martedì 28 febbraio 2012

Perché guadagniamo la metà dei tedeschi. Gianni Pardo

Mark Twain è uno dei massimi geni, in materia di humour. Quando un giornale ne annunciò il decesso, smentì lui stesso il lutto con queste parole: “Vi prego di notare che la notizia della mia morte è largamente esagerata”. Un’altra sua battuta, fra le tante: “Adamo non mangiò il pomo per amore del pomo, lo mangiò perché era proibito. L’errore fu di non proibire il serpente, ché, in tal caso, avrebbe mangiato il serpente”. E infine, per ciò che può servire oggi, questo principio: “Esistono piccole bugie, grandi bugie, statistiche”.

Chi le compila magari non vuole ingannare il prossimo: ma sono le fonti stesse che possono lasciare perplessi. Quando si pubblica una statistica sugli accoppiamenti mensili delle coppie sposate ultraquarantenni, non si può credere che uno, interrogato dal primo venuto, gli dica: “Io faccio l’amore ogni giorno, e se mia moglie è via ho una vicina molto comprensiva”, rischiando di passare per un immorale e un mandrillo. E neppure che dica: “Sono anni che non faccio l’amore con mia moglie. Mi ha fatto passare la voglia del sesso”.

La notizia statistica del giorno è che gli italiani guadagnano molto meno degli altri lavoratori dei principali Paesi europei - si parla di un 50% in meno dei lavoratori tedeschi, olandesi e lussemburghesi – mentre il costo del lavoro in Italia è solo del 20% inferiore a quello tedesco. Sarebbe come dire che il datore di lavoro tedesco paga 125 e il datore di lavoro italiano paga 100 (125-20%=100), ma mentre l’italiano guadagna 50 (l’altro 50 va in imposte e tasse), il tedesco guadagna 100 (il doppio di 50).

Il costo del lavoro italiano è superiore a quello di tutto il sud-Europa e perfino della Gran Bretagna e tuttavia guadagniamo meno di tutti gli altri, perfino dei lavoratori della Spagna, di Cipro e della Grecia fino ad ieri. Solo i Portoghesi e i maltesi stanno peggio di noi, se ciò può consolare qualcuno. Ma il fenomeno merita d’essere spiegato.

Approfondendo un po’ uno sente da altra fonte che da noi già il Tfr e la previdenza, da soli, incidono sulla paga per il 40%, mentre in altri Paesi (forse in Germania, se abbiamo sentito bene) della previdenza deve occuparsi lo stesso lavoratore, con quello che riceve, e si diviene prudenti. Aveva ragione Mark Twain, con le statistiche: i dati spesso non sono perfettamente comparabili. Meglio guardare alla sostanza.

L’Italia è nella situazione in cui è perché così l’hanno voluta gli italiani. Non è che lo Stato si sia divertito a falcidiare le paghe con le tasse, come proclamano in malafede i sindacati. Ecco un esempio: siamo tutti d’accordo che chi è vecchio o malato, ed ha lavorato per tutta la vita, è bene che abbia un reddito e un’assistenza medica. Potrebbe averle assicurandosi contro le malattie e la vecchiaia e basterebbe che lo Stato lo obbligasse a farlo. Ma le anime belle dicono: e se non lo fa? E se poi, da vecchio, non ha di che vivere o si ammala, che faremo, lo lasceremo morire? Meglio che lo Stato gli tolga i soldi necessari di tasca. Fa l’altro, gestendo la sua previdenza, gli offrirà un costo minore di quello che gli offrirebbero i privati. E lo stesso ragionamento viene esteso per molte prestazioni, col doppio risultato che la busta paga è pesantemente decurtata, mentre lo Stato offre tutt’altro che servizi meno cari e più efficienti di quelli che offrirebbero i privati (guadagnandoci).

Inoltre, lo stesso Stato che vuole assicurare le cure mediche ai lavoratori e ai pensionati non si limita a pagare le rette ospedaliere, ma gestisce in proprio la Sanità, con costi stratosferici, in omaggio alla mentalità della gente secondo cui, se una cosa la fa lo Stato, i privati non ci si arricchiscono. Dimenticando che spesso i privati si arricchiscono offrendo al pubblico prezzi inferiori di quelli che chiede lo Stato con le tasse. Ma un principio per così dire viscerale della sinistra vuole che tutto sia affidato allo Stato: quella suprema “realtà etica” di Hegel cui hanno creduto più gli italiani che i tedeschi.

Si è arrivati al punto che il datore di lavoro paga un’enormità e il lavoratore è pagato meno che a Cipro: ma in compenso, se ha bisogno di una tac, gliela fanno gratuitamente, cioè pagando un pesante ticket.

Naturalmente, se può aspettare alcuni mesi.

Ecco perché le proteste dei sindacati e di molti cittadini indignano il liberale. Mentre la sinistra ha lanciato grida di giubilo ad ogni nuova “conquista”, il liberale ha sempre accolto come un lutto la notizia di ogni nuovo compito affidato allo Stato, certo che solo con molto ritardo gli interessati si sarebbero accorti che per invidia e per ideologia si erano autodanneggiati. Ma come aiutare chi ama chiudere gli occhi sulla realtà?

Ora qualcuno chiede che il governo Monti, e la Fornero, mettano rimedio a tutto ciò. Siamo di nuovo al proposito di rivoltare l’Italia come un calzino? (il Legno Storto)

lunedì 27 febbraio 2012

Berlusconi prescritto. Giustizia "non pervenuta", come sempre. Simona Bonfante

In Italia vengono prescritti 500 processi al giorno, imputato eccellente in più, imputato eccellente in meno. Un’amnistia di fatto, non legale ma reale. La legge, nel nostro ordinamento costituzionale, non dovrebbe farla la consuetudine, ma il Parlamento. E invece il Parlamento fa le leggi, le leggi vengono trasgredite e la magistratura, che deve rilevare reati e comminare sanzioni, non è capace di fare né l’uno né l’altro, nel senso che seleziona a suo insindacabile giudizio le notizie di reato cui dare seguito investigativo, non curandosi alla fine neppure della loro reale perseguibilità.

La voce ‘giustizia’ nel nostro paese è non pervenuta. Non essere in grado di amministrare giustizia ci rende un paese a democrazia monca, come l’Afghanistan. La Corte europea dei Diritti dell’Uomo praticamente lavora solo per noi: siamo tra i primi per lunghezza dei procedimenti e secondi solo alla Russia per i casi accertati di trasgressione dei Diritti dell’Uomo. Per il cliente italiano di giustizia, la CEDU è ormai una specie di quarto, estremo grado di giudizio al quale ricorrere per sopperire alla conclamata incapacità strutturale del nostro sistema giudiziario di amministrarla da sé. Praticamente commissariati, come in Afghanistan, appunto, dove il Diritto c’è ma non si pratica.

In questi vent’anni la politica si è occupata eccome di giustizia. Non però di quella negata ai cittadini normali. Non della tortura inflitta ai rei segregati nei patri lager chiamati galere. Non dell’insostenibilità finanziaria di un sistema retto sull’inefficienza impunita e la irresponsabilità addirittura premiata. Ci si è occupati di Berlusconi. Si sono investiti denari pubblici per perseguire Berlusconi. Si sono occupate procure intere per aprire sempre nuovi e mediaticamente premianti dossier investigativi su Berlusconi. Berlusconi, ovviamente, non ne è stato manco scalfito. Al contrario, ne è stato politicamente come eternato.

Lo hanno scritto, ieri, Pierluigi Battista sul Corriere e Mario Sechi su Il Tempo, e lo ha auspicato pure un politico culturalmente decostruito come Matteo Renzi, che la fine del processo Mills deve adesso aprire una pagina nuova. Ma che sia davvero così, Berlusconi a parte, francamente, nutro dubbi. Abbiamo celebrato pochi giorni orsono il ventennale di Mani Pulite, che di quella focale che punta al dito per non vedere la luna è stata l’apoteosi. La luna della giustizia, a giudicare dal tenore dei commenti tecnici e di quelli politici alla sentenza del Tribunale di Milano, continua ad essere oscurata.

Il procuratore del processo Tortora ha fatto carriera. Il caso di Yara Gambirasio è ancora nulla di più probatoriamente solido di un plastico di Bruno Vespa. Silvio Scaglia, l’ex ad di Fastweb, s’è fatto un anno di galera e, dal processo in corso, non si capisce ancora perché. L’ex presidente della regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco, è stato costretto alle dimissioni, salvo poi scoprire che il reo era il suo accusatore. Intanto, qualche milionata di cittadini si rivolge alla magistratura per avere giustizia per un torto subito. Ecco, una pagina nuova si aprirà davvero quando il debito insoluto per il quale il cittadino-contribuente anonimo chiede giustizia diventerà motore dell’amministrazione quotidiana di quella roba chiamata Diritto.(Libertiamo)

Intervista di Silvio Berlusconi a Marcello Foa per il Corriere del Ticino

Presidente Berlusconi, lei continua ad appoggiare Monti e i giornali scrivono che «pensando al 2013 lei non vuole lasciarlo alla sinistra». Che succede? Da lontano è difficile capire…
"Se lei pensa che in questi primi tre mesi del nuovo Governo vi sia stata qualche oscillazione da parte nostra, devo smentire. Fin dall’inizio abbiamo sostenuto Monti con il nostro voto, lo stiamo facendo e lo continueremo a fare con lealtà e senso di responsabilità, per l’interesse superiore dell'Italia . Dobbiamo risolvere oltre all’emergenza economica, un’altra emergenza, quella istituzionale, per fare dell'Italia una democrazia moderna e garantire una piena ed effettiva governabilità. Il Governo dei tecnici è sostenuto quasi dall’intero Parlamento, e solo questo largo appoggio può consentirci di fare quelle riforme che una sola parte politica non può fare con i suoi soli voti».

