martedì 27 luglio 2010

E' la Storia stessa a smentire la propaganda anti-berlusconiana. Claudio Siniscalchi

Il berlusconismo è finito. Ciclicamente se ne parla. Anche in questi giorni si leggono commenti al riguardo. “Il Foglio” addirittura è già oltre, e si interroga sulla rimozione in atto, sulla cancellazione delle tracce del berlusconismo da parte dei berlusconiani pentiti. Se Veltroni poté dire di non essere mai stato comunista, il cammino è già tracciato. Lasciamo stare la questione odierna, e volgiamo lo sguardo indietro nel tempo. Come è cominciato il berlusconismo?

A questa domanda si può dare una risposta ovvia: fine del 1993, inizi del 1994. Un contenitore spiegherebbe tutto: Forza Italia. Naturalmente bisogna fare i conti con il partito del sospetto.

Forza Italia l’ha creata la mafia, sprovvista di sponda politica. Con questi schemi preconfezionati non si arriva da nessuna parte. Servono ad alimentare un mito: la sconfitta immeritata delle forze del progresso alle elezioni del 1994.

Verso la fine del 1993, dopo le votazioni in alcuni grandi comuni italiani, tra cui Roma, dove Francesco Rutelli ebbe la meglio sul “fascista” Gianfranco Fini (eh, la memoria!), il gioco sembrava chiaro: la sinistra avrebbe trionfato in maniera sorprendente. Da lì nacque l’iperbole della “gioiosa macchina da guerra” guidata da Occhetto. Il prode Achille tutto aveva previsto: tranne il berlusconismo (e naturalmente Silvio Berlusconi). L’uomo di Arcore si piazzò in mezzo nell’arena politica, e dal nulla riportò una clamorosa vittoria. Fortuna? Astuzia? Poteri occulti? Intervento divino? Saltiamo la fantasia, e proviamo a fare seriemente i conti con la storia.

Proviamoci ricorrendo ad un agile e sapiente libretto di Ernesto Galli della Loggia: “Tre giorni della storia d’Italia” (il Mulino, pag. 161, 10 euro). Nel corso del Novecento tre giornate hanno cambiato in maniera radicale il corso degli eventi della storia italiana: il 28 ottobre 1922, quando Mussolini prese il potere inaugurando il ventennale regime fascista; il 18 aprile 1948, quando Alcide De Gasperi sconfisse il Fronte Popolare composto da comunisti e socialisti; e il 27 marzo 1994, quando Silvio Berlusconi vinse le elezioni politiche. Già questo solo dato, che il 27 marzo 1994 possa essere considerata una data storicamente determinante per la storia italiana, farà rizzare i capelli in testa a non pochi commentatori della storiografia e della pubblicistica progressista italiana (cioè la stragrande maggioranza delle forze in campo). Non a caso le tesi di Galli della Loggia hanno suscitato scarsissimo dibattito. Il sospetto è che dentro il libro ci sia qualcosa, soprattutto in riferimento a Berlusconi, davvero di “politicamente scorretto”.

Ecco le parole che aprono il saggio: «Nell’Europa di oggi è più facile, in generale, parlare di Hitler che di Berlusconi: i rischi sono assai minori. Non credo di esagerare». Lo storico porta un esempio concreto: sostenere che «l’ascesa di Berlusconi e il mantenimento del suo potere sono stati assai favoriti dalle contraddizioni delle inchieste di “Mani Pulite” e dalla raffica delle inchieste a suo carico, non solo suscita, specie in certi ambienti, una diffusa incredulità, ma si rischia all’istante di essere sospettati di “stare dalla parte di Berlusconi”, incorrendo con ciò in un’immediata scomunica». Il vizio della scomunica è specialità ancora molto in voga in una determinata specie intellettuale.

Diciamolo subito: Galli della Loggia tutto è fuorché un berlusconiano. Da storico cerca di capire cosa non ha funzionato, a livello sistemico, nella lunga gestione del potere da parte dei democristiani, determinando un crollo così drammatico e rovinoso. Innanzitutto c’è stata la mancanza/impossibilità di una alternativa politica, a causa della presenza del più forte partito comunista del mondo, ad eccezione di quello sovietico. Inoltre la politica italiana, attraverso le partecipazioni statali, è stata proprietaria diretta di un terzo dell’economia dell’intero paese.

A partire dagli anni Sessanta la politica ha iniziato il decollo senza freni della spesa pubblica, sperimentando pratiche sempre più invasive di consociativismo. Nella Prima Repubblica, dice Galli della Loggia, «la politica diviene erogatrice, amministratrice e intermediaria di imponenti flussi finanziari dalla natura così varia e a così tanti livelli istituzionali da sfuggire ad ogni realistica possibilità di controllo». Tale sistema fu distrutto dall’intervento, mirato ad annientare alcuni settori, e a salvarne altri (il gruppo dirigente in blocco del vecchio Partito Comunista, la sinistra democristiana), da parte dei magistrati.

Commenta Galli: «L’intervento della magistratura non appariva forse lo strumento più idoneo». E poi lo storico ha un sospetto: possibile che il malaffare italiano, dato l’indirizzo assunto dalle inchieste giudiziarie, si concentrasse tutto a Milano e in poche altre città? Di ciò vi sono «ragionevoli perplessità». E la carcerazione preventiva? L’enfatizzazione mediatica delle inchieste? La stampa amica delle procure? Le esternazioni televisive dei magistrati che costrinsero il capo del governo Giuliano Amato a rimangiarsi il decreto Conso? Altri dubbi e perplessità.

La delegittimazione dei partiti governativi montò violenta, alimentata da un clima di anti-politica, indirizzata da alcuni giornali (“la Repubblica” in testa) e basata sulla rispolverata «questione morale» di Berlinguer e della diversità comunista. Il Pds (più o meno il vecchio Pci all’ombra della quercia del nuovo simbolo) per Galli «nutriva la fondata speranza, quindi, di poter essere il beneficiario finale del terremoto in corso». E il sogno svanì alle elezioni del 27-28 marzo 1994, quando iniziarono ad arrivare i primi risultati elettorali: Berlusconi aveva vinto.

Senza Berlusconi, dice Galli, «e senza le sue scelte strategiche assai difficilmente si sarebbe formato in Italia un consistente polo di destra, e dunque ben difficilmente avrebbe messo radici un sistema bipolare in grado di assicurare l’alternativa al potere».

Tutti ricordano il potere di Berlusconi, il “regime berlusconiano”, dal 1994 ad oggi: ma in quest’arco di tempo c’è stato anche un governo del “ribaltone” (Dini), uno di Prodi (al quale è succeduto D’Alema e successivamente Amato, per completare la legislatura), poi un altro brevissimo interregno di Prodi. Ma nonostante tutto ciò - l’evidenza dei fatti storici - ancora non siamo arrivati al nocciolo della questione. E Galli non si sottrae.

Perché una parte consistente degli italiani votò Berlusconi, nonostante la demonizzazione fattane dagli avversari? «L’Italia ostile alla sinistra serrò i ranghi in tutte le sue varie componenti - da quella conservatrice, a quella reazionaria, a quella moderata, ma anche a quella riformista socialdemocratica». Nel momento dello sbandamento e nell’approssimarsi dell’imminente sconfitta, quest’Italia trovò un capo credibile e ottimista, al quale affidare il proprio mandato, e grazie al quale fu condotta alla vittoria. Fidandosi della propria esperienza - dice Galli - molti italiani non prestarono fede al fatto che la corruzione politica fosse esclusiva di alcuni partiti, e ritennero parziale e politicizzato l’operato della magistratura. E il fatto che Antonio Di Pietro, il simbolo di Mani Pulite, abbia deciso di scendere in politica, non è servito a dissipare, anzi ha rafforzato il dubbio emerso tra la fine del 1993 e i primi mesi del 1994. Così come ad alcuni Mussolini apparve, per giustificare la sconfitta, l’autobiografia nazionale, lo stesso discorso vale per Berlusconi: è l’autobiografia malata della nazione (il virus fu lanciato a mezzo televisivo, per avere successivamente ricaduta politica).

Ma Galli della Loggia sgombera anche questa ulteriore fantasia. Il nodo del vuoto morale venuto al pettine alla fine degli anni Ottanta, non è colpa della televisione (e quindi di Berlusconi), ma di una profonda trasformazione sociale. «Quello che si chiama “berlusconismo” non è il frutto di una qualche oscura degenerazione morale che ha colpito una parte del popolo italiano».

