martedì 30 settembre 2008

La pretesa di avere sempre ragione. Marco Bertoncini

Sembra che se ne accorgano. Era ora. A sinistra alcuni cominciano a riflettere sui motivi della sconfitta subita alle politiche e, in genere, sui limiti del comportamento, umano ancor prima che pubblico, di dirigenti, intellettuali, opinionisti che sostengono il centro-sinistra. Le definizioni, in termini di autocritica, possono essere varie: spocchia, autoreferenzialità, supponenza, moralismo, arroganza mentale. La sostanza è la medesima: l’autocollocazione del centro-sinistra in un elevato eden, dal quale giudicare con affettazione tutti coloro che la pensino diversamente, bollati come ignoranti, materialisti, egoisti, reazionari, incapaci, e sotto sotto perfino imbecilli. Luca Ricolfi, ad esempio, in un saggio significativamente intitolato “Perché le sinistre hanno perso”, è giunto perfino a irridere taluni usi linguistici (come “loft” per indicare la prima sede del Pd e “caminetti” le riunioni dei potentati democratici), perché sintomo dell’incomprensione nei confronti dell’odio provato dalla gente comune verso i simboli del potere romano. Giuseppe Provenzano, su l’Unità, ha riconosciuto gli errori, non solo di linguaggio stereotipato, commessi dalla sinistra nel comunicare con i cittadini. Sono primi passi, sintomo del bisogno di esaminarsi con freddezza che nel centro-sinistra si avverte. Intanto, però, procedono le articolesse domenicali di fondatori e commentatrici, che non riescono ad azzeccare una previsione, ma nello stesso tempo impartiscono lezioni di morale, prima ancora che di politica, all’universo mondo. Intanto, però, si continua ad avvertire quel sapore salottiero, radical chic, da erre moscia, che inonda i giornali provenendo dalla sedicente alta cultura, da decenni intrisa di sinistrismo. Intanto, però, i tentativi di riformismo cozzano contro le tenaci adesioni al passato, si chiami mito di Togliatti o eurocomunismo o antifascismo (in questo caso con arrivi fuori tempo massimo dalle opposte sponde).

Intanto, però, dai costituzionalisti di sinistra, con riecheggiamenti sul più alto colle, si insiste sull’immodificabilità evangelica della prima parte della nostra costituzione, esaltando un “patriottismo costituzionale” che perpetua l’orrido compromesso denso di sovietismi della nostra carta. Chi si avvede, nel centro-sinistra, della necessità di superare una chiusura aristocratica nella compiaciuta esternazione di sé e del proprio passato, cozza contro l’ottusa e diffusa mentalità dominante, ben espressa dai numerosi predicatori professionali dell’etica pubblica. E’ la pretesa di aver sempre e in ogni caso ragione, di averla avuta anche quando la storia ha dimostrato il contrario, di averla pure contro la realtà odierna, e di detenerla per il futuro, un futuro che nessuno di noi conosce, ma che a sinistra si è adesso preteso perfino di fissare come data ultima. (l'Opinione)

lunedì 29 settembre 2008

Berlusconi vola. Gianni Baget Bozzo

Berlusconi ha vinto la partita, Alitalia sarà ceduta alla Cai. Era proprio quello a cui si era inizialmente opposto Veltroni, che voleva condurre la vertenza sino al fallimento della Compagnia Aerea Italiana e all'ingresso di una compagnia straniera come elemento di maggioranza. Cioè la ripetizione del modello Air France. Veramente un omaggio postumo al governo Prodi di cui il segretario del Pd aveva determinato la caduta. Ma non ha avuto su questa linea il consenso del suo partito, che non voleva rischiare il fallimento di Alitalia. E così la decisione è entrata nelle mani del governo e direttamente del presidente del Consiglio. E' lui che ha trattato con i piloti mentre Colannino trattava con la Cgil.

La Cai ha fatto concessioni e i sindacati che avevano già sottoscritto l'intesa non l'hanno contestata in base ai loro diritti di firmatari dell'accordo. Il bastone del fallimento, e soprattutto quello della sospensione dei voli Alitalia minacciata dall'Enac, hanno avuto effetto quanto la carota di concessioni verbali alle nuove parti. Le compagnie straniere che chiedono di diventare soci di minoranza della Cai sono già Air France, Lufthansa e British Airways. Ciò mostra che i grandi vettori internazionali hanno fiducia nella Cai e nel governo italiano. Una fiducia assai maggiore di quella mostrata da Veltroni e da Epifani.

E' ben evidente qui che il segretario del Pd e quello della Cgil hanno giocato contro il governo e contro il paese per imporre l'ingresso in maggioranza di una compagnia straniera e il ritiro della Cai. Il Pd non li ha seguiti su questa linea, così Berlusconi ha potuto prendere il mazzo e ottenere che la Cai fosse padrona dell'Alitalia. Così un disegno che è stato irriso quando venne annunziato ed è stato così duramente contrastato è riuscito. Ed era un gioco rischioso, perché se la linea di Epifani e Veltroni fosse riuscita, il governo avrebbe avuto sulle braccia Alitalia, l'interruzione dei voli e il fallimento. Questo è stato il momento decisivo della legislatura, che ne ha già avuti molti: ma qui il governo si è esposto in prima persona in una questione così importante e con scadenze così radicali.

Ciò vuol dire che è nato un nuovo governo: nuovo rispetto anche ai precedenti governi Berlusconi, un governo che ha il coraggio del rischio e della decisione forte, come raramente è accaduto prima nei governi della Repubblica. Il Pd dovrà prendere atto della forza e dell'unità della maggioranza e capire che non sarà una marcetta in piazza e milioni di firme a sbilanciare chi sa governare così bene. (Ragionpolitica)

domenica 28 settembre 2008

La folgore togata. Davide Giacalone

Con puntualità cronometrica, ecco la saetta giudiziaria. Protestare l’incostituzionalità del lodo Alfano serve a fulminare Berlusconi? Semmai a cortocircuitare l’opposizione. La Cgil si è appena salvata dal prendersi le colpe per Alitalia, Veltroni ha appena finito di rivendicare la collaborazione con un salvataggio che aveva avversato, il fronte imprenditoriale ringrazia tutti, e questo, per alcuni, presenta il pericolo che si torni a parlare di cose serie e di riforme. Così, ecco la folgore togata che torna in azione, trasciandosi appresso la promessa di piazze arruffate dal desiderio di vedere in galera l’avversario politico.
L’immunità per le alte cariche dello Stato (lodo Alfano) non ferma il processo e non fa scorrere la prescrizione, li sospende. Per avversare tale norma si chiede l’intervento della Corte Costituzionale, ottenendo l’effetto di sospendere il processo senza bloccare il calendario della prescrizione. L’insensatezza è evidente, ma la si accetta pur di trascinare il processo sull’unico terreno che interessa, quello dello scontro politico e della propaganda mediatica. Tutto a spese del contribuente, che paga caro un disservizio scandaloso.
Un paio di giorni fa è saltata l’udienza preliminare relativa all’uccisione di un tifoso, avvenuta un anno prima. C’era un’errata notifica. Ed è sempre così, la gran parte dei processi si trascina per anni a causa dei testi mal citati dalle procure, e nel 40% dei casi si tratta di appartenenti alle forze dell’ordine. Solo il 29,5% dei processi si conclude con una sentenza, più del 70 si perde per strada, in una costosa ed incivile inutilità. La legge dice che i giudici devono scrivere e depositare le motivazioni delle sentenze il giorno stesso, e solo in casi eccezionali entro 90 giorni, però, sia per il penale che per il civile, non ci riescono mai prima di 300 o 500 giorni, ma ci sono toghe che impiegano anni.Fortunatamente non avremo Orlando Cascio alla vigilanza Rai, e mi fa piacere che lo si sia chiarito, ma non è escluso che vedremo Luciano Violante alla Corte Costituzionale. Il teorico e l’artefice del giustizialismo politico e della politicizzazione della magistratura, l’istruttore parlamentare dei processi, si troverebbe a giudicare le leggi. Si meritano a vicenda. Siamo noi, che non ce lo meritiamo.

Il riformismo bocciato. Angelo Panebianco

Walter Veltroni, nell'eccellente discorso del Lingotto (27 giugno 2007) con cui ufficializzò la sua candidatura a leader del Partito democratico, e nei discorsi dei mesi successivi, mise a punto la carta di identità di una moderna sinistra riformista proponendola al neonato partito. Veltroni batteva allora con vigore su un tasto: il Partito democratico avrebbe sviluppato una reale capacità di intercettare le aspirazioni degli elettori e dei ceti sociali più dinamici e orientati alla modernizzazione del Paese, solo se avesse abbandonato, su un ampio arco di problemi, le posizioni conservatrici che avevano in passato caratterizzato la sinistra. La visione articolata da Veltroni appariva allora forte ed efficace ma restavano sospesi due interrogativi. Sarebbe egli riuscito a imporre un così radicale cambiamento di prospettiva a tanti militanti fino ad allora di diverso orientamento? Sarebbe riuscito, soprattutto, a ottenere un riposizionamento e un rinnovamento, culturale e di proposte, di quel sindacato (la Cgil in primo luogo) il cui appoggio è necessario a un partito di sinistra riformista? Non solo quel riposizionamento del sindacato non c'è stato ma è lo stesso Partito democratico a reagire oggi alle difficoltà suscitate dalla sconfitta ritornando sui propri passi, abbandonando la strada del rinnovamento, ridando spazio a quelle posizioni conservatrici che il Veltroni del Lingotto sembrava determinato a combattere.

Il miglior test per sondare lo «spessore riformista » di un partito italiano consiste nel valutare le posizioni che esso assume sulla scuola. La scuola pubblica è come l'Alitalia: rovinata da decenni di management interessato a garantirsi clientele e da un sindacalismo cui si è consentito di cogestirla con gli scadenti risultati (in tema di preparazione dei ragazzi) che i confronti internazionali ci assegnano. Solo che nel caso della scuola pubblica non ci sono cordate di imprenditori o compagnie straniere cui affidarla. Proprio nel caso della scuola il Partito democratico sta fallendo il test sullo spessore riformista. Perché ha scelto ancora una volta (come faceva il Pci/Pds/Ds) di accodarsi acriticamente alle posizioni della Cgil, di un sindacato che, in concorso con altri, porta pesanti responsabilità per lo stato disastrato in cui versa la scuola, un sindacato interessato solo alla difesa dello status quo (come è successo, del resto, nel caso di Alitalia fin quando ha potuto). Prendiamo la questione del ritorno al maestro unico deciso dal ministro Gelmini. Sembra diventato, per la sinistra, sindacale e non, il simbolo del «vento controriformista» che soffierebbe oggi sulla scuola. Al punto che, come è accaduto a Bologna, si arriva persino a far sfilare i bambini contro il ministro (nel solco di una tradizione italiana, antica e spiacevole, di uso dei bimbi per fini politici). Si fa finta di dimenticare che la riforma della scuola elementare del 1990, quella che abolì il maestro unico, fu un classico prodotto del consociativismo politico-sindacale che caratterizzava tanti aspetti della vita repubblicana. Nel caso della scuola funzionava allora un'alleanza di fatto fra Dc, Pci e sindacati. L'abolizione del maestro unico fu dettata esclusivamente da ragioni sindacali.

E' antipatico citarsi ma alla vigilia dell'approvazione della legge scrissi su questo giornale: «Nonostante le nobili e altisonanti parole con cui l'operazione viene giustificata la ratio è una soltanto: bloccare qualsiasi ipotesi di ridimensionamento del personale scolastico come conseguenza del calo demografico e anzi porre le premesse per nuove, massicce, assunzioni di maestri. Non a caso sono proprio i sindacati i più entusiasti sostenitori della riforma (…) Questa classe politica ha sempre trattato così la scuola, incurante delle esigenze didattiche ma attentissima a quelle sindacali» (Corriere della Sera, 22 novembre 1989). Veltroni e il Partito democratico dovrebbero spiegarsi: è quella cosa lì che, ancora una volta, vogliono difendere? Per il futuro vedremo ma la verità è che, fino a questo momento, il ministro Gelmini ha fatto pochi errori. I provvedimenti fino ad ora adottati sono di buon senso e per lo più tesi ad arrestare il degrado della scuola. Ma, anziché riconoscerlo e dare il proprio contributo di idee e di proposte (come dovrebbe fare un vero partito riformista, ancorché all'opposizione), il Partito democratico preferisce ripercorrere l'antica strada: quella della «mobilitazione», della sponsorizzazione dei sindacati, anche quando questi difendono posizioni indifendibili.

Non è casuale che proprio sulla scuola la Cgil si appresti a fare lo «sciopero generale ». Difende un potere di cogestione che viene da lontano e che ha contribuito a danneggiare assai la scuola (dove la quasi totalità delle risorse se ne va in stipendi a insegnanti troppo numerosi, mal pagati e mal selezionati). Un potere di cogestione che fino ad oggi ha sempre potuto contare sulla complicità di governi e opposizioni. Non è plausibile che nel Partito democratico siano tutti felici di queste scelte (che danno un brutto colpo alla credibilità del Pd come partito riformista). E infatti non è così. Ricordo un intervento critico di Claudia Mancina ( Il Riformista) sulle attuali posizioni del Pd sulla scuola. O le parole per nulla critiche nei confronti della Gelmini pronunciate (a proposito della polemica sull' impreparazione di certi insegnanti meridionali) da uno che di scuola se ne intende: l'ex ministro dell'Istruzione Luigi Berlinguer. Sarebbe bene che anche molti altri, dentro il Partito democratico, venissero allo scoperto. Ha senso continuare a trattare la scuola pubblica come un «dominio riservato» del sindacalismo? (Corriere della Sera)

venerdì 26 settembre 2008

Scurdammoce o' Violante. Filippo Facci

Mi telefona un politico e mi dice che Luciano Violante sarà il prossimo presidente della Corte costituzionale. Scrivo questa rubrica senza sapere se sia vero, e chiedo al Direttore di lasciarmi riportare quanto già scrissi in questo stesso spazio. 28 marzo 2008: «Violante vuol diventare presidente della Corte costituzionale. Ogni sua mossa e ogni sua parola è finalizzata all’obbiettivo, come han sempre fatto dalle sue parti. Fonti sicure assicurano che le trattative sono in corso. Vi fidate? Io no. Vi piace? A me no». 19 maggio 2008: Violante, quando nel 1994 diceva che Forza Italia «fa una chiamata alla mafia», aveva già 53 anni. Nel 2002, quando disse che «le proposte di Berlusconi rispondono alle richieste dei grandi mafiosi», aveva 61 anni. Ora Violante può andare incontro a tutte le folgorazioni senili che vuole: e può dire, come ha detto, che il processo Andreotti non andava fatto, che il pool di Milano esagerava, che le intercettazioni non vanno pubblicate, che le correnti togate hanno troppo peso, che il giornalismo alla Travaglio fa schifo: benissimo, venga a prendere un caffè da noi. Ma da qui a farlo giudice della Corte costituzionale, se permettete, ce ne corre. Non deve stupire che alcuni non giudichino superabili le divisioni che Violante genera ancor oggi: le divisioni, quantomeno, tra chi ha buone dosi di fosforo nella memoria e chi decisamente meno. (il Giornale)

giovedì 25 settembre 2008

Capezzone: il caso Alitalia insegna che Veltroni vive nella realtà virtuale

"Comunque finisca la vicenda Alitalia, e’ stato istruttivo constatare come il segretario del Pd Veltroni, non trovando soddisfazione nel mondo dei fatti reali, cerchi di rifugiarsi nella realta’ virtuale, costruendo scenari fantasiosi e surreali". Lo ha affermato Daniele Capezzone, portavoce di Forza Italia, che ha osservato: "In tutti questi giorni, il segretario del Pd si e’ affannato a rimarcare la centralita’ del suo partito in questa vicenda: altra cosa alla quale possono credere solo i piu’ appassionati lettori dei romanzi veltroniani. In effetti, c’e’ stato un solo momento in cui Veltroni ha giocato un qualche ruolo: e’ successo quando ha fatto sponda ad Epifani su una linea negativa e ostruzionistica. Ma, vista la reazione dell’opinione pubblica, Veltroni ha subito capito che doveva sfilarsi dal vicolo cieco in cui si era cacciato. Tutto legittimo, in politica: ma che questo zig-zag ci venga ora descritto come una lucida strategia, e’ un po’ troppo". (il Popolo della Libertà)

mercoledì 24 settembre 2008

Tante ovvietà (e ne manca una). Salvatore Tramontano

Dunque Walter scrive letterine. E non per i suoi libri, a «Patricio» e agli scