conto a nessuno. Garantiti solo dalla Sua persona.

Una politica economica che senza tante analisi ha sposato acriticamente un percorso di austerità che ha prodotto la recessione. Sbagliando pure i conti. Una recessione peggiore del previsto, che ha finito per far mancare gli obiettivi per cui il rigore era stato voluto. Ma questi tecnici, di Angela Merkel e di casa nostra, non studiano? Non leggono i rapporti internazionali? Non capiscono che il mondo è cambiato, e che quindi devono cambiare anche le ricette di politica economica?

Non un indicatore socio-economico, in quest'anno, ha mostrato segno positivo. Vorrà pur dire qualcosa? L'Eurozona è in recessione (-0,1%): ci può spiegare perché? Non sarebbe il caso di mettere un punto fermo, cominciare a ridiscutere quello che è stato fatto nell'Ue in questi 4 anni di crisi? Non sarebbe il caso di chiedere all'Europa se le politiche sangue, sudore e lacrime e i compiti a casa siano state e siano quelle giuste? Non è bello, non è onesto veder andare in crisi tutti i paesi tranne uno: la Germania, che migliora i conti, anche contro le sue stesse previsioni, sulla pelle di tutti gli altri. Adesso anche della Francia.

Il Suo riformismo fondamentalista e conservatore ha portato all'introduzione dell'Imu, con relativa contrazione del valore del patrimonio immobiliare degli italiani. Ha portato all'aumento della tassazione sulla proprietà, già ai massimi livelli nelle classifiche Ocse; alla riduzione della produzione nel settore delle costruzioni, fondamentale in economia; al crollo delle compravendite di immobili. Insomma, è stato impoverito quell'oltre 80% di italiani che abitano nella loro casa. Non è giusto, professor Monti. Non è giusto.

La sua riforma delle pensioni ha creato il guaio tossico degli «esodati». Tossico perché mette insieme ingiustizie e opportunismi, producendo più costi che benefici. Forse era meglio non far nulla. Come era meglio non far nulla sul mercato del lavoro, la cui riforma sta facendo schizzare ai livelli più alti in Europa la disoccupazione giovanile, a causa del mancato rinnovo dei contratti a termine. Avevamo bisogno di più flessibilità nell'assumere, abbiamo prodotto solo un blocco. E la mitica spending review alla fine non si è concretizzata che in banali tagli lineari.

È stato un anno di consenso mediatico, ma di amarezza, impotenza e sconcerto nella gente. E di tanta retorica. La retorica per cui il governo di prima aveva portato l'Italia sull'orlo del baratro. La retorica del non riuscire a pagare gli stipendi pubblici del 2011 a causa dello spread, il grande imbroglio su cui non è stata fatta nessuna chiarezza.

Non è stato spiegato agli italiani perché tutto sia cominciato a giugno 2011 dalla vendita, da parte di Deutsche Bank, di 8 miliardi di nostri titoli di Stato. Vendita seguita da tutti gli altri operatori, meno di una ventina di banche, che fanno il bello e il cattivo tempo. Altro che mercati. Perché quell'ordine? Cosa era cambiato nella nostra economia, nella nostra politica economica, che giustificasse quella decisione da parte della principale banca tedesca? Un anno di retorica. La retorica del «Salva Italia», il Suo primo decreto, che non ha salvato proprio un bel niente. La retorica della credibilità ritrovata, dello stile di governo, del rigore, dell'agenda Monti. Un'insopportabile bolla mediatica.

E che dire del «Cresci Italia», del «Semplifica Italia», dell'«Italia Digitale» e degli altri stucchevoli slogan che appaiono come vere e proprie prese in giro? Altro che credibilità. Altro che coesione. Altro che responsabilità. Altro che legalità. Altro che visione.

Un anno di pacche sulle spalle e apparente apprezzamento in campo internazionale, salvo poi vederci isolati in India, come a Bruxelles, o additati al pubblico ludibrio a Washington. Italia sempre più sola, soprattutto in Europa. Unico contribuente netto (cioè paghiamo all'Ue più di quanto riceviamo), che non sa con chi stare. A parole (quasi da sindrome di Stoccolma) con Angela Merkel e i rigoristi, ma con tanta voglia del contrario. E il risultato di rimanere soli.

Il governo era nato con 4 fondamentali obiettivi: aumentare la credibilità dell'economia italiana sui mercati; promuovere l'azione dell'Italia in Europa, per una politica economica a carattere comunitario; ridurre il debito pubblico, con misure di carattere strutturale; lanciare una strategia di sviluppo e di crescita per il Paese. Obiettivi riassunti nel Suo discorso sulla fiducia, le cui parole d'ordine sono state: rigore, sviluppo e equità.

A un anno dall'esordio, i fatti mostrano che ha fallito su tutti i fronti. La credibilità non è aumentata, perché i rendimenti dei titoli di Stato decennali sfiorano ancora il 5%, gli spread sono in altalena, e in ogni caso continuano a dipendere dall'azione della Bce. Si ricorda, presidente Monti, il 24 luglio 2012, quando il Suo maledetto spread, il nostro maledetto spread, è schizzato a 534, praticamente allo stesso livello che il 9 novembre 2011 ha fatto cadere Berlusconi? E si ricorda le ragioni? Le voci dell'uscita della Grecia dall'euro. Non un giudizio sulla Sua politica. Non sarebbe il caso di riconoscere che i nostri fondamentali c'entrano poco o nulla?

Il ruolo dell'Italia in Europa è rimasto marginale e l'egemonia della Germania è aumentata. Il debito pubblico continua a crescere, sia in valori assoluti (+72 miliardi), sia in rapporto al Pil (+4,4%). Non è stata lanciata nessuna strategia di sviluppo, tanto che il prodotto interno lordo si è inabissato, la produzione industriale precipita, i consumi sono in picchiata e l'inflazione continua a salire, come la disoccupazione. In un anno nulla è cambiato in meglio, ma è tutto peggiorato.

L'unica cosa buona del governo Monti l'ha fatta la maggioranza, riscrivendo la legge di stabilità per il 2013, cosa mai vista nella storia repubblicana, rendendo intelligente un provvedimento banale, inutilmente cattivo con i deboli (dai malati di Sla alle vittime di guerra) e demagogico. Quello spruzzo di diminuzione dell'Irpef, che aveva proposto nel Suo disegno di legge, professor Monti, e che abbiamo rispedito al mittente, era degno di miglior causa. Un inutile e costoso specchietto per le allodole. La tanto bistrattata maggioranza dei partiti ha sostituito il governo dei tecnici, coniugando rigore, equità e sviluppo. Proprio quello che Lei, presidente, e i Suoi ministri non siete riusciti a fare in un anno di governo. Un anno che può a buon titolo considerarsi un annus horribilis. (il Giornale)

venerdì 16 novembre 2012

Europa da Draghi. Davide Giacalone

In un’eccellente riflessione pubblica Mario Draghi ha messo a fuoco tre punti cardine: 1. è la debolezza strutturale dell’euro ad avere consentito la speculazione contro i debiti sovrani, quindi l’allargarsi degli spread; 2. non ci sono politiche settoriali che possano rimediare a questa condizione, tanto è vero che molte cose sono state fatte ma quegli indicatori restano ingiustificatamente divaricati; 3. il consolidamento della finanza pubblica deve essere condotto mediante tagli della spesa corrente e non attraverso aumento della pressione fiscale. L’autorevolezza dell’oratore, presidente della Banca centrale europea, dà forza a queste tesi, che qui sosteniamo fin dall’arrivo di questa crisi in Europa, nell’estate del 2011.

