lunedì 31 dicembre 2007

Europa 2008: l'energia tra scelte incerte o sbagliate. Carlo Stagnaro

Il 2007 dell’energia sarà probabilmente ricordato come l’anno in cui il petrolio lambì quota 100 dollari – un traguardo mai raggiunto (sebbene, in termini reali, resti al di sotto del picco dei primi anni ’80). Servirà a poco ricordare che il principale driver del caro-greggio è del tutto esogeno, ed è la debolezza del dollaro, che secondo alcuni spiega almeno 20-25 dollari del prezzo del barile. In ogni caso, questo scenario trascina verso l’alto il valore di tutte le materie prime energetiche e, di conseguenza, di prodotti quali i carburanti, il gas e l’elettricità. Ciononostante, il mondo pare reggere piuttosto bene la “crisi” e quindi, a ben vedere, non è su di essa che dovrebbe concentrarsi l’attenzione di chi voglia trarre un primo bilancio.

Neppure dal punto di vista delle negoziazioni ambientali si sono osservati mutamenti imprevisti. Bali, che per gli entusiasti avrebbe dovuto partorire la cornice per il post-Kyoto (ormai nessuno lo chiama più Kyoto 2, come andava di moda dire fino all’anno scorso), non ha prodotto nulla se non le consuete divisioni. E la causa prima del fallimento annunciato è la testardaggine europea nel proporre una strategia – quella degli obiettivi vincolanti di breve termine – che nessuno condivide.

Questo conduce a quella che è la vera notizia energetica del 2007, almeno per chi sia condannato a subirne gli effetti, ossia la determinazione del Consiglio europeo di primavera a fissare i cosiddetti obiettivi del 20-20-20 (20 per cento meno emissioni rispetto al 1990, 20 per cento meno consumi rispetto al tendenziale, 20 per cento rinnovabili sul consumo totale, tutto entro il 2020). Gli obiettivi sono stati adottati, per quel che è dato conoscere, senza alcuno studio preliminare sulla fattibilità o sui costi. Si tratta di uno slogan, ma uno slogan vincolante è uno slogan pericoloso. A destare preoccupazioni non sono solo la portata del cambiamento in un lasso di tempo così breve (12 anni), o l’entità della bolletta che i consumatori europei saranno chiamati a pagare. Più ancora di tutto ciò, due fattori sono pericolosi. Il primo riguarda gli incentivi che la Commissione – da cui ci si attende una direttiva per fine gennaio – manderà agli attori economici. Un approfondito studio di Alberto Clò e Stefano Verde, pubblicato sull’ultimo numero della rivista Energia, spiega che il combinato disposto degli obiettivi previsti nella Nuova Politica Energetica (Nep) “comporta nel 2020 un minor fabbisogno delle altre fonti tradizionali per 430 milioni di Tep (-25,6 per cento)”. In particolare, “il gas metano, che in base alle previsioni tendenziali avrebbe dovuto conoscere la maggior crescita assoluta passando dai 445 milioni di Tep del 2005 a 556 milioni di Tep (+25 per cento), nel caso programmato dovrebbe invece ridursi dell’11 per cento” (questi valori sono calcolati sulla base di un obiettivo di riduzione del 20 per cento dei consumi primari, mentre sembra che la Commissione imporrà il target rispetto al consumo finale, ma l’ordine di grandezza non è destinato a cambiare). Quindi,

l’aspetto centrale e più critico è se e in che misura debbano rivedersi verso il basso i fabbisogni che fino al 7 marzo 2007 erano ritenuti indispensabili e imprescindibili nello sviluppo delle infrastrutture e delle forniture per assicurare piena copertura della domanda in condizioni di competitività e sicurezza. Nell’ipotesi di un pieno raggiungimento degli obiettivi di Berlino, l’attuale dotazione di infrastrutture e di forniture di metano risulterebbe, infatti, assolutamente idonea a fronteggiare il livello dei futuri consumi, mentre il mancato raggiungimento degli obiettivi richiederebbe sin d’ora, come d’altra parte sta avvenendo, l’accelerazione degli investimenti.

Detto in termini più triviali: servono ancora i rigassificatori? Un’ulteriore questione riguarda la cornice istituzionale che dovrà sorreggere un simile mutamento strutturale del settore energetico in Europa. Fino a che punto una politica europea instabile, imprevedibile, e che demanda al pubblico scelte di indirizzo fondamentali (che vanno dal controllo della domanda alla pianificazione dell’offerta) è compatibile con le liberalizzazioni? Non solo tale domanda è finora restata senza risposta da parte delle autorità europee, ma neppure la Commissione pare essersi posta il problema. E questo, più ancora del merito delle decisioni, ci fa temere che il sentiero europeo condurrà dove tipicamente vanno le strade lastricate di buone intenzioni. (Realismo energetico)

Due pesi e due misure. Salvo Giorgio

Grazia o no per Bruno Contrada? Noi diciamo sì. Ma, a prescindere da quello che sarà l'esito di questo ennesimo capitolo della triste vicenda, resta un dato di fatto. Alcuni la grazia l'hanno avuta, se non proprio nella forma almeno nella sostanza. Si tratta di ex-terroristi, molti dei quali erano stati precedentemente condannati per omicidio e non per quello strano ibrido giuridico e concettuale che è il "concorso esterno in associazione mafiosa". Andiamo a vedere cosa è accaduto a costoro, traendo spunto dal resoconto di Gianmarco Chiocci e Stefano Zurlo, pubblicato nel 2004 su Il Giornale.
1.
Roberto Adamoli, esponente delle Brigate Rosse, lavora oggi nella comunità di don Mazzi.
2.
Corrado Alunni, 58 anni, uno dei fondatori delle Brigate Rosse, che poi lascerà per dare vita alle Formazioni Comuniste Combattenti. Arrestato nel 1978, tenta la fuga da San Vittore insieme a Renato Vallanzasca nel 1980. Nel 2003 scrive con altri autori un libro dal titolo La rapina in banca: storia, teoria, pratica. Da anni è uscito dal carcere e lavora in una cooperativa informatica.
3.
Vittorio Antonini, già responsabile della colonna romana delle Brigate Rosse, coinvolto nel sequestro del generale statunitense James Lee Dozier, e successivamente arrestato nel 1985, è in semilibertà dal 2000.
4.
Vittorio Assieri, capo della colonna "Walter Alasia" di Milano, lavora alla Bottega Creativa della Caritas.
5.
Lauro Azzolini, 62 anni, membro dell'esecutivo delle Brigate Rosse nel "processo" contro Aldo Moro durante la prigionia di quest'ultimo, nonchè l'uomo che sparò a Indro Montanelli, con tre ergastoli sul groppone, è libero. Da semilibero aveva iniziato a lavorare in una cooperativa che si occupa di no-profit nel settore disabili, per conto della Compagnia delle Opere.
6.
Barbara Balzerani, uno dei vertici delle prime Brigate Rosse, autrice del libro Compagna Luna, edito da Feltrinelli, ha lavorato con la cooperativa Blow Up di Trastevere, specializzata nell'informatica musicale. Arrestata nel 1985, dopo aver partecipato ai delitti più efferati (il rapimento di Aldo Moro, l'omicidio dello stesso Moro e degli uomini della sua scorta, ed il sequestro del generale James Lee Dozier), accumula ben 4 ergastoli. Ottiene i primi permessi agli inizi degli anni Novanta. Ora è libera, con la condizionale di 5 anni.
7.
Marco Barbone, assassino del giornalista Walter Tobagi, si è pentito ed è tornato libero. Lavora in una tipografia a Milano.
8.
Cecco Bellosi, ex-componente della colonna "Walter Alasia" di Milano, in manette nel 1980, condannato a 12 anni, è libero dal 1989. Presiede un centro di recupero di tossicodipendenti a Nesso e collabora con l'associazione Lila.
9.
Paola Besuschio, che era tra i terroristi di cui le Brigate Rosse volevano la liberazione in cambio del rilascio di Aldo Moro, lavora oggi in una cooperativa statistica.
10.
Maurice Bignami, ex-comandante di Prima Linea, una lunga serie di delitti alle spalle, venne arrestato a Torino nel 1981 mentre cercava di assaltare un'oreficeria con un mitra che fortunatamente non ebbe il tempo di usare, e fu condannato a due ergastoli. In semilibertà dal 1992, ha preso servizio presso la Caritas di Roma, insieme alla moglie Maria Teresa Conti, anche lei ex-militante di Prima Linea.
11.
Vittorio Bolognese, colonnello delle Brigate Rosse, è in semilibertà dal settembre 2000. Ha lavorato come operatore informatico presso la cooperativa romana Parsec, dove ha trovato Remo Pancelli, Raffaele Piccinino e altri ex-irriducibili.
12.
Franco Bonisoli, brigatista del commando di via Fani, ergastolano, è libero dopo 13 anni di carcere. Dopo aver lavorato come grafico in una cooperativa di Sesto San Giovanni, lavora adesso in una società di servizi ambientali.
13.
Anna Laura Braghetti, ex-compagna di Prospero Gallinari, è coinvolta nell'omicidio del giudice Vittorio Bachelet ed è stata la carceriera di Aldo Moro in via Montalcini, nota come "signora Altobelli": è stata condannata al carcere a vita. Dopo aver scritto alcuni libri, dal 1994 lavora tutti i giorni all'organizzazione di volontariato Ora d'Aria, vicina agli ex-Ds, che si interessa dei problemi dei detenuti. Nel 2002 ha ottenuto la condizionale.
14.
Roberto Carcano, esponente delle Formazioni Comuniste Combattenti, lavora presso la Comunità Nuova di don Gino Riboldi.
15.
Paolo Cassetta, esponente tra i più duri del partito armato, una raffica di condanne alle spalle, è semilibero da un bel pezzo. Lavora stabilmente alla cooperativa 32 dicembre, collegata al Centro Polivalente circoscrizionale intorno a cui gravitano vecchie conoscenze degli anni di piombo, come Bruno Seghetti e Cecilia Massara.
16.
Geraldina Colotti, militante dell'Unione Comunisti Combattenti, ex-insegnante di filosofia, ferita in un conflitto a fuoco nel gennaio del 1987, è in semilibertà dal 1999. Ha lavorato alla cooperativa romana 32 dicembre e oggi è impiegata al quotidiano Il Manifesto.
17.
Maria Teresa Conti, ex-militante di Prima Linea, ha fatto parte delle "squadre armate proletarie". Fra le sue gesta, il sequestro e il ferimento dell'ostetrica Domenica Nigra, gambizzata sulla base di accuse inventate. Come il marito ex-terrorista Maurice Bignami, lavora presso la Caritas di Roma.
18.
Anna Cotone, ex-brigatista del feroce Partito Guerriglia, coinvolta nel sequestro dell'ex -assessore regionale campano della DC Ciro Cirillo, arrestata nel 1982, è in semilibertà da anni e dal 2002 lavora nella segreteria politica dell'europarlamentare di Rifondazione Comunista Luisa Morgantini.
19.
Renato Curcio, fondatore e ideologo delle Brigate Rosse, gira l'Italia facendo conferenze in scuole, università e Consigli Comunali e presenta i suoi libri ai festival dei partiti. In TV, sulla berlusconiana Canale 5, è arrivato a dire che le vere vittime degli anni '70 sono i suoi compagni di lotta morti sul campo. Da dieci anni è a capo della cooperativa editoriale Sensibili alle foglie, che si occupa di studi sulla lotta armata e dei problemi relativi al carcere e alla droga, tema , quest'ultimo, cavalcato da don Gallo, il parroco antagonista di Genova, che ha presentato il libro edito da Curcio insieme a Dario Fo. Condannato a 30 anni, ne ha scontati 24 ed è semilibero dal 1993.
20.
Roberto Del Bello, ex-brigatista della colonna veneta, condannato a 4 anni e 7 mesi per banda armata, oggi lavora al Viminale come segretario particolare di Francesco Bonato (Rifondazione Comunista), sottosegretario agli Interni.
21.
Sergio D'Elia, dirigente di Prima Linea, sconta 12 anni di carcere. Liberato e ottenuta la riabilitazione, entra nel Partito Radicale. Nel 2006 viene eletto alla Camera nella lista della Rosa nel Pugno e, fra polemiche e proteste, diventa segretario d'aula di Montecitorio.
22.
Alessandra De Luca, brigatista coinvolta nel "processo" celebrato dalle BR contro Aldo Moro durante la sua prigionia, è in semilibertà da tempo. È stata candidata da Rifondazione Comunista alle regionali del Lazio, ma non ce l'ha fatta.
23.
Adriana Faranda, già membro di Potere Operaio, fondatrice nel 1973 del LAP (Lotta Armata Potere Proletario) insieme a Valerio Morucci, Bruno Seghetti e Germano Maccari, membro della direzione strategica delle Brigate Rosse ed ex-postina (insieme a Valerio Morucci) del commando brigatista che teneva Aldo Moro segregato in via Montalcini, è l'unica, insieme a Morucci, ad opporsi alla condanna a morte di Moro, cosa che la porterà fuori dalle BR per confluire nei gruppi facenti capo alle riviste Metropoli e Pre-print e cominciare così a collaborare con Franco Piperno, Oreste Scalzone e Lanfranco Pace. Arrestata il 29 maggio 1979 insieme a Morucci nella casa romana di Giuliana Conforto (figlia di quel Giorgio Conforto che il dossier Mitrokhin rivelerà come uno dei più importanti agenti del KGB in Europa, capo rete dei servizi strategici del Patto di Varsavia), la Faranda aderisce presto alla "dissociazione". Nel 1984, in un'intervista al Corriere della Sera, dichiara, insieme a Morucci, che "la lotta armata è fallita". Viene rilasciata nel 1990 e affidata all'Opera di don Calabria, dove lavora al computer. Scrive libri e si occupa di fotografia. Finisce anche al Costanzo Show.
24.
Enzo Fontana, militante del GAP dell'editore Giangiacomo Feltrinelli, oggi scrittore di successo e studioso di Dante Alighieri, ha lavorato alla Bottega Creativa della Caritas.
25.
Diego Fornasieri, guerrigliero di Prima Linea, incassa una condanna a 30 anni nel 1983, dopo 3 anni di latitanza. Ora è libero e, insieme ad altri ex-detenuti, è attivo nel settore no-profit attraverso la cooperativa sociale di prodotti biologici Arete.
26.
Alberto Franceschini, fondatore con Renato Curcio delle Brigate Rosse, si dissocia nel 1983. Condannato a più di 50 anni di galera, esce dal penitenziario dopo soli 17 anni di reclusione. Oggi lavora a Roma con Anna Laura Braghetti presso la già citata organizzazione di volontariato Ora d'Aria, vicina agli ex-Ds, che si interessa dei problemi dei detenuti. Scrive libri e partecipa a conferenze.
27.
Prospero Gallinari, membro del commando che sparò alla scorta di Aldo Moro in via Fani, responsabile della "prigione del popolo" e, in quanto tale, tra i carcerieri dello stesso Moro, ed infine autore, insieme a Bruno Seghetti, del tentativo di omicidio di Gino Giugni, è libero da tanti anni per problemi di cuore.
28.
Claudia Gioia, ex-primula rossa dell'Unione Comunisti Combattenti, subisce una condanna a 28 anni di prigione per l'omicido del generale Licio Giorgieri e per il ferimento dell'economista Antonio Da Empoli, capo del dipartimento economico della Presidenza del Consiglio dei Ministri. È in libertà condizionale dal gennaio 2005. Nel 1991 viene intercettata mentre, in cella, parla col brigatista Fabrizio Melorio di un tentativo di ricostituzione dell'Unione Comunisti Combattenti.
29.
Eugenio Pio Ghignoni, brigatista coinvolto nel delitto Moro ed in seguito condannato, è il responsabile della Direzione Affari Generali dell'Università Roma Tre.
30.
Maurizio Jannelli, già capocolonna romano delle Brigate Rosse, già condannato all'ergastolo per vari crimini (tra cui la strage di via Fani), ha lavorato alla RAI come autore a partire dal 1999. Per il Tg3 ha seguito "Il mestiere di vivere", "Diario Italiano" e "Residence Bastogi", e fa parte dello staff della trasmissione sportiva "Sfide". Ha scritto Princesa, un libro su un transessuale suicida. Dal 2003 è in libertà condizionale.
31.
Paolo Klun, esponente di Prima Linea, ha fondato a Bologna il giornale di strada Piazza Grande, che dà voce agli emarginati e a coloro che sono senza fissa dimora.
32.
Natalia Ligas, nome di battaglia "Angela", la dura delle Brigate Rosse-Partito Guerriglia che partecipò al massacro di piazza Nicosia a Roma, ergastolana, ha cominciato a ricevere permessi premio a partire dal 1998 e dal 2000 è semi-libera, nonostante non si sia mai dissociata dalla lotta armata.
33.
Maurizio Locusta partecipa all'omicidio del generale Licio Giorgieri e viene condannato a 24 anni di pena. Dopo essere stato estradato dalla Francia nel marzo 1988, sconta solo qualche anno, quindi esce e viene assunto alla Fondazione Lelio Basso-Issoco come "assistente di sala consultazione".
34.
Francesco Maietta, ex-militante dell'Unione Comunisti Combattenti, dopo aver subìto condanne pesantissime, lavora part-time in un importante ente dal 1990. Si è sposato nel 1998 a Ostia con una ragazza della Caritas.
35.
Nadia Mantovani, dissociata, condannata a 20 anni per appartenenza alle Brigate Rosse, ottiene la condizionale nel gennaio 1993 dopo aver scontato due terzi della pena. Ex-fidanzata di Renato Curcio, è tra le fondatrici dell'associazione per il reinserimento dei detenuti Verso Casa. Il 23 agosto 2004 la sua performance sugli anni di piombo al meeting di Rimini ha riscosso molto successo tra il pubblico di Comunione e Liberazione.
36.
Corrado Marcetti, ex-militante di Prima Linea, oggi è direttore della Fondazione Michelucci a Fiesole.
37.
Cecilia Massara, ex-appartenente alle Brigate Rosse, nel 1994 ottiene la sospensione temporanea della pena per via del suo stato di gravidanza. Lavora stabilmente alla cooperativa 32 dicembre, collegata al Centro Polivalente circoscrizionale.
38.
Giuseppe Memeo, esponente di Autonomia Operaia, condannato per l’omicidio del vicebrigadiere della Celere Antonio Custrà, oggi lavora a Poiesis, un centro per la cura dell’AIDS.
39.
Mario Moretti, il numero uno delle Brigate Rosse, leader della direzione strategica e uno dei partecipanti al sequestro Moro, viene condannato a 6 ergastoli. Dopo 17 anni di carcere, nel 1994 ottiene il permesso di andare alla Scala. Una volta fuori, si occupa di volontariato. Esperto di informatica, partecipa alla fondazione della cooperativa Spes, composta da ex-irriducibili dissociati. La cooperativa ottiene vari contributi, anche dalla Regione Lombardia, e insieme all'associazione Geometrie variabili cerca "forme di lavoro non alienanti per i detenuti". Moretti è anche autore di libri.
40.
Valerio Morucci, l'ex-postino delle Brigate Rosse (insieme ad Adriana Faranda) durante i 55 giorni della prigionia di Aldo Moro, scontati 17 anni di prigione, si dissocia e viene messo in libertà. Autore di libri di successo, alcuni anche vincitori di premi letterari, lavora come consulente informatico.
41.
Roberto Ognibene, ex-brigatista in seguito dissociato, gode dei benefici della legge sui dissociati e lavora come impiegato al Comune di Bologna.
42.
Remo Pancelli, killer dell'ala militarista delle BR denominata "Colonna 28 marzo", l'ex- dipendente delle Poste del sequestro D'Urso, viene bloccato dai Carabinieri il 7 giugno del 1982. Dopo aver riportato diverse condanne, viene inserito in una cooperativa sociale che ha ospitato altri ex-terroristi rossi.
43.
Ave Maria Petricola, nome ricorrente durante il processo Moro, ex-brigatista pentita, viene assunta dalla Provincia di Roma come responsabile del centro di Torre Angela, VII Municipio della Capitale, che si occupa di cercare un lavoro per i disoccupati. Amnistiata nel 1987, nel 2004 la ritroviamo nella lista degli assistenti sociali regionali.
44.
Raffaele Piccinino, ex-irriducibile dei NAP (Nuclei Armati Proletari), autore dell'attentato al questore Noce dove morì un poliziotto della scorta, condannato all'ergastolo e a 22 anni di carcere, ha lavorato come operatore informatico alla cooperativa romana Parsec.
45.
Francesco Piccioni, ex-brigatista, è impiegato al quotidiano Il Manifesto.
46.
Marco Pinna, soldato della colonna sarda delle Brigate Rosse, è vicepresidente della cooperativa ambientale Ecotopia.
47.
Susanna Ronconi, storica figura del troncone toscano di Prima Linea, lavora al Gruppo Abele di Torino, dove ha la responsabilità delle cosiddette "Unità di strada". Nel 1987 guadagna il primo permesso-premio per la sua dissociazione. È stata consulente di Asl e Comuni del nord Italia, collabora alla pubblicazione del «Rapporto sui diritti globali» a cura dell'associazione Informazione & Società per la CGIL Nazionale.
48.
Bruno Seghetti, fondatore nel 1973 del LAP (Lotta Armata Potere Proletario) insieme a Valerio Morucci, Adriana Faranda e Germano Maccari, entra nelle Brigate Rosse col nome di battaglia di "Claudio", fa parte del gruppo di fuoco che il 16 marzo 1978 sequestra Aldo Moro, partecipa attivamente a gran parte delle azioni della colonna romana quindi, passato alla colonna napoletana, partecipa all’attentato in cui, il 19 maggio 1980, rimane ucciso l’assessore al Bilancio della Regione Campania, il democristiano Pino Amato. Arrestato sùbito dopo quest'attentato, viene condannato all’ergastolo e viene ammesso al lavoro esterno nell’aprile del 1995, dopo solo quindici anni di detenzione. Nel 1999, in seguito ad alcune infrazioni, questo beneficio gli viene revocato e Seghetti rientra in carcere. Oggi lavora stabilmente alla cooperativa 32 dicembre.
49.
Sergio Segio, comandante militare di Prima Linea e ideologo della dissociazione, oggi lavora nel Gruppo Abele di don Luigi Ciotti.
50.
Giorgio Semeria, membro del nucleo storico delle Brigate Rosse, è stato a lungo volontario presso il carcere di San Vittore a Milano.
51.
Giovanni Senzani, il "criminologo" delle Brigate Rosse-Partito Guerriglia, irriducibile fino all'ultimo, già sospettato di essere il "Grande Vecchio" del sequestro Moro, ergastolano per l'omicidio del fratello del pentito Patrizio Peci, esce in semilibertà nel 1999 e un anno dopo è dietro la scrivania di un centro di documentazione della Regione Toscana denominato "Cultura della legalità democratica" e viene inserito nel progetto Informa carcere. È coordinatore della casa editrice di sinistra Edizioni Battaglia.
52.
Marco Solimeno, ex-militante di Prima Linea, è stato consigliere dei Ds al Comune di Livorno. Da circa dieci anni è assistente volontario al carcere di Livorno come responsabile ARCI.
53.
Nicola Solimano, ex-militante di Prima Linea, condannato a 22 anni, lavora alla Fondazione Michelucci di Fiesole. È stato consulente della Regione Toscana per la nuova legge a tutela dei popoli Rom e Sinti e fra i coordinatori di un campus internazionale nell'àmbito dell'iniziativa regionale Porto Franco, per conto dell'Assessorato alla Cultura della Regione Toscana.
54.
Ettorina Zaccheo, esponente delle Formazioni Comuniste Combattenti, lavora presso la Comunità Nuova di don Gino Riboldi.

Un lungo elenco. Nulla da dire sul recupero dei detenuti, principio cui si ispira la nostra legislazione penale e che, personalmente, mi trova d'accordo. Il problema è che, se è stato possibile concedere semilibertà ed altri benefìci a gente che si era macchiata di omicidio, a maggior ragione sarebbe possibile un atto di umanità nei confronti di chi non si è macchiato di omicidio. Anzi, aggiungerei io, non si è macchiato proprio di nulla. http://casocontrada.blogspot.com/

domenica 30 dicembre 2007

Dini: ecco le mie sette richieste al governo. il Corriere della Sera

Caro direttore,
con il nostro voto favorevole, il Parlamento ha approvato la Finanziaria per il 2008 e il protocollo in materia di welfare e pensioni. Al momento del voto abbiamo annunciato in Aula che per noi si concludeva una fase politica. E che il futuro non sarebbe stato la semplice prosecuzione del passato.

Purtroppo la nostra economia continua a manifestare, sia in fase di espansione sia di rallentamento, i tassi di crescita minimi nel mondo sviluppato. Neanche al culmine di una fase economica espansiva il nostro bilancio pubblico raggiunge il pareggio; e si continua ad alimentare quel debito che costituisce la fornace nella quale l'Italia brucia le proprie speranze in un futuro migliore. Il presidente del Consiglio manifesta un ottimismo basato su una valutazione dell'attuale stato dell'economia e della qualità del nostro vivere civile del tutto distorta. Capita a chi è incaricato di alte funzioni politiche di perdere la precisa cognizione della realtà. In questi casi richiamarlo a un fattivo realismo è un preciso dovere civico.

Noi non ci sottraiamo a tale dovere. E partecipiamo alla nuova fase proponendo le cose da fare nei prossimi mesi per frenare il declino dell'Italia e riavviarla sulla strada dello sviluppo.

1. Una decisa azione per la riduzione della spesa pubblica. A partire dall'uscita anticipata di almeno il 5% dei lavoratori pubblici. Il forte aumento registrato dagli investimenti nella information tecnology è in grado di generare un incremento della produttività di questa dimensione. Occorre poi prevedere una parziale sostituzione di quanti usciranno dal lavoro per limiti di età negli anni successivi. Ed aumenti delle retribuzioni legati solo al merito di ciascuno.

2. Il ridimensionamento delle persone che vivono di politica. A partire dall'abolizione delle Province; le Regioni che volessero mantenerle in vita dovranno finanziarle con le proprie tasse. È vero che serve una revisione costituzionale, ma per adottarla bastano sei mesi.

3. Una riduzione del carico fiscale per i contribuenti, secondo un percorso graduale ma annunciato in partenza. Utilizzando l'intero risultato della lotta all'evasione fiscale, e non disperdendolo per mille rivoli come si è fatto nella prima parte di legislatura. Ed utilizzando quella parte della riduzione di spesa non destinata ad anticipare l'obiettivo di pareggio del bilancio. Il tutto senza innalzare il grado di progressività del nostro sistema tributario, già oggi a livelli che ostacolano la crescita.

4. La rinuncia alle centinaia di programmi inconcludenti nei quali vengono disperse le risorse europee dei fondi strutturali, che lasciano il Meridione nella penosa situazione in cui si trova. Drastica revisione dei programmi per il periodo 2007-2013, concentrando le risorse su strade, ferrovie, porti e aeroporti. Con un unico obiettivo operativo: portare il Sud nel 2013 a una qualità dei trasporti pari alla media europea.

5. La realizzazione del sistema nazionale di valutazione dei risultati scolastici, per legare ogni incremento reale delle retribuzioni degli insegnanti a livello e dinamica della preparazione scolastica degli allievi. Altrimenti i ritardi nella formazione scolastica dei nostri giovani, sempre più evidenti nel confronto internazionale, pregiudicheranno la capacità di sviluppo dell'Italia per il prossimo mezzo secolo.

6. La riduzione da 45 a 15 giorni della sospensione feriale dei termini processuali. I ritardi della giustizia sono un elemento non trascurabile del degrado economico e civile della nostra società. Molto può e deve essere fatto. Ma di per sé la sola riduzione del periodo feriale, e il prevedere che i giudici facciano come tutti gli altri lavoratori le loro vacanze a turno, può aumentare di quasi il 10% la produttività del servizio giustizia.

7. Il ridimensionamento del ruolo della politica nella gestione della sanità pubblica. La politica fornisca regole e risorse; scelga ministro, sottosegretari e assessori. Ma non direttori generali e primari. Si è voluto chiamare le unità sanitarie «aziende». Ma quale azienda potrebbe mai funzionare se i capi stabilimento venissero scelti a seconda che siano più vicini a questo o quel partito? Quanto enunciato è un programma minimo che consideriamo imprescindibile e che contiene proposte realizzabili in non più di sei mesi. Tanto altro sarebbe necessario; lo abbiamo indicato nel manifesto politico con il quale abbiano lanciato la nostra iniziativa liberaldemocratica.

Ma se non si comincia non si arriva mai alla fine. E se non si inizia subito non si riuscirà a sollevare gli italiani da quella sfiducia nelle istituzioni e nel futuro che ne frena lo slancio. Siamo pronti a sostenere un governo che si impegni a realizzare questo programma minimo. Se sarà espressione dell'attuale maggioranza, bene. Ma chiediamo una risposta chiara, senza ambiguità, al più tardi al momento della verifica prevista per metà gennaio. Non rinnoveremmo la nostra fiducia a un governo che non volesse impegnarsi a realizzare questo programma per il rilancio del Paese. In tal caso, non ci rassegneremo al fatto che la legislatura debba andar persa. Ci adopereremo dunque, con le nostre modeste forze, affinché un governo che realizzi queste proposte nasca in questo Parlamento. Senza dimenticare che nel frattempo occorrerà comunque cambiare la legge elettorale, per via parlamentare ovvero per via referendaria.

Lamberto Dini
Natale D'Amico

venerdì 28 dicembre 2007

Contrada trasferito in ospedale. Ora i giudici temono per la sua vita. Dimitri Buffa

Da stasera Bruno Contrada è stato trasferito al padiglione “Palermo” dell’ospedale Cardarelli di Napoli. Si tratta di un reparto di massima sicurezza dell’ospedale napoletano riservato ai detenuti in pericolo di vita . L’ordine è venuto dalla stessa magistrata di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere che gli aveva negato gli arresti domiciliari lo scorso 12 dicembre, Daniela Della Pietra. Che, secondo i familiari di Contrada avvertiti a cose fatte, “deve avere agito così per pararsi le spalle nel caso che dovesse succedere qualcosa a Bruno da qui al 10 gennaio”. Data in cui si terrà l’udienza nel merito del differimento della pena presso il tribunale di sorveglianza di Napoli davanti alla giudice Angelica Di Giovanni. La stessa che voleva mandare in galera Lino Jannuzzi per il reato di diffamazione a mezzo stampa un po’ di tempo fa.

Contrada ieri è passato all’attacco mediatico contro tutte le infamie che gli sono state scaricate addosso in questi giorni: in un comunicato ha detto di volere continuare la battaglia per la propria innocenza e di non avere mai chiesto direttamente la grazia.

“All'inizio del sedicesimo anno del mio calvario – scrive Contrada - intendo continuare ad urlare la totale estraneità alle infamanti accuse rivoltemi. Lo farò fino a quando avrò un filo di voce che mi permetterà di rivolgermi a qualsiasi giudice disposto ad ascoltarmi. Per questo motivo non ho chiesto alcuna grazia, poiché questa riguarda i colpevoli.”

“Voglio quindi rasserenare gli animi dei parenti delle vittime della mafia che hanno manifestato le loro opinioni senza conoscere personalmente l'uomo Bruno Contrada e quello che lui ha compiuto nella lotta contro la mafia – scrive ancora l’ex superpoliziotto - spero così che i toni di questi giorni vengano smorzati e ringrazio coloro che hanno creduto e credono in me”.

Fin qui il comunicato di Contrada che ha preceduto di qualche ora il provvedimento del giudice di Santa Maria Capua Vetere che anche l’avvocato Lipera interpreta come ”una vera e propria marcia indietro”.

Contrada domani sarà presente sui media anche in una commovente lettera anticipata da “Il foglio” di Giuliano Ferrara. In essa si legge tra l’altro che “..tutti sanno quale battaglia da lungo tempo si sta conducendo per l'abolizione della pena di morte nel mondo intero e tutti sanno che gli italiani, in particolar modo i radicali, sono in prima linea in tale strenua lotta, con tenacia perseverante e con elevato senso di umanità e di civiltà giuridica”.

“Ma non tutti sanno che la morte – continua la lettera al “Foglio” intitolata “La pena, il carcere, la morte” - viene irrogata a condannati, spesso colpevoli e talvolta innocenti, non soltanto in unica e istantanea soluzione con una iniezione letale o con una scarica elettrica o con un cappio al collo o con un proiettile alla nuca; essa è anche inflitta, non istantaneamente ma nel tempo, con ceppi inutili e inumani su corpi martoriati dalle infermità e dalla senilità, molto vicini all'ultimo passo. Anch'essa è una condanna a morte, sebbene dilazionata nel tempo”.

Contrada chiude la lettera con una domanda retorica: “Non è forse lecito pensare e dire ciò, alla lettura di qualche provvedimento giudiziario in materia di carcerazione? Mi riferisco alla nostra Italia e non alla Cina, agli Usa o all'Arabia Saudita!”.

Fin qui le novità dell’ultima ora sul caso Contrada.

A margine del caso vanno anche registrati però gli ennesimi colpi bassi della contro campagna di “Repubblica” che sembra invece auspicarsi la morte in carcere dell’ex numero due del Sisde. Nei giorni scorsi il quotidiano ha tentato di sobillare senza successo tutti i parenti delle vittime della mafia contro l’ipotesi di grazia presidenziale. Ma non riuscendo a ottenere altro che l’appoggio di quelli che da anni militano nelle associazioni più politicizzate dell’antimafia militante.

Con le clamorose defezioni del figlio del procuratore Costa, assassinato a Palermo nel 1980, e della vedova del commissario Boris Giuliano, un collega che fu tra i migliori amici di Contrada.

Oggi il quotidiano che fu a piazza Indipendenza (e che ora si ritrova al Torrino) ha superato ogni record di malafede e di disinformazione nel riciclarsi per nuova una notizia che poi è proprio quella con cui “L'Occidentale” iniziò la propria campagna stampa: il testo della motivazione incredibile con cui il giudice di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere ha rifiutato i domiciliari all’ex numero due del Sisde.

Notizia peraltro superata dal provvedimento di poche ore fa con cui la stessa magistrata ha fatto marcia indietro.

Il provvedimento è dello scorso 12 dicembre, molti giorni prima che si parlasse di grazia, ma “Repubblica” nel titolo in prima pagina fa addirittura credere che questa cosa sia da leggere come un primo stop alla domanda del difensore di Contrada.

Appropriarsi degli scoop altrui senza citare la fonte si chiama rubare, presentarli in questa maniera si chiama disinformazione. (l'Occidentale)

Quella fabbrica di pentiti che ha annientato Contrada. Lino Jannuzzi

Il giorno più lungo dei processi a Bruno Contrada, che sono durati 15 anni, fu il 13 luglio 1995. Il più famoso poliziotto di Palermo era stato arrestato tre anni prima, alla vigilia di Natale del '92, e per tre anni era rimasto sepolto vivo in un carcere militare riaperto appositamente per lui e solo per lui. Il processo era finalmente iniziato e Contrada era ricomparso dopo tre anni dinanzi alle telecamere nell’aula del tribunale e sembrava il suo stesso fantasma. Fiaccato crudelmente nel fisico, la bocca cascante, imbiancati i capelli che lasciava cadere ai due lati del viso, infiacchita dalla magrezza la mascella che era stata forte e quadrata, lo sbirro, il rambo, il finto giovanotto così attento a coltivare il physique du role, appariva trasformato in un vecchio, in uno spettro.
Quel giorno il pm si è alzato a sorpresa e ha chiesto al tribunale di introdurre a testimoniare un nuovo «pentito», spuntato improvvisamente non si sa come e non si sa da dove, e dopo che ad accusare Contrada ne erano già sfilati sei o sette. È stato un attimo e Contrada è crollato. Aveva fatto per alzarsi, come per protestare, e subito si è accasciato sulla sedia, pallido e sudato, le labbra nere e serrate, le membra scosse da un tremito nervoso. Il presidente ha gridato: «L’udienza è sospesa». Il pm è rimasto immobile e interdetto. Un carabiniere è accorso a sorreggere Contrada prima che scivolasse sul pavimento e cercava di rianimarlo bocca a bocca. Accorsero gli altri, lo sollevarono di peso, lo stesero sulla barella dell’ambulanza, corsero all’ospedale, lo scaricarono al reparto di rianimazione, lo infilarono in un letto e gli praticarono le cure di emergenza per tentare di rianimarlo. Appena ha riaperto gli occhi, Contrada ha gridato: «Vogliono annientarmi». Ha chiesto che lo lasciassero morire, ha pianto, ha tentato di impadronirsi della pistola del carabiniere di guardia, ha strappato dalle mani dell’infermiere la siringa e ha tentato di infilarsela nella gola...
VELENI DI PALERMO
È stato a questo punto che una donna piccola e minuta che entrava e usciva, agitata e tremante, dalla cameretta della rianimazione, ha urlato. C’erano le telecamere accese e l’urlo si è sentito in diretta nei telegiornali della sera: «Caino, sia maledetto Caino... ». La signora Adriana, insegnante di lettere e latino in pensione e moglie di Bruno Contrada, ha spiegato con chi ce l’aveva: «Caino è un collega di mio marito. È lui che ha voluto che Bruno finisse in galera. È qualcuno che a Roma ha capito che, mentre Bruno lottava qui a Palermo giorno dopo giorno contro la mafia, rischiando la vita, la Sicilia poteva essere usata come trampolino di lancio per fare carriera. Bastava usare la Sicilia e l’antimafia come sgabello e salirci sopra... ma doveva eliminare Bruno Contrada che era più avanti nei ruoli, e questo Caino l’ha fatto perché era in grado di sfornare contro Bruno un “pentito” al giorno e ancora lo fa».
Sono passati 12 anni da quel giorno (15 da quando Contrada è stato arrestato) e sono stati celebrati tanti processi: quello di primo grado, conclusosi con la condanna a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa e quello d’appello, che invece lo ha assolto con formula piena; la Cassazione che ha cassato l’assoluzione e lo ha rinviato a processo e il secondo processo d’appello che lo ha ri-condannato a 10 anni; la Cassazione che questa seconda volta ha approvato, e sono sfilati tanti «pentiti» ma, tra un appello e l’altro, tanti altri se ne sono aggiunti a quello sfornato a sorpresa quel giorno di luglio di 12 anni fa. Sono state riempite migliaia, centinaia di migliaia di pagine di verbali, ma niente più ha spiegato meglio origini e ragioni di questo processo-fatwa a un uomo che ha servito lo Stato per cinquant’anni lottando contro la mafia e rischiando ogni giorno la pelle, come quell’urlo di donna al capezzale del marito che cercava di uccidersi: «Caino, maledetto Caino... ».
PENTITI VERI E PENTITI FALSI
Lo stesso Contrada lo ha ribadito, dieci anni dopo, nell’ultima intervista rilasciata prima dell’ultima sentenza: «È stata la Dia, la direzione antimafia che nasceva in quel tempo come corpo di polizia alle dirette dipendenze delle procure, che non gradiva che io mi fossi impegnato a creare una branca del Sisde, il servizio segreto civile, dedicata specificamente a combattere la mafia. È la Dia che si è specializzata nella gestione dei cosiddetti “pentiti” e che ha sfornato i “falsi pentiti” che sono serviti ad accusarmi». Perché i processi a Contrada sono basati esclusivamente sulle accuse dei «pentiti», e spesso si tratta di mafiosi e assassini a cui è stato proprio Contrada a dare la caccia, a trascinarli dinanzi al giudice e a farli condannare, e che si sono vendicati, più o meno sollecitati e incoraggiati, ri-guadagnando la libertà e con lo stipendio dello Stato.
E c’è la testimonianza dell’ex capo della polizia Vincenzo Parisi, che così ha deposto al processo: «Bruno Contrada è un investigatore straordinario. Il suo è un curriculum brillantissimo e ha dimostrato una conoscenza straordinariamente approfondita del fenomeno mafiosa, di cui è una memoria storica eccezionale, per questo ha ricevuto 33 elogi dall’amministrazione e dalla magistratura». Ed è proprio il capo della polizia, forse il più bravo e il più famoso, che accusa: «Bisogna far luce su eventuali interessi ed eventuali corvi che hanno ispirato ai pentiti le dichiarazioni contro Contrada. È quanto meno strano che soltanto dieci anni dopo vengono rivelati fatti di cui questi “pentiti” sarebbero stati a conoscenza da tanto tempo, a meno che non li abbiano appresi dopo e da chi ha voluto ispirarli. Perché questi “pentiti” parlano solo ora? Chi li manovra? Io vedo un pericolo per la democrazia».
CAMPAGNA DENIGRATORIA
E così depone il prefetto Emanuele De Francesco, che è stato il primo Alto commissario antimafia e poi direttore del Sisde: «C’è stato uno specioso malanimo contro Contrada, quando è stato il mio capo di Gabinetto, un malanimo agitato da certe lobby e certe cordate del ministero dell’Interno». E un altro prefetto, Angelo Finocchiaro, pure lui direttore del Sisde: «Contro Contrada e il Sisde ci sono stati attacchi ripetuti e proditori ed è stata organizzata una campagna denigratoria». E così hanno deposto altri capi della polizia, altri prefetti, altri ufficiali dei carabinieri, almeno tre dozzine di servitori dello Stato e uomini delle istituzioni. E l’ex presidente della Repubblica Cossiga ha addirittura chiesto la soppressione della Dia, accusandola di aver adottato «i metodi propri di un servizio segreto di polizia politica, sul modello della Gestapo nazista, dell’Ovra fascista e del Kgb sovietico».
ACCUSE SENZA PROVE
Come è stato possibile ai giudici non credere ai più autorevoli rappresentanti delle istituzioni della Repubblica e credere invece alle accuse senza prove né riscontri dei cosiddetti «pentiti», mafiosi, ladri, estortori e assassini? E molti di questi sono stati poi incriminati per calunnia, uno è stato espulso dal programma di protezione perché colto in flagrante mendacio e in riciclaggio di denaro sporco e traffico di stupefacenti, un altro ancora ha ritrattato tutte le accuse al processo d’appello e ha implorato i giudici di restituire l’onore a Contrada: di costui gli avvocati hanno scoperto, sempre nel processo d’appello, che era stato nascosto il verbale di un primo interrogatorio, in cui dichiarava di non sapere niente di Contrada. Alla contestazione il pm ha replicato che non aveva esibito quel verbale appunto perché di Contrada non si diceva niente: perché il pm avrebbe dovuto esibire qualcosa a difesa dell’imputato? Niente ancora a confronto del fatto che a presiedere la Corte d’appello che, la seconda volta, ha condannato Contrada è stato chiamato proprio il giudice che tre anni prima, quale componente del Tribunale della libertà, si era rifiutato di concedergli la libertà dalla carcerazione preventiva, dopo già due anni trascorsi in isolamento nel carcere militare: chi meglio di lui, che si era espresso così favorevolmente all’imputato, era più adatto a giudicarlo e a condannarlo?
Il fatto è che Bruno Contrada non è stato soltanto vittima delle faide interne ai corpi dello Stato, ma è stato il sacrificio propiziatorio al teorema del «terzo livello» e della connivenza delle istituzioni e del potere politico con la mafia. Inizialmente il processo che hanno tentato di fare a Contrada e che ancora echeggia in certe dichiarazioni delle vedove dell’antimafia che si oppongono alla concessione della grazia, doveva essere il processo per la strage di via D’Amelio: Contrada doveva essere l’agente dei servizi segreti «deviati» che per conto del potere politico (leggi Andreotti, ma indagheranno pure su Dell’Utri e Berlusconi come «mandanti delle stragi») avrebbe fatto assassinare dalla mafia il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta, dopo aver tentato di assassinare Giovanni Falcone con il tritolo sugli scogli dell’Addaura. L’hanno scritto e fatto scrivere in centinaia di articoli e in decine di libri, l’hanno messo persino in un film: Contrada che si aggira sul luogo della strage pochi secondi dopo l’esplosione del tritolo. Non sono riusciti nell’intento, non foss’altro perché Contrada in quegli istanti era in barca con dieci testimoni molte miglia al largo di Palermo e hanno ripiegato sullo scivoloso «concorso esterno», buono per tutti gli usi e facile a sostenersi con la volonterosa collaborazione dei soliti «pentiti». Ora temono la revisione del processo, che può smascherare i «pentiti» e scoprire gli autori della trama. E temono anche la grazia: meglio che Contrada muoia in carcere e al più presto. (il Giornale)

giovedì 27 dicembre 2007

Lucio Dalla: "Mai stato comunista"

Non ce ne eravamo accorti: però siamo lieti che lo abbia dichiarato pubblicamente.

A questo punto la domanda sorge spontanea: ha capito che l'aria sta cambiando o ha deciso che fosse giusto fare outing?
Verificheremo se il bravo Dalla sarà ancora apprezzato dai critici organici alla sinistra.

E' molto probabile che lo giudicheranno cambiato e non più brillante come un tempo...

mercoledì 26 dicembre 2007

Chi ha ucciso Contrada. Davide Giacalone

Bruno Contrada non chiede la grazia, come non la chiedevano i detenuti antifascisti: si proclama innocente e non ritiene di doversi umiliare innanzi a chi ha assistito, vilmente inerme, a quel che gli è accaduto. Il Presidente Napolitano, del resto, non può graziarlo, semmai dovrebbe graziare noi tutti e proclamare quel che è evidente: se un uomo difeso dai capi della Polizia, suoi superiori, dai prefetti antimafia e dalle più alte cariche dello Stato è condannato per concorso con i mafiosi ciò vuol dire che lo Stato era in mano o a degli imbecilli o a dei delinquenti. La terza è la possibilità più ragionevole: quella sentenza fa orrore.
Il fisico di Contrada, vecchio di 77 anni e malato, potrà morire in carcere, o sarà portato a crepare altrove, giusto in tempo per evitare il decesso di un recluso. Ma l’uomo Contrada, il poliziotto, è già morto. E non tornerà a vivere neanche se gli concederanno la grazia, perché a quell’anima manca l’unica cosa che gli interessa: il riconoscimento di essere un servitore dello Stato, non un suo traditore. Il morto è lì che ci guarda, e noi che abbiamo seguito il suo lungo calvario intendiamo oggi rispondere ad una domanda: chi lo ha ammazzato?
Lo ha ammazzato un legislatore ricattato e privo di senso del diritto, che consente a dei macellai di riverginarsi in pentiti, intenti a perseguire, oggi come ieri, il loro interesse a scapito della vita altrui. Una legge che considera credibile anche chi mente o non racconta tutto, che consente la memoria rateizzata, che mette la sorte di questi infami nelle mani di quanti li utilizzeranno in processo. Lo ha ammazzato una politica vile, che non seppe difendere Falcone dalle aggressioni della sinistra giudiziaria e rimase in silenzio mentre il poliziotto, che di Falcone non era amico, veniva scarnificato per ripittare a nuovo la procura palermitana. Lo ha ammazzato una giustizia che lo condanna dopo averlo assolto, perché lo sbirro siciliano è presunto colpevole, come tanti altri, come noi, e pure se dichiarato innocente questo non elimina il dubbio del contrario. Il colpo di grazia se lo è dato da solo, perché incapace di smettere, come noi, di credere nello Stato. Per questo stiamo morendo con lui, e chi non lo capisce è morto alla civiltà del diritto. Che la sua anima sia dannata.

venerdì 21 dicembre 2007

Governo: Berlusconi, convinto che Prodi a gennaio andrà a casa.

Roma, 21 dic. (Adnkronos) - "Sono intimamente convinto che il governo Prodi a gennaio andra' a casa". Lo afferma Silvio Berlusconi parlando a un gazebo di Forza Italia a Roma.

Cuore di Flavia. Orso Di Pietra

Se uno non ha proprio un cacchio da fare può utilmente impiegare il suo tempo nella illuminante lettura delle cronache della movimentata passeggiata compiuta mercoledì scorso a piazza Colonna da Romano Prodi in compagnia della moglie Flavia. Quella nel corso della quale una passante si è messa ad urlare contro il Capo del Governo invitandolo ad andare a casa invece di continuare a “rovinare” gli italiani. Che cosa illumina questa lettura? Semplice: la vocazione servile di buona parte dei giornalisti delle grandi testate nazionali. La passante viene descritta come una signora anziana bionda ed impellicciata. Cioè una che si tinge, ricoglionita dall’età e bieca sostenitrice delle stragi degli animali. Inoltre, l’incauta contestatrice urla rumorosamente (come se si potesse urlare in silenzio). E reagisce in maniera isterica quando, sentendosi presa per un braccio dalla moglie del Presidente del Consiglio, grida “non mi tocchi, siamo in democrazia e dico quello che mi pare su suo marito che ci sta rovinando”. Viceversa, rispetto a questa specie di Franti in gonnella, la signora Flavia appare come una eroina risorgimentale. E Prodi diventa il buon Garrone che sorride e perdona la sconsiderata contestatrice. Ora, rispetto a questo tipo di lettura se ne propone una di diverso tipo. Quella secondo a Piazza Colonna c’è una signora anziana sola ed un Presidente del Consiglio accompagnato dalla moglie Flavia e circondato da uno stuolo di agenti della propria scorta. Che la signora anziana non si lascia intimorire dal Capo del Governo con annessa consorte e guardie armate. E che non esita a gridare il proprio dissenso in nome della democrazia. Se l’episodio fosse capitato a Silvio e a Veronica avremmo adesso una novella Dolores Ibarruri. E’ successo a Romano e Flavia. Ed il risultato giornalistico è la vecchia battuta di Alberto Sordi: “Mazza la vecchia, con flit! E si nun more, col gas! ”. (l'Opinione)

giovedì 20 dicembre 2007

Gazebo e maglietta come antidoto. Gianni Baget Bozzo

Perché Berlusconi parla ai gazebo, perché si abbiglia con la maglietta in modo così ostentatamente popolare? La spiegazione corrente è quella che lo abbia fatto per volontà di invadere lo spazio degli alleati. Non è così. Lo spazio del centrodestra rischiava di erodersi sotto il peso del rigetto della politica e della democrazia che questo governo ha generato. Vi era il rischio che corresse la voce comune «sono tutti uguali», che la sfiducia nella democrazia (e la sfiducia nella politica è la sfiducia nella democrazia) invadesse anche il popolo della libertà. Esso poteva ritenere inutili le sue lotte che, dal '94, non riuscivano a cambiare il sistema di potere al di sopra della politica che pesa sul Paese.
Siamo un popolo infelice, dicono gli amici americani: il che mostra quanto siano cambiati nei giorni i rapporti tra i due Paesi dopo che Prodi è venuto al posto di Berlusconi. E gli americani hanno nella loro dichiarazione dei diritti il principio che la democrazia rende felici. Quando il popolo si convince che sulla democrazia e sul suo voto c'è un potere che determina i risultati anche quando sono evidenti, in esso nasce un'infelicità collettiva che oggi si sente nell'aria.
Non sono soltanto gli americani: anche il sociologo per eccellenza delle istituzioni, Giuseppe De Rita, usa per la prima volta toni negativi nel suo rapporto Censis e applica all'Italia categorie mai usate come poltiglia e mucillagine.
È stato un colpo contro la democrazia non prendere in conto che la Casa delle libertà aveva nelle elezione del 2006 la parità dei voti con Ulivo-Unione. Interpretare, come ha fatto Prodi, quei risultati come la sconfitta del berlusconismo, da lui teorizzato come pericolo pubblico, non voleva soltanto discriminare Berlusconi, ma soprattutto il popolo che lo ha votato per tante volte. Cancellare tutte le leggi di Berlusconi come se fossero democraticamente pericolose non nuoceva a Berlusconi, nuoceva al suo popolo. Voleva dire che il solo voto che contava era quello per la sinistra e che mezzo Paese poteva essere discriminato per una scelta di una ristrettissima maggioranza. Una scelta così unilaterale ha messo in pericolo la democrazia; gli elettori che non votano a sinistra si vedono ridotti a cittadini di seconda classe, il cui voto del 2001 può essere integralmente annullato nel voto del 2006. La scelta della maggioranza è stata un colpo di Stato. Inutilmente il presidente della Repubblica invita alla concordia quando anche la sua elezione è stata una elezione di parte e l'opposizione non ha avuto alcuna carica istituzionale. È contro la democrazia ridurre al silenzio politico una quasi maggioranza del Paese.
Occorreva mostrare che siamo con il popolo i cui voti non contano, il popolo che si sente ridotto a minoranza obbligato a obbedire tacendo e a pagare le tasse che Padoa-Schioppa impone e Visco realizza. Questo popolo deve accettare l'insicurezza nelle strade, l'immigrazione illegale, la pressione fiscale stabilita per principio morale dal governo come una realtà su cui si misura l'integrità etica del cittadino.
Non credano Bossi, Fini e Casini che i gazebo siano nati per portare via voti a loro. Berlusconi ha portato l'onere di rappresentanza del popolo, lo ha incorporato con il suo singolare carisma, ha dato voce e volto al popolo dei partiti che erano stati soppressi dall'invasione delle istituzioni, in particolare dalla magistratura milanese. Se anche sul centrodestra fossero scese l'antipolitica e l'antidemocrazia, sarebbero anche qui nati i fenomeni alla Grillo, si sarebbe aggravata la rottura tra popolo e Stato. Allora anche il voto a Lega, An, Udc, si sarebbe ridotto, perché il consenso a questi partiti è legato all'alleanza con Forza Italia, cioè al carisma di Berlusconi. Creando i gazebo e indossando la maglietta, Berlusconi ha voluto legittimare il popolo frustrato nel suo voto dalle scelte delle istituzioni, ha voluto impedire che l'antipolitica travolgesse anche il popolo della libertà. Gli alleati dovrebbero comprenderlo e non ritenere rivolta contro di loro una via che fa sentire la democrazia come la possibilità anche per coloro che hanno visto i loro voti così radicalmente negati. (il Giornale)

Perché la Spagna ci ha superato. Arturo Diaconale

L’economia spagnola scavalca quella italiana e quella greca, da fanalino di coda dei paesi europei, si appresta a fare altrettanto. Gli esperti sono già pronti a tirare in ballo una serie di ragioni per spiegare il perché il nostro paese stia segnando il passo. Ma chiunque mastichi un minimo di politica sa bene che la causa principale della paralisi che condanna l’Italia ad un inesorabile declino non dipende da fattori economici o finanziari ma dalla incapacità della classe e del sistema politico ad esprimere un esecutivo capace di governare. Come una nave senza timone va considerata persa, un paese senza guida va considerato allo sbando. Il nostro paese è in questa condizione . E la conferma più clamorosa ed emblematica viene dalla storia del decreto sicurezza. Quello nato sull’onda della commozione e preoccupazione per l’assassinio di una signora romana ad opera di uno sbandato rumeno, successivamente svuotato di qualsiasi misura incisiva per ragioni legati ai difficili equilibri interni della maggioranza, in seguito imbastardito dall’inserimento sbagliato e strumentale della famosa norma anti-omofobia ed ora lasciato decadere per il rifiuto del Presidente della Repubblica di controfirmare un obbrobrio del genere.

La vicenda, che fa il paio con l’indecisione cronica sulla sorte dell’Alitalia, con la sequela di errori commessi nel caso Speciale, con le traversie di una finanziaria che aumenta la spesa pubblica, con gli errori che immobilizzano la Rai ormai da mesi, mette perfettamente in luce i diversi fattori che caratterizzano la diabolica capacità dell’esecutivo guidato da Romano Prodi di “sgovernare” il paese. C’è il dilettantismo di chi si lascia trascinare dall’emozione per vicende contingenti senza compiere valutazioni di sorta sulle conseguenze dei propri comportamenti improvvisati. C’è l’arroganza di chi è convinto che l’esercizio del potere possa prescindere dal rispetto delle regole, delle forme, della prassi democratica. C’è l’incapacità di spingere le diverse componenti della maggioranza a trovare mediazioni positive piuttosto che i soliti compromessi paralizzanti. E, peggio di ogni altra circostanza, c’è la tendenza inguaribile, nella impossibilità di affrontare e risolvere le questioni concrete, a compiere fughe nei problemi astratti condizionati dai pregiudizi ideologici. Da quest’ultimo punto di vista è emblematico che un provvedimento sulla sicurezza finisca nel nulla per una questione di principio astratto legato ad un tema diverso come quello della omofobia. Ci vuole altro per spiegare perché la Spagna ci supera e la Grecia è pronta a farlo? (l'Opinione)

mercoledì 19 dicembre 2007

A Contrada negati anche gli arresti domiciliari. Dimitri Buffa

Non ci sarà alcuna pietà per Bruno Contrada: il 12 dicembre, a pochi giorni dall'anniversario del suo arresto - avvenuto in Palermo alla vigilia del Natale del 1992 - il giudice del tribunale di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere, carcere militare dove si trova recluso, ha negato l’urgenza dei motivi di salute per accogliere la richiesta di arresti domiciliari.

E tra qualche settimana sarà il tribunale di Napoli a decidere sull’istanza di differimento della pena per motivi di salute. Ma l’aria che tira non è delle migliori.

Una volta infatti negati gli arresti domiciliari, in attesa che la richiesta venga dibattuta nel merito, implicitamente si nega anche l’urgenza della sua malattia. E i giudici di Napoli difficilmente smentiranno i propri colleghi di Santa Maria Capua Vetere.

Così quest’uomo resterà in carcere anche questo Natale, in attesa che lo stato italiano decida finalmente di riconoscere un proprio errore giudiziario.

Cioè quello di tenere in ostaggio, sia pure con una condanna a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa ormai passata in giudicato, “l’ultimo mohicano” della stagione dei teoremi della procura di Palermo (Carnevale, Andreotti, Mannino, Berlusconi stesso, tutte inchieste finite nel nulla o quasi) dei tempi in cui era Giancarlo Caselli a rivestire la carica di procuratore capo.

“Contrada in carcere – spiegano la moglie Adriana del Vecchio e sua sorella Marisa – serve ormai solo per tenere ancora in piedi la parola di quei pentiti talmente screditati che si rischia anche che un giorno possano venire annullate le condanne ai mafiosi veri e propri come Riina e Provenzano, laddove basate unicamente sulla loro testimonianza”.

Insomma, Contrada, dopo avere servito lo stato per circa 40 anni (ora ne ha 77) ed essere stato sbattuto in galera sulla parola di quei criminali che lui stesso aveva assicurato alla giustizia, dopo avere visto cadere per strada tutti i suoi amici poliziotti di un tempo come Ninni Cassarà (gente che le indagini non le faceva solo con i pentiti), è costretto a restare in galera per motivi inerenti a una malintesa ragion di stato. In salsa antimafia.

“E che ci sia una volontà persecutoria è sicuro”, affermano le due donne.

Basta leggere, per rendersene conto, l’ordinanza con cui il tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha rifiutato gli arresti domiciliari in attesa della decisione del tribunale di Napoli sul differimento della pena.

“Tre quarti dell’ordinanza – evidenziano le due sorelle - elencano i mali di cui soffre: dall’ischemia al diabete, dalla cardiopatia allo stato di ipnutrizione in soggetto ultrasettantenne, dalla artrite all’ateriosclerosi e via dicendo. Si attesta anche che esiste una incompatibilità con il regime carcerario che non potrà che peggiorare una situazione già seriamente compromessa”. Ecco perché ci si sarebbe aspettati che l’istanza venisse accolta.

“E invece niente”: nelle ultime tre righe dell’ordinanza si aggiunge una formuletta secondo cui letteralmente, “non può però dirsi, alla luce della diagnosi sopra riportata, che le patologie da cui è affetto il Contrada siano, allo stato, gravi e non trattabili in ambiente carcerario, pur se necessitano di una continuo monitoraggio che viene garantito con il frequente ricorso al ricovero e con una costante attenzione da parte della struttura sanitaria dell’istituto…”

Che significa “condannarlo a morte”, spiegano le due signore.

La moglie di Contrada, la signora Adriana del Vecchio, da quando il marito si è costituito dopo la condanna definitiva non è mai andata a trovarlo in carcere. Anche lei è cardiopatica e il medico curante le ha imposto di evitare bruschi sbalzi emotivi. Bruno Contrada rischia di morire in carcere, senza neppure poter riabbracciare la moglie. (l'Occidentale)

L'intoccabile. Gianteo Bordero

Ai tempi del governo della Casa delle Libertà, Claudio Scajola si dimise da ministro dell'Interno per una infelice affermazione su Marco Biagi, e Roberto Calderoli fece altrettanto dopo aver indossato una t-shirt che riproduceva le vignette anti-islamiche pubblicate qualche tempo prima da un quotidiano danese. Furono certamente due decisioni responsabili. Due scelte che, alla luce dell'attualità, indicano con chiarezza la distanza che intercorre tra centrodestra e centrosinistra quanto a sensibilità istituzionale. Quelli dei due ministri dell'esecutivo Berlusconi non furono infatti, come si suol dire, «atti dovuti», perché non riguardavano direttamente l'azione di governo; nonostante ciò, Scajola prima e Calderoli poi, preso atto dei loro errori, rassegnarono le dimissioni.

Tutt'altro atteggiamento sta invece tenendo l'attuale ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, il quale continua pervicacemente a occupare la poltrona di numero uno di via Nazionale nonostante i gravi e ripetuti errori commessi da un anno e mezzo a questa parte. Errori non tanto «politici» - per questi la richiesta di dimissioni sarebbe oggettivamente fuori luogo - bensì «istituzionali»: TPS, con le sue scelte sciagurate nei casi Petroni e Speciale (sonoramente bocciate dal Tar e, per quanto riguarda la prima, anche dal Consiglio di Stato), si è mosso al di fuori dei confini che l'ordinamento assegna al ministro dell'Economia; ha cioè esercitato un «eccesso di potere» che ha finito per creare caos e incertezza tanto nel Consiglio di Amministrazione che guida la tv pubblica quanto - cosa ancora più grave - ai vertici del Corpo della Guardia di Finanza. Ci si aspetterebbe dunque, da Padoa-Schioppa, un pubblico riconoscimento di errore, con tutte le conseguenze del caso.

Invece l'indomito ministro tira dritto per la sua strada come se niente fosse, come se le sentenze del Tribunale Amministrativo e del Consiglio di Stato fossero carta straccia, e rivendica, in spregio a ogni minimo senso della decenza istituzionale, la piena legittimità delle sue scelte. Per Paolo Bonaiuti, portavoce di Silvio Berlusconi e vice-presidente della Commissione di Vigilanza Rai, si tratta di «un caso di prepotenza mai visto». Come dargli torto? E' infatti «prepotenza» cacciare un membro del CdA di Viale Mazzini soltanto in ragione della sua appartenenza politica e per mettere la tv pubblica totalmente in mano a una sola parte; ed è «prepotenza» esautorare un generale comandante delle Fiamme Gialle solo perché scomodo e non prono alle volontà dell'esecutivo e alle sue intrusioni nella vita interna della GdF. Se cose del genere fossero accadute nel quinquennio di governo Berlusconi, il centrosinistra avrebbe gridato al «regime», organizzato manifestazioni per denunciare l'«attacco alle istituzioni», cannoneggiato coi suoi organi di stampa contro il nuovo Duce che mette a repentaglio la democrazia in Italia. Invece, oggi che queste cose accadono per davvero e a Palazzo Chigi siede l'illuminato Professore, «va tutto bene, madama la marchesa».

Per fortuna, però, qualche voce ragionevole che suggerisce a TPS le dimissioni si alza, oltre che dal centrodestra, anche dal Partito Democratico. Come quella di Peppino Caldarola, già direttore dell'Unità, che dalle pagine del Corriere della Sera prende atto della situazione, definisce «un errore grave» quello commesso dal ministro dell'Economia e afferma che «purtroppo questa esperienza di governo segna il crollo di immagine di una figura di assoluto prestigio internazionale come quella di Padoa-Schioppa». Le parole di Caldarola sono il sintomo di un malessere che si respira nell'aria dalle parti del centrosinistra, ma che non avrà nessuna ricaduta tangibile, visto che, se TPS decidesse di lasciare, in ragione dell'asse di ferro tra quest'ultimo e Romano Prodi assisteremmo probabilmente a una crisi di governo in piena regola, giacché è impensabile che Padoa-Schioppa si sia mosso, tanto nel caso Petroni quanto nel caso Speciale, di sua sola iniziativa e senza l'input del presidente del Consiglio.

Ieri mattina, intanto, il generale Speciale, dopo la sentenza del Tar che ha giudicato illegittima la sua rimozione, ha deciso di dimettersi da comandante della Guardia di Finanza. Lo ha fatto con una lettera inviata al presidente della Repubblica, nella quale ha scritto che non intende più «collaborare con il governo in carica». «La mia immagine, che in questi mesi è stata fatta oggetto di un assalto ingiusto... è stata, finalmente, risarcita e onorata. Per me l'annullamento giurisdizionale della mia rimozione vale più di qualunque somma, perché un riscatto morale non ha prezzo». Se questa scelta, da un lato, evita responsabilmente il surplus di confusione che si sarebbe venuto a creare ai vertici delle Fiamme Gialle dopo la pronuncia del Tribunale Amministrativo, dall'altro inchioda definitivamente Padoa-Schioppa alle sue responsabilità e alla sua pessima gestione di tutto l'«affaire» Speciale. TPS esce così dall'intera vicenda politicamente a pezzi, con una perdita di autorevolezza e di credibilità istituzionale a cui ormai solo le dimissioni potrebbero, in qualche modo, porre un freno. (Ragionpolitica)

Il Governo vola basso. Teodoro Chiarelli

Se c’è una cosa che un Paese civile ha da pretendere dal governo è che faccia delle scelte e se ne assuma le responsabilità.

E’esattamente il contrario di quanto sta avvenendo nella vicenda Alitalia. Ieri, puntuale come una scadenza dell’Ici (una delle poche certezze italiane), è arrivata la notizia dell’ennesimo rinvio di una decisione che era stata definita irrinunciabile e improcrastinabile. Inevitabile conseguenza di un’asta improbabile dove ai criteri economici si sono sovrapposti i patteggiamenti, i negozi e le mediazioni fra gruppi di interesse. Un insieme di spinte contrapposte che ha finito per invischiare in una rete soffocante lo stesso Romano Prodi e i suoi litigiosi ministri.

La verità è che sin dall’inizio non abbiamo assistito a una trasparente operazione di mercato. Perché in nessun mercato degno di questo nome il venditore fa anche il mediatore come ha preteso che avvenisse il governo. Anche i muri sapevano che Prodi vuole arrivare a un accordo con i francesi. Legittimo, a patto che non si allestiscano teatrini per confondere le acque. In altre parole: l’asta non era obbligatoria, il governo avrebbe potuto benissimo fare la sua scelta, rispondendone al Parlamento e, quindi, agli elettori. Si è preferita la melassa. Sfidando con indomito coraggio il comune senso del ridicolo, il ministro Bianchi si è mediaticamente immolato sostenendo che ha bisogno di altro tempo per approfondire, soppesare e confrontare le proposte di Air France e di AirOne. Ma quali dettagli aspetta di conoscere? Quale retroscena conta di scovare? Non si sa. Anche perché i termini delle due proposte sono stranoti in tutti i particolari.

Così si arriva a ridosso delle feste di Natale. Se è un espediente per guadagnare tempo e tentare di evitare gli scioperi selvaggi preannunciati dai sindacati, siamo di fronte a una soluzione indecente. Se è un mezzuccio per guadagnare tempo alle diverse lobby che si stanno sfidando, è semplicemente scandaloso. Ma forse è il tentativo di mettere in qualche modo insieme le due proposte.

Comunque lo si guardi, il risultato è che Alitalia, non gestita, sta allegramente perdendo quota e rischia di restare senza ogni residua credibilità. Come ha dichiarato alla Stampa Giovanni Bisignani, direttore generale dell’Associazione delle grandi compagnie aeree mondiali e, soprattutto, ex numero uno della compagnia, la società rischia di essere buttata fuori dalla Iata: ossia dal sistema di clearance, la struttura integrata internazionale di pagamenti, incassi e anticipi che consente alle varie società di operare concretamente nella complessa rete dei voli e dei servizi aeroportuali dei cinque continenti. Per Alitalia sarebbe un disastro: di fatto non potrebbe più operare. È già successo con la brasiliana Varig: nel giro di una settimana ha dovuto chiudere i battenti. Del resto poche, isolate Cassandre, bollate come impresentabili profeti di sventura, da tempo indicano il fallimento della compagnia come unica onorevole via d’uscita per il pasticcio Alitalia. A questo punto, come cantava Fabrizio De André, sarebbe «se non del tutto giusto, quasi niente sbagliato». (la Stampa)

martedì 18 dicembre 2007

Perso il senso dello Stato. Davide Giacalone

Padoa Schioppa invoca il rispetto per la magistratura, la Guardia di Finanza ed i poteri del governo. Peccato che sia lui non rispettare il diritto ed il buon senso, cacciandosi in un vicolo cieco, dove trascina l’intero governo della Repubblica. Lo scandalo non è che il governo perda delle cause amministrative, è il come ed il perché a far rabbrividire.
Non è scritto in nessuna legge che il comandante di una forza armata debba essere un uomo di fiducia del governo. Non so da dove nasca questa teoria da fascistelli (ripresa con zelo dai conformisti), ma nel nostro ordinamento è vero il contrario e gli incarichi di comando non sono equiparabili alle nomine di gabinetto. Non sono persone di fiducia neanche quelle inserite nei consigli di società per azioni, e che il governo continui a prendere schiaffi sul tema è segno che c’è qualcosa di gravemente guasto. Non basta, il peggio deve arrivare: i giornali che tentano di reggere l’insostenibile tesi ministeriale mettono in luce che quel generale della GdF se la spassava con elicotteri ed aerei di Stato, giungendo a farsi recapitare spigole fresche sulla neve. Potevamo, chiedono, tenerci una persona simile a capo di chi dovrebbe controllare la morale altrui? Se le cose stanno in quel modo la risposta è: no, non potevamo, andava destituito. Ma doveva essere allontanato e denunciato per peculato, si doveva far valere il diritto e non la legge dell’omertà e del ricatto. Invece il governo lo ha mandato a fare il magistrato alla Corte dei Conti, che è sì un ente inutile e mal abitato, ma piazzarci uno che ci s’appresta ad indicare come malfattore contabile è forse troppo.
Questa miserabile storia potrebbe essere una pagina solo grottesca, se, invece, non fosse la dimostrazione di quanto si sia smarrito il senso dello Stato e delle istituzioni. Abbiamo governi composti da ministri che si detestano fra di loro, ma pretendono d’avere persone di fiducia a fare i generali. E allora perché non a presiedere la cassazione, la corte costituzionale, la procura generale e poi quelle locali, ed i tribunali? Già si spartiscono i primari ospedalieri ed i responsabili dei servizi essenziali, dai trasporti all’energia. Disonoriamo la legge, offendiamo lo Stato, e chiamando “democrazia” questo degrado le assicuriamo un duraturo rispetto.

Negare non è governare. Arturo Diaconale

Chissà se il Presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Roma, Bruno Tucci, tornerà ad indignarsi perché il Presidente del Consiglio è stato intervistato per quasi un’ora su Rai Tre da un presentatore e non da un giornalista! E chissà se tra tutti quelli che hanno passato la vita a stigmatizzare le interviste in ginocchio fatte dai giornalisti servi dei potenti ci sarà qualcuno provvisto di tanto coraggio dal denunciare l’intervista in estasi di Fabio Fazio a Romano Prodi! Probabilmente va esclusa sia la prima che la seconda ipotesi. Anche Tucci si sarà stancato di ululare al vento le ragioni di un Ordine professionale fuori del tempo. E non sembra che tra gli esaltatori delle schiene dritte alla Montanelli o alla Biagi esistano degli intrepidi osservatori pronti a rilevare lo scandalo di un presentatore talmente abbacinato dalla presenza in studio del proprio santo protettore da sembrare Santa Teresa del Bambin Gesù nei momenti delle estasi mistiche. Ma queste annotazioni appaiono addirittura marginali di fronte al vero ed unico dato politico emerso dalla lunga ed affettuosa conversazione televisiva del Capo del Governo.

Cioè che per sopravvivere a Palazzo Chigi Romano Prodi ha messo a punto una strategia che non è quella del galleggiamento e dell’immobilismo ma quella del tutto inedita incentrata sulla totale ed assoluta negazione dei problemi. Il Caso Speciale? Non esiste. E’ La mancanza di maggioranza al Senato? Non conta. L’esistenza di due linee politiche antitetiche nella coalizione? Non incide. E via di seguito. Non c’è un nodo che arrivi al pettine a cui Prodi non riservi un accurato trattamento fondato sulla negazione del nodo stesso. Non si tratta di rinvio. Niente affatto. Perché rinviare un problema significa comunque riconoscerlo . Il nostro Presidente del Consiglio va oltre. Non rinvia nulla semplicemente perché nega di prendere atto dell’esistenza della questione. Con Fazio non ha fatto altro che applicare alla lettera la sua strategia. Tanto il Santo Tereso in stato di sbalordimento mistico non si sarebbe mai permesso di contraddirlo e rilevare che a furia di mettere la spazzatura sotto i tappeti la casa marcisce. Intendiamoci, nell’ottica prodiana il metodo funziona alla perfezione. Nella testa del “professore”, ad esempio, la verifica di gennaio è un falso problema. Basterà dare la testa di Padoa Schioppa a Rifondazione e convincere la Consulta a cancellare i referendum ed il gioco sarà fatto. Sempre che nel frattempo, però, qualcuno si accorga che a marcire è il paese. E si muova di conseguenza. (l'Opinione)

Ma anche, al tempo stesso. Filippo Facci

Questa cosa di Crozza e del «ma anche» di Veltroni fa certo ridere, ma anche no. È una cosa che dà il sorriso, ma anche sui nervi: perché una battuta di successo può devastare un uomo politico, come no, ma quando diventa costume, quando diviene più importante del suo significato, ecco che ogni effetto si annulla e si ritorna al punto di partenza. Prendi il caso Alitalia, che necessita di scelte chiare e nette dopo infiniti tiramolla: ieri Veltroni ha detto che «La cosa che mi piacerebbe di più è che le proposte di Air France e Air One si incrociassero», questo «per garantire la forza di Air France e la forza di Banca Intesa, e al tempo stesso però il radicamento nel Paese di una compagnia nazionale». Era «ma anche» e ora è «al tempo stesso». Intendiamoci: le sfumature esistono, i compromessi esistono, le terze vie pure. Il povero Veltroni, peraltro, in questa fase ci tocca trattarlo politicamente bene, ma anche no: sicché vi è da chiedersi se c’era davvero bisogno di Maurizio Crozza per scoprire ciò che noi mortali chiamiamo da sempre cerchiobottismo, doppiopesismo, ambeduismo, neutralismo, attendismo, terzismo, doroteismo, paraculismo, zuppa o pan bagnato, o mangi ’sta minestra o salti ’sta finestra. Per Veltroni l’americano, qualcosa di terribilmente italiano. (il Giornale)

lunedì 17 dicembre 2007

A Bali si è messa in scena l'ennesima commedia ambientalista. Milton

Chissà poi mai perché a Bali e non, che so, a Rieti o Cuneo (con tutto il rispetto). L’ONU ha deciso di organizzare la Conferenza Programmatica sul clima dove le coppiette di solito vanno per la luna di miele e nessuno si è preso la briga di calcolare quanto sia costata questa ridicola, inutile e pericolosa ennesima iniziativa delle Nazioni Unite, che continua a confermare la sua storica, burocratica vacuità.

Perché ridicola. A Bali ( e non a Cuneo) si sono riuniti migliaia di delegati a discutere di un problema che non c’è!

In primo luogo, non c’è nessun anomalo riscaldamento della terra, siamo semplicemente in una fase della vita del nostro pianeta, in cui le temperature è più alta della media. Ciò è avvenuto già molte volte prima e dopo la comparsa dell’uomo, prima e dopo la rivoluzione industriale.

Variazioni di temperatura ci sono sempre state. Se andiamo indietro nel tempo, il pianeta fu in una piccola era glaciale tra il 1400 e il 1700: dipinti dell’epoca testimoniano la Laguna di Venezia e il Tamigi ghiacciati, usati come piste di pattinaggio e attraversati dai carri. E tra il 1100 e il 1300 ci fu il cosidetto periodo caldo medioevale, con temperature di 2-3 gradi superiori a quelle odierne, quando fiorivano i vigneti anche nel nord dell’Inghilterra. Andando ancora indietro nel tempo, sino all’età del bronzo, vi fu quel che i geologi chiamano massimo Olocenico, con temperature, per oltre 2 millenni, notevolmente superiori a quelle odierne.

Perché inutile. Amesso e non concesso che la temperatura della terra fosse irreversibilmente in aumento, le emissioni antropiche di CO2 non hanno alcuna influenza. Il riscaldamento globale attuale è reale, nel senso che la temperatura media globale è, oggi, più elevata di quella di 200 anni fa, ma l’uomo non c’entra niente. L’attuale riscaldamento cominciò nel XIX secolo e ha continuato sino al 1940: ma fino ad allora l’industrializzazione era ancora in stato embrionale, limitata a pochissime nazioni e la popolazione mondiale un terzo della odierna. Per più di tre decenni, dal 1940 fino al 1975, invece, in pieno boom economico e demografico, la temperatura scese (tanto da far temere, a metà degli anni Settanta, il rischio di una imminente era glaciale), ma riprese a salire in piena recessione economica. Insomma, l’attuale riscaldamento è occorso in tempi incompatibili con la teoria della sua causa antropica.

Perché pericoloso. La riduzione massiccia delle emissioni antropiche di CO2 (inferiore alla CO2 emessa dagli insetti (!) viventi sulla terra, ed infinitamente inferiore a quella introdotta nell’atmosfera dagli oceani, per non parlare dell’influenza dell’attività solare) prevista dal protocollo di Kyoto richiederebbe da un lato risorse economiche gigantesche, dall’altro frenerebbe in maniera inesorabile i paesi in via di sviluppo. In definitiva, per risolvere un problema che non c’è, eliminando eventualmente la causa sbagliata, bruceremmo risorse immense e lasceremmo nella miseria intere popolazioni, per la felicità da un lato, dei ricercatori politicizzati dell’IPCC (International panel of Climate Change) che hanno appena ricevuto il Nobel per la Pace (?) oltre che a vedersi centuplicate le risorse economiche negli ultimi quindici anni, dall’altro delle lobby dell’eolico e fotovoltaico, tecnologie costosissime e senza alcun valore nella soluzione dei problemi enegetici, ma che hanno bisogno di questo clima di terrore apocalittico per avere un mercato.

In questo quadro da commedia dell’assurdo, cosa poteva produrre la Conferenza di Bali: 3 (dico tre) scarne paginette, nelle quali è stata definita una road map (termine utilissimo, quando non si ha niente da dire) per tentare di trovare un accordo entro il 2009, assieme ad alcune direzioni di discussione sul ruolo dei paesi emergenti. Gli Stati Uniti, sfiancati da tanti insistenza, hanno accettato di continuare a discutere, e questo è stato venduto come un sucesso!

La ridicola e pericolsa inutilità della Conferenza sul Clima di Bali è però impareggiabilmente ben riassunta dall’intervento di Al Gore, che del catastrofismo ne fa ormai una professione ben retribuita. Al Gore ha detto che chi nega il problema del riscaldamento globale e della sua causa antropica è equiparabile a chi durante il nazismo negava l’olocausto e che quindi il nuovo ambientalismo è antifascista. In buona sostanza, il nuovo nazismo è il disastro ambientale che incombe e i nuovi ebrei siamo tutti noi. Se l’Olocausto non fosse stata la tragedia che è stata, si potrebbe sorridere, ma ancora, molti, troppi ebrei muoiono ogni giorno, solo perché ebrei.

Ed allora, che ci diano pure dei fascisti, ma qualcuno li fermi, per favore. (l'Occidentale)

Le nostre paure più grandi. Luca Ricolfi

Il New York Times ci dipinge come un Paese infelice, in preda al malessere e alla sfiducia nelle istituzioni. Come dargli torto? Negli stessi giorni la nostra classe dirigente conferma, se ve ne fosse bisogno, di che pasta è fatta. Milioni di lavoratori dipendenti hanno il contratto scaduto. Dopo mesi di sordità del governo, i sindacati degli autotrasportatori paralizzano il Paese, provocando perdite economiche e speculazioni sui prezzi. Le cronache riferiscono che ai funerali degli operai della Thyssen un ministro suggerisce ai lavoratori di fare come i camionisti. I sindacati confederali minacciano lo sciopero generale se il governo non li convocherà «entro la fine di gennaio». I sindacati dei lavoratori dell’Alitalia, che già perde 400 milioni di euro l’anno, non trovano di meglio che minacciare agitazioni natalizie, anche contro le regole che lo vietano. Ieri pomeriggio, infine, le agenzie hanno dato notizia di altri scioperi: commercio e farmacie nei prossimi giorni, ferrovie e trasporti locali a gennaio. Intanto il ministro Padoa-Schioppa, che con la Finanziaria 2007 era riuscito nell’impresa di frenare la crescita e con quella del 2008 riuscirà in quella di far peggiorare i conti pubblici, deve registrare l’ennesimo schiaffo a se stesso e all’autorevolezza del governo: a quanto pare dovrà rimangiarsi le due più importanti «epurazioni» degli ultimi mesi, reintegrando Angelo Petroni nel consiglio di amministrazione della Rai e il generale Speciale al vertice della Guardia di Finanza.

L’aria che si respira fra la gente si è fatta pesante. Non c’è speranza né rabbia, non c’è voglia di cambiare né impegno. Solo una grande rassegnazione, e un cocktail pericoloso di scetticismo e di paura. Niente a che fare con il clima dei primi Anni 90, quando il desiderio di voltar pagina prevaleva sulla convinzione che il libro della nostra storia fosse ormai chiuso. Nonostante il V-day di Grillo, nonostante il successo del libro di Stella e Rizzo su La casta dei politici, nonostante qualche sporadico sbuffo di girotondismo, oggi gli italiani sembrano attraversati soprattutto da tre grandi paure.

C’è, innanzitutto, la generica paura del futuro. Essa si basa sul fatto che nessuno è più in grado di fare i suoi conti, perché la politica trasmette quotidianamente un messaggio d’incertezza. Non solo non sappiamo quali leggi saranno approvate e quali no, non solo non sappiamo quali sorprese ciascuna di esse potrà contenere, non solo non sappiamo quanto durerà questo governo, ma lo stesso dibattito sulla legge elettorale irradia continuamente e involontariamente il medesimo deprimente messaggio: da anni non siamo governati, nessuno ci sta governando, nessuno ci potrà governare.

C’è poi la paura per la situazione economica delle famiglie. Governi, Confindustria e autorità statistiche tentano periodicamente di rassicurarci, raccontandoci che in questi anni il potere di acquisto delle famiglie è aumentato. Ma la realtà, molto probabilmente, è che le statistiche non sono state in grado di registrare lo «scalino» dell’euro (fra il 2002 e il 2003), e ora sottovalutano le difficoltà delle famiglie a far quadrare i bilanci. Nonostante la crescita dell’economia, in gran parte dovuta al trascinamento dell’anno scorso e all’effetto Fiat, il 2007 è stato un anno pessimo per i bilanci familiari, appesantiti dall’aumento del costo del denaro e dalla stangata fiscale della prima finanziaria del governo Prodi (secondo i dati Isae, quest’anno il numero di famiglie in difficoltà ha toccato il massimo storico da quando esiste l’indagine, ossia dal 1999).

C’è infine la paura della criminalità e dell’immigrazione. L’indulto ha provocato un improvviso e ingente aumento dei reati, che già erano cresciuti sensibilmente durante gli anni del governo Berlusconi, mentre il numero di immigrati irregolari sembra aver raggiunto il suo massimo storico (circa un milione di persone, con un tasso di criminalità che è circa 10 volte quello degli immigrati regolari, e circa 30 volte quello degli italiani).

Sono soprattutto queste tre paure che ci rendono insicuri e alimentano il nostro senso di vulnerabilità. Il guaio è che da nessuna di esse è possibile liberarsi rapidamente. Certo, non mancheranno politici, sindacalisti, industriali e banchieri pronti a raccontarci che per uscirne basta seguire le rispettive ricette. Ma la realtà è che ci vorranno anni per liberarci da questa classe dirigente, anni per tornare a recuperare il potere di acquisto perduto, anni per tornare a vivere in città più sicure. Molti italiani ormai l’hanno capito, altri se ne stanno rendendo conto dopo le illusioni e le ubriacature dell’ultimo decennio. Forse è anche questo che ci rende un po’ tristi, come ci dipinge il New York Times.

Possiamo fare qualcosa? Sì, liberarci il più in fretta possibile di questo ceto politico, e non credere a chi proverà a prenderne il posto sventolando ricette semplici e promettendo soluzioni rapide. (la Stampa)

domenica 16 dicembre 2007

America amara. Raffaele Iannuzzi

L'articolo di Ian Fisher, pubblicato il 13 dicembre sul New York Times, e, come al solito, celebrato dai nostri massmedia, nel solito peloso «discontento» italiota, è una paccottiglia banale e superficiale, zeppa di stereotipi mutuati dalla pubblicistica di sinistra. Cioè, dai soliti noti. La stampa anglosassone, sia inglese che americana, soprattutto liberal, cioè progressista (ovvero, di sinistra), è la prova del nove che smonta la presunta superiorità di quel modo di fare giornalismo. La rivista-partito The Economist è il non plus ultra in materia: ricordo di sfuggita i due report sull'Italia e gli indecenti articoli-sermone contro Berlusconi, non su Berlusconi, ma dichiaratamente contro Berlusconi. Tana de Zulueta, giornalista di questa rivista, è finita al parlamento europeo per aver ben servito la causa dell'antiberlusconismo militante. Oggi, il New York Times ripercorre la stessa strada e scodella un'articolessa di 7 pagine, scaricabile on line che, alla fine, fa rimpiangere il tempo perso nella lettura, che sarebbe stato assai meglio impiegato in qualche altra meritoria attività.

Vengo al merito del pezzo di Fisher. Allora, udite udite, il prestigioso quotidiano newyorkese scopre che l'Italia sta attraversando un periodo di crisi strutturale. Caspita che novità stratosferica, soprattutto per noi che in questo Paese ci viviamo e lavoriamo. Bene, dopo questa straordinaria scoperta, ci vien detto che Walter Veltroni - che dovrebbe essere il segretario del Pd, se non vado errato... - è certo che l'Italia abbia perso gran parte del suo slancio verso il futuro, chiudendo questa profondissima analisi con una massima alla Rouchefoucauld: «There is more fear than hope». Letteralmente: c'è più paura che speranza. Meno male che ci sono Veltroni e Diamanti a ricordarcelo, c'era quasi sfuggito il bandolo della matassa. Dunque, prima fonte del giornalista americano: Veltroni, segretario del Pd, sinistra. Dopo, a seguire, le solite banalità sul declino italiano, e guarda caso, facendo riferimento all'annus mirabilis, il 1987, in cui l'Italia eguagliò la Gran Bretagna, non si richiama neppure en passant che ciò fu dovuto in larga misura ad un certo Bettino Craxi, presidente del Consiglio dell'epoca. Non c'entrerà mica il politically correct, per caso? Ma superiamo la nostra malizia e torniamo al merito. L'altra fonte del giornalista è nientemeno che Beppe Grillo, anche qui, il dubbio di obiettività è quantomeno lecito. A seguire Gomorra di Saviano. Niente male come riferimento, sinistra chiaramente. Infine, dopo una sbrodolatura di citazioni raffazzonate e messe giù con un paio di citazioni a sostegno (la ricerca di un'economista italiana di Roma, Luisa Corrado, che sostiene la tesi di Fisher, ma non c'è nessun altra prova che la metta a confronto, dunque siamo alla propaganda), si chiude con Montezemolo, che dice «now it's time to change», è tempo di cambiare, signori e signore, infatti, vorremmo cambiare i capitalisti italiani, a cominciare da lui, e Alexander Stille, autore di un brillante saggio «Citizen Berlusconi», che crede di affondare Berlusconi, in realtà ne fa l'apologia indiretta, mettendolo a capo del populismo democratico, cioè dei cittadini comuni, la common people, che Lasch sapeva essere il cardine dell'America, almeno fino alla vittoria delle élites progressiste, che poi hanno tradito la loro missione storica.

Ecco, questo è l'articolo di Fisher, che ha meritato, ovvio, una due giorni mediatica continua. In queste sette lunghe e farraginose pagine non si nomina Prodi che una volta, con aplomb, si dice che ha sì qualche problemino, con quella coalizione di nove partiti che è solo un cartello elettorale anti-berlusconiano, ma insomma cosa volete che sia, il problema è un altro. Mentre Fisher si decide a trovare il cuore di questo fantomatico problema italiano, vorremmo sapere come ha fatto a scrivere un pezzo sull'Italia, senza neanche mai nominare una volta Silvio Berlusconi, il suo progetto politico attuale, il popolo della libertà e il fatto che il tanto decantato Veltroni è alla mercè del leader della destra e non viceversa. Veltroni oggi dialoga con Berlusconi perché si trova in stato di minorità nella sinistra ed è figlio di un dio minore, Prodi. Ma questo Fisher non lo sa o, meglio, finge di non saperlo. Capita anche nelle peggiori famiglie, quella dei progressisti americani. Stampelle dei nuovi partiti democratici in nome dei vecchi. (Ragionpolitica)

Una botta, due botte. Augusto Minzolini

Gli occhialetti da Professore. Il tono accademico, a volte saccente. I discorsi taglienti che non lasciano margini a dubbi. Un anno e mezzo fa il ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, era apparso nei panni della «new-entry» più autorevole del governo Prodi. Ma adesso, a dispetto dei titoli e dell’illustre passato in Bankitalia, nessuno, neanche gli amici, ha il coraggio di spezzare una lancia in suo favore. La prova che ha dato da ministro dell’Economia non è stata sfavillante. Anzi. Il suo nome già sei mesi fa era in bilico, appariva nell’elenco dei sacrificabili sull’altare di un ipotetico «rimpasto». Lo ha salvato lo stesso Romano Prodi introducendo un’equazione posta all’attenzione della maggioranza: «Sparare contro Padoa-Schioppa equivale a sparare contro di me». Nelle ultime settimane, però, per il ministro dell’Economia la situazione è di nuovo precipitata e il salvacondotto del presidente del Consiglio rischia di venire meno. Il Tar del Lazio e il consiglio di Stato gli hanno fatto rimangiare la rimozione del consigliere di amministrazione Rai, Angelo Maria Petroni. E ieri sulla sua testa si è abbattuta l’ennesima tegola: il Tar ha giudicato illegittima anche la destituzione del generale Roberto Speciale dal vertice della Guardia di Finanza. Il risultato è che ora al vertice della Rai c’è un consigliere di amministrazione in più e la Guardia di Finanza ha due comandanti generali. Per la prima volta nella storia del Paese è stata introdotta la figura del «doppione». Bisogna risalire al medioevo per trovare un Papa e un anti-Papa. Appunto, ci vuole l’ironia e una gran dose di comicità per coprire all’esterno (leggi New York Times) il dramma del Belpaese. Se un personaggio compassato come il repubblicano Giorgio La Malfa ieri nel dibattito alla Camera è arrivato a dire che il governo Prodi ha trattato nel «caso Speciale» i vertici della Guardia di Finanza con lo stesso rispetto delle prerogative, delle forme e la stessa sensibilità democratica che aveva Pinochet, si può ben dire che non siamo arrivati alla frutta, ma al caffè. E quando qualcuno nella maggioranza - come il capogruppo del Partito democratico, Antonello Soro - osserva che il personaggio Speciale non è quell’uomo specchiato che si vuole far credere e ricorda che usava gli aerei di Stato per andare in vacanza, c’è da dire che paradossalmente la figuraccia è doppia: Prodi e i suoi ministri sono stati umiliati da un personaggio alquanto «chiacchierato». Ma di strani tipi ne girano tanti di questi tempi attorno al governo: al pubblico ministero Luigi De Magistris è stata tolta l’inchiesta che ha fatto arrabbiare il Guardasigilli, facendolo apparire come un mezzo mitomane; Clementina Forleo, che ha mandato su tutte le furie il ministro degli Esteri, è stata giudicata incompatibile con la Procura di Milano descrivendola come una mezza folle; e i senatori del centro-sinistra che osano lasciare la maggioranza, se gli va bene, rischiano di passare per dei mezzi corrotti. Già, un «mezzo» per salvare un minimo di rispettabilità in questo Paese e un «mezzo» per salvare un ministro o l’intero governo. Solo che l’elenco comincia ad essere davvero lungo. Anche per Romano Prodi. E c’è il rischio che qualche italiano cominci davvero a credere che Silvio Berlusconi abbia ragione quando parla di «emergenza democratica». Per questo ci vuole prudenza. Quella prudenza per cui il governo ancora non ha deciso se ricorrere al Consiglio di Stato sulla sentenza del Tar: al di là delle elucubrazioni di Tps nessuno nell’esecutivo vuole prendere un’altra bastonata. Proprio ora che la pazienza dei vari Antonio Di Pietro, Clemente Mastella, Lamberto Dini si sta esaurendo. Solo che schiavo dei propri errori il ministro dell’Economia sarà costretto a farlo: intanto per arrivare a primavera quando il generale Speciale andrà in pensione risolvendo così l’imbarazzante questione del «doppione» al vertice della Guardia di Finanza. E poi per presentarsi non a mani vuote al Senato, dove l’opposizione gli sta preparando già la mozione di sfiducia. Il copione è già scritto. Il Professore continuerà a ripetere «resistere, resistere, resistere». E si meriterà il miglior complimento che può ricevere dal Cavaliere: «Ogni giorno riceve una botta ma riesce a sopravvivere: significa che questo Prodi ha proprio le palle». (la Stampa)

sabato 15 dicembre 2007

Segnalazione. Carlo Stagnaro

Andrea Asoni e Piercamillo Falasca hanno firmato un divertente Focus per Epistemes sulla "teoria del freddo caldo", ossia l'idea fantascientifica (avallata da Al Gore e accarezzata informalmente dall'Ipcc, che pure nei suoi rapporti la boccia) che lo scioglimento dei ghiacciai artici possa condurre allo spegnimento della corrente del Golfo e dunque al raffreddamento del globo. E' una teoria di grande utilità per i fanatici del clima, perchè consente di dire che se fa caldo, è colpa del global warming, ma anche se fa freddo, è colpa del global warming, e perfino se non cambia un fico secco, non ha mai fatto così caldo/freddo (a seconda delle medie giornaliere), e quindi deve essere colpa del global warming. (Realismo energetico)

giovedì 13 dicembre 2007

Salvatori della patria

Nel nostro Paese c'è troppa gente che ha deciso di togliere di mezzo, politicamente, Berlusconi.
A queste brave persone diciamo che non lo permetteremo.
Non lo permetterà il popolo della libertà che ogni giorno di più si rende conto dell'abisso che separa il Cav. dai politicanti.
La stragrande maggioranza degli italiani vuole ridare un'altra chance all'ex Presidente del Consiglio, perché ha capito che Berlusconi, nei cinque anni di governo, ha dovuto mediare con gli alleati e rinunciare a parte del programma, oltre che rintuzzare gli attacchi mediatici e giudiziari.
Non abbiamo bisogno di salvatori della patria che eliminimo il "corpo estraneo" e che, in nome della loro consunta e degenerata ideologia, tentino di redimerci.
Abbiamo provato il buon sapore di una politica fatta per la gente, abbiamo capito che possiamo contare e dire la nostra, abbiamo smesso di delegare e di credere alle favole di politici opportunisti: non siamo disposti a tornare indietro.

mercoledì 12 dicembre 2007

Berlusconi replica: "Falsità dell'armata rossa dei giudici". Orlando Sacchelli

Il fulmine è arrivato di prima mattina e, come già altre volte in passato, si è manifestato dalle colonne di un giornale. Ancora una volta il protagonista di una vicenda ai confini tra la politica e la giustizia è Silvio Berlusconi. Stavolta l'accusa è di corruzione nei confronti di un alto dirigente della Rai e di istigazione alla corruzione di un senatore. Il Cavaliere è abituato da anni ai processi mediatici - prima che nei tribunali -. L'ex premier si difende parlando di "montatura", dice di non aver ricevuto alcuna notifica dalla procura e punta il dito contro "l’armata rossa della magistratura". "Questo presunto scoop è una montatura assoluta - attacca il Cavaliere - non c’è nessuna cosa di cui io debba preoccuparmi, sono assolutamente tranquillo". Per dire la sua verità Berlusconi sceglie la "Tv della Libertà". Ma l'impellente esigenza di difendersi non gli toglie l'entusiasmo e la voglia di andare avanti con la politica, con il suo progetto di dare vita ad un nuovo partito, il "Popolo della Libertà".

L'accusa. Il quotidiano "la Repubblica" oggi riportava che il leader di Forza Italia sarebbe indagato dalla procura di Napoli per la corruzione del presidente di Rai Fiction Agostino Saccà e per l’istigazione alla corruzione del senatore Nino Randazzo, eletto all’estero per il centrosinistra, per far cadere il governo di Romano Prodi al Senato.

"L'armata rossa dei giudici in azione". "Voglio soltanto notare - sottolinea il Cavaliere - che c’è odore di elezioni, di campagna elettorale e così subito l’armata rossa della magistratura si rimette in moto", ha proseguito l’ex premier. "Non ho avuto nessuna comunicazione". A proposito dei fatti riportati dal quotidiano di Ezio Mauro Berlusconi dice poi che "non c’è alcun rilievo penale. Ho fatto tutto alla luce del sole. Invece che a belle ragazze ho fatto la corte a dei senatori".
In un lungo servizio, Repubblica parla di un'indagine su sovraffatturazioni e presunti fondi neri che avrebbe al suo centro Saccà e che, dall’intercettazione del telefono del dirigente Rai, si imbatte in alcuni colloqui fra quest’ultimo e Berlusconi su una serie di tentativi di "acquisizione" di senatori del centrosinistra. In particolare, il giornale riferisce di una offerta di denaro e di un vero e proprio contratto per il senatore Randazzo, eletto nella circoscrizione dell’Australia e Oceania, cui sarebbe stato garantito un posto da viceministro in caso di caduta del governo Prodi, che in Senato ha una maggioranza risicata.

Randazzo chiarisce: "Niente corruzione" Chiamato in causa su una questione così spinosa il senatore ha confermato di essere stato sentito dai magistrati campani a metà novembre come persona informata dei fatti. Conferma di aver ricevuto da Berlusconi le proposte per far mancare i numeri al governo: "Quella è cosa arcinota, era quello l’obiettivo". Ma dice di non sapere nulla di ipotesi di corruzione a carico dell’ex premier. "No assolutamente - ha dichiarato - lo apprendo oggi da Repubblica. Io non faccio nessuna ipotesi di corruzione. Se la fa qualcun altro è un altro paio di maniche. Io non posso dire questo, infatti non abbiamo parlato di soldi con Berlusconi, quindi la corruzione in termini penali io non la vedo. Poi se c’è qualche altra ipotesi di corruzione io non lo so...".

L'avvocato del Cavaliere. Prima dell’intervento di Berlusconi, il suo avvocato, Niccolò Ghedini, aveva anticipato che il leader di Forza Italia non aveva ricevuto notifiche dai magistrati e pertanto la notizia era "destituita di ogni fondamento". Nella sua nota l’avvocato Ghedini proseguiva dichiarando che "non è dato comprendere come il quotidiano sia potuto venire in possesso del materiale d’indagine nel procedimento nei confronti del dottor Agostino Saccà". "I virgolettati riportati farebbero ritenere che la Repubblica sia in possesso di atti di indagine quali interrogatori, intercettazioni e atti di polizia giudiziaria", continuava Ghedini.

"Violato il segreto d'indagine". "Ci si trova quindi di fronte ad una gravissima lesione del segreto di indagine e ad una illecita pubblicazione delle indagini stesse. Come sempre si pubblicano stralci parziali di asserite conversazioni stravolgendone il senso complessivo, violando le regole processuali e il diritto alla privacy". "Comunque tutte le vicende così come narrate e riguardanti il presidente Berlusconi non hanno alcuna rilevanza penale, mentre appare con grande evidenza il tentativo di intromettersi e pesantemente, e qui sì vi sono forti rilievi penalistici, nella libera esplicazione della sua attività politica", precisa la nota aggiungendo che "il presidente Berlusconi ha dato mandato ai suoi legali di agire immediatamente in ogni sede per esperire ogni opportuna azione e in particolare per valutare la sussistenza di eventuali calunnie".

"L'armata rossa della magistratura si rimette in moto". "C’è aria di elezioni e subito l’armata rossa della magistratura si rimette in moto. Il presunto scoop di Repubblica è una montatura assoluta dentro la quale - ha detto il Cavaliere - non c’è nulla, nulla, nulla di cui possa preoccuparmi".

"Ho solo fatto la corte ai senatori". Alla presenza di un "governo disastroso io ho fatto solo la corte ai senatori ma tutto questo è avvenuto alla luce del sole". Berlusconi spiega di aver offerto "candidature e incarichi di governo" per "persone meritevoli" e di aver fatto tutto ciò "in maniera assolutamente corretta". Il Cavaliere ricorda il fatto che alcuni giorni fa "a Follini è stato conferito un incarico importante" proprio per la sua decisione di passare nell’altro schieramento e - aggiunge Berlusconi - "nessuno ha gridato allo scandalo". Per Berlusconi si tratta di normali trattative che fanno parte del gioco politico. "La corte nei confronti dei senatori - ribadisce l’ex presidente del Consiglio - è stata fatta in maniera solare e lineare". Infine, Berlusconi ironizza sul fatto che questa indagine sia partita dalla procura di Napoli, "una città - dice sorridendo Berlusconi - tranquilla e senza la presenza di criminalità...". (il Giornale)