Insomma, per chiudere: la propaganda anti-berlusconiana è sempre gravida e generosa di prole. La storiografia però, se non parte da pregiudizi limitanti, anche se in forma di esile trattazione manda al macero d’un colpo quintali di carta straccia. (l'Occidentale)

lunedì 26 luglio 2010

Stuprando il diritto. Davide Giacalone

In tema di giustizia il governo e la maggioranza soffrono di schizofrenia. La radice greca del termine indica un cervello diviso, uno sdoppiamento che complica la vita. Il guaio di certe malattie, al contrario della rottura di un femore o di una colica renale, è che il soggetto non sempre è consapevole del problema. Così abbiamo governanti che si scagliano contro la magistratura e i giornalisti, accusandoli (giustamente) di agire con scarso rispetto della presunzione d’innocenza, e abbiamo parlamentari (Giorgio Straquadanio, ad esempio) che si recano in visita ai detenuti in custodia cautelare, sottolineando (giustamente) che non sempre ricorrono i tre motivi canonici per privare un cittadino innocente della libertà, ma abbiamo anche governanti che s’inalberano contro una più che giusta sentenza della Corte Costituzionale, che ha cancellato il carcere preventivo obbligatorio per i sospettati di stupro, e abbiamo una maggioranza parlamentare che, pur attestandosi sulle posizioni prima richiamate, votò la norma ora abrogata, evidentemente convinta che il diritto possa essere storto al punto da valere per alcuni e non per altri.
La ciliegina sulla torta è che il relatore contro la norma è stato un giudice costituzionale scelto dal centro destra, l’avvocato Giuseppe Frigo, che, fortunatamente, non ha dimenticato la propria cultura giuridica e, provvidenzialmente, neanche il suo essere stato presidente dell’unione camere penali. Una scelta felice, che oggi avrebbe dovuto consigliere un rispettoso silenzio.Invece ho letto corbellerie monumentali, compresi titoli fatti a capocchia, che annunciavano l’impossibilità del carcere per gli stupratori. Come abbiamo letto dichiarazioni del ministro Mara Carfagna che richiamavano il sentire popolare o il “giustificazionismo”, ovvero principi che non sono solo l’antitesi del diritto, ma anche l’anticamera della galera per la gran parte dei coinvolti nelle inchieste che sgombrerebbero molte stanze attigue a quella del signor ministro.
Noi segnalammo gli errori di quella legge nel momento stesso in cui cominciarono a parlarne, con due interventi del febbraio e del marzo 2009. Raccontammo la grottesca storia delle due coppie di presunti stupratori rumeni, arrestate per lo stesso stupro, pretendendo tutte e due le volte che fossero quelli veri, e mettemmo in evidenza che imporre l’arresto obbligatorio, con l’aggiunta di escludere i domiciliari, era un gesto di deplorevole resa. Perché, in quel modo, si firmava la rassegnazione ad avere una giustizia che non funziona, salvo vendicarsi sui presunti reprobi, facendo loro scontare pene mai comminate. E’ ovvio che gli stupratori devono andare in galera. Dove mai volete mandarli? Ed è altrettanto ovvio, come scrive la Corte Costituzionale, che il giudice delle indagini preliminari può sempre disporre la custodia cautelare, senza per questo essere obbligato a farlo. Ma è altrettanto ovvio che per definire stupratore un cittadino occorre una sentenza, e per la sentenza occorre un processo. Se, invece, facciamo fede alle procure, se a loro assegniamo il compito di stabilire chi sono i colpevoli, al punto da sbatterli in galera per obbligatorio ossequio alle loro determinazioni, allora facciamo ciao ciao con la manina a tanti signori che Silvio Berlusconi sostiene essere innocenti.Ma che c’entra, diranno i nostri cultori del non diritto: una cosa sono gli stupri altra l’essere accusati d’essersi arricchiti alle spalle della spesa pubblica o di avere complottato per corrompere la vita istituzionale. Siete sicuri? Non è che poi passa qualcuno e vi spiega che il comune sentire popolare è imbufalito con i secondi quanto con i primi, anzi, che i primi hanno stuprato le loro vittime, mentre dei secondi siamo tutti vittime? A quel punto, che altro fate e dite, se non iscrivervi al partito del giustizialismo manettaro e fascistoide? Questi signori, questi ministri, questi parlamentari proprio non sono capaci di capire che il diritto è un corpo unitario e se cominci a dire che gli stupratori, benché presunti, devono, per forza, andare in galera prima di avere incontrato un giudice non c’è poi modo di non mandarci anche gli altri, consegnando alla magistratura un insindacabile potere sulla vita civile e politica.
Ringrazino Frigo e la Corte Costituzionale, piuttosto, che hanno smontato un’inciviltà con cui governanti incapaci hanno provato il gusto di farsi belli con l’opinione pubblica forcaiola, e sperino che quei forconi non si rivoltino verso la loro parte. Anche perché, sapete cosa succede agli stupratori veri, arrestati obbligatoriamente e senza processo? Succede che vengono scarcerati per decorrenza dei termini. Ecco cosa succede, e il dovere del legislatore e del governante consiste nel far funzionare la giustizia, non nello stuprarla nella speranza di mascherare la propria impotenza.

giovedì 22 luglio 2010

"Io ho arrestato Riina: la politica rimase fuori i magistrati invece..." Roberto Longu*

Uno dei carabinieri di "Ultimo" racconta la storia della cattura: "Quando i pm intervennero non fu più possibile andare avanti". Poi rivela: "Certi pm oggi fanno antimafia, ma prima erano contro Falcone e Borsellino"

Il maresciallo in congedo dei carabinieri Roberto Longu ha fatto parte del Crimor-Unità militare combattente, l’Unità della 1ª Sezione del 1° Reparto del Ros nata subito dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, nel settembre del ’92, con compiti di contrasto alla criminalità organizzata. Il gruppo, guidato da Sergio De Caprio, meglio noto come Capitano Ultimo, il 15 gennaio del 1993, a Palermo, mise a segno il colpo più grosso: l’arresto del capo dei capi di Cosa nostra, Totò Riina. Il maresciallo Longu nella sua lettera racconta come andò quella cattura. E spiega perché, quando intervennero i giudici, tutto finì.