Ha aggiunto che il 2012 sarà ricordato non solo per la durezza della crisi, ma anche per le risposte che sono state date dalla Bce (egli ha aggiunto anche: dai governi e dall’Unione europea, ma ho l’impressione si tratti di mera cortesia istituzionale), dopo che tanti errori erano stati commessi, per troppo tempo. Si riferisce ai mille miliardi messi a disposizione delle banche europee, affinché acquistassero titoli del debito pubblico, scelta che ha il grande merito d’avere rotto l’immobilismo imposto precedentemente dall’asse Merkel-Sarkozy. Speriamo se ne ricordi anche il successo, che oggi sarebbe imprudente dare per scontato.

Con la creazione dell’euro i Paesi dell’Unione monetaria europea accettarono di cedere sovranità valutaria, affidandola però a una specie di pilota automatico, che funzionava secondo i dettami del trattato di Maastricht. Quel pilota s’è dimostrato inadatto ad affrontare la crisi dei debiti, originata negli Stati Uniti. Era stato programmato per un clima specifico (la paura era quella dell’inflazione) e non ha funzionato con diversa meteorologia (viviamo il pieno di una recessione). Draghi è stato il primo, dalla plancia Bce, a prendere in mano i comandi e disinserire il pilota automatico. Ora dice che un diverso equilibrio deve essere costruito su quattro pilastri: a. l’unione bancaria; b. quella fiscale; c. quella economica; d. infine quella politica. Giusto. Ho una sola obiezione: l’unione monetaria non può funzionare senza banche che coprano e agiscano nell’intera area valutaria di riferimento, senza un’armonizzazione fiscale e senza una comune politica economica, ma nel momento in cui i governi cederanno (quel che resta) di queste sovranità il loro peso politico sarà prossimo allo zero, saranno solo amministrazioni locali, in quel che sarà un’area federata, se non direttamente un’Unione federale. Ciò significa che quei quattro pilastri devono essere eretti contemporaneamente e che l’unione politica non può giungere per ultima.

Dall’estate 2011 a oggi, nel mentre la bufera degli spread annientava i governi uno dietro l’altro, abbiamo fatto i conti con un terribile deficit democratico delle istituzioni europee. Nel costruire il pilastro dell’unione politica non possiamo dimenticarci chi siamo: i popoli che diedero sostanza istituzionale alla democrazia moderna. Per costruire quel pilastro, quindi, non se ne deve negare la natura. Perché l’Uem abbia un futuro è necessario che finisca la stagione delle tecnocrazie e si apra quella della politica europea. Che non è la sommatoria delle democrazie nazionali, oramai vernacolari. Siamo sulla soglia di un passaggio epocale. Stona, purtroppo, il dislivello del dibattito politico interno.

Noi sappiamo da dove veniamo, conosciamo il valore della moneta comune (e quel che ci è costata). Sappiamo che non è istituzionalmente attrezzata a resistere senza un governo politico alle spalle, specie in un mondo in cui presto sarà convertibile anche la valuta cinese, il Renminbi. Sappiamo dove vogliamo arrivare, edificando quei pilastri. Il problema è il tragitto, i tempi e il modo. Quel che non può e non deve avvenire è che ci si trovi di fronte a cessioni asimmetriche di sovranità, per cui prima alcuni diventano protettorati monetari di altri e poi si giunge alla conclusione del lavoro. Non può e non deve succedere perché quel tipo di passaggio porta con sé non solo cessione unilaterale di sovranità politica, ma anche deflusso di ricchezza sottratta ai cittadini e indebolimento del sistema produttivo, mediante perdita di competitività indotta da tassi d’interesse più onerosi per alcuni e addirittura pari a zero per altri.

E’ un punto delicatissimo, che va affrontato con chiarezza d’idee e d’intenti. Non dimentichiamoci che nel secolo scorso l’Europa trascinò il mondo in due guerre (per allora) globali, innescate da nazionalismi alimentati da conflitti economici. Oggi, in era di effettiva globalizzazione, quello scenario è irripetibile, ma non lo è l’autodistruzione europea. Se si alza lo sguardo dalle questioni monetarie e si pensa allo scenario della guerra libica, del resto, ci si accorge che non mancano gli esempi. Vicini.

La stabilità, l’affidabilità e l’irreversibilità del processo d’integrazione non è garanzia solo per chi è in crisi, ma anche per chi è creditore. Anche qui Draghi ha ragione. Vale la pena aggiungere che i debiti sovrani di chi impartisce lezioni sono cresciuti più di quelli di chi era impegnato nei compiti a casa. Evidenza ineludibile.

La crisi è una grande occasione per far fare un balzo in avanti all’Ue, conquistando la propria storia. Per farlo si deve ripensare anche il nostro modello sociale, giustamente ammirato nel mondo, ma che oggi richiede una cura dimagrante per lo Stato, compresi gli aspetti sperequativi del welfare, abbassando la pressione fiscale. Sentirlo, da quel pulpito, è stato un sollievo.

mercoledì 14 novembre 2012

Macelleria fiscale. Davide Giacalone

Il governo ha completamente perso il controllo della legge di stabilità, conservando a sé l’arma della vendetta contabile. Non si tratta di riconoscere il ruolo del Parlamento, come qualche ministro graziosamente fece, al momento della presentazione, perché quello è scolpito nella Costituzione (questa sconosciuta). Si tratta, semmai, di stabilire se il governo ha una qualche politica che non sia il mero ricondursi al rispetto dei saldi, perché in questo caso, come sta avvenendo, l’interlocutore del Parlamento diviene la Ragioneria generale dello Stato. E buona notte alla funzione governativa.


La cosa singolare è che nel mentre i (presunti) protagonisti della politica si dividono fra chi vorrebbe governare in proprio (salvo non dire come e per far cosa) e chi vorrebbe lasciare le cose in mano a Mario Monti, pur riconoscendoti quasi tutti nell’“agenda Monti”, proprio quest’ultima si svuota al punto da consentire che la legge di stabilità venga stravolta e capovolta, nell’indifferenza collettiva. Dagli sgravi fiscali agli orari scolastici agli esodati, non c’è materia rilevante in cui il governo abbia tenuto ferme le proprie posizioni. Sarebbe questo il ragguardevole costume cui ispirare il futuro? E, si badi, questa non è una critica al governo, perché la sua “colpa” è quella di durare troppo, ben oltre il pronto soccorso che si rese necessario un anno addietro, quindi di scomporsi per il venire meno della missione iniziale, mentre restano intatti i problemi di fondo. La critica è rivolta alle forze politiche maggiori, incapaci di capire quel che era evidentissimo nel novembre scorso e che fin da allora scrivemmo: tocca loro cambiare il sistema elettorale e condurre l’Italia al voto. In fretta. Invece sono ferme, ripiegate nelle loro miserie interne, nel mentre s’approssima la fine naturale, e ingloriosa, della legislatura.

La critica che muovo al governo è altra: assistendo all’implosione della politica, incapace di riforme profonde (l’unica, quella delle pensioni, si trascina dietro un imperdonabile errore tecnico, che ha generato gli esodati), il governo si abbandona alla vendetta contabile, accanendosi nel far crescere le entrate nel mentre non riesce a tagliare significativamente le uscite. Per evitare si dica che fa “macelleria sociale” si abbandona alla “macelleria fiscale”. Senza neanche evitare la prima, oltre tutto, ma praticandola nella sua versione più odiosa, ovvero con la “macelleria generazionale”.

Monti annette a sé e al suo governo la guerra (così l’ha chiamata), contro la corruzione e l’evasione fiscale. Guerre sante. Gliecché la storia ci consegna non pochi esempi di guerre benedette tradottesi in carneficine sadiche e senza tensione alcuna verso il sacro. Dire che la guerra contro la corruzione si conduce con la nuova legge, ancora in gestazione, non è propaganda, è fanfaroneria allo stato puro. Quella legge sarà approvata, statene certi, ma siate altrettanto sicuri che non servirà a nulla. Mentre la lotta all’evasione, nei fatti, si traduce nel far pagare più tasse a quelli che le pagavano, con effetti recessivi evidentissimi, talché la ripresa prevista per l’anno prossimo si sposta, come tempestivamente sottolineammo, in un imprecisato futuro.

E quando Monti dice che la ripresa ci sarà nel momento in cui cesserà la crisi dell’euro dice una di quelle cose utili a dimostrare che siamo senza timone e senza motori: stiamo andando a rimorchio. Solo che dal rimorchiatore hanno deciso di mettere le mani nella cambusa e portare via gli arredi, sicché, alla lunga, somigliano più a pirati che a salvatori.

La follia autodistruttiva del nostro dibattito politico sta proprio nel credere che questa sia una politica, semmai discutendo se continuarla a cura degli ideatori o a cura dei gestori partitanti. Invece questa è una non politica. E’ l’altra faccia di una medaglia che da una parte reca il ritratto di Beppe Grillo. E’ il frutto del crollo, non un modo per evitarlo. E se le forze politiche non vogliono suicidarsi devono imparare a fare in modo che cambino le cose, non il loro o il proprio nome. Giacché, com’è noto: ca tu ‘o chiamme Cicco o ‘Ntuono/ ca tu ‘o chiamme Peppe o Giro/ chillo ‘o fatto e niro niro,/ nino niro comm’a che.

domenica 11 novembre 2012

La legge elettorale, in soldoni. Gianni Pardo

  

Image
Nessuna legge elettorale è perfetta. La governabilità e la rappresentatività, ambedue necessarie, sono infatti inversamente proporzionali fra loro e ogni partito giudica il compromesso secondo che esso gli convenga o no.
Attualmente per convenzione bisogna dire peste e corna del “Porcellum”. Lo si accusa perfino di provocare l’ingovernabilità mentre questo al massimo può avvenire perché il sistema non è applicato al Senato come alla Camera. Qui la coalizione di Prodi, pur essendo prevalsa per sei decimillesimi dei voti, non ebbe infatti nessun problema: aveva il 55% dei seggi.

Oggi al “Porcellum” si rimproverano quattro cose: (1) la soglia di sbarramento al 4%, (2) la mancanza delle preferenze, (3) il premio di maggioranza e (4) la mancanza di un livello minimo di voti per beneficiarne.

La soglia di sbarramento non è molto discussa. Serve infatti ad evitare il possibile ingresso in Parlamento di formazioni lillipuziane tuttavia capaci, all’occasione, di esercitare ricatti.

L’eliminazione delle preferenze fu voluta, a suo tempo, per evitare l’imperversare del voto di scambio e per non sottoporre i candidati a grandi spese per farsi pubblicità. Se si vuole tornare alle preferenze, che lo si faccia: ricordando però che anche in questo caso i nomi nelle liste sono stabilite dai partiti, non dagli elettori.

Il premio di maggioranza è graditissimo alle grandi formazioni, che sperano di beneficiarne, e sgraditissimo ai piccoli partiti, che da esso sono resi irrilevanti. Naturalmente i più ostili sono quelli che ancora non sanno se faranno parte di una coalizione o se dovranno correre da soli: Udc, Lega e Idv. Dunque si pensava che si volesse riformare il “Porcellum” in modo da dar voce ai piccoli, tornando al proporzionale. E infatti se ne è parlato a lungo. Il buon senso però avvertiva che probabilmente la legge non sarebbe stata affatto cambiata: la rinunzia al premio di maggioranza non era infatti nell’interesse dei due grandi partiti.

Viceversa, il crescente successo del partito di Beppe Grillo ha cambiato lo scenario. Tutti si sono preoccupati e si sono messi a riflettere sul quarto elemento, cioè la mancanza di un livello minimo di voti per beneficiare del premio. Prima era certo che o avrebbe vinto il Pdl, con i suoi alleati, o avrebbe vinto il Pd, con i suoi alleati: e poiché essi vantavano percentuali intorno al trenta per cento o più, tutto sembrava accettabile. Oggi invece da un lato il Pdl sembra in gravi difficoltà (è sotto il 20% e la Lega è andata per conto suo), dall’altro lo stesso Pd, temendo il vento della protesta, paventa che, per un’imprevedibile manifestazione di malumore dell’elettorato, tutti i partiti abbiano percentuali basse. Potrebbe avvenire che il partito di Grillo, avendo per ipotesi il 22% dei voti, benefici di quell’enorme premio di maggioranza perché il Pd è arrivato solo al 21%. Grillo potrebbe avere il 55% dei seggi alla Camera solo per avere ottenuto il 22% nelle urne. Assurdo.

E allora, per non dire che aboliscono il premio di maggioranza, Pdl, Lega e Udc hanno proposto una soglia minima di voti, per beneficiarne. Solo che la soglia “minima” invece è “stratosferica”, addirittura il 42,5%: in modo che nessuno la possa raggiungere. L’intento è trasparente: meglio la proporzionale che un governo dominato dai dilettanti qualunquisti della politica.

Naturalmente ciò danneggia i partiti che sembrano destinati a vincere le elezioni. Grillo infatti ha parlato, nientemeno, di colpo di Stato. Dal Pd ci si aspettava che “insorgesse”, che negasse il proprio voto, che almeno si opponesse seriamente. Invece, dopo avere affermato che la soglia del 42,5% era demenziale, ora sembra disposto ad accettare uno sbarramento al 40%. La zuppa no, il pan bagnato sì.

Vedremo come andranno le cose. Attualmente sembra che i partiti si metteranno d’accordo per una soglia alta e di fatto si tornerà al proporzionale. Il Pd e il Pdl, a costo di tenersi Monti e a costo di allearsi di nuovo fra loro, sono risoluti a non permettere che la cosa pubblica vada in mani peggio che inesperte. Un Masaniello deve vendere pesce, non sedere a Palazzo Chigi.

Si ha quasi l’impressione – falsa, naturalmente – che per una volta essi siano preoccupati, oltre che per sé, anche per l’Italia. (il Legno storto)

mercoledì 31 ottobre 2012

Film demenziale. Davide Giacalone

Il dio Spread avrà anche il suo da fare, nel creato e nel contrattato, ma in cima ai suoi pensieri si vuole che ci sia la voglia di mettere becco nelle faccende italiche. Pur misere e cieche, suscitano in quella divinità una passione morbosa, ma selettiva. Già, perché il segretario del Partito democratico, Pier Luigi Bersani, si sbracciò per dire: la legge di stabilità, così com’è, non la voteremo mai. Il che avvenne all’indomani dell’avere espunto ogni riferimento al governo Monti dal futuro della sinistra. La corsa in loden volgeva al termine. Eppure non è successo nulla. Il dio ha taciuto, i liberi pensatori non hanno ritenuto fosse in corso un attacco alla civiltà, e neanche un bottone s’è allentato, nel cappotto verde scuro. Poi ha parlato Silvio Berlusconi e il mondo ha tremato fin nel suo nocciolo. Lo spread s’è alzato (e poi è sceso, perché dio capriccioso che dovrebbe indurre i fedeli al dubbio). Per la verità è cresciuto anche quello spagnolo, con gli iberici rivolti al cielo: ma noi, che c’entriamo?

Giorni addietro un giudice monocratico, in quel dell’Aquila, ha condannato i membri della commissione grandi rischi, responsabili di non avere avvertito, nel dovuto modo, dell’imminente terremoto. Non c’è uno che si sia trattenuto dal dileggiare o disprezzare quella sentenza. Un ministro ha pubblicamente sostenuto la necessità che sia riformata. L’Associazione Nazionale Magistrati e le altre vestali del fuoco giustizialista se ne stettero zitte. Pochi giorni dopo Berlusconi ha inveito contro una sentenza, che lo condannava. Diritto che si riconobbe anche a Piero Pacciani. Non sapremo mai se è veramente colpevole, perché quello è un procedimento suicida, destinato alla prescrizione, ma sappiamo che le sue parole sono state denunciate quale proditorio attacco contro la saldezza del diritto e la salute dello Stato.

Lo rilevo perché siamo ai sussulti agonici della seconda Repubblica: quel genere di scontro è sepolto alle nostre spalle, e se non si vuol far la parte degli scemi (che Pdl e Pd stanno recitando alla grande, circa il voto siciliano), si potrebbe anche smetterla di prenderci in giro. Lo spread è risalito perché non s’è mai risolta la crisi greca e i dubbi di sempre tornano a galla, nel mentre la politica espansiva della Banca centrale europea non ha un futuro infinito. La giustizia italiana è una schifezza, che ci espone a condanne internazionali, nel mentre l’esibizionismo politico di certi magistrati è sotto gli occhi di tutti. Il governo Monti è alla fine perché l’eccezione del solo governo europeo non eletto non può reggere.

Il centro destra ha colpe consistenti. Non si critica il governo Monti dopo avere votato tutte le sue proposte, anche quelle macroscopicamente sbagliate (come qui avvertito). Non si denuncia con undici mesi di ritardo lo squilibrio dei poteri e delle influenze, dentro l’Unione europea. Non si tiene aperta la trincea dello scontro con il giustizialismo, senza essere capaci di riforme serie. Una sola cosa ancora impedisce che quel gruppo dirigente del centro destra paghi per tanti e così gravi errori, ed è la pretesa demenziale di far credere che tutte le colpe ricadano non su quanto non sono riusciti a fare, ma su quel che Berlusconi riesce a dire. Anche quando è ovvio. E’ un film già visto. Triste, inutile, stupido. E terribilmente autolesionista.

martedì 30 ottobre 2012

Un po' di compagnia per Pierferdinando Casini. Giancarlo Loquenzi

Sono molto incuriosito da Pierferdinando Casini. Mi piacerebbe avere una microcamera piazzata nella sua stanza e vederlo quando si spengono i riflettori dei telegiornali e se ne vanno i giornalisti con i loro microfoni.

Mi piacerebbe vederlo, ad esempio, un minuto dopo aver detto al Tg1: "Berlusconi rimarrà solo" e coglierlo alle prese con l'agenda telefonica.

Chi chiama per sapere come è andato? Forse Fini, se trova un momento libero dalle liti di famiglia. O Rutelli, se trova un momento libero dalle liti con Lusi. Magari Bersani, ma squilla occupato, è al telefono con Vendola e quando attacca deve trovare un momento libero dalle liti con Renzi.

Potrebbe fare un colpo a Crocetta, in fondo è anche il suo candidato, ma lui non trova un momento libero dalle liti con tutti gli altri casiniani ed ex casiniani sparsi per le liste elettorali siciliane. La Marcegaglia ha cambiato telefonino e in segreteria non hanno quello nuovo; Montezemolo ha messo il trasferimento di chiamata su Italo; il gruppo di Todi 2, con Bonanni e gli altri lo hanno lasciato a Todi 1.

Certo ci sarebbero Napolitano e Monti ma guardano poca tv e non gli danno soddisfazione. Resta il buon Cesa ma sta giocando a briscola con Rao. Buttiglione e D'Onofrio all'ora del tg già dormono.

Chiamare Bossi, Veltroni, D'Alema non può: passi indietro e rottamazioni gli mettono la malinconia. Il solito giro di telefonate agli elettori? Ma da anni sono sempre gli stessi, li ha già chiamati tutti. Quel buontempone di Cuffaro sarebbe perfetto ma a Rebibbia non glielo passano.

Per un attimo, forse, è tentato di chiamare lo stesso Berlusconi, ma non gliela vuole dare vinta. Non resta che aspettare la prossima intervista per avere un po' di compagnia.
Tratto da Huffington Post

L'Unità dice la verità su Di Pietro. Gianni Pardo

In anni lontani - molto lontani, si risale al 1948 - imperversava un tormentone: una serie di vignette per deridere i comunisti e la loro prona credulità nei confronti del partito. Un personaggio faceva notare ad un altro un’ovvia verità, per esempio che aveva il cappio al collo, e quello rispondeva: “Compagno, l’Unità non lo dice”. “Hai ragione, dunque è una cravatta”.