Quali riforme?

«Mi riferisco alla riforma dell’architettura istituzionale dello Stato, che riguarda il Parlamento, il numero dei deputati, il Senato delle Regioni, la Corte costituzionale, i poteri del premier e del Consiglio dei ministri, fino all’introduzione di una nuova legge elettorale e alla riforma della giustizia».

È proprio sicuro che Monti sia così popolare tra gli italiani e gli elettori di centrodestra?

«I bilanci si fanno sempre alla fine. Ma tutti vedono che vi è una sostanziale continuità tra il programma di Monti e quello del Governo da me presieduto. È una continuità che lo stesso premier ha più volte riconosciuto. Conosco bene la serietà e la competenza di Monti, che io stesso nel 1995 sostenni per l’incarico di commissario europeo al Mercato interno. Mi piace ricordare che già nel discorso di insediamento del mio primo governo nel 1994, che in questi giorni mi è capitato di rileggere, citai proprio il prof. Monti, “fautore come noi siamo di un liberismo disciplinato e rigoroso”».

Nel ‘94 appunto, ma oggi siamo nel 2012…

«E oggi lui si trova nella condizione ideale per realizzare quelle riforme che il mio esecutivo aveva avviato, senza poterle portare a termine per la riluttanza dei partner della nostra coalizione e per la forte contrarietà preconcetta dell’opposizione. Per questo gli daremo il sostegno necessario. Vogliamo liberarci dei lacci e dei lacciuoli che ostacolano la crescita dell'Italia, inclusa la riforma del mercato del lavoro per rendere effettiva la libertà di concorrenza e restituire competitività all'Italia. Sono riforme liberali e penso che i nostri elettori apprezzeranno il nostro responsabile atteggiamento quando si tornerà a votare. Tanto più che oggi Monti gode di un buon consenso, come indicano i sondaggi».

Paese complesso, l'Italia. Negli ultimi anni l’asse con Bossi è stato saldissimo. Ora invece volano le incomprensioni e gli insulti. L’alleanza è finita. Perché?

«Perché noi abbiamo deciso di sostenere il Governo Monti per senso di responsabilità verso l'Italia, anche a costo di pagare un prezzo momentaneo; la Lega, invece, vuole dimostrare la sua identità e ha una posizione diversa dalla nostra sul governo dei tecnici. Ma non parlerei di rottura: continuiamo a governare insieme molte amministrazioni locali».

Domani correrete davvero senza la Lega?

«Per il futuro mi auguro che con la Lega si possa continuare ad avere una solida e leale collaborazione a tutti i livelli come è sempre stato».

Insomma, non chiude la porta. Intanto, però, PdL e PD stanno lavorando a una nuova legge elettorale che potrebbe portare a un bipolarismo forzato se le clausole di sbarramento fossero troppo elevate. Dentro i due grandi partiti, fuori o ininfluenti quelli piccoli. Non c’è il rischio che erodendo la pluralità partitica si limiti la libertà di scelta?

«In questi anni abbiamo introdotto in Italia un sistema bipolare che ha ridotto il numero dei partiti e assicurato una maggiore durata del governo rispetto al passato. Ricorda? Reggevano in media appena undici mesi. La nuova legge elettorale sarà una buona legge se, oltre a consentire agli elettori di scegliere il proprio rappresentante, lascerà intatte le conquiste del bipolarismo e della governabilità. Questo non significa certo aumentare il numero dei partiti. All’ Italia non serve tornare al carnevale di Rio della politica».

Dica la verità: ma è davvero Alfano il suo erede? Guardi che ci credono in pochi…

«Certo che sì. Alfano è stato eletto all’unanimità dal nostro Consiglio. Ha 35 anni meno di me, è autorevole e realizza il cambio di generazione di cui tutta la politica italiana ha bisogno. E le dirò di più. Sarebbe ora che anche gli altri politici che siedono in Parlamento da trent’anni, se davvero credono in ciò che dicono sui giovani e sulla necessità di innovare, facessero un passo indietro. Se qualcuno nel PdL non crede in questo cambiamento, dovrà ricredersi».

Nel ‘95 molti la diedero per finito e lei risorse nel 2001. Nel 2006 idem e lei vinse nel 2008. Oggi pensano che Berlusconi sia spacciato e lei ha dichiarato che non intende ricandidarsi… Non è che si sbagliano anche stavolta?

«Continuerò a fare politica, ma in modo diverso dal passato. Non mi candiderò più alla guida del Governo, ma come presidente del primo partito italiano in Parlamento agirò da “padre fondatore”, darò consigli alle nuove leve, cercherò di trasmettere quei valori di libertà e di democrazia per i quali sono sceso in campo e che sono tuttora il nostro credo politico, contro quella cultura dell’invidia, dell’odio e del giustizialismo che finora ha dominato gran parte della sinistra in Italia ».

C’è chi sostiene che, Monti o non Monti, il peso del debito pubblico italiano sia insostenibile. Dunque meglio scappare finché si è in tempo, magari proprio in Svizzera, come negli anni Settanta. Pessimismo esagerato? L’Italia ce la farà?

«Il debito pubblico italiano è sostenibile, e lo dimostrano i buoni risultati delle recenti aste per i titoli di Stato. Anche la speculazione se ne sta rendendo conto: lo spread, vale a dire la differenza rispetto ai titoli tedeschi, ha iniziato a scendere e anche le agenzie di rating alla fine ne dovranno trarre le conclusioni. La crisi, come ho detto più volte, non nasce in Italia ma in Europa, dove l'euro non ha dietro di sé una banca centrale come garante di ultima istanza al pari, ad esempio, della Riserva Federale americana. Quando avremo una vera banca centrale europea e gli eurobond, vale a dire i titoli emessi e garantiti direttamente da questa banca, l’Europa sarà diventata un soggetto politico unitario e forte, non più diviso tra Paesi debitori e Paesi creditori».

Ma l’euro sopravviverà?

«L'euro è ormai la moneta dell’Europa, supererà questa crisi e durerà a lungo nel tempo. Altrimenti non avrebbero senso i sacrifici che stiamo facendo. Il problema è la lentezza con cui si muove l’Europa».

Alcuni scrivono che sono stati i «poteri forti non italiani» a farla dimettere, con la complicità decisiva di Merkel e Sarkozy. Si sente vittima di un golpe?

«Sono stato io a dimettermi e a fare un passo indietro per senso di responsabilità e per senso dello Stato. Ho fatto questa scelta pur avendo ancora la maggioranza nei due rami del Parlamento, senza che il mio Governo fosse mai stato sfiduciato. Solo con un governo tecnico si può trovare l’accordo tra maggioranza e opposizione, tra centrodestra e sinistra, per approvare quelle riforme che prima ho ricordato e che sono indispensabili per superare la crisi economica e rendere governabile l’ Italia».

Oggi però il PdL, a giudicare dai sondaggi, non si salva dall’ondata di disgusto per la politica. Cos’è andato storto? E domani che ne sarà del partito? Vuole davvero chiuderlo e ricominciare dal basso, dalle liste civiche?

«La democrazia è il peggiore di tutti i sistemi, con l’eccezione di tutti gli altri”, ha detto Winston Churchill. Se i partiti hanno sbagliato, è giusto punire chi ha sbagliato, o, peggio chi ha rubato. Ma tenendo sempre a mente che i partiti sono alla base del sistema democratico e quindi di ogni libertà. Il nostro movimento politico, il Popolo della Libertà, si fonda su questi principi e continuerà a difenderli. Per questo presenteremo il nostro simbolo alle prossime elezioni amministrative, e stringeremo dovunque le alleanze necessarie per vincere insieme alle forze moderate che condividono i nostri valori e i nostri programmi. Per tradizione, alle elezioni amministrative c’è sempre stato in Italia un fiorire di liste civiche. Penso che la crisi dei partiti accentuerà questa tendenza. E noi dovremo tenerne il giusto conto, e tessere la tela delle alleanze, anche a livello locale, per vincere».

I liberali autentici le rimproverano di non aver realizzato le riforme liberali per le quali si era impegnato nel 1994. Cosa è mancato?

«Ho un unico torto: non sono riuscito a convincere il 51% degli elettori a darmi il loro voto. E per fare le riforme costituzionali serve almeno il 51 per cento».

Dov’è finito il Berlusconi grande comunicatore? Dalla sconfitta alle amministrative di Milano sembra aver perso il tocco magico che in passato le aveva permesso rimonte impossibili. È cambiato lei o sono cambiati gli italiani?