Egregio direttore,
sono un maresciallo dei carabinieri in congedo, nonché appartenente a Crimor, il gruppo del capitano Ultimo che ha arrestato Totò Riina. Le scrivo perché dopo aver sentito sciocchezze tra la trattativa di Stato e la mafia, il tentativo di colpo di Stato, l’arresto di Riina, le accuse al capitano Ultimo, al generale Mori e generale Ganzer, voglio offrire il pensiero e il racconto di chi le cose le ha vissute e fatte in prima persona.
Massimo Ciancimino parla e dopo vent’anni si torna a parlare con insistenza della morte di Falcone e Borsellino, trattativa tra mafia e Stato; politici e magistrati che parlano di tentativo di colpo di Stato, servizi segreti deviati, signor Franco eccetera... La grande mano del «livello superiore», intoccabile e soprattutto introvabile, la solita storia. Infangare il Paese e chi ha veramente lavorato per il bene dell’Italia.
Ebbene, voglio raccontare in breve la storia della cattura di Totò Riina. Il nostro gruppo, Crimor, lavorava a Milano occupandosi di Cosa nostra. Tutti dicevano che a Milano la mafia non esisteva. In pochi anni, con varie indagini mettiamo in luce che a Milano la mafia esiste ed è anche ben radicata, arrestiamo e sgominiamo le famiglie Carollo e Fidanzati. Siamo un gruppo di professionisti coordinato da un grande comandante, il capitano Ultimo. Siamo anche molto amici di Falcone, e facciamo riferimento a un grande generale, Carlo Alberto Dalla Chiesa, il nostro simbolo. Il nostro motto è «lavorare per il popolo oppresso».
Il giorno della morte di Falcone ci ritroviamo nel nostro ufficio e siamo sgomenti; ci guardiamo in faccia, siamo una decina, e prendiamo una decisione che nasce spontanea. Andiamo a Palermo ad arrestare Totò Riina e smantellare la sua organizzazione. È quel giorno che nasce la fine di Riina. La mafia ha ammazzato il generale, giudici, colleghi, ora Falcone e in quel modo, ci sentivamo in dovere di fare qualcosa e mettere fine al massacro. Nessuna organizzazione segreta o chissà quale piano strategico messo in piedi con la mafia. Dieci persone che disprezzano la mafia e lavorano per il popolo oppresso decidono di catturare Salvatore Riina, l’imprendibile.
Viene data comunicazione delle nostre intenzioni al generale Mori, che a quel tempo era colonnello e vicecomandante del Ros, il quale inoltra le nostre intenzioni direttamente al Comando che accetta e ci dà il via. Di quel tempo ricordo una cosa, il terrore delle istituzioni, Totò Riina imprendibile che mette sotto scacco l’Italia, le grandi lacerazioni della magistratura palermitana, che era quasi tutta schierata contro Falcone e Borsellino che quasi venivano presi per pazzi. Oggi parlano bene, ma ieri razzolavano male, molto male.
Fui io, insieme al mio collega Ombra, a mettere per primo il piede a Palermo; facemmo le prime ricognizioni, le prime verifiche sugli obiettivi e sui personaggi. Rimasi quasi sconvolto per la mancanza di indagini, riscontri, indizi investigativi. La magistratura faceva pochissimo, le forze di polizia operavano fuori Palermo, la politica proprio non si vedeva e sentiva. Oggi mi viene da ridere quando sento tutti quei magistrati di Palermo che parlano di Antimafia. Ma dove erano allora? Cosa facevano?
Naturalmente l’indagine nasce in clandestinità, non ci fidavamo di nessuno, va avanti per circa sette mesi di grandi sacrifici, troviamo gli indizi, le tracce di Riina attraverso i Ganci e arriviamo vicino al suo rifugio, pochi giorni e avremmo trovato la casa.
Il fato ci mette la coda. In quei giorni al Nord viene arrestato Balduccio Di Maggio, che si pente e dice di essere stato l’autista di Riina sino a qualche anno prima.
Viene portato a Palermo, racconta che quando faceva da autista prendeva Riina lungo la strada, alla Rotonda di viale Michelangelo, vicino al famoso Motel Agip, senza però indicare un obiettivo preciso. Per noi quella zona era altamente strategica poiché avevamo individuato un obiettivo frequentato dal mafioso Domenico Ganci, da noi ritenuto molto vicino a Totò Riina. Mettiamo sotto osservazione un’abitazione e filmiamo chi entra e chi esce, li facciamo visionare al pentito il quale riconosce la moglie e i figli di Riina. L’indomani ci posizioniamo, esce Riina e l’arrestiamo. Questo in breve.
Il pentito è stata la nostra sfortuna più grande. In primo luogo perché ha fatto sì che l’indagine fosse conosciuta dalla magistratura, la seconda perché non è stato più possibile portarla avanti con le nostre modalità operative. Noi, per nostro modus operandi, quando trovavamo un latitante non lo arrestavamo subito, anzi lo facevamo stare libero, però lo seguivamo, gli stavamo vicino 24 ore su 24 per capire i suoi percorsi, analizzare i suoi obiettivi, verificare la struttura organizzativa, documentarla, farne prova e poi annientare l’intera struttura. Questo era in origine il nostro obiettivo con Riina. Analizzare i suoi movimenti, le dinamiche operative di Cosa nostra partendo dal vertice, studiare i loro percorsi mentali per poi annientarli e distruggerli. Questo era il nostro obiettivo finale, con il risultato immediato di catturare Riina e distruggere la cupola.
Dopo il pentito questo non fu più possibile, tutti volevano esclusivamente l’arresto di Riina. Tutti volevano dirci cosa fare, fu solo grazie alla determinazione del colonnello Mori e del capitano Ultimo che le cose andarono come sono andate, altrimenti penso che Riina l’avrebbe fatta franca anche allora.
E per fortuna che andò così, se avessimo fatto secondo i nostri propositi ci avrebbero arrestati tutti per essere mafiosi, visto com’è andata con la perquisizione, non fatta solo esclusivamente per questioni investigative e legate all’indagine.
Parla Massimo Ciancimino, si parla di trattativa mafia-Stato, papello e terzo livello. Per noi Vito Ciancimino all’interno della mafia a quel tempo non contava più niente, roba vecchia che la mafia aveva abbandonato, com’è suo costume quando una cosa non serve più. È stato ascoltato perché voleva parlare, com’è giusto che faccia un investigatore quando si presenta un criminale. Probabilmente oggi una certa magistratura, se non fosse stato ascoltato, direbbe che non fu sentito per aiutare la mafia. Politici di oggi e di ieri e magistrati che parlano di trattative tra Stato e mafia. Dovrebbero spiegare cosa facevano allora, visto che facevano parte dello Stato. Può mai un generale o un capitano trattare per lo Stato senza che questi non sappia nulla? Io penso di no.
È di questi giorni la notizia della condanna al generale Ganzer e colleghi, questo deve far riflettere e molto sullo stato della magistratura e delle forze di polizia. Deve far riflettere perché ormai è sempre più evidente l’anomalia del Codice di procedura penale, ovvero le indagini dirette e coordinate dai magistrati. È qui l’errore di fondo. Un magistrato non può gestire delle indagini, le indagini le devono gestire e fare le forze di polizia. Perché, vede, un’indagine è un processo sociale, in quanto coinvolge la gente; è un processo psicologico in quanto coinvolge le strutture mentali delle persone; è un processo sistemico dove la cosa più logica alle volte non è la più giusta per il fine superiore, che è quello del bene comune. L’indagine è compito del poliziotto che vive e opera tra la gente, che conosce la strategia, la tattica e il terreno su cui combatte. Ma lei ha mai visto un magistrato fare un pedinamento, uscire per strada e seguire un mafioso o un presunto ladro di biciclette? Io mai. E allora come fanno a dirigere le indagini (e dirigere significa comandare) quando non hanno la benché minima conoscenza del sistema? Un vero investigatore trova i riscontri e gli indizi sul terreno attraverso osservazione e pedinamento, e solo allora chiede le intercettazioni. Perché le intercettazioni per gli investigatori sono delle vere sciagure, hanno bisogno di verifiche, controlli, molto personale levato alla strada. Un investigatore intercetta solo quando c’è quasi la certezza dei reati. Per un investigatore le intercettazioni sono di ausilio alle indagini e non lo strumento principale.
Oggi siamo al contrario, si fanno le intercettazioni, si arrestano e si mettono alla gogna i cittadini senza un riscontro oggettivo e poi vengono scarcerate e tante scuse e grazie. C’è bisogno di cambiare il Codice di procedura penale e dare la direzione delle indagini alla polizia. I miei ex colleghi mi dicono che ormai non fanno più nulla di iniziativa, hanno paura di lavorare perché un magistrato potrebbe indagarli e metterli alla gogna peggio dei criminali. Io stesso oggi, vedendo com’è andata ai miei comandanti, non so se prenderei le decisioni che ho preso in passato. Sa cosa mi dice mia figlia a proposito dei guai al generale Mori e capitano Ultimo? «Papà, Riina era da vent’anni latitante e non è successo nulla, voi lo arrestate, mettete sotto la mafia e i magistrati vi incriminano. C’è qualcosa di strano, ma non è che i magistrati si sono arrabbiati perché lo avete arrestato?». (il Giornale)

*Maresciallo dei carabinieri in congedo - Componente del gruppo guidato dal capitano Ultimo che arrestò Totò Riina

martedì 20 luglio 2010

Falsa memoria. Davide Giacalone

Copione perfetto. Suggestivo, ma fuorviante: prima lo sfregio alle statue di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, poi quattro gatti alla marcia del “popolo dell’agenda rossa”, quindi il governo assente alle celebrazioni per l’anniversario della strage di via D’Amelio. Non c’è altro da aggiungere, sono ingredienti più che sufficienti per la stampa originalmente conformista, pronta a scrivere che Palermo è ripiombata nell’omertà e nella connivenza, che lo Stato si prostituisce ai depistaggi e che solo pochi uomini, puri e coraggiosi, reggono il vessillo della verità e dell’antimafia. Tutto totalmente falso. Come ieri i politici dell’antimafia (Leoluca Orlando Cascio in testa a tutti) si scagliarono contro i migliori nemici della mafia, oggi i professionisti della commemorazione, veri profanatori del ricordo, si dedicano a inquinare la memoria, cercando ancora di sfregiare il volto di due uomini che morirono isolati e sconfitti, da palermitani che credevano nello Stato e lo servivano con non ricambiata lealtà.

Il Presidente della Repubblica lo ha detto in modo autorevolissimo: “si deve fare luce”. Forse sarebbe meno scontato e retorico chiedersi da dove è giunto il buio, e fare l’elenco dei nemici di Borsellino e Falcone. Che furono tanti. Qualcuno occulto, ma tantissimi noti e palesi, dentro e fuori il Consiglio Superiore della Magistratura.

In tutti questi anni sono state raccontate panzane colossali, ripetutamente facendo fare a Falcone e Borsellino la parte degli stupidi o quella, a loro davvero estranea, dei cospiratori. Gli stessi che provvidero a togliere dalle mani di Falcone le inchieste contro la mafia poi si sono visti, in gramaglie e condolenti, piangere la sua scomparsa, quale irrimediabile danno ai siciliani e agli italiani onesti. Ah sì? E allora, di grazia, perché la magistratura politicizzata e la sinistra togata dedicarono tanto tempo e fatica all’opera di demolizione, isolamento e neutralizzazione di Falcone? Sono cose che ho già scritto, anche se si dovrebbe ristamparle ogni giorno. Vorrei porre, però, una questione ai congiunti di Borsellino, a quelli non si fanno mancare un’occasione per comparire, al punto da organizzare manifestazioni che non manifestano nulla: scusate, ma voi sapevate che il carabiniere Carmelo Canale era uno strettissimo collaboratore del magistrato, tanto stretto che questi lo chiamava “fratello”, e sapevate che detto carabiniere ha subito 14 anni di processo, accusato d’essere un traditore e un venduto alla mafia? Io lo sapevo, e scrivevo che quell’ipotesi d’accusa era, prima di tutto, un’offesa a Paolo Borsellino, un modo per descriverlo deficiente e incapace. Non ho sentito le vostre parole, fra le tante che avete avuto modo di dire. Oggi avete una possibilità: reclamate il suo reintegro nell’Arma, da definitivamente assolto, fatelo per la memoria di Paolo Borsellino. Che qui abbiamo difeso sempre, senza attendere le ricorrenze e senza farne strumento di personale affermazione.

L’ultima offesa a Borsellino, in ordine di tempo, consiste nel raccontare che egli morì perché si oppose alla trattativa fra la mafia e lo Stato. E’ offensivo perché banale (figuratevi se Falcone e Borsellino potevano anche solo concepire una simile trattativa fra “istituzioni”!), offensivo perché derivante dalle parole di un Ciancimino qualsiasi, discendente di un disonorato che si asservì al crimine per fare soldi, e lasciarli ai familiari, offensivo perché facendo finta di credere alla trattativa fra la politica e la cupola si occulta la trattativa vera, che ci fu, e consistette nel fermare le indagini sugli affari e scarcerare canaglie meritevoli della galera a vita. A questa roba Borsellino si oppose per davvero, ed è la ragione per cui, come prima Falcone, era visto come un ostacolo da chi intendeva utilizzare le inchieste per fare politica, anziché giustizia, per alimentare teoremi, anziché cercare prove, e pagò, Borsellino, in vita con l’isolamento (come Falcone) e con l’interdizione a compiere certi atti d’indagine (ritirata la mattina stessa in cui un’auto bomba lo aspettava), e pagò da morto, perché le preziose carte dell’inchiesta mafia-appalti finirono nelle mani della procura di Palermo, che provvide a spezzettarle, smembrarle, neutralizzarle. I carabinieri che le avevano condotte finirono, a vario titolo, sul banco degli imputati, accusati di mafia.

Il cacasottismo mafiologico, la mollezza mentale e spinale di tanti biascicabanalità, usò le accuse a quei carabinieri quasi a dimostrazione che i due eroi, tali perché morti, sarebbero giunti chissà dove, avrebbero scoperto chissà quali santuari, se solo non fossero stati così velenosamente circondati e infiltrati. Sfuggiva un dettaglio: se quei due potevano essere circondati da mafiosi è segno che non erano eroi, ma cretini. Questo hanno finito con il far credere, i tanti marciatori della memoria bugiarda. Ora vorrebbero anche darci a bere che se i palermitani non si gettano in massa a sfilare dietro alle loro spalle è segno che sono ricaduti nella loro natura sicula: apatica, scettica, collusa. Essi offendono i morti, con i vivi.

Ho l’impressione che Palermo, vergine baldracca, assista a riti, voci, cortei e fiaccolate senza né commozione né indignazione. Ha la colpa di non credere mai. Ha l’attenuante che non ne vale la pena. Un atteggiamento che fa rabbia e paura. Ma, e riconosco la mia debolezza di panormense, sempre meglio di quel mondo che disarmò i due grandi palermitani, li consegnò alla morte e pretende di piangerli. Questo, fa schifo.

giovedì 15 luglio 2010

Più immobili cha stabili. Davide Giacalone

I governanti delle democrazie occidentali sono in crisi, di efficacia e di consensi. Con una eccezione: l’Italia. Tutti i governi hanno perso le elezioni, politiche e amministrative, o sono crollati nei sondaggi. Non quello italiano, che ancora la settimana scorsa, in un sondaggio commissionato da La Repubblica, quindi da un foglio ostile, era segnalato in larghissimo vantaggio sull’opposizione e su ogni altra ipotesi o formazione. Visto che siamo i più stabili e anche i più entusiasti di chi ci governa, ne traiamo reale giovamento? La risposta è negativa. Più che una società stabile sembriamo una società immobile, il che si riflette sulla politica.

Barack Obama è stato eletto trionfalmente. A meno di due anni da quel giorno e a quattro mesi dalle elezioni legislative di medio termine, il suo indice di gradimento è al minimo, facendo registrare il consenso di appena il 40% degli intervistati. Eppure s’è insediato fra mille promesse e grandi propositi, quando la crisi economica era già scoppiata, con una benevolenza dei media, largamente mantenuta. E’ ugualmente crollato. Dopo che il suo governo aveva già subito perdite significative. Nicolas Sarkozy s’è presentato sulla scena con le carte in regola per essere un uomo nuovo nello scenario europeo: conservatore senza timori nel campo della sicurezza e dell’ordine pubblico, aperto al contributo delle sinistre, modernizzatore nell’amministrare, innovatore nel linguaggio. Scandali, veri o presunti, qui conta poco, e inefficacia dell’azione lo hanno fatto scendere nella considerazione dei connazionali. Oggi sembra il candidato migliore a dimostrare la coincidenza fra quel che affascina del potere e quel che incattivisce, contro il potere. In Germania Angela Merkel naviga in cattive acque, è costretta alle coalizioni e tracolla in regioni prima fedeli. In Spagna l’era di José Luis Rodriguez Zapatero, detto Bambi, è arrivata al capolinea. E così via, saltabeccando da destra a sinistra, ma sempre con la stessa, non invidiabile, sorte. In Italia no. Da noi sembra che ogni giorno debba venire giù il mondo, ma ogni sera si va a cena con quello di prima. Come mai?

E’ vero che l’opposizione italiana s’è squagliata, organizzativamente e idealmente, ma è anche vero che in ciascuno dei Paesi prima ricordati non è l’opposizione ad avere guadagnato consensi, parlando ai cittadini, ma sono i governi ad averli persi, presso i cittadini che parlano fra di loro. La spiegazione non è questa, dunque. Allora? Propongo una chiave di lettura: nelle democrazie consapevoli gli elettori si aspettano qualche cosa, dal governo, e se non vedono risultati passano dalla lamentazione alla sottrazione dei consensi, nella nostra democrazia formale, invece, ci si aspetta poco e niente, il che funziona come antidoto della delusione. Al governo si chiede di non rompere più di tanto, escludendo in partenza che sia capace di costruire. Al disincanto e allo scetticismo, però, uniamo faziosità e tifoseria, sicché il nostro voto resta largamente ideologico, pur in mancanza d’ideologie. E’ un voto contro, che si articola e distribuisce attorno all’unico leader naturale, non necessariamente politico, che si muove sulla scena: Silvio Berlusconi.

Egli stesso, del resto, si presenta come un antagonista del “vecchio modo di far politica”, come in questi giorni ci tiene a ricordare. La sua capacità, dopo sedici anni di politica, è sempre quella di presentarsi come un avversario della politica. Un super-italiano, che racconta agli altri italiani il sogno del governo minimo e della libertà massima. Ma proprio le ore che viviamo dimostrano che quella suggestione deve essere alimentata di atti concreti, immediati, per non essere percepita come la mascheratura del sempre uguale (compresa la seconda mozione di sfiducia nata all’interno della maggioranza e presentata per interposta opposizione). Sono stati commessi molti errori, il più grosso sarebbe non comprendere che si deve rimediare. Ora.

In caso contrario non capita nulla di epocale. Cala l’umidità che tiene assieme i granelli e il castello torna a essere sabbia. Gli italiani sanno di saperlo e non credono né alla minaccia delle torri né alle lusinghe delle corti. La crisi ci disturba, naturalmente, i problemi li vediamo, i dolori li subiamo, le preoccupazioni le nutriamo, le speranze le alimentiamo, ma ci sfugge il nesso fra ciò e il voto, fra la vita privata e la sua proiezione collettiva, che si chiama: politica. Riceviamo, del resto, quotidiane conferme dell’opposto, ovvero di una politica che serve ad alcuni per dare un senso e un lustro alla loro vita privata. In un contesto civile che interiorizza e produce la corruzione. E’ un concetto forse difficile, che vorrei rendere raccontando una storia istruttiva. Nel trapanese può capitare che chi resta inascoltato, o chi parla a familiari che si distraggono, esclami: “e cu parrò, Nunzio Nasi!?”. Chi era, costui? Fu presidente di quella provincia e parlamentare nazionale a cavallo fra l’800 e il 900. Fu anche ministro. Avversario di Giovanni Giolitti fu incastrato per uno scandalo e condannato per peculato: aveva utilizzato per scopi personali materiale di cancelleria e la carrozza. 11 mesi di reclusione e interdizione dai pubblici uffici. I trapanesi continuarono ad eleggerlo, anche se interdetto, perché uomini di cuore, ma ne ridevano, perché uno che “acchiana” fino a Roma e manco può fottersi le matite e la carrozza deve proprio essere uno che non conta un cappero.

Il potere ha un senso, in quella detestabile concezione, se serve a procurare vantaggio per sé, per i familiari, per gli amici e per i fedeli elettori. Altrimenti non serve. Ero un siculo pivello quando ascoltai Leonardo Sciascia sostenere che quello era il male che avvelenava la Sicilia: l’assenza di fede nelle idee, il credere che il mondo non potrà essere diverso da come è stato. E siccome vedeva quel male espandersi, diceva che la Sicilia era divenuta una “metafora”.