Oggi si ha la tendenza a credere che quei comunisti fossero grezzi e stupidi e a sorridere di ricordi così remoti. Ma sarebbe meglio astenersene. Non ci sono più i comunisti di allora ma gli italiani non sono molto cambiati. Giovannino Guareschi negli Anni Cinquanta si sgolava a denunciare le atrocità commesse dai partigiani ma nessuno gli dava ascolto. E non parliamo della sordità contro cui urtavano le denunce degli sconfitti. Erano vere ma l’Unità non lo diceva e non sono state vere per mezzo secolo. Poi, anni dopo la caduta dell’Unione Sovietica, è intervenuto Giampaolo Pansa: un giornalista della provenienza giusta, basti dire che ha scritto per circa tre lustri sulla Repubblica di Eugenio Scalfari, e ha raccontato le stesse cose con un famoso libro, “Il Sangue dei Vinti”, e finalmente “l’Unità lo ha detto”.

Non abbiamo il diritto di sorridere di quelle vignette.

Sulla storia di Antonio Di Pietro, Filippo Facci (del “Giornale”), il “Foglio” di Giuliano Ferrara ed altri hanno scritto instancabilmente, per anni, denunciando vicende poco chiare, intrecci discutibili e un’amministrazione quanto meno dubbia del denaro ricevuto dal partito. Queste contestazioni hanno avuto anche forma giudiziaria con denunce soprattutto di ex sodali del Tonino nazionale: arrivando in un caso ad una denuncia di falso materiale che si concluse con un’assoluzione di tutti gli interessati che va al di là delle mie competenze giuridiche. Scusate l’autocitazione: “Qui esiste un dilemma o, come diceva un burlone, un trilemma. O la firma sul verbale è falsa e Di Pietro è colpevole di falso e truffa. Proprio per questo risulta incredibile che la Procura non abbia acquisito l’originale del verbale, per ordinare una perizia calligrafica. Misteri dell’amministrazione della giustizia. O la firma sul verbale è vera e Di Domenico è colpevole di calunnia (reato del quale attualmente non è indiziato). Oppure niente di tutto questo è vero, e il “Giornale” dovrebbe essere denunziato per diffamazione a danno di Di Pietro e di Di Domenico. Ma non risulta neanche questo. A voi la parola”. Ma l’Unità rimase in silenzio e noi rimanemmo col dubbio.

Per anni Di Pietro è uscito pulito da tutte le inchieste e da tutte le denunce. Anche quando sono state scagliate da ex soci ed ex amici, per esempio Elio Veltri o l’avv.Di Domenico. Non gli è più andata bene, almeno come immagine, quando ad attaccarlo è stata la Rai Tre di Milena Gabanelli. Allora è cambiato tutto. Se lo dice l’Unità, sono dolori. I titoli dello stesso pilatesco Corriere della Sera sono squilli di tromba. “«Tonino, che delusione!» Idv nella bufera dopo Report - I fan di Di Pietro lo accusano «Troppa incertezza sui conti». E al voto in Sicilia è flop”. Ma quale delusione? Qual è la novità? La novità è soltanto che la notizia sia sul Corriere. Infatti il quotidiano para in anticipo l’irrisione dei colleghi: “Nessuna accusa nuova. Il problema è stata la reazione titubante, un po' incerta, dell'ex pm”. Ma questo significa soltanto che il leader dell’Idv è stato interrogato con brutalità e senza i riguardi di altre volte.

In un secondo articolo dal titolo sprezzante, “Gli Insaziabili”, l’intervistatrice di Report, Sabrina Giannini, scrive con stile pesante: “Antonio Di Pietro, contrariamente ai suoi proclami anticasta, non è diverso dagli altri politici. Almeno quando si tratta di soldi. Il suo partito ha introiettato cento milioni di euro di finanziamento pubblico in dieci anni e la gestione della cassa del partito è stata in mano a sole tre persone fino al 2009: lui, la tesoriera e deputata Silvana Mura e la moglie Susanna Mazzoleni”. A parte l’uso del verbo introiettare, che la giornalista confonde con “introitare”, dov’è la notizia, ripetuta in tutte le salse dal giornale di Giuliano Ferrara? “Lo stesso Di Pietro, nel corso dell'intervista, contraddice più volte sé stesso”. E perché oggi glielo si rimprovera, mentre tante volte si è sorvolato un po’ su tutto?

C’è da rimanere disgustati. In Italia la verità è tale se è a denominazione d’origine controllata. Se ha in tasca la tessera di un partito. (il Legno Storto)

lunedì 29 ottobre 2012

Berlusconi in Kenia può respirare l'aria di una moderna democrazia. Giuliano Ferrara

                                   

Al direttore – Per caso, ma proprio per caso, in coda al 3 a 1 preso dal Napoli in Ucraina e al carosello di tutti gli eurogol, mi trovo per zapping nel parterre Santoro e mi intrattengo su un bravo Renzi e su un ruffiano (ma anche lui bravino) Mr. Todds. Pensi che sia finita lì. E invece Michelin arrota e ammicca, “adesso i politici tutti a letto, dopo lo spot ci vediamo lei”. E chi sarà questa lei? Giù il cappello, lei è la signora Ruby, una che si fa un boccone della sciantosa maestrina che il rais gli ha inviato col blocchettino e il sorrisino saputino, la quale crede di essere andata a carpire i segreti e a processare la sorca; e invece si becca, e incassa fino a quasi tartagliare, un paio di risposte da dita negli occhi, non una sola senza due palle così. Riavvolgendo il nastro, dico a memoria che ho sentito dire che Berlusconi è una brava persona, che mi avete messo in un casino, avete scritto un mare di cazzate, ho chiesto aiuto e lui mi ha aiutato, avevo chiesto anche ai preti e i preti non mi hanno aiutato, stavo tra i porci e lui mi ha tirato fuori, mi ha voluto bene, mi ha ospitato a villa san Martino: e non è successo niente! Lui non sapeva che ero minorenne, ovvio, no? e non lo sapeva neanche Mora, ovvio no? è stato tutto lineare, lo sanno anche i pm, mi avete messo in mezzo per gli affari vostri, io non sono una prostituta e pure mia madre lo sa... Insomma, vent’anni e già donna con i controfiocchi, una che ha messo in intervista quello che nemmeno uno di loro, puri ragionatori, sbirri dorati, i kantiani fumati, è ancora mai riuscito a mettere in anni e anni di spiate e mattinali, di parole e asterischi, di Treccani e codici di procedure penali. Non fosse che si è ritirato proprio adesso, il Cavaliere dovrebbe prendere la videointervista dell’arcangela di Santoro e mandarla a rullo su tutte le reti Mediaset. Pensa te, proprio il giorno che lui si ritira, loro perdono con lui la sfida della superiorità antropologica.
Luigi Amicone

Dovrei chiosare con la dicitura: senza parole. Infatti ne aggiungo pochine. Non ho mai avuto dubbi, e se la parte peggiore di me ne abbia avuti quella appena più decente se li è tenuti per sé, e ho guardato come si dipanava la cosa. Da subito si è capito che Berlusconi si divertiva in modo candido, scollacciato, burlesco e una punta indecente (ma nemmeno poi tanto, le esagerazioni da intercettazione sono da tenere a bada). Chi equipara il casting di Arcore (minorenni? mica è la Bbc di Savile!) a un réseau di prostituzione libertina fuorilegge, alla DSK, è un cretino o un bugiardo per faziosità politica. Chi non sa che il set di regali fatto da Berlusconi a mezzo mondo, dai grandi della terra cosiddetti alle segretarie agli amici ai deputati, occupa lo spazio di quattro cinque campi di calcio, è colpevolmente ignorante (la corte dovrebbe dare un’occhiata al catalogo). Chi pretende di entrare con occhio etico nella libido degli altri, e alla sera legge Kant, è un puttaniere mancato o realizzato. Questo è un paese in cui una dozzina di scienziati è ritenuta responsabile dei morti conseguenti un terremoto “non previsto” (e solo in questo caso quegli asini della stampa estera inviati per punizione in Italia si accorgono che siamo “unici” e protestano!). E’ un paese in cui i giornali ti raccontano che la gente si suicida a bizzeffe per la crisi, e quando mesi dopo domandi come mai si suicidano purtroppo sempre i soliti delusi dalla vita, ti rispondono che non sei di mondo e non capisci la necessità di forzare tipica dei media. E Di Pietro, che ha imparato a mentire di brutto mentre i suoi imparavano a rubare, ancora non si è scusato con Monti per avergli attribuito la colpa delle morti da crisi economica. Ora per qualche giorno il Cav. in Kenia può respirare l’aria di una moderna democrazia. (il Foglio)

Berlusconi, svolta epocale? Gianni Pardo

La conferenza stampa di Silvio Berlusconi è stata liquidata da molti come un momento di malumore. È un’ipotesi miserella e soprattutto in diritto civile il motivo per il quale si fa qualcosa - per esempio una compravendita - è irrilevante. Nello stesso diritto penale i motivi per i quali si è commesso un delitto, influiscono solo sulla misura della pena, con le attenuanti o le aggravanti, e nelle contravvenzioni non se ne tiene alcun conto. Dunque perché Berlusconi abbia detto ciò che ha detto assolutamente non importa. Importa che le sua parole possono avere effetto sulla politica, tanto che per esaminarle sarà inevitabile una insolitamente lunga riflessione.

La minaccia di far cadere il governo Monti, cui si è data tanta importanza, non ha molto valore. Infatti è stata subito attenuata dalla preoccupazione di allarmare i mercati e danneggiare il Paese. Essenziale è invece che Berlusconi abbia dimostrato di avere un’idea del futuro. Gli altri – tranne Pierferdinando Casini, che in questo campo si mostra costantemente un famulo di Mario Monti – si tengono sul vago. Non dicono neppure se bisogna proseguire la politica attuale o cambiarla. Berlusconi invece ne ha denunciato tutti gli errori ed ha dichiarato che un cambiamento è assolutamente necessario. È un passo avanti: gli altri non sanno “che cosa fare”, lui almeno lo sa. Anche se non dice ancora “come farlo”. E soprattutto rimane il dubbio: il partito lo seguirà, in questo tentativo?

Ciò che ha proclamato, per esempio per quanto riguarda la politica economica dell’Italia ed il rapporto con la Germania e la Francia, potrà avere pesanti conseguenze anche in campo internazionale. La Grecia, la Spagna e il Portogallo potrebbero vedere nell’Italia il Paese leader per ottenere una riforma dell’Unione Europea. Comunque le parole di Berlusconi sono più che un sasso nello stagno: sono sufficienti per far suonare un serio allarme.

Altro punto essenziale della conferenza è che in essa non si è trattato vagamente di “riforme”, o anche di “grandi riforme”, come si usa fare di solito: si sono indicati chiaramente, assolutamente fuori dai denti, alcuni difetti delle istituzioni attuali anche a proposito di Mammasantissima intoccabili come i giudici della Corte Costituzionale (CC) e lo stesso Presidente della Repubblica (PdR).

Nella conferenza si trovano infatti moltissime verità che i cittadini si dicono in privato, da mesi e da anni, ma che nessuno ha osato affermare dinanzi ai comizi curiati schierati in battaglia, come ha fatto lui. E questo pesa. Chiunque poteva affermare che Stalin era un criminale, ma quando lo ha fatto Khrushchev, dalla tribuna, è stato un altro paio di maniche. Se tutto quanto è stato detto fino ad ora sembra eccessivo, si abbia la pazienza, prima di difendere o attaccare il Cavaliere, di procedere ad un esame analitico, punto per punto, di ciò che è stato detto d’importante, chiedendosi in ogni momento: è vero, questo?

Secondo Berlusconi quando si è creato l’euro si è commesso l’errore di stabilire per l’Italia un cambio di 1936 lire per un euro e poi, per l’intera Europa, si è permesso di passare dall’equivalenza un dollaro un euro ad un euro che valeva fino a un dollaro e mezzo, con enormi svantaggi per l’esportazione dei prodotti europei. E – aggiungiamo – ciò si è fatto perché quel cambio, mentre danneggiava tutti gli altri, non danneggiava la Germania.

Si è costituita la Bce, dice ancora Berlusconi, rinunziando al diritto di stampare la propria moneta, perché si pensava che la Bce si sarebbe comportata come una vera “banca centrale europea”, capace di garantire i debiti sovrani, “arrivando a stampare moneta in caso di necessità”. La Germania, memore dell’inflazione della Repubblica di Weimar, si è invece opposta, assegnandole l’unica missione di contrastare l’inflazione. E qui dissentiamo. Se la Bce garantisse il debito dei Paesi scervellati e spendaccioni, questi continuerebbero a contrarre debiti e la Bce creerebbe effettivamente una tragica inflazione. L’errore è stato invece quello di creare l’unione monetaria senza prima avere creato l’unione politica. Aderendo all’euro si è rinunciato a una delle stigmate fondamentali della sovranità, la possibilità di battere moneta, e per questo dinanzi ad una crisi del debito non si sa più che fare. La Bce è innocente. Infatti in altro momento lo stesso Berlusconi ha fatto notare che ciò che ha dato origine al grande problema dello “spread eccessivo” non è il livello del debito ma la mancanza d’indipendenza della valuta: il Giappone ha un debito pubblico del 238% del pil ma paga interessi dell’1% e ciò solo perché ha il potere di manovrare lo yen.

Berlusconi ha anche rivendicato il merito di avere, una volta scoppiata la crisi, cercato di opporsi a molte decisioni dell’Unione. Ha negato, in sede europea, che il nostro debito pubblico avesse raggiunto il 125% del pil. Infatti, ha sostenuto, accanto al pil ufficiale c’è un pil sommerso, dal quale l’erario non ricava nulla ma che fa lo stesso parte del prodotto interno. Non ha condiviso i ritardi negli aiuti alla Grecia, la Tobin tax, l’obbligo imposto alle banche di calcolare i titoli del debito pubblico al valore del mercato secondario e non a quello del rimborso, e infine il fiscal compact. Contro questo trattato egli è arrivato a porre il veto, con conseguente interruzione di due ore dei negoziati. Che egli ha usato per discutere con J.C.Junker, illustrando le ragioni del veto stesso. E comunque ha affermato che il tentativo di ridurre il debito pubblico con i sistemi proposti avrebbe portato alla recessione. Insomma, mentre la Francia ha seguito “passivamente” le indicazioni di Berlino, egli si è opposto per quanto ha potuto, essendo per questo contrastato in tutti i modi: nessuno ha dimenticato, fra le altre, l’“iniziativa di deterioramento dell’immagine internazionale” dell’Italia e i “sorrisi” della Merkel e di Sarkozy, che ha definito tentativo di “assassinio della mia credibilità internazionale”.

La Germania ha esercitato sull’Europa un’egemonia egoistica e non solidale, contribuendo allo scoppio della crisi. Ad esempio durante l’estate del 2011 alle banche tedesche è stato “imposto di vendere i titoli italiani” e ha dovuto farlo anche una banca italiana con sede in Germania. Poi giustamente, anche per questo motivo, i fondi internazionali e americani si sono preoccupati per il debito pubblico e sappiamo ciò che è seguito. Gli investitori internazionali hanno percepito la possibilità di fallimento degli Stati e sono stati spinti a chiedere interessi più alti per compensare il rischio: il 14% alla Grecia, il 9% al Portogallo, il 7% alla Spagna e il 6% all’Italia. Mentre prima la Germania pagava interessi del 3% e l’Italia del 4% (spread uno) poi - dal momento che l’Europa non si dimostrava disposta a sostenere i Paesi in difficoltà - si è passati all’1% per la Germania e al 6% per l’Italia (spread 5). E questo spread, cui il governo non aveva dato adito, ha tuttavia pesato nella richiesta delle sue dimissioni.

Berlusconi ha passato il testimone a Monti perché sperava che questo governo, fruendo dell’appoggio di maggioranza e opposizione, potesse fare quello che non poteva fare lui con la sua piccola e incerta maggioranza. La missione era soprattutto quella di cambiare la Costituzione ma il nuovo esecutivo non l’ha fatto. Ha aumentato le tasse, anche sulla casa, ha stabilito il divieto dell’acquisto in contanti oltre mille euro, e per il resto ha adottato al 100% le indicazioni della Germania arrivando ad una spirale recessiva senza fine.

Ma la cosa più grave sono i difetti strutturali del Paese. Il Presidente del Consiglio (PdC) non solo non può cambiare un ministro, non può nemmeno ingiungergli di star zitto, di non andare in televisione, di non prendere certe iniziative. Soprattutto non ha il potere di proporre un decreto legge. La stessa “necessità e urgenza” è giudicata dal PdR, dando luogo a un continuo braccio di ferro. Per fare una legge ci vogliono da 450 a 600 giorni e il PdR può respingerla se i suoi esperti, con la lente d’ingrandimento, trovano qualche “profilo di incostituzionalità” non solo materiale, ma anche con riguardo allo “spirito” della Costituzione. Poi ci sono i regolamenti attuativi. Infine, votata la legge, l’opposizione chiede a qualche giudice di Magistratura Democratica di impugnarla dinanzi alla CC e questa in mezza giornata azzera un lavoro del Parlamento che è magari durato 600 giorni. Ciò perché la CC è formata da undici giudici di centro-sinistra e quattro giudici di centro-destra, in conseguenza del fatto che i PdR di sinistra hanno “messo lì degli amici di sinistra”. Essa “non è un’istituzione di garanzia al di sopra delle parti ma è un organismo politico di sinistra”.

Così il Paese non è governabile e i cambiamenti sono necessari. I PdC devono poter revocare i ministri; devono poter governare con decreti legge e le leggi devono essere votate da una sola Camera, con metà dei parlamentari. Entro 90-120 giorni. Bisogna cambiare anche le regole per la formazione della CC: è inammissibile che si cassino leggi magari con un solo voto di maggioranza. Bisogna pure dipendere meno dai piccoli partiti, che non agiscono per il bene generale ma per l’interesse proprio e soprattutto del loro piccolo leader. Berlusconi racconta che tra il 2001 e il 2006, trattando con loro, ha provato ad arrivare ad una riforma della giustizia, ma dopo un anno di tentativi ci ha dovuto rinunciare.

Poi riparla ancora della recessione, illustrando il circolo diabolico: gli italiani, impoveriti, consumano meno; le imprese producono meno; dunque licenziano; dunque aumenta la disoccupazione; e questa impoverisce i cittadini. Tutto ciò si chiama recessione. Per non parlare di come l’erario, col sistema del redditometro, può attuare autentiche “estorsioni fiscali”. Infatti, assurdamente, in questo campo si è invertito l’ordine della prova. Non è il fisco che deve provare i maggiori redditi, è il cittadino che deve dimostrare di non averli. Prova negativa, dunque diabolica. Si deve “porre un alt” a tutto ciò. E si può fare soltanto, dice senza giri di parole, “cambiando la politica imposta all’Italia dalla signora Merkel” (sic). “Questo noi dovremo fare”.

E infatti passa ad illustrare una sorta di programma elettorale. La riduzione del debito pubblico è necessaria ma si può ottenere solo aumentando il pil e diminuendo il deficit. Stop all’aumento della pressione fiscale, anzi percorso di riduzione. Fine degli sprechi. Fine delle imposte sulla casa. Fine della storia dei mille euro. Possibilità di usare il telefono in pace, infatti è “barbaro e incivile” che si vedano rese pubbliche cose dette in privato. Divieto di appello dei pm (che la CC ha abrogato in nome dell’uguaglianza tra pm e difesa, quasi che la prima assoluzione non fosse la prova provata dell’esistenza di un dubbio sulla colpevolezza!). Impedire ai pm di tenere troppo facilmente in carcere i cittadini in assenza di condanna, cosa che possono fare, con vari strumenti, fino a undici anni. In sintesi, la dittatura dei magistrati, la magistratocrazia, deve finire.

Solo negli ultimi minuti Berlusconi parla appassionatamente della persecuzione giudiziaria di cui è stato fatto oggetto: che sarà pure scandalosa, ma è politicamente meno importante. L’iniziativa induce infatti soprattutto a riflessioni politiche.

Se Berlusconi fosse il “padrone” del suo partito - come si finge di credere a sinistra - ci dovremmo aspettare tuoni e fulmini: basti vedere in che termini ha parlato della Germania e della signora Merkel. Invece per il futuro si possono fare tre ipotesi. O il partito, poco convinto dell’intemerata, fa finta di nulla come se Berlusconi avesse solo voluto sfogarsi con i giornalisti: e tutto continuerà come prima. Oppure il partito comprende che il programma delineato può essere veramente allettante per un Paese stanchissimo del governo Monti e delle sue tasse, e lo adotta. Anche perché non è lontanissimo da quella linea di protesta dei grillini che sembra essere largamente gradita. Se così fosse, sapremmo quale sarà il tema della campagna elettorale: da un lato i “montiani”, con o senza Monti, dall’altro il Pdl e Berlusconi. La terza ipotesi: nel caso il Pdl fosse molto coeso su questa posizione e la sostenesse convintamente, ci sarebbe la possibilità che intorno ad essa si agglutinasse una coalizione sedotta da questo cambiamento di rotta.

Purtroppo, al di là e al di sopra di tutto ciò, rimane un’obiezione che è un’inevitabile pietra d’inciampo. Nessuno nega tutte le critiche esternate da Berlusconi; nessuno nega che un grande cambiamento sia necessario; ma se esso è possibile (si fa per dire) nel campo della giustizia, come attuarlo nel campo dell’economia? Chi dichiara fallimento (in quale altro modo uscire dall’euro?) va infatti incontro a tali e tanti problemi, che forse val la pena di tenersi l’euro e perfino Mario Monti. Ecco perché, prima di sottoscrivere il programma di Berlusconi, esemplare per la diagnosi, aspettiamo di sapere qual è la terapia proposta. Se essa fosse valida, allora veramente la svolta sarebbe epocale. (il Legno Storto)

venerdì 26 ottobre 2012

Lo spariglio di Silvio

Si illude chi spera di incontrare Berlusconi che spinge i nipotini sull'altalena dei giardini pubblici.
Non si ritira, non ha gettato la spugna, anzi: ha sparigliato.

Si toglie il peso delle primarie dove avrebbe vinto ma non stravinto, aggira gli immancabili attacchi di chi vive di antiberlusconismo, lascia che chi corre per le primarie, da una parte e dall'altra, si faccia del male, si presenterà alle politiche del 2013 e, con un bel pacco di preferenze, potrà dire la sua.

Ma, attenzione, la corsa al premierato non porterà ad una vittoria netta perché difficilmente il Pd riuscirà a prevalere quel tanto che basta. A questo punto, dato che la scelta del Presidente del Consiglio spetta al Capo dello Stato, non è da escludersi che l'incarico venga ridato a Monti che potrebbe guidare un governo sostenuto dal Pdl, Udc, Centro ed eventuale Lega.
A Berlusconi, sono certo che farebbe faville per averlo, potrebbe essere affidato il Ministero degli Affari esteri.

Fantapolitica? Staremo a vedere.
Intanto il Cav se la ride, si riposa e si è gia messo in riva a quel famoso fiume dove si aspetta...

giovedì 25 ottobre 2012

Lettera di Silvio Berlusconi


Caro Mauro,

per amore dell’Italia si possono fare pazzie e cose sagge. Diciotto anni fa sono entrato in campo, una follia non priva di saggezza: ora preferisco fare un passo indietro per le stesse ragioni d’amore che mi spinsero a muovermi allora. Non ripresenterò la mia candidatura a Premier ma rimango a fianco dei più giovani che debbono giocare e fare gol. Ho ancora buoni muscoli e un pò di testa, ma quel che mi spetta è dare consigli, offrire memoria, raccontare e giudicare senza intrusività

Con elezioni primarie aperte nel Popolo della Libertà sapremo entro dicembre chi sarà il mio successore, dopo una competizione serena e libera tra personalità diverse e idee diverse cementate da valori comuni. Il movimento fisserà la data in tempi ravvicinati (io suggerisco quella del 16 dicembre), saranno gli italiani che credono nell’individuo e nei suoi diritti naturali, nella libertà politica e civile di fronte allo Stato, ad aprire democraticamente una pagina nuova di una storia nuova, quella che abbiamo fatto insieme, uomini e donne, dal gennaio del 1994 ad oggi.


Lo faranno con un’investitura dal basso nella quale ciascuno potrà riconoscere non solo i suoi sogni, come in passato, e le sue emozioni, ma anche e soprattutto le proprie scelte razionali, la rappresentanza di idee e interessi politici e sociali decisivi per riformare e cambiare un paese in crisi, ma straordinario per intelligenza e sensibilità alla storia, che ce la può fare, che può tornare a vincere la sua battaglia europea e occidentale contro le ambizioni smodate degli altri e contro i propri vizi. Siamo stati chiamati spregiativamente populisti e antipolitici della prima ora.

Siamo stati in effetti sostenitori di un’idea di alternanza alla guida dello Stato sostenuta dal voto popolare conquistato con la persuasione che crea consenso. Abbiamo costruito un’Italia in cui non si regna per virtù lobbistica e mediatica o per aver vinto un concorso in magistratura o nella pubblica amministrazione. Questa riforma ’populista’ è la più importante nella storia dei centocinquant’anni dell’unità del Paese, ci ha fatto uscire da uno stato di sudditanza alla politica dei partiti e delle nomenclature immutabili e ha creato le premesse per una nuova fiducia nella Repubblica.

Sono personalmente fiero e cosciente dei limiti della mia opera e dell’opera collettiva che abbiamo intrapreso, per avere realizzato la riforma delle riforme rendendo viva, palpitante ed emozionante la partecipazione alla vita pubblica dei cittadini. Questo non poteva che avere un prezzo, la deriva verso ideologismi e sentimenti di avversione personale, verso denigrazioni e delegittimazioni faziose che non hanno fatto il bene dell’Italia. Ma da questa sindrome infine rivelatasi paralizzante siamo infine usciti con la scelta responsabile, fatta giusto un anno fa con molta sofferenza ma con altrettanta consapevolezza, di affidare la guida provvisoria del paese, in attesa delle elezioni politiche, al senatore e tecnico Mario Monti, espressione di un Paese che non ha mai voluto partecipare alla caccia alle streghe.

Il presidente del Consiglio e i suoi collaboratori hanno fatto quel che hanno potuto, cioè molto, nella situazione istituzionale, parlamentare e politica interna, e nelle condizioni europee e mondiali in cui la nostra economia e la nostra società hanno dovuto affrontare la grande crisi finanziaria da debito. Sono stati commessi errori, alcuni riparabili a partire dalle correzioni alla legge di stabilità e ad alcune misure fiscali sbagliate, ma la direzione riformatrice e liberale e’ stata sostanzialmente chiara. E con il procedere dei fatti l’Italia si e’ messa all’opera per arginare con senso di responsabilità e coraggio le velleità neocoloniali che alcuni circoli europei coltivano a proposito di una ristrutturazione dei poteri nazionali nell’Unione Europea. Il nostro futuro è in una Unione più solida e interdipendente, in un libero mercato e in un libero commercio illuminato da regole comuni che vanno al di là dei confini nazionali, in una riaffermazione di sovranità che è tutt’uno con la sua ordinata condivisione secondo regole di parità e di equità fra nazioni e popoli. Tutto questo non può essere disperso.


La continuità con lo sforzo riformatore cominciato diciotto anni fa è in pericolo serio. Una coalizione di sinistra che vuole tornare indietro alle logiche di centralizzazione pianificatrice che hanno prodotto la montagna del debito pubblico e l’esplosione del paese corporativo e pigro che conosciamo, chiede di governare con uno stuolo di professionisti di partito educati e formati nelle vecchie ideologie egualitarie, solidariste e collettiviste del Novecento. Sta al Popolo della Libertà, al segretario Angelino Alfano, e a una generazione giovane che riproduca il miracolo del 1994, dare una seria e impegnativa battaglia per fermare questa deriva.