«Sono cambiato io. In questi ultimi anni ho raggiunto la consapevolezza che l’Italia, con questa architettura istituzionale, non è governabile. Il Governo ha come unico potere quello di presentare dei disegni di legge in Parlamento. Dopo 18/24 mesi il Parlamento approva dei testi molto diversi da quelli voluti dal Governo. Ma queste leggi non hanno vita lunga perché se dispiacciono alla sinistra o alla sua magistratura politicizzata, vengono impugnate da un Pubblico ministero che le porta dinnanzi alla Corte costituzionale che, inderogabilmente, le abroga, perché composta da 11 membri su 15 che appartengono ad una determinata area politico-culturale. Negli ultimi cinque anni questa Corte ha abrogato 241 leggi o parti di leggi. L’analoga istituzione degli Stati Uniti nello stesso periodo ne ha abrogate sette. E allora? Allora se i cittadini non si rendono conto che devono fare scelte del tutto diverse, concentrando i loro voti sui grandi partiti, se non si premia chi vuol veramente cambiare il Paese, siamo condannati all’ingovernabilità. E quando chi vince democraticamente le elezioni non riesce poi a prendere decisioni tempestive, la conseguenza è una crisi di sfiducia nei confronti della politica e della democrazia».

Trionfi e sconfitte, grandi polemiche, grandi scandali, grandi processi. Comunque «una vita che non è mai tardi. Di quelle che non dormi mai» per dirla alla Vasco Rossi. Lei l’ha avuta quella vita. C’è qualcosa di cui si pente e che oggi non rifarebbe?

«Non ho davvero nulla di cui pentirmi. Dovrebbero invece vergognarsi i miei persecutori, che da quando sono sceso in campo non hanno mai smesso di inventarsi processi fondati solo sulle calunnie, una macchina del fango mediatico-giudiziaria, una campagna di diffamazione su scala internazionale che non si è ancora fermata: anzi, dopo che mi sono dimesso dal Governo, l’accanimento giudiziario contro di me è addirittura aumentato».

Intanto sono passati 19 anni da quando annunciò la «discesa in campo». Scusi la franchezza: ma chi gliel’ha fatto fare? Il suo ex grande amico Montanelli l’aveva avvertita … Nonostante tutto ne è valsa la pena?

«Sono orgoglioso di aver salvato l’Italia nel ’94 da un governo che sarebbe finito nelle mani del Partito comunista italiano, cioè di un partito e di una ideologia sconfitta dalla storia. Ho la coscienza di avere servito il mio Paese con tutte le forze e con totale onestà intellettuale. Mi amareggia l’essere ripagato con un accanimento che non ha eguali nella storia da parte della sinistra giudiziaria. Vogliono distruggere la mia immagine di uomo, di imprenditore e di politico. È l’ennesima prova che la decisione di impegnarmi nella vita pubblica, per salvare l’ Italia dal comunismo e per cambiarla, non mi è stata perdonata da quei poteri che si sono visti insidiati nei loro interessi e nelle loro ambizioni. Ma non per questo lascerò l’impegno politico. Anzi, continuerò con la forza e con l’impegno di sempre».

E all’Italia «dei magistrati», «dei comunisti» cosa dice dopo 19 anni? Hanno vinto loro o ha vinto lei?

«Per ora sembrano prevalere l’invidia e l’odio. Ma vincerà l’amore, ne sono sicuro».

venerdì 24 febbraio 2012

C'erano dentro tutti, ma qualcuno si salvò. Fabrizio Cicchitto

Dopo vent’anni la discussione su Mani pulite e Tangentopoli è stata di una povertà sconcertante, perché del tutto ripetitiva rispetto alle polemiche del passato.

A nostro avviso di Tangentopoli oggi si deve parlare in termini storici e non puramente giuridici o etici.

Allora non si può nascondere l’assoluta evidenza: Tangentopoli era un «sistema» ed era parte del «sistema-Italia», non una sommatoria di corruzioni individuali. Il decollo della vita politica democratica in Italia, dal 1944 in poi, si è svolto in condizioni di assoluta drammaticità: prima la guerra civile fra fascisti e antifascisti, quindi la divisione del mondo in due blocchi che poteva sfociare anche in una nuova guerra mondiale. In Italia c’era il Partito comunista più forte dell’Occidente che dalle sue origini poteva giovarsi di enormi finanziamenti sovietici ai quali si aggiungevano quelli provenienti dalle società di import/export con l’Est, quelli derivanti dalle cooperative, quelli della rendita petroliera, quelli «straordinari» derivanti da imprese private in cambio di un sostegno negli appalti e in altre iniziative economiche (su quest’ultima voce esistono gli atti di una riunione presso la direzione Pci nel 1974 di cui hanno parlato Crainz e Galli della Loggia).

Per rispondere ai finanziamenti del Pci, alle origini la Dc fu finanziata dalla Cia e dalla Confindustria, poi dal sistema delle partecipazioni statali, dall’Iri e dall’Eni dove Enrico Mattei - d’intesa con Albertino Marcora - addirittura fondò una corrente, quella della sinistra di Base. A sua volta, fino a Craxi, il Psi venne finanziato dai suoi principali alleati a seconda delle fasi politiche fondamentali cioè dal Pci nella fase frontista e poi dalla Dc attraverso il sistema delle partecipazioni statali durante il centrosinistra.

Fu Craxi che si impegnò, con tutti i rischi conseguenti, a dotare il Psi di un finanziamento autonomo con imprenditori privati e con settori delle partecipazioni statali (da un lato Eni, dall’altro l’Efim). Mentre Dc e Psi erano divisi in correnti per cui il finanziamento dei vari gruppi industriali finanziari poi riguardava sia i partiti, sia le loro correnti, il Pci si fondava sul centralismo democratico, prendeva i soldi come partito e aveva effettuato una qualche differenziazione di ruoli fra chi si occupava del finanziamento, come Greganti e come Zorzoli, e chi svolgeva l’attività politica. Piaccia o meno, la realtà è stata quella qui descritta in modo crudo; all’estero come in Italia l’attività politica richiedeva e richiede cifre molto rilevanti: manifesti, manifestazioni, migliaia di quadri a tempo pieno sul territorio, sedi, giornali, ecc.

Dagli anni ’80 in poi il calo della tensione politica ha prodotto anche operazioni rivolte all’arricchimento personale. In Italia c’era poi una triplice anomalia: uno scontro politico frontale per l’esistenza del più forte Partito comunista d’Occidente, un capitalismo privato strettamente implicato allo Stato, delle forze politiche molto strutturate e molto presenti in tutti i gangli della società, e molto costose. A mettere in crisi il sistema di Tangentopoli sono stati due elementi. Da un lato il crollo del comunismo nel 1989, dall’altro l’adesione dell’Italia a Maastricht, ad opera del governo Andreotti-De Michelis nel febbraio 1992.

Orbene a quel punto il sistema di Tangentopoli, è diventato antieconomico per le imprese. Infatti, fino ad allora i grandi gruppi industriali-finanziari-editoriali italiani, in primo luogo la Fiat, non sapevano neanche dove stavano di casa il mercato e la libera concorrenza. Invece con Maastricht furono costretti a fare i conti con la concorrenza internazionale e il sistema basato sulle tangenti è risultato anti-economico.

Ora quale è stata la «perversione» insita in Mani Pulite? La risposta è semplice. Tutti i partiti e tutti i gruppi economici erano coinvolti in Tangentopoli. Allora o il sistema veniva superato in modo concordato (ad esempio con la fine del finanziamento irregolare e con una amnistia), oppure la magistratura, come gli «angeli sterminatori» di Brummel, avrebbe dovuto colpire tutto e tutti, compreso il Pci-Pds.

Ora già l’amnistia del 1989 aveva sanato i reati commessi fino ad allora, compreso il finanziamento sovietico per il quale il Pci non è mai stato perseguito. Mani pulite ha concentrato i suoi colpi su quello che è accaduto dopo e lo ha fatto in modo assolutamente unilaterale sia dal punto di vista delle imprese, sia dal punto di vista dei partiti: ha colpito in modo totale il Psi, il Psdi, il Pli , il Pri e l’area di centrodestra della Dc, invece ha salvato sia la sinistra democristiana, sia il Pci nel suo complesso. Ciò è stato riconosciuto anche da Carlo De Benedetti: «In quell’operazione certamente il Pci è stato protetto perché sia Borrelli che D’Ambrosio volevano distruggere il sistema di potere, non tutti i partiti, non la politica» (in Marco De Milano, Eutanasia di un potere, pagina 291, Laterza).

Basti pensare che è provato – lo ricorda Di Pietro stesso - che Gardini si recò in via delle Botteghe Oscure, avendo un appuntamento con Occhetto e D’Alema e portando con sé circa un miliardo. Per questo egli e Cusani furono anche condannati per corruzione, ma non fu possibile accertare chi, del Pci-Pds, fu il «corrotto».

Di conseguenza Mani Pulite si è risolta in una sorta di «guerra civile» nella quale i tradizionali partiti democratici e anticomunisti sono stati distrutti e in Italia, nel 1994, stava per avvenire il paradosso storico che proprio il partito post-comunista fosse li per lì per prendere il potere. L’operazione fu impedita dalla discesa in campo di Berlusconi. Non a caso, da allora, egli è diventato il bersaglio di tutte le procure d’Italia, del gruppo Repubblica-L’Espresso e dei partiti di sinistra.

Va anche detto che, dopo il 1987, sia la Dc che il Psi non erano più quelli di una volta, per cui l’operazione fu favorita dalla loro involuzione. Come abbiamo visto Tangentopoli era un sistema che coinvolgeva gruppi economici, partiti, sindacati (i palazzi d’oro) e correnti di partito in quanto tali. Adesso non c’è nulla di tutto ciò: vige una parcellizzazione della corruzione che coinvolge i singoli, gli alti burocrati, i manager di singole imprese, i singoli uomini politici. È un fenomeno che coinvolge tutto e tutti (per cui il Pd non può dare nessuna lezione) ma in forme del tutto decentrate e personalizzate.

È augurabile che anche questa versione della corruzione venga sconfitta perché essa toglie efficienza al sistema ed è contraria alla democrazia perché toglie credibilità ai partiti e alle istituzioni. (il Giornale)

Dare un senso alla fine. Davide Giacalone

Il centro destra si avvia a perdere le elezioni amministrative, al punto da avere preso in considerazione l’ipotesi di disertarle. Il centro sinistra si appresta a vincerle, ma avendo sconfitto prima il Partito democratico. Se questi sono i prevedibili conti nelle urne il bilancio politico è diverso: il governo Monti sta facendo quello che il centro destra non è stato capace di fare, ma che pure avrebbe voluto, il che mette in grave difficoltà la sinistra, spaccandola. In fondo quello in carica rientra nel novero dei sogni berlusconiani: un governo senza i partiti e che sbandiera i sondaggi. Immagino l’invidia.

Lo squagliamento dei grossi partiti ha spostato alla scadenza naturale le elezioni politiche, il che non è un successo della stabilità, ma un fallimento della politica. Eppure il governo non risparmia sgradevolezze alla sinistra, spingendo Pier Luigi Bersani, controvoglia, a dire che il voto del proprio partito non è scontato. Invece lo è. La riforma del mercato del lavoro si farà, coinvolgerà anche le bandiere (leggi articolo 18), dimostrerà la scarsa rappresentatività dei sindacati e ha già messo in crisi anche confindustria. La direzione di marcia del governo è tutta politica, concepita con determinazione: l’Italia non è rappresentata da chi pretende di rappresentarla.

Se si ragiona ponendo mente alle singole questioni non si può che esserne felici. Quando parla il ministro Fornero tendo ad applaudire in piedi, anche se mi trovo da solo in una stanza. Quando vedo il modo in cui certi problemi vengono affrontati faccio mentalmente il conto di quante occasioni ha sprecato il centro destra, e il totale è inquietante. Ma rimane da esaminare un dettaglio: le democrazie funzionano con il consenso, misurato in libere elezioni, mentre qui quel che gli italiani hanno complessivamente votato è ostaggio di un governo commissariale. Sarebbe incosciente non vedere il pericolo.

Se la metà delle cose che il governo Monti sta facendo fossero anche solo state dette dal governo precedente si sarebbe scatenata la guerra civile. Non è un’ipotesi, ma la nostra storia recente. Eppure sono cose giuste e necessarie, riconosciute come tali anche dalla sinistra che non si trova in servizio propagandistico permanente. Ciò dimostra che il nostro meccanismo democratico s’era inceppato prima, e sebbene il montismo non sia un rimedio, di certo non è la causa.

Provo rispetto per il travaglio del Pd, non mi abbandonerei ad alcun dileggio. Bersani, come tanti altri, sa benissimo che si deve riformare il lavoro abbattendo le barriere all’ingresso e, quindi, anche molte garanzie. Eppure deve far fronte ad un problema: come si fa a portare il consenso di quanti sono stati allevati nel dissenso? La versione banale racconta il pericolo che il Pd si spacchi, ma questo importa solo a un gruppo dirigente vecchio, incapace, privo d’idee e strapronto per la definitiva rottamazione. La versione più ragionevole, però, descrive una questione delicata: se si abbandona la base elettorale alle tentazioni estremistiche, armate di bastoni come di moralismo, in attesa d’incrudelirsi ulteriormente, non si fa un servizio al Paese, ma se ne coltivano i vizi e i difetti.

Il centro destra, del resto, assiste attonito alla guerra contro l’evasione fiscale, condotta con metodi a dir poco appariscenti ma in sé tutt’altro che deprecabile. Non riesce, però, a trovare il modo per dire quel che è ovvio, ma, al tempo stesso, la certificazione del proprio fallimento: le tasse devono diminuire, non essere incassate con maggiore pervasività, la persecuzione fiscale non solo riduce il cittadino a suddito di un potere dispotico, che prima pignora e poi discute, ma deprime l’economia e fa scemare l’ossigeno.

Ripeto: il centro destra politicamente vincente (quello, per intenderci, che fu governativamente perdente) incasserà presto sconfitte elettorali, mentre il centro sinistra elettoralmente vincente è quello politicamente sconfitto e da superare. Tutto questo dice che quei due partiti dovrebbero fare appello all’intelligenza e al coraggio, facendo non dell’appoggio ricattato, ma della partecipazione diretta al governo Monti la chiave per aprire veramente la porta delle riforme costituzionali. In un processo che deve coinvolgere anche la prossima legislatura. Ciò segnerà la fine loro e della seconda Repubblica, ma la renderebbe utile. In caso contrario sono comunque finiti, non hanno più nulla da dire, meno ancora da fare, ma in un processo di disonorevole decomposizione.

giovedì 23 febbraio 2012

Un rischio Saviano lo corre. Annalisa Chirico

Certe cose non vanno neppure pensate, figuratevi se vanno scritte. Accade che Giorgio Magliocca, sindaco di Pignataro Maggiore – perché, per sua sventura, il prode ha scelto di impegnarsi in politica in una provincia come quella casertana -, divenga il boss in pectore, il collegamento tra il clan camorristico locale e la politica, naturalmente in salsa Pdl. Un poliziotto, tale Di Lauro, che nello stesso paese si è candidato sotto le insegne comuniste, guida le indagini.

Nel giro di pochi mesi Magliocca diventa l’uomo nero, gli vengono inflitti undici mesi di carcerazione preventiva. Dietro le sbarre da presunto innocente, anzi da innocente. Alla fine infatti il giudice assolve Magliocca perché il fatto non sussiste. Il castello accusatorio viene giù pezzo dopo pezzo e quell’uomo torna in libertà, ma la vita che lo attende fuori non è più la sua. Il tornado giudiziario travolge tutto, la carriera è stroncata e la reputazione infangata. Sì, come sempre accade in questi casi, la “macchina del fango” non risparmia niente e nessuno, anzi precede di gran lunga il processo in aula.

In cima alla lista degli “infangatori” compare, quantomeno per caratura internazionale, il romanziere Roberto Saviano. Il quale romanziere agisce “in buona fede”, come scrive egli stesso nella lettera indirizzata al “gentile avvocato Magliocca” nel 2009, quando di fronte alla querela per diffamazione e alle testimonianze degli investigatori (che smentiscono la sua ricostruzione) l’icona antimafia si prende la briga (o la premura) di mettere nero su bianco le sue personali scuse per quell’articolo pubblicato nel 2003 sul settimanale “Diario”; un articolo nel quale con la sicumera di chi adopera il terzo occhio Saviano accusa il sindaco dei reati che a Magliocca sono costati l’ingiusta detenzione e per i quali egli è stato, per l’appunto, assolto.

Nello scusarsi Saviano ricorda che il qui pro quo è avvenuto perché stretto dai “tempi imposti dalle esigenze editoriali” e dall’ “impossibilità di accedere ad altre fonti” il romanziere non ha avuto il tempo di verificare la veridicità delle cose riferitegli. Il tempo, come si dice, è tiranno.

Ora, noi non osiamo neppure immaginare che le uniche fonti di Saviano, dell’esimio Saviano, siano pentiti in odore di benefici e pm alla ricerca di notorietà, ce ne guardiamo bene. Anche queste sono cose che non vanno neppure pensate, figuratevi se scritte. Fatto sta che anche nel caso Magliocca la “macchina del fango” ha funzionato alla perfezione.

Poiché crediamo alla buona fede di Saviano, un consiglio ci permettiamo di darlo. A forza di sparare sentenze preventive su persone indagate o inquisite, a forza di imbastire processi paralleli o addirittura anticipatori rispetto a sospette iniziative giudiziarie, a forza di salire sul podio dei giusti per mazzolare gli improbi in attesa di giudizio, un rischio, caro Saviano, lo corri. C’è da temere che nel giro di qualche anno, giustizia italiana permettendo, di lettere di scuse ti toccherà scriverne più di una. Poi magari no, d’ora in avanti ci azzeccherai sempre, e noi ce lo auguriamo per davvero. Per te e ancor di più per chi ti capita a tiro. Con rispetto parlando, s’intende. (the FrontPage)

Guardonismo fiscale. Davide Giacalone

Ora che i redditi dei ministri sono stati pubblicati cerchiamo di capire la differenza che passa fra la trasparenza e il guardonismo fiscale. Posto che quello praticato in Italia è un esercizio che rientra nella seconda categoria: si compongono le liste, si stilano le classifiche, si sbircia per sapere quanto è ricco questo o quello. Funziona così per i ministri, come per i parlamentari. Ma, appunto, non funziona. Non serve a niente. Mero esercizio d’inutile curiosità. Espletato il compito ci si sente più leggeri, si proclama l’avvento dell’onesta visibilità, s’inneggia ai nuovi costumi. Invece non è cambiato un bel niente.

Prendete le dichiarazioni diramate ieri: ce ne fossero due compitate con il medesimo criterio! Ciascuno mette quello che gli pare: alcuni i redditi dell’anno scorso, altri quelli di quello in corso, altri del prossimo. Che ci si fa, con roba simile? E la responsabilità dell’inconcludenza non è di questi ministri, cui, semmai, va riconosciuta la buona volontà. Ma la trasparenza di un Paese non può dipendere dalla buona volontà. C’è un vizio culturale di fondo: si raccontano le storie personali come se il pubblico fosse una giuria penale, si raccolgo i redditi e i patrimoni come se chi li legge dovesse vestire i panni del giudice tributario. Si aggiunge che la ricchezza non è una colpa, laddove dovrebbe essere un merito. Il tutto senza alcuna attenzione a come si dovrebbero aggregare, pubblicare e utilizzare quei dati, quindi senza alcun rispetto per la trasparenza che aiuta la democrazia.

Perché è interessante sapere come e di cosa vive chi governa e chi legifera? Perché è rilevante conoscere i suoi interessi e quelli con i quali è giunto in contatto. E’ rilevante sapere se (è un’ipotesi) il nuovo ministro della difesa ha lavorato con chi fabbrica armi, e non perché sia positivo o negativo in sé, ma perché è giusto conoscere il retroterra delle scelte che saranno fatte. Non serve a nulla sapere quanto Tizio ha guadagnato l’anno scorso, ma è interessante sapere come si sono evoluti i suoi redditi negli ultimi dieci anni (perché se l’ultimo la sua ricchezza s’è moltiplicata, o improvvisamente annientata, se ne può ragionare circa gli interessi o i trucchi con i quali si è avvicinato all’incarico pubblico). Anche qui, non perché ci sia qualche cosa di male, ma perché è bene sapere. La funzione di quei dati non è inquisitoria, ma al servizio della pubblica consapevolezza.

Il giudizio che compete al cittadino è quello elettorale. Se le persone di cui si pubblicano i redditi non si sono mai candidate o non intendono farlo, a che scopo gira l’informazione? E’ evidente che se c’è qualche cosa di sospetto l’accertamento non deve essere fatto al bar, né la democrazia ci guadagna continuando ad alimentare le letterature castali e il diffondersi dei refoli calunniosi. Faccio osservare che gli scandali, o presunti tali, non originano mai da quei dati, ma nascono prima o, comunque, indipendentemente. Ed è bene così (meglio sarebbe non averne, ma è impossibile), perché ciò che si fornisce al pubblico non sono indizi di reato, ma strumenti di conoscenza.

Il reddito di un anno e il patrimonio fotografato ad un determinato istante, non è uno strumento di conoscenza. Alimenta il guardonismo, il gusto morboso di spiare la fortuna altrui (talora coltivando l’invidia, quindi la rabbia, talaltra la devota ammirazione, due sentimenti egualmente animali). Se poi, per giunta, i dati sono disomogenei e affidati alla fantasia di ciascuno (mi spiegate come si fa ad accertare la veridicità di un reddito futuro?), allora siamo al gargarismo.

Vediamo il lato positivo: si è affermato un costume. Sia reso merito al governo Monti. Adesso, però, si cerchi di dargli un minimo di razionalità e funzionalità. Ho una proposta: chi accetta incarichi pubblici accetta anche la pubblicazione delle proprie dichiarazioni nel quinquennio o decennio precedente, depurate dei dati strettamente personali (esempio: figli a carico). Chi ha da temere, se ne stia a casa.

giovedì 16 febbraio 2012

Lettera di Silvio Berlusconi

Ho la coscienza di aver servito in questi anni con tutte le mie forze il mio Paese, e ne sono ripagato con un accanimento da parte di alcuni magistrati di Milano che non ha eguali nella storia. Si vuole distruggere fino in fondo la mia immagine di uomo, di imprenditore e di politico. Solo io posso sapere quanto male ho subito e continuo a subire per avere scelto la strada dell’impegno politico.

Al termine di una vita di lavoro indefesso sia nella mia professione di imprenditore e in seguito nell’impegno politico, sono trattato peggio di un delinquente, con accuse che non trovano corri-spondenza nei fatti e che sono state smentite nel corso del processo dibattimentale.

La decisione di impegnarmi nella vita pubblica, cercando di trasformare e di cambiare l’Italia, non mi è stata mai perdonata da tutti quei poteri che si sono visti insidiati nei loro interessi e nelle loro ambizioni.

Quello che più mi amareggia in questo momento è di constatare fino a che punto la giustizia può essere piegata a pregiudizi di carattere politico e ideologico.

Ripeto: solo chi malauguratamente ha la sventura di entrare nel tunnel della mala giustizia può immaginare l’incubo che si sperimenta, la sofferenza che si prova a finire nell’ingranaggio disumano di una giustizia che sembra non rispondere più alle leggi, ai princìpi fondamentali del nostro ordinamento liberale, alle prove e ai fatti che emergono nel corso dello stesso procedimento.

La coscienza che ho di questa situazione, e la vicinanza della mia famiglia e di quanti mi vogliono bene e mi conoscono, mi dà la forza di continuare la battaglia per il riconoscimento pieno della mia totale estraneità a quanto mi viene addebitato.

Spero ancora che giudici integerrimi e devoti unicamente alla legge e alla verità, decidano in piena coscienza e nel pieno rispetto della realtà dei fatti.

martedì 14 febbraio 2012

Così. Jena

Ieri Bersani aveva quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così che abbiamo noi che abbiamo visto Genova... (la Stampa)

Monti, l'educatore. Angelo Libranti

A Roma una volta si diceva: “E chi ssei, Cacini?”, riferendosi a chi arrivava, cacchio cacchio, in un cotesto, per mettere le cose a posto.

Oggi occorre far riferimento al professore della Bocconi che, sempre cacchio cacchio, vuol mettere in riga gli italiani per cambiargli usi e costumi. Il bello è che certe affermazioni sono state pronunciate all’estero durante il recente viaggio negli Stati Uniti, forse temendo in patria, in risposta, uno scroscio di pernacchi.

Imporre agli italiani correttezza di comportamenti verso lo Stato sarebbe come cercare di educare un ragazzo ladro, figlio di un ubriacone sfaccendato e di una puttana che lo costringono a rubare. Tutto può essere, sarebbe meglio però cominciare a educare i genitori. Qui sta il problema.

Abbiamo già scritto come lo Stato si comporti verso il cittadino da usuraio e delinquente e la risposta del volgo non può che essere la difesa della sua casa, del suo patrimonio, dei suoi interessi.

Hanno voglia certi governanti a pretendere fedeltà e onestà dagli artigiani, dai professionisti e dai redditi fissi tartassati alla fonte già sulla busta paga.

Tutti siamo coscienti di come l’organizzazione pubblica, formata da legislatori, amministratori locali e fornitori di servizi a tutti i livelli, ci taglieggi giorno per giorno, senza avere la possibilità di adeguata difesa. Non solo imposte e tasse da parte dello Stato, ma anche gabelle dei Comuni sotto forma di onerose tasse sulla spazzatura a fronte di servizi scadenti, multe a raffica inflitte dai famosi “ausiliari”, sedicenti vigili urbani ignari del codice della strada, quando non organizzano vere e proprie trappole piazzando autovelox fra i cespugli, su una strada priva di autorizzazione del Prefetto.

Gli Enti di fornitura, poi, sono autentiche associazioni per delinquere. Interpretare una bolletta è compito da iniziati e fra consumi presunti o anticipati, sorge il dubbio che nei conguagli restino a carico dell’utente le accise e l’Iva pagati precedentemente.

Banche e assicurazioni hanno, praticamente, carta bianca e impongono interessi e tariffari senza controllo; l’Unione petrolifera è attiva in regime di monopolio.

Le famose Autorità, che dovrebbero tutelare il cittadino, sono impotenti e lo dicono in modo chiaro, quando si presentano lamentele contro un servizio da schifo. Una domanda sorge spontanea: cosa sono state istituite a fare, se non risolvono neanche piccole questioni riguardanti, per esempio, la lettura di una bolletta? Le sedi sono faraoniche, il personale educato e indaffarato, il presidente contornato da un adeguato collegio di membri.

Risultati, zero!

A questi problemi “minori” si aggiungono quelli “maggiori”, imposti al cittadino con una serie di aumenti scaturiti dalla manovra “salva Italia”, come dire a salvare loro stessi ed i loro privilegi, affinchè vengano perpetuati senza volontà di autentica riduzione.

Il professore della Bocconi, così intenzionato a educare gli italiani, perchè non comincia ad educare il suo ambiente di finanzieri e bancari; perchè non mette ordine a una burocrazia assurda e nelle amministrazioni locali pirata, che succhiano danari del contribuente a fronte di inesistenti servizi; perchè non si adopera per riformare la giustizia malata, dove per avere un giudizio servono anni di attesa snervante e dispendiosa ed ancora, perchè non dà alle famose Autorità il potere di sanzionare gli enti inadempienti con adeguate penalità e regolarizzare le tariffe con equilibrate liberalizzazioni che non siano quelle ridicole dei tassinari e degli edicolanti?

Quando il cittadino si sentirà confortato da uno Stato amico e tutelato nei suoi diritti, potrà pretendere il rispetto delle regole e della istituzioni.

Solo allora può decidere di educare gli italiani reprobi e quelli refrattari ad ogni tipo di ordine economico e sociale. (the Front Page)

lunedì 13 febbraio 2012

Gli italiani capiranno Monti anche se tocca l'art.18. Ce lo dice la storia. Giuliano Cazzola

Il 14 febbraio del 1984 il Governo Craxi, dopo che l’allora ministro del Lavoro Gianni De Michelis aveva condotto un lungo e travagliato confronto con le parti sociali, decise di rompere gli indugi e, per decreto legge (appunto, il decreto di San Valentino), tagliò quattro dei punti di "scala mobile" (in seguito ridotti a tre) che sarebbero maturati nel corso dell’anno. Di che cosa si trattava?

Con l’immagine della "scala mobile" era definita l’indennità di contingenza, una voce retributiva, introdotta nell’immediato secondo dopoguerra, rivolta a rivalutare automaticamente i salari e gli stipendi all’inflazione. Il procedimento era semplice: veniva individuato un pacchetto di beni (detto "paniere") e se ne misuravano periodicamente le variazioni attribuendo ad ogni punto percentuale un valore economico, che si traduceva in un adeguamento retributivo. All’inizio degli anni ’80 si era posto il problema dell’incidenza di questo istituto sui livelli di inflazione da tempo a due cifre, la quale, tra gli altri guasti determinati, stava drenando ogni possibilità di politica salariale da parte degli stessi sindacati, dal momento che quasi tutte le disponibilità economiche delle imprese venivano assorbite da tale istituto.

Un giovane e brillante economista, Ezio Tarantelli, aveva con forza denunciato questo processo degenerativo, convincendo della bontà della sua tesi un importante leader sindacale, Pierre Carniti, allora segretario generale della Cisl. Prima di passare alle vie di fatto, Bettino Craxi si assicurò l’adesione della Cisl, della Uil e della componente socialista della Cgil oltreché di tutte le associazioni imprenditoriali. Il Pci e la maggioranza comunista della Cgil condussero una durissima opposizione in Parlamento, nei luoghi di lavoro e nelle piazze; poi, dopo la conversione in legge del decreto, promossero un referendum abrogativo.

Per i sostenitori dell’intervento legislativo non era facile spiegare i motivi per cui la misura era necessaria, tanto più che i promotori del referendum avevano dalla loro, in caso di vittoria, la c.d. restituzione del maltolto: un ammontare, ragguagliato ad anno, di circa 350mila lire, che sarebbe finito in busta paga. Secondo il Pci l’indennità di contingenza non aveva nessuna influenza sul costo della vita perché interveniva ex post ad adeguare le retribuzioni. Non riuscivano a capire che, invece, l’istituto svolgeva un ruolo di consolidamento e di stabilizzazione dei livelli di inflazione. Si scatenò, in quei due anni, una battaglia molto aspra, in cui entrarono a piedi uniti anche le Br, uccidendo l’uomo-simbolo di quegli eventi: Ezio Tarantelli, reo di aver affermato per primo che .

Alla fine, però, nella consultazione referendaria, vinse nettamente il No. Gli italiani dimostrarono di aver compreso quale fosse la posta in gioco. Cominciò, allora, una lunga telenovela, fatta di modifiche, revisioni, decreti, che si concluse soltanto nel 1992 con il de profundis della e con un nuovo modello di relazioni industriali sancito nel Protocollo del 1993. Un’altra volta gli italiani seppero vedere giusto, ben al di là degli illusori vantaggi immediati.

Nel 2003 furono chiamati a pronunciarsi in un altro referendum popolare, promosso da talune forze della sinistra politica e sindacale e sostenuto dalla Cgil. Alla spalle di quell’evento stava un sequela di fatti: le modifiche proposte dal Governo Berlusconi all’articolo 18 dello Statuto, l’opposizione della Cgil di Sergio Cofferati, l’assassinio di Marco Biagi, altro uomo-simbolo; il Patto per l’Italia sottoscritto da tutte le parti sociali tranne che dalla Cgil. Il quesito referendario, se accolto, avrebbe esteso la tutela reale prevista dall’artico 18 anche alle imprese che occupavano fino a 15 dipendenti (escluse dall’obbligo di reintegra per via giudiziaria). Il referendum mancò con ampi margini il quorum dei votanti.

Perché abbiamo voluto ricordare, proprio oggi in occasione di un’importante ricorrenza, quegli episodi? Sappiamo bene che la storia non si ripete, quanto meno con le medesime modalità. I tempi in cui viviamo sono cupi e spesso si ha l’impressione che la società stia dormendo quel sonno della ragione che, al risveglio, genera solo mostri. Ma quei fatti di una storia tutto sommato recente incoraggiano il Governo ad andare avanti a non ascoltare quanti affermano che i problemi sono altri. Monti, parlando agli operatori di Wall Street, ha percepito che, tra i segnali (solo emblematici ?) che essi attendono dal nostro Paese, non può mancare una revisione, sia pure parziale, dell’articolo 18: l’ultimo Muro di Berlino rimasto in piedi in Europa. (l'Occidentale)

sabato 11 febbraio 2012

Protagonisti indispensabili. Michele Ainis

Nella Penisola dei privilegi ogni corporazione ha la sua legge. Ma il vero privilegio è di chi nuota in una zona franca del diritto, dove l'unica legge è quella del più forte. O del più furbo, del più lesto di mano. Serviva davvero il caso Lusi per scoprire l'urgenza di una legge sui partiti? In realtà il Far West non riguarda loro soltanto. Manca altresì una legge sui sindacati. E in entrambi i casi questo vuoto esprime un tradimento della Carta costituzionale. Rispetto ai primi, risuona ancora la domanda che Calamandrei sollevò in Assemblea costituente: come può respirare una democrazia, se i suoi attori principali non sono a loro volta democratici? Ecco perché - aggiunse Mortati - una legge sui partiti sarebbe stata «consona a tutto lo spirito della Costituzione». Per costringerli a osservare il «metodo democratico» di cui parla l'art. 49 della Carta, traducendolo in una griglia di diritti e di doveri. E perché, in sua assenza, i partiti fanno un po' come gli pare.

Le prove? Basta rievocare il battesimo dei due protagonisti sulla scena politica italiana, Pdl e Pd. Il primo, sorto nel 2008 dalla fusione di Alleanza nazionale e Forza Italia, ne ha al contempo violato gli statuti. Lo scioglimento di An venne deliberato infatti dall'assemblea nazionale anziché dal congresso; quello di Forza Italia fu deciso in solitudine dal suo presidente davanti alla folla di San Babila. Dopo di che i due gruppi dirigenti firmarono accordi segreti alla presenza d'un notaio: 70% dei posti (e dei soldi) a Forza Italia, 30% per gli orfani di An. Quanto al Pd, venne al mondo nel 2007 dal ventre di un'assemblea elettiva (2.858 delegati). Tuttavia, quando nel giugno 2008 questo pletorico organismo si riunì di nuovo per modificare lo statuto, l'80% dei suoi membri lasciò la sedia vuota. Riunione invalida, per difetto del numero legale. Ma l'assemblea emendò ugualmente lo statuto, nonostante qualcuno protestasse ad alta voce. Chi? Arturo Parisi, lo stesso (unico) uomo che a suo tempo ebbe da ridire sui bilanci della Margherita. Evidentemente è un vizio.

E i sindacati? In questo caso la legge viene prescritta nero su bianco dalla Costituzione: art. 39. Devono dotarsi infatti di «un ordinamento interno a base democratica», altrimenti i contratti collettivi di lavoro non possono spiegare effetti vincolanti. Ma la legge sulla democrazia sindacale non è mai uscita dal libro dei desideri dei costituenti, perché i sindacati si sono sempre ribellati all'idea che qualcuno ficchi il naso in casa loro. Ciò nonostante, ai contratti collettivi viene riconosciuta ormai da tempo efficacia obbligatoria, con l'avallo della giurisprudenza. Una frode alla Costituzione.

È in questo vuoto che prospera il potere delle oligarchie, mentre gli iscritti ai partiti e ai sindacati sono senza voce. L'esperienza, d'altronde, è fin troppo eloquente: votazioni truccate, espulsioni contrarie allo statuto, congressi fantasma, iscrizioni fittizie. Non a caso il primo progetto di legge sui partiti fu depositato da don Sturzo nella I legislatura. Ma non è nemmeno un caso che nessun progetto sia mai approdato in porto: quando i riformatori coincidono con i riformati, ogni riforma naviga sempre in mare aperto. Ed è un bel guaio, perché l'autorità delle democrazie si regge sull'autorevolezza dei partiti politici. Sennonché dopo il caso Lusi, e il caso Penati, e i cento altri casi ancora nascosti sotto un'onda compiacente, la nave dei partiti adesso viaggia fra Scilla e Cariddi. O l'autoriforma, la riforma impossibile; o il naufragio elettorale. (Corriere della Sera)

La visita di Mario Monti in America è una "bolla" mediatica tutta italiana. Edoardo Ferrazzani

Le “bolle” speculative nell’economia sono dolorosissime. Come sottovalutarne gli effetti. Da tempo però non si vedeva una mini bolla ‘mediatica’. Quella che sta avendo luogo in Italia per la visita di Mario Monti negli Stati Uniti è una di quelle. Aperture quasi epiche su ‘Repubblica’ e ‘Corriere’, col sapore da onore ritrovato e verginità ricostruita, dopo l’onta vissuta durante regno berlusconiano.

Copertina del Time magazine, con un grigissimo Monti (mai un sorriso sig. Presidente, surtout pas). Sulle ragioni per cui i media italiani si esercitino con tanta baldanza sul ‘viaggio in America’ del presidente del consiglio non eletto, Mario Monti, non occorre tornare. Dopo il disarcionamento del presidente Berlusconi, tutto luccica. Sulla Repubblica, Federico Rampini fa una cronaca editoriale i cui toni parlano da soli.

Per il rigido neo-investito Marco Polo di Repubblica, da anni ormai di ritorno in esilio in America, l’incontro tra Barack Obama e Mario Monti segnerebbe un cambiamento significativo, “… un’allusione delicata all'uscita di scena di Silvio Berlusconi con cui l'Amministrazione democratica ebbe un rapporto a dir poco diffidente. Con Monti il cambiamento di tono è immediato. Finalmente il dialogo è tra simili. Molto simili davvero”.

A cosa faccia riferimento il (probabile) prossimo direttore de ‘La Repubblica’ non è molto chiaro. Cosa dovrebbe unire i due uomini? Uniformità di pensiero politico? Barack Obama in Europa sarebbe considerato un incrocio politico tra Gerhard Schroeder e Louis Zapatero, anti-flessibilità, anti-religione, pro-sindacati, pro-spesa pubblica e pro tutto quello che la crisi del modello di spesa pubblica europea sta attualmente ridimensionando. In particolare in materia di lavoro, Mario Monti pare stia portando (finalmente) l’Italia nella direzione opposta, dopo decenni di barricate ideologiche. Di similitudini poche.

Quanto al Corriere della Sera, sul sito internet del quotidiano di Via Solferino ci si compiaceva che in pochi mesi, il Time magazine avesse offerto due copertine a italiani, una a Berlusconi in occasione della sua dipartita, e l’altra adesso con Monti. Non sorprende che il settimanale della rete progressista della Time Warner giochi sull’estero. Time Magazine è infatti uno di quei settimanali statunitensi alla Newsweek e Life che stanno lentamente sparendo dal panorama editoriale USA. Quanto agli Stati Uniti, è lecito affermare che oltre-atlantico vi sia lo stesso entusiasmo? Non parrebbe proprio. Tutt’altro. Il presidente Monti (e dispiace sempre un po’, non fosse altro per amor di Patria), sui giornali americani c’è a mala pena arrivato.

Bastava andarsi a leggere le prime pagine (e anche quello all’interno), cartacee e non, dei maggiori giornali nazionali statunitensi delle città di Washington DC e New York. L’unico noto quotidiano che ne ha dato notizia, a pagina 13, è stato ieri il ‘Washington Post’. Titolo: “Monti manda indietro la palla sul debito”. Paginata unica e grafici sul debito italiano, con proiezioni di crescita, del debito, oltre al 125% per i prossimi tre anni. Una cronaca dei vari buoni propositi, su crescita economica e riduzione del debito, che il premier italiano è andato a promuovere a Washington DC.

Pare anche che Barack Obama abbia chiesto informazioni su Angela Merkel, il cancelliere tedesco le cui scelte di politica economica e fiscale europea non piacciono un granché ai neo-keynesiani della Casa Bianca. Appare chiaro che – piaggeria dei media italiani a parte nei confronti dell’attuale premier – in Italia non si voglia raccontare la realtà.

Negli Stati Uniti, salvo per qualche progressista radicale della rete televisiva MSNBC e per la minoranza pro-spesa pubblica che pure ha forza mediatica oltre-Atlantico, l’Europa non esiste più politicamente. Per i Repubblicani, l’Europa è diventata l’esempio negativo, il cammino da non seguire, soprattutto in materia fiscale e di governance (i tecnocrati a ragione sono profondamente biasimati nel GOP).

Per gli americani, o almeno una parte di essi, rimangono simbolicamente forti i legami storico-religiosi del passato, e per certi versi quelli finanziari e bancari di oggi. Gli interessi comuni però sono, e saranno, sempre meno. Come abbiamo già raccontato su l’Occidentale, gli Stati Uniti guardano al Pacifico ormai. L’Europa è diventata al massimo un mercato dove piazzare i prodotti made in Usa. In questo senso, la visita di Mario Monti negli Usa non cambia di molto lo scenario purtroppo. (l'Occidentale)

martedì 7 febbraio 2012

Napolitano e Tremonti. Bartolomeo Di Monaco

...Negli ultimi giorni del governo Berlusconi si mormorava già che Tremonti stava per fare lo sgambetto al Cavaliere, con cui i rapporti erano tesi da tempo.
Che questa fosse la verità oggi è messo nero su bianco da Pasquale Cascella, consigliere del capo dello Stato, con una lettera resa nota dal Giornale.

La lettera risponde ad un articolo in cui l’ex ministro Brunetta rivendicava alcuni decreti emanati dal governo Monti e che non erano stati accolti da Napolitano quando proposti dal precedente governo.

Vedremo se Tremonti nei prossimi giorni risponderà a questa precisazione solenne del Quirinale. E forse potremo ragionare meglio sull’accaduto.

Tuttavia, ho l’impressione che la lettera non escluda del tutto l’importanza del ruolo giocato da Napolitano. Infatti, vista l’urgenza dei provvedimenti invocati dalla Ue (adottati poi a raffica da Monti), resta incomprensibile come Napolitano abbia accolto solertemente il suggerimento del ministro dell’Economia, senza prima approfondire la questione con il capo del Governo.

La ragione potrebbe nascondersi proprio nella comunanza di interessi dei due interlocutori: far cadere il governo.

Ho già scritto altre volte che il capo dello Stato avrebbe dovuto adoperarsi, e da tempo, affinché l’opposizione assumesse la responsabilità di collaborare all’uscita dalla crisi, anziché opporsi ad ogni decisione del governo, anche se giusta. Perché non lo ha fatto, oppure, perché non l’ha fatto con l’incisività necessaria?

Come si vede in questi giorni, molte delle cose decise da Monti, vanno nella direzione già tracciata dal Cavaliere.

La Santanché arriva addirittura a riconoscere che il governo Monti vada sostenuto perché riesce a fare ciò che è stato impedito a Berlusconi.

“Perché, si domanda, regalare Cancellieri, Fornero e Monti alla sinistra che con loro non c’entrano nulla?”

Provo a farmi una domanda: Può essere che Napolitano abbia pensato che al Paese fosse necessaria una politica di destra e che essa non potesse essere attuata da Berlusconi, visti i forti contrasti con l’opposizione, e così abbia favorito – approfittando di Tremonti – il cambiamento?

E ancora: Non vi pare strano che Napolitano, di fronte alle manovre estremamente penalizzanti per i cittadini, e in specie per i lavoratori, le abbia lasciate passare senza aprire bocca?

Fra un anno Napolitano dovrebbe uscire di scena.

Forse sarà il momento in cui qualcuno – lo ha già cominciato a fare Cascella con la sua lettera – ci racconti tutta la verità su questi anni bui. (Legno Storto)

sabato 4 febbraio 2012

Tutte le bugie dei giudici sulla punibilità. Mariateresa Conti

«Non ci si può limitare a sperare che il Senato corregga o che la Corte costituzionale dichiari in un lontano futuro l’illegittimità della norma. Occorre che la magistratura attraverso adeguate iniziative, inclusa la proclamazione di uno sciopero immediato, faccia comprendere anche ai più sordi l’entità della posta in gioco».
È una dichiarazione di guerra quella che il procuratore aggiunto di Roma, Nello Rossi, lancia a mezzo stampa per invitare il «parlamentino» delle toghe, l’Anm, a mobilitarsi contro il sì all’emendamento Pini sulla responsabilità civile dei magistrati approvato due giorni fa dalla Camera. Un avvertimento pesante alla politica, tanto più visto che arriva dal pm di una procura come quella di Roma, che di inchieste su politica e politici ne ha una miriade. Altro che «clima sereno» tra politica e magistratura. La casta delle toghe, se solo si sfiorano prerogative consolidate come quella della responsabilità civile del giudice, alza le barricate e urla. E va alla guerra. Modalità di battaglia da decidere martedì prossimo, quando il direttivo dell’Anm, convocato in via urgentissima, deciderà sullo sciopero. Eppure, nelle requisitorie delle toghe contro l’emendamento Pini, qualche bugia circola: dalla tesi della non necessità della norma al rischio che tutti i condannati tentino di rivalersi sul giudice condizionandone il lavoro. Ecco le principali inesattezze, su un provvedimento sicuramente perfettibile, ma certo non campato in aria.


A. LEGGE VOLUTA DALL’UE

«Non è affatto vero che l’Europa ci ha chiesto questa normativa», sostiene Rossi. Ma le cose non stanno esattamente così. Il 24 novembre del 2011 la Corte di giustizia dell’Ue ha bocciato la legge italiana che regolamenta la responsabilità civile dei giudici (la cosiddetta legge Vassalli del 1988), proprio perché limitava il riconoscimento della responsabilità ai casi di «dolo o colpa grave», escludendo la «violazione del diritto manifesta». Appunto quello che l’emendamento Pini introduce. Di qui la necessità, sottolineata giusto un anno fa dall’avvocato dello Stato Ignazio Francesco Caramazza ascoltato in commissione Giustizia, di intervenire per riformare la responsabilità civile delle toghe, pena il rischio, per l’Italia, di incorrere in nuove sanzioni.


B. I GIUDICI IMPUNITI

«I magistrati già pagano», dicono il presidente dell’Anm Palamara e lo stesso pm Rossi. «Non si sono mai registrate azioni di rivalsa dello Stato nei confronti dei magistrati», sottolinea l’ex Guardasigilli, Nitto Palma. Chi ha ragione? Sicuramente le cifre, che confermano l’analisi dell’ex ministro. In 24 anni solo l’1% delle cause intentate in virtù della Vassalli è andato in porto con la condanna del giudice: 406 procedimenti, in tutto, e quattro condanne. Pochino, no? Se a questo poi si aggiunge che la condanna del giudice consiste in una sanzione economica da parte dello Stato pari a un terzo dello stipendio lordo di un anno del magistrato, si comprende che i conti non tornano. Solo nel 2010 lo Stato ha speso ben 36,5 milioni di euro (Rapporto Eurispes 2012) di risarcimenti per ingiusta detenzione o errore giudiziario. È giusto che per l’errore di una singola toga paghino tutti i cittadini?

C. IL PROCESSO SPECIALE

Va bene le tutele a difesa dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. Ma neanche un parlamentare ha lo scudo che hanno invece le toghe nel caso in cui ci sia un procedimento per responsabilità civile. I gradi di giudizio prima di approdare all’eventuale condanna del magistrato sono ben nove: tre per l’ammissibilità del procedimento, tre per individuare la responsabilità del singolo magistrato e altri tre per l’eventuale rivalsa dello Stato sul giudice. Comprensibile che in tanti anni le cause arrivate a compimento si contino sulle dita di una mano.

D. I MAGISTRATI INTIMIDITI

 «La responsabilità del giudice limita sempre l’indipendenza, in linea di principio», dice il primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo. E Palamara: «Il giudice, di fronte all’eventualità di essere trascinato in giudizio da una delle due parti finirà per non decidere». «Norma vergognosa», chiosa la capogruppo Pd in commissione Giustizia, Donatella Ferranti: «Avrà effetti devastanti perché creerà contenziosi a catena che paralizzeranno il sistema». Ma si perde di vista un dettaglio. L’emendamento Pini dà la possibilità di rivalersi sullo Stato o sul giudice non a tutti gli imputati tout court, ma solo chi sia stato condannato o detenuto ingiustamente. E saranno comunque altri giudici, quelli che riconosceranno all’imputato assolto l’eventuale torto subito, a dare la stura a eventuali processi risarcitori. Il che dovrebbe essere di per sé una garanzia. A parte il fatto che, come già accade per categorie a rischio quali i medici, potrebbero essere studiate forme assicurative che proteggano il giudice in caso di errori. Come ben suggerisce, in un articolo che ricostruisce le magagne della giustizia italiana, il quotidiano on line L’Indipendenza.

E. NORMA INCOSTITUZIONALE

Secondo le toghe (su tutte ancora Palamara) l’emendamento Pini è incostituzionale perché costituisce un attentato all’autonomia dei magistrati. Ma un illustre giurista come il presidente emerito della Consulta Cesare Mirabelli non è d’accordo: «Sicuramente è inappropriata – dice a proposito della norma, rimarcando che l’interesse del cittadino è essere risarcito dallo Stato, non dal magistrato – ma che sia incostituzionale è discutibile».

F. ATTACCO POLITICO

Pezzi della magistratura, ma anche della sinistra, gridano all’aggressione alle toghe. Per tutti il leader di Idv Antonio Di Pietro: «È come il ’92, una vendetta della P2 parlamentare contro le toghe». Ma l’ex pm farebbe bene a guardare in casa propria e tra i suoi amici. Perché senza l’apporto della sinistra – Idv ha calcolato 63 «traditori» tra Pd, Terzo Polo e i dipietristi –, l’emendamento Pini non sarebbe mai riuscito ad avere l’ok. (Legno Storto)

Gli intellettuali

– Che palle!

– Spesso organici.

– O sono scomodi o non sono veri intellettuali.

– Hanno perso il loro ruolo di guida e di stimolo.

– Non ci sono più. Non spiegare dove siano andati.

– Sdegnarsi sempre se si viene definiti intellettuali: attesta allergia alle facili etichette, tipica dei veri intellettuali.

– Il vantaggio di essere un intellettuale è che se fai un ragionamento incomprensibile gli altri pensano di essere loro a non capire. Dirlo con la massima serietà aumenta l’effetto.

– Stimare solo quelli che hanno avuto una vita difficile; meglio se emarginati dalla cultura dominante; optimum: morti in miseria.

– Avere deciso molto presto di diventare un intellettuale perché stanco di finire in porta dopo cinque minuti dall’inizio della partita. Dichiararlo qualifica come pensatori ironici e provocatori.

– Sostenere che aveva ragione Mao: tutti in miniera o nelle risaie, poi vedi se hai ancora voglia di teorizzare. Lasciare il dubbio che lo si stia dicendo ironicamente.

– Pasolini ha intuito trent’anni prima di tutti altri quel che sarebbe accaduto in questo paese. Valutare se citare l’articolo sulla scomparsa delle lucciole.

– Avere sempre avuto donne/uomini molto intellettuali. Più erano intellettuali più erano mignotte/stronzi.

– Dopo numerose complicate esperienze con vari tipi di intellettuali dire di avere rivalutato più lineari relazioni sessuali con pettinatrici e/o alsfaltatori.

– Gli intellettuali nevrotici sono spassosissimi se sono di New York e si trovano in un film, molto meno se ne hai sposato uno. Convenirne.

– Proclamare pubblicamente di detestare quel loro modo di farvi sentire delle minus habentes durante una discussione. Tra amiche confessare di trovare la loro sicumera estremamente sexy.

– Sono quelli che oggi idolatrano i film di Totò e che ai tempi li avevano stroncati.

– Pessimi amanti. Fisici esecrabili ed eccessiva concentrazione su di sé.

– Ottimi amanti. Tutto il contrario di certi sbuffanti locomotori palestrati, troppo concentrati su di sé.

– Gli intellettuali alle donne piacciono sempre. Le intellettuali agli uomini? Dipende dalla misura del reggiseno.

– Quelli di sinistra infestano Capalbio. Per par condicio pretendere che venga immolato un paese anche a quelli di destra.

– Per un intellettuale politicamente schierato è fondamentale di tanto in tanto dire qualcosa fuori di testa per ribadire il proprio ruolo di coscienza critica.

– La differenza tra un intellettuale e un operaio? L'operaio si lava le mani prima di pisciare, l'intellettuale dopo (Jacques Prévert)

© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Andrea Ballarini

Segnali e fumo. Davide Giacalone

Mi piacerebbe festeggiare l’avvento di una vera responsabilità civile, in capo ai magistrati, ma non è così. Non ci si lasci ingannare dalla reazione isterica, e sostanzialmente insurrezionale, dell’Associazione Nazionale Magistrati, che si rivolge al Parlamento come fosse una cosca criminale dedita alle intimidazioni. Il corporativismo acceca, ma non è un buon motivo per lasciarsi accecare.

La storia di questo istituto, il modo in cui è stato tradito il referendum del 1987, è già stata fatta, egregiamente, da Filippo Facci. Valga quella. Il fatto è che già oggi il magistrato è perseguibile in caso di dolo o colpa grave, salvo il fatto che i suoi colleghi non lo fanno mai (4 casi su 400!!). Già oggi potrebbe essere chiamato a rispondere del danno erariale arrecato, salvo il fatto che la Corte dei conti se ne guarda bene. L’emendamento votato dalla Camera dei Deputati, avversato dal governo (sbagliando), contiene una sola novità: oltre al dolo e alla colpa grave è prevista responsabilità in caso di “violazione manifesta del diritto”. Che vuol dire? Tutto e niente. Siccome sarà l’oste a giudicare del vino, immaginate il risultato.

Il ministro Severino ha ragione nel dire che non si possono fare riforme a spizzichi e bocconi. Solo che, in questo modo, si dà torto per i fatti propri: ogni riforma che punti ad affermare il diritto resterà lettera morta se non si adegua il sistema giudiziario italiano allo standard minimo della civiltà, quindi separando le carriere di giudici e accusatori. C’è uno spread della giustizia che ci trasciniamo dietro da decenni, che solo noi denunciamo e che ci declassa tutti. Non se ne esce: o il modello francese, con il Csm, ma con i pm che dipendono dal governo, o il modello anglosassone, ove la colleganza è considerata (giustamente) una bestemmia. Proprio seguendo il ragionamento della Severino si finisce con il considerare mera cosmesi ogni altra cosa.

Purtroppo, sia chi festeggia che chi minaccia lo sciopero (spero il governo voglia considerare i magistrati almeno al pari dei camionisti) guarda più che alla sostanza al “segnale”. Alla suggestione: gli uni pensando d’avere espugnato la più rigida, autoreferenziale e privilegiata delle corporazioni, gli altri supponendo che si possa far la guerra all’evidenza, pur di mantenere un potere che ha corrotto il diritto e la Costituzione. Brutta roba. Così come il modo in cui, sempre in tema di giustizia, vengono trattati altri “segnali”: la cassazione stabilisce che gli indagati per violenza carnale di gruppo non devono andare obbligatoriamente in carcere e tutti a berciare sul danno alle donne e sul favore ai pervertiti. Non ha senso. I violentatori, una volta condannati, vanno in carcere. Ci mancherebbe. Ma non è giusto che debba per forza (ripeto “per forza”) andarci chi è accusato. Noi lo scrivemmo quando quella legge stupida fu approvata, poi la Corte costituzionale la corresse, eliminando l’obbligatorietà, e ora la cassazione interviene su un caso specifico. Siamo nel campo dell’ovvio. Ma non basta per fermare le urla, giacché quel che conta è il “segnale”.

Peccato che in questo modo procedendo il nostro diritto ha preso a parlare come gli indiani dei western razzisti: io credere che tu non dovere fare perché grande orso non volere. Anziché ragionare di diritto si va avanti a segnali di fumo, che è anche l’unica cosa che rimane.