La nostra vita politica riflette in pieno quella sociale, ed è ferma da quindici anni. Immobilizzata. Forzata a ripetersi sempre uguale, con le elezioni a far da altalena, in movimento oscillatorio e ripetitivo, nello spazio limitato consentito dalla corda. Può darsi ci sia dell’irrazionale nella condanna che le genti del mondo libero lanciano sui loro governi, ma c’è della follia nel nostro rivivere sempre le stesse scene, sempre gli stessi conflitti, in uno stanco ricorso che non raggiunge la tragedia e non genera neanche la farsa.

mercoledì 14 luglio 2010

Assolto Canale, i magistrati rispondano degli errori su via D'Amelio. Lino Jannuzzi

Nessun giornale, tranne due eccezioni (“Il Giornale di Sicilia” e ”Libero”), ha riportato la notizia dell’assoluzione definitiva di Carmelo Canale, oggi capitano dei carabinieri e per anni, da maresciallo e da tenente, il principale e più fidato collaboratore di Paolo Borsellino. Venerdì la quinta sezione della Cassazione ha respinto il ricorso presentato dalla Procura generale di Palermo contro Canale, già assolto in primo e in secondo grado, e ha posto la parola fine a un’indagine e a un processo infiniti, durati 14 anni (Canale è indagato dal 1996 ed è stato rinviato a giudizio nel 1999). “Quando questo processo al tenente Canale sarà finito - scrivevo otto anni fa (“Panorama”, 21 marzo 2002, pag.89) - non sapremo soltanto chi ha suicidato il maresciallo Lombardo. Sapremo pure ciò che tutti i processi celebrati finora per la strage di via D’Amelio non hanno saputo chiarire: chi e perché ha ammazzato Paolo Borsellino”.
Carmelo Canale, infatti, è stato perseguitato per 14 anni non solo perché aveva denunciato per calunnia e per istigazione al suicidio i diffamatori di suo cognato, il maresciallo dei carabinieri Antonino Lombardo, che si era sparato un colpo alla tempia con la pistola d’ordinanza il 4 marzo 1995 nel cortile della caserma, ma anche perché, 15 anni prima che lo confermasse il pentito di mafia Gaspare Spatuzza, aveva spiegato che le indagini e i processi per la strage di via D’Amelio erano stati un indescrivibile pasticcio e che i veri responsabili dell’assassinio di Paolo Borsellino e della scorta erano in libertà e in galera erano finiti gli innocenti.
Il maresciallo Lombardo, che aveva comandato per vent’anni la stazione dei carabinieri di Terrasini, il feudo del boss Gaetano Badalamenti, era stato inviato in missione negli Stati Uniti ed aveva convinto Badalamenti, detenuto nelle carceri americane, a venire a deporre in Italia al processo contro Giulio Andreotti, dove avrebbe smentito, come aveva preannunciato, le accuse di Tommaso Buscetta. Autorizzato a tornare negli Usa per prelevare Badalamenti e portarlo a Palermo, Lombardo, proprio mentre stava per partire, era stato accusato dall’ex sindaco di Palermo e leader della “Rete” Leoluca Orlando, ospite della trasmissione di Michele Santoro, di intelligenza con la mafia. La Procura di Palermo, sollecitata dai vertici dell’Arma dei carabinieri, si era rifiutata di smentire le accuse di Orlando e aveva fatto trapelare la voce che si accingeva ad arrestare Lombardo, e questi si era sparato nel cortile della caserma, dopo avere scritto una lettera, in cui denunciava che i suoi guai erano stati provocati dai “viaggi americani”, e cioè dall’avere lui convinto Badalamenti a venire a deporre e a smentire Buscetta.
Canale aveva subito parlato di “delitto di Stato” e, dopo aver denunciato per calunnia e istigazione al suicidio Orlando e Santoro, aveva rivelato il contenuto del rapporto fatto dopo il viaggio negli Usa al comando dell’Arma dei carabinieri da suo cognato Lombardo e dal suo superiore, il maggiore Mauro Obinu, in cui, dopo la conferma che Badalamenti era disposto a venire in Italia a smentire Buscetta, si denunciava che il sostituto procuratore di Palermo, che aveva accompagnato negli Usa i due carabinieri, aveva dimostrato “seria preoccupazione per la decisione di Badalamenti, pericoloso per l’impianto processuale” dell’accusa contro Andreotti poggiato sulle accuse di Buscetta, ed aveva esortato i carabinieri “a non insistere”. Canale sosteneva che qualcuno dalla Procura di Palermo aveva fatto conoscere a Orlando il rapporto segreto di Lombardo e del maggiore Obinu e che il cognato era stato appositamente diffamato e “istigato al suicidio” per impedirgli di andare a prendere Badalamenti e portarlo a deporre in Italia.
Non solo. Deponendo dinanzi allo commissione parlamentare antimafia, allora presieduta da Ottaviano Del Turco, Canale aveva sostenuto che la vicenda Badalamenti-Lombardo-Orlando-Procura di Palermo era intrecciata con la strage di via D’Amelio e che Borsellino era stato ucciso perché, lontano dalla Procura, di cui diffidava, e chiuso nella caserma dei carabinieri, stava indagando sull’assassinio del suo amico Giovanni Falcone con l’ausilio del maggiore Mario Mori e del capitano Giuseppe De Donno, autori dell’indagine “mafia e appalti”, una indagine vanificata per la fuga di notizie dalla Procura e ritenuta da Borsellino la vera causa della strage di Capaci.
Canale non aveva finito di deporre dinanzi alla commissione parlamentare antimafia, tra le proteste dei membri comunisti della commissione, che abbandonarono la seduta, che spuntò il primo mafioso “pentito” ad accusarlo. Rapidamente i “pentiti” divennero cinque, poi sette, poi dodici, e accusarono Canale di aver fornito ripetutamente “informazioni” alla mafia in cambio di danaro, che gli era servito prima per curare una figlia malata e poi per costruirle la tomba al cimitero. Il pubblico ministero Massimo Russo (che poi è entrato in politica e oggi è assessore alla Sanità nella giunta Lombardo) aveva chiesto per Canale “che è un Giano bifronte - aveva gridato nella requisitoria finale - che ha indossato per anni la divisa di servitore dello Stato, ma al tempo stesso violava il giuramento di fedeltà alle istituzioni perché faceva parte della mafia, una mafia che è diventata il mostro che è grazie a individui abietti come lui”, la condanna a dieci anni di galera. Canale è stato assolto in primo e secondo grado con formula piena, e i giudici d’appello hanno respinto il ricorso di Russo, rilevando nel pm “preconcetti e ansia colpevolista” e “atteggiamenti ingenerosi”.
E tuttavia ci sono voluti 14 anni e Canale, nel frattempo, è andato in pensione senza poter recuperare la progressione in carriera, che per lui si è fermata al grado di capitano. Ora che è finita, i magistrati di Caltanissetta, competenti per i reati commessi dai magistrati a Palermo, dovrebbero riaprire i verbali segretati delle deposizioni rese all’epoca da Canale, che parlò per nove ore, e iscrivere nel registro degli indagati, sia il pm citato nel rapporto Lombardo-Obinu, che li voleva far “soprassedere” dal portare a Palermo Badalamenti, sia il pm, sempre della Procura di Palermo, che fece intendere che stavano per arrestare Lombardo e provocò il suo suicidio (e il suo nome è nel verbale della deposizione resa dall’allora colonnello Mario Nunzella, comandante dei Ros, dinanzi alla commissione parlamentare antimafia).
Nel frattempo, la commissione parlamentare, oggi presieduta dal senatore Pisanu, anche se è molto occupata a cercare i responsabili della presunta “trattativa” tra lo Stato e la mafia, potrebbe riaprire il plico della deposizione resa a suo tempo da Canale e indagare seriamente sulle responsabilità degli errori madornali commessi nelle indagini e nei processi per la strage di via D’Amelio, senza prendersela con i tre poveri poliziotti oggi indagati a Caltanissetta, ma chiedendone conto, come di dovere, a quella dozzina di pm che hanno indagato nei tre processi e a quella trentina di giudici del primo grado e dell’appello, responsabili delle aberranti sentenze che hanno condannato all’ergastolo gli innocenti e lasciato in libertà i colpevoli. Dal canto suo, il ministro della Giustizia farebbe bene a mandare gli ispettori alla Procura di Palermo per far cessare lo scandalo di questo accanimento giudiziario contro i carabinieri che, dopo il caso Canale, continua con le sedute spiritiche organizzate col figlio di Vito Ciancimino ai danni del generale Mori e, guarda caso, del colonnello Mauro Obinu. (il Velino)

Ganzer deve lasciare. Davide Giacalone

Il generale Bruno Ganzer non può restare al suo posto. Trovo incredibile che questa evidenza non risulti tale agli occhi dei vertici istituzionali e del generale stesso. Così come trovo necessario sottolineare la follia di un Paese che ha appena finito di condannare, in sede penale, Gianni De Gennaro, all’epoca dei fatti capo della Polizia, ora condanna il capo del Raggruppamento Operativo Speciale, mentre sta ancora processando il suo precedessore in quel medesimo posto, il generale Mario Mori. La giustizia condanna i vertici della sicurezza, lo Stato condanna lo Stato, in una spirale devastante rispetto alla quale le posizioni personali dei diretti interessati rappresentano ben poca cosa.

Il cittadino Ganzer resta coperto dalla presunzione d’innocenza, naturalmente, che viene meno solo nel caso di condanna definitiva. Ma si deve essere ciechi alla luce della sensibilità istituzionale per non capire che non può restare a guidare il Ros una persona condannata, in primo grado, a 14 anni di carcere, e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, per traffico di droga. Vorrei che legislatori e governanti ricordino di avere approvato una legge (dalla quale dissentivo e dissento) secondo la quale i dipendenti pubblici possono essere allontanati dal loro ufficio in pendenza di una condanna, sebbene non definitiva. E vorrei far presente che il carabiniere Carmelo Canale (di cui ci siamo occupati domenica), assolto fin dal primo grado, ha subito la sospensione dal servizio per il periodo massimo previsto dalla legge, cinque anni, al punto che ne è stata bloccata la carriera e anticipato il pensionamento (a proposito: il sempre innocente ha fatto domanda di riammissione, per avere il diritto di uscire dall’Arma a testa alta e dal portone principale, sicché chi di competenza farebbe bene a sbrigarsi, per fare il meno che lo Stato deve a questo suo servitore). Perché un tenente dovrebbe essere sospeso, senza mai essere incorso in una condanna, e un generale restare al suo posto, che comporta delicatissime responsabilità? Non c’è legge, né ragione, che consenta una simile disparità. Semmai il contrario.

La sentenza che condanna Ganzer è una botta micidiale alla credibilità delle istituzioni, ma il rimedio non consiste nel far finta di nulla, che è impossibile e controproducente, ma nell’affrontare il problema vero e serio: questo tipo di giustizia può mettere in scacco lo Stato, può bloccare gli uomini della sua sicurezza, può sovraordinarsi a qualsiasi potere. Il che non è il trionfo del diritto, ma la sua sopraffazione e il suo piegarsi alla logica della forza togata. Un pericolo enorme, specie con una politica che perde tempo a parlare d’inutili e controproducenti leggi sulle intercettazioni, al punto che anche un ufficio dell’Onu si permette di mettere bocca nelle nostre faccende interne, per giunta sparando sciocchezze sesquipedali.

Da quel che leggo della sentenza Ganzer, che riguarda anche altri ufficiali, ne traggo l’impressione che sarà riformata, a vantaggio degli imputati. Ma le impressioni mie, come di ciascuno, non valgono un tallero, quel che conta è la sentenza. La procura ha accusato, pesantemente, e il tribunale le ha dato ragione. Come si può pensare che il comandante generale dell’Arma e il ministro degli Interni confermino la fiducia al condannato senza, al tempo stesso, fissare la più totale sfiducia in chi ha giudicato? E come si può pensare che i carabinieri agli ordini del condannato collaborino, nella veste di polizia giudiziaria, con i magistrati che hanno accusato e condannato chi li comanda? Un totale cortocircuito, che non si rimedia lasciando le dita ben ficcate nella presa di corrente.

Trovo grave che il generale resti un minuto di più dove si trova, perché vedo in questo il tentativo di salvare capra e cavoli, di mettere la testa sotto la sabbia, di non volere prendere atto del divorzio istituzionale in atto, di far finta che non esista il conflitto palese fra pezzi dello Stato. Tanta incoscienza porta male, perché lascia che i problemi crescano fino ad esplodere, nell’incapacità di governarli. Così procedendo lasceremo il governo della cosa pubblica ai magistrati amministrativi e contabili, e quello della collettività ai magistrati penali, chiudendo i battenti della politica e riducendo la società a un insieme di temporaneamente non intercettati, non inquisiti e non condannati.

La politica ha colpe gravissime, fra le quali quella di cincischiare sulla robetta e lasciare impunita un’amministrazione giudiziaria che delle lungaggini e dell’inefficienza ha fatto le basi del proprio potere. Qual è il potere di un procuratore, vigente l’obbligatorietà dell’azione penale? Quello di perseguire chi gli pare e di lasciar languire, in attesa della prescrizione, chi gli piace. Può impressionare leggerlo in maniera così ruvida, ma questa è la realtà. Scientificamente costruita in venti anni di giustizialismo fascistoide. Qual è il potere dei tribunali? Quello di sentenziare senza mai rispondere degli errori, frapponendo decenni fra la sentenza sbagliata e il suo essere rosa dai sorci della derubricazione e della prescrizione. Tocca alle vittime, eventualmente, chiedere che la tortura continui, alla ricerca di un’assoluzione piena che non ha alcun valore.

Quali rimedi sono stati approntati, in tanti anni? Uno solo: la legge Pecorella, che stabiliva non potersi processare ancora chi era già stato assolto. Giustissimo. Ha provveduto la Corte Costituzionale a farla fuori, esercitando un potere politico che non le compete. Per il resto, il deserto. Concitato, rissoso, rovente, come quello che si dispiega sulle intercettazioni, ma che resta deserto.

Ganzer deve lasciare il comando dei Ros, non ci sono alternative serie. Anche perché è già da tempo passata l’ora in cui è necessario riprendere il controllo del diritto e della giustizia.

martedì 13 luglio 2010

Cene e capezzoli. Davide Giacalone

Non serve un invito a cena in casa di Denis Verdini, per portare i magistrati al banchetto della spesa pubblica e nell’anticamera del potere (la cui sala principale è vuota, non esistendo l’inquilino). Non basta un comunicato dell’Associazione Nazionale Magistrati per coprire una vasta e devastante deviazione, che inquina la giustizia tanto quanto la vita pubblica. Come non bastano le dimissioni di Antonio Martone (uno dei convitati verdiniani, commensale di Flavio Carboni) per chiudere la faccenda, anche perché non le ha date, è solo andato in pensione. Tutta questa sbrindellata faccenda, dai contorni più grotteschi che orridi, indica la decadenza dei costumi pubblici. Vedo che, in ritardo di qualche anno rispetto a queste pagine, sul Corriere della Sera si sono accorti che l’Italia ha un problema di classe dirigente. E’ vero, e nel problema comprenderei anche la lentezza dei loro riflessi. Ma dirlo serve a poco, se poi non si ha il coraggio di mettere a fuoco i problemi specifici.

“Non vogliamo – ha scritto l’Anm – magistrati contigui al potere di turno e vicini ai comitati d’affari”. Giusto, ma è un’affermazione che possono fare i marziani, non gente che vive immersa in un sistema di commistioni e compartecipazioni. Il fatto è che non solo i magistrati non dovrebbero essere vicini al “potere di turno”, ma neanche dovrebbero far politica. Lo stabilisce la Costituzione, che molti sventolano e pochi leggono. Da noi, invece, ce ne sono troppi che non sembrano fare altro che politica.

Ci sono gli esibizionisti dell’inchiesta, quelli che accusano a casaccio, facendo bene attenzione, però, a colpire soggetti che consentano loro di finire sui giornali e, poi, poco prima che l’inchiesta abortisca in un mostriciattolo senza vita, si candidano e si fanno eleggere. A quel punto neanche si dimettono, ma si mettono in aspettativa, facendo marameo all’articolo 104 della Costituzione e a tutti i babbei che consentono loro di proseguire la vita da virtuosi della nullafacenza ben retribuita. Per non dire delle toghe che vestono l’abito dell’assessore, pretendendo pure di farlo in nome della toga.

Quando scade il mandato tornano al loro posto, scontando le promozioni per anzianità e i relativi aumenti di stipendio, accaparrandosi i posti meno attivi e dedicandosi quindi alla memorialistica e al teatro, che sarebbero anche delle nobili attività, se non fossero condotte a spese dei cittadini.

C’è anche, però, l’esercito di magistrati che fanno attivamente politica e governano, fingendo che i ruoli di capo di gabinetto, capo dell’ufficio legislativo o consiglieri ministeriali a vario titolo siano tecnici. Ma quando mai! Quella è la carne viva del potere, o di ciò che, con discreta fantasia, si chiama tale. Salvo poi giudicare e far giudicare ai colleghi sia gli atti amministrativi da loro stessi allestiti, sia quei malcapitati fessacchiotti di ministri, che firmano e si sentono furbi, salvo finire da soli nelle inchieste penali e contabili.

Se l’Anm vuol dire qualche cosa di significativo, se vuole parlare per dire e non solo per emettere suoni, affermi che questo mercato parallelo della magistratura deve chiudere, che ciascun magistrato deve scegliere: o amministra giustizia o fa politica. Senza mezze misure, senza i trucchi e gli imbrogli di cui sono colme sia la giustizia che la politica.

Non solo l’Anm, ma noi tutti dovremmo renderci conto che i magistrati seduti al desco di una casa romana, intenti a inforchettare una sugosa pietanza, semplicemente non erano in grado di rendersi conto d’essere nel posto sbagliato. Né ho alcuna voglia di inchiodarli a quella loro mancanza di sensibilità, perché sono in ottima e vastissima compagnia, talché occorrerebbe una fortinura supplementare di chiodi. Ed è appunto quello il nostro problema collettivo: la perdita di senso istituzionale, avere smarrito l’etica pubblica e i suoi pudori. Poi, per carità, tutti i pudori celano un certo tasso d’ipocrisia, ma l’assenza di pudore segnala l’assenza di etica. Del resto, che volete? Se è possibile che un ministro dica di avere intermediato affari non come ministro, ma nelle ore in cui si limitava ad essere una persona, la stessa cosa può fare un magistrato, che dispensa consigli desinando e poi li giudica sentenziando.

Al fondo di tutto c’è un sistema corrotto dall’assenza di competizione e merito. Vale per i magistrati, dove il più lavoratore e il più competente avanza come il più sfaticato e demente, e vale per la politica, dove la cortigianeria fa premio sulla schiena dritta e le idee chiare, come già cantava, disperato e furente, il Rigoletto. Tutto ciò, inoltre, è potuto accadere perché il Paese nel suo insieme ha preferito la rendita alla competizione, valendo ciò per gli scolari e i loro docenti, gli operai e le grandi imprese, financo per i cineasti e le loro cineprese, tutti intenti a ciucciare il ciucciabile, salvo scoprirsi indignati quando il capezzolo sfugge di bocca. Bé, non siamo ancora agli sgoccioli ma ci arriveremo, visto che perdiamo competitività da quindici anni. Cambiare strada e passo sarebbe necessario, ma non facile da spiegarlo a quanti ritengono essere un loro diritto quello che, in realtà, è un ingiustificato privilegio.

mercoledì 7 luglio 2010

Sono stati gli aguzzini di Mangano a farne un "eroe", non Dell'Utri. Lino Jannuzzi

Nel 1974,quando Vittorio Mangano viene ingaggiato e sale ad Arcore a fare il fattore (e non lo “stalliere”), ha 33 anni e due o tre condanne per assegni a vuoto. Ma non lo trovano, perchè continuano a notificargli le condanne a Palermo, mentre ha la residenza ad Arcore con tutta la famiglia, suocera compresa. Lo trovano dopo un anno, quando vanno a indagare ad Arcore per il tentato rapimento, in cui Mangano non c'entra, di un ospite di Berlusconi. Lo arrestano, gli notificano le sue pendenze, per cui a Palermo è stato processato in contumacia, e lo rilasciano dopo una settimana. Mangano se ne torna a Palermo, dove viene arrestato nel 1980 e viene processato per l'articolo 416, l'associazione a delinquere semplice (non c'era ancora il 416 bis, l'associazione mafiosa). Lo accusano di essere diventato “reggente” della “famiglia” mafiosa di Porta Nuova dopo Salvatore Cancemi, ma in realtà Pippo Calò, che ha lasciato la carica perchè è in galera, diffida di lui, che non è mai passato con i “corleonesi”, e gli preferisce Salvatore Cucuzza. Giovanni Brusca, il boss più vicino a Totò Riina, legge sull'Espresso che Mangano è stato a lavorare ad Arcore e gli domanda se è possibile per lui riprendere i contatti con Berlusconi. Mangano gli risponde che non è possibile. Condannato nell'ambito del processo Spatola, l'unica sentenza definitiva avuta da Mangano, sconta tutta la pena, si fa dieci anni di carcere ed esce nel 1990. Quattro anni dopo essere uscito dal carcere, nell'aprile del 1994, in perfetta coincidenza con la discesa in campo di Silvio Berlusconi (che intanto è iscritto segretamente sul libro degli indagati) e con l'inizio delle indagini su Dell'Utri, Mangano viene “fermato” in base al decreto speciale e successivamente viene arrestato per l'articolo 416 bis per reati “presumibilmente” commessi dopo il 1990. Non gli vengono contestati reati precisi, ma viene ripetutamente interrogato su Dell'Utri e Berlusconi.

Paolo Borsellino, su richiesta del pm Guido Lo Forte, lo proscioglie dal reato di concorso in estorsione, ma Mangano viene intanto accusato per l'omicidio di un ricettatore, tale Vinciguerra. Nel luglio del 1999 la Corte di assise di primo grado lo condanna all'ergastolo, condanna che non diverrà mai definitiva perchè Mangano muore l'anno dopo. Nella sentenza la Corte stabilisce l'incompatibilità di Mangano con il carcere e la necessità di ricoverarlo in un centro clinico, dove deve essere curato e monitorato 24 ore su 24, per tenere costantemente sotto controllo la cardiopatia ipertensiva (pericolo incombente di infarto) e la vascolopatia cerebrale (pericolo incombente di ictus). Già quando era stato arrestato, Mangano aveva avuto un trauma cranico in seguito a un incidente automobilistico, una scapola fratturata e lesioni alla colonna vertebrale. Mangano viene rinchiuso invece nel carcere duro di Pianosa, dove gli viene l'epatite e gli si formano delle placche alla carotide che gli riducono il flusso del sangue al cervello. Il suo avvocato denuncia che a Pianosa i detenuti si infettano tra di loro perchè i carcerieri gli fanno la perquisizione anale con lo stesso guanto. A Mangano viene un ictus, lo mettono sulla sedia a rotelle e lo trasferiscono in un centro clinico. Due settimane per qualche accertamento e lo riportano a Pianosa. Gli viene un infarto, perde per una parestesia l'uso del braccio e della gamba destra. Inutilmente il suo avvocato riempie gli archivi del tribunale di istanze per sollecitare l'intervento dei medici e il suo trasferimento in un centro clinico o agli arresti domiciliari. Mangano viene invece trasferito al carcere duro di Secondigliano, peggio che a Pianosa, e viene sentito in videoconferenza dall'aula di Palermo dove processano Dell'Utri: gli chiedono di Arcore, dei cavalli, di Dell'Utri e di Berlusconi. Successivamente viene trasferito in barella direttamente nell'aula del processo a Palermo, e gli chiedono ancora di Arcore, dei cavalli,di Dell'Utri e di Berlusconi.

L'agonia di Mangano dura un anno. Il 20 giugno del 2000, a un anno dalla sentenza, il suo avvocato lo va a trovare e, attraverso i vetri, si rende conto che la situazione è precipitata e invoca i periti del carcere. Giallo come un limone per tutto il corpo, dalla cornea degli occhi alla punta dei piedi, le papille gonfie, l'epatopatia attiva, il fegato distrutto, gli trovano 18 litri di liquidi nella pancia, la cirrosi galoppante, i periti sconvolti denunciano gli “inspiegabili ritardi dei sanitari in carcere” e decretano che “non c'erano più spazi per interventi”. Il 3 luglio la visita dei periti, il 4 luglio la diagnosi, il 5 luglio il procuratore di Palermo Piero Grasso, appena insediatosi al posto di Caselli,firma in fretta per gli arresti domiciliari e Mangano viene scarcerato e viene trasportato in barella a casa. Il 23 luglio muore. Nell'ultima lettera alla moglie e alle figlie aveva scritto: ”Non si baratta la dignità con la libertà”. E ha voluto dire che, piuttosto che accusare ingiustamente Berlusconi e Dell'Utri, ha preferito restare in carcere e morire. Quando la “Giustizia” arriva a questi orrori, quando l'amministrazione della Giustizia può arrivare fino al punto di torturare e uccidere un uomo per costringerlo a testimoniare il falso, allora può anche succedere che il più infame dei mafiosi, al confronto dei suoi aguzzini, appaia come un “eroe”. (il Velino)

Libertà negata

LETTERA DA DIFFONDERE

Scritto da Il Legno Storto
venerdì 02 luglio 2010

Carissimi lettori de Il Legno Storto, con grandissima amarezza vi annunciamo che in questi giorni il nostro giornale sta correndo il pericolo di essere chiuso.
Negli ultimi tempi, infatti, ben due magistrati, cioè il dr. Luigi Palamara e il dr. Pier Camillo Davigo, ci hanno querelato. Per l'esattezza la Procura di Roma ci ha comunicato (attraverso il quotidiano la Repubblica, divenuto ormai il "postino" e il "megafono" delle procure) che ha aperto un fascicolo per le minacce che noi avremmo formulato con questo articolo nei confronti del dr. Palamara. Sono in corso indagini (siamo stati già chiamati dalla Digos di Milano) che, al momento, non sappiamo come e quando finiranno: ma è facile immaginare il peggio...

Giorni fa abbiamo poi ricevuto una citazione dal dr. Davigo che ci chiede 100.000 € per risarcimento danni da diffamazione a mezzo stampa per quest'altro articolo , pubblicato da noi il 21 giugno 2009.
Per completare il quadro di quella che a noi pare una manovra per farci fuori dalla rete, circa due mesi fa abbiamo ricevuto un'altra querela dal sindaco di Montalto di Castro – Salvatore Carai del Partito Democratico – che si è sentito diffamato da questo articolo che abbiamo pubblicato su il 27 ottobre 2009.
Al di là di ogni considerazione sul merito degli articoli, che agli occhi di chiunque li legga senza volontà punitive riterrebbe duri, certo, ma sempre nell'ambito del diritto di critica, la cosa che lascia esterrefatti è la rapidità con la quale sono state notificate le querele e/o l'avvio di indagini, quando si tratta di magistrati. Una denuncia per diffamazione di un qualunque cittadino verso qualcuno che non appartenga alla casta della magistratura, in Italia, impiegherebbe sicuramente anni per giungere a destinazione. Noi invece siamo chiamati a giudizio (querela del dr. Davigo) il prossimo 28 luglio per un articolo pubblicato il 21 giugno 2009. La giustizia insomma, quando vuole – cioè quando si tratta di uno di "loro" – dà prova di grande celerità ed efficienza: poco più di un anno. Nell'atto di notifica del dr. Davigo c'è applicata un'etichetta con la scritta: "Urgente". Chiaro il concetto: visto che si tratta di un "pezzo da novanta" della casta (la citazione del dr. Davigo comincia così: «L'odierno attore, attualmente in servizio presso la II sezione della Suprema Corte di Cassazione in qualità di Consigliere...») la giustizia deve fare il suo corso in tempi rapidissimi...
Sappiamo bene che, se il nostro giornale fosse schierato sul fronte delle Sinistre, a questo punto, davanti ad un episodio analogo, sarebbe già partita una crociata in nostra difesa, a sostegno della libertà di stampa e di opinione. L'Ordine dei Giornalisti farebbe fuoco e fiamme, il Sindacato minaccerebbe sfracelli. Ma noi non apparteniamo a questo schieramento, e dobbiamo aspettarci che in nostra difesa insorgano, forse, solo i nostri lettori, e qualche singolo amico e compagno di avventura. Chi si straccia le vesti per i provvedimenti in discussione intorno alle intercettazioni ed alla "libertà" negata tenga conto del fatto che qui su Il Legno Storto si cerca di difendere la libertà di discutere e di criticare, di contribuire alla crescita di una società politicamente "adulta". Là si lotta per il diritto di pubblicare gossip o accuse ancora tutte da dimostrare.
Questa è la situazione. E siccome non possiamo permetterci di confrontarci – a nostre spese – con forze tanto preponderanti, indipendentemente dalla ragione che pensiamo di avere non ci resta che valutare l'ipotesi di chiudere. Con buona pace di chi ancora ritiene che davvero il monopolio mediatico sia nelle mani di Silvio Berlusconi.
In questi anni abbiamo cercato sempre di offrire ai nostri lettori materiale utile per un approfondimento dei dibattiti e delle idee. Abbiamo cercato di evitare sciocchi appiattimenti e adesioni acritiche, ma ci siamo anche sforzati di combattere quella cultura dominante del conformismo di sinistra, che tanto nuoce al nostro Paese. Da domani il Web potrà avere una voce libera e liberale in meno, e l'ordine regnerà ancor più indisturbato intorno a una Magistratura che non ammette critiche. È una sconfitta per noi, certo, ma è anche un colpo per tutti coloro che ritengono sacrosanta la raccomandazione di Voltaire: battersi per consentire, a chi la pensa diversamente da noi, di esprimere liberamente la propria opinione. Oggi gran parte della magistratura combatte, non applica la legge, in omaggio al principio etico-politico che spetta ai magistrati il compito di raddrizzare il Legno Storto dell'umanità.
Adesso è arrivato il nostro turno. Il motivo principale per il quale nel 2002 aprimmo Il Legno Storto fu proprio tentare di denunciare e arginare, (nel nostro piccolo) la deriva giustizialista ormai dominante nel nostro Paese. Ora siamo cresciuti, e cominciamo davvero a dar fastidio. Le denunce che abbiamo ricevuto in questi giorni hanno come obiettivo principale di farci scomparire dal web. E più in fretta possibile.
A voi, nostri affezionati utenti ed amici, chiediamo di dare, come faremo anche noi, la massima diffusione alla notizia. È l'unica cose che possiamo fare per difenderci.

Un cordiale saluto,
Antonio Passaniti
Marco Cavallotti

I piccoli intrighi del gruppo finiano. Daniele Capezzone

Diciamoci la verità, caro direttore: fino a ieri, per capire dove volessero andare davvero a parare alcuni dei più accesi esponenti «finiani», tanti spaesati elettori del Pdl pensavano di doversi rivolgere al polpo Paul, l’ormai leggendario mollusco teutonico specializzato nell’azzeccare i pronostici. Si brancolava nel buio, non si comprendeva, si viveva nell’attesa di un male oscuro e imprevedibile. Ma finalmente, ieri mattina, un’intervista dell’onorevole Bocchino ci ha illuminato: «Se Berlusconi rompesse con Fini, basterebbe una forza dell’1,5% non alleata del Pdl per fargli perdere il premio di maggioranza al Senato».

Conoscendo lo stile dell’onorevole Bocchino, è da escludere che una simile affermazione possa anche lontanamente suonare come un avvertimento o come un ricatto politico. Figurarsi, neanche a pensarlo. Il guaio, però, è che se proviamo a prenderla sul serio, è ancora peggio, roba da farsi cadere le braccia. Ma come? I finiani ci hanno «deliziato» con mesi e mesi di parole sulla legalità e sulla democrazia interna, con decine di interventi-comunicati-convegni sui massimi sistemi, con pensose riflessioni sul futuro della libertà, e poi tutto finisce con una prospettiva degna di una lista civetta, con il «nobile scopo» di far perdere il premio al centrodestra in questa o quella regione? Tutto qui? Dinanzi a tanto, anche il polpo Paul andrebbe in depressione, con conseguente ammosciamento dei tentacoli e sfibramento delle ventose.

Fuor di scherzo, c’è da sperare che la frase in questione sia sfuggita all’onorevole Bocchino, o che fosse parte di un ragionamento più complesso, malamente sintetizzato dall’intervistatore. Eppure, un dubbio resta: e cioè che alcuni tra coloro che (mal)consigliano il presidente della Camera coltivino il sogno del potere senza consenso. È questo un tratto comune di alcuni ambienti della politica romana, dei soliti salotti impolverati, e ovviamente di qualche gruppo editoriale: manovrare le sorti della politica italiana mettendo tra parentesi il «dettaglio» rappresentato dai voti, dalla volontà popolare, dalle scelte dei cittadini.

Il giochino è sempre lo stesso: nei giorni pari, c’è il suggeritore che rispolvera il ferro vecchio del «governo tecnico»; nei giorni dispari, c’è lo stratega che discetta su come costruire mini-operazioni elettorali di disturbo, per erodere qualche decimale. Piccolo cabotaggio e ambizioni ridotte, ed è un peccato. Sarebbe più serio se qualcuno, dentro o fuori l'attuale perimetro della politica, avesse l’onestà intellettuale di fare il seguente discorsetto: «Voglio battere Silvio Berlusconi. Mi candido a viso aperto contro di lui, vi presento un programma alternativo al suo, e vi chiedo di darmi anche un solo voto in più». Ma queste parole semplici e coraggiose non le abbiamo sentite, e c’è da scommettere che non le sentiremo: è come se gli avversari del Premier sapessero di non poter vincere sul campo, e cercassero sempre una scorciatoia o una gherminella extraelettorale.E tutto questo ci dà una ragione di più per stare con Silvio Berlusconi, per supportare l’azione di un governo che sta facendo bene, e per rifiutare l’arsenico e i merletti di una vecchia politica che i cittadini hanno giustamente deciso di mandare in archivio. (il Giornale)

venerdì 2 luglio 2010

Silvio: ovvero l'Araba Fenice.

Chi pensa che il Cav. sia oramai sconfitto e fuori gioco, si sbaglia di grosso.
In questi giorni si intona il de profundis in ogni articolo di stampa ed in ogni intervista, mentre Berlusconi è all'estero per promuovere l'Italia come azienda e come Stato.
E' palese la mancanza di correttezza nei suoi confronti, ma è anche evidente il momento di crisi che attaversa il Pdl.
Il Pdl, non Berlusconi.
Tornerà più in forma di prima e stupirà ancora una volta per la sua longevità "felina".
Non ve lo toglierete dai piedi, cari compagni, nemmeno questa volta.
Cosa mi fa pensare che il Presidente sia come l'Araba Fenice?
La sua straordinaria determinazione, la volontà di perseguire gli obiettivi, l'incrollabile ottimismo, l'amore per l'Italia e lo spirito di servizio che lo ha sempre animato.
La sua capacità di superare problemi ed ostacoli, addirittura traendone vantaggio e popolarità, gli farà ricomporre e ricucire gli "strappi"che si sono verificati nella coalizione di governo e con il Quirinale, mentre in autunno darà il meglio di sé quando ci sarà da lavorare alle riforme.
All'opposizione non rimane che ricorrere agli sciamani e alla magia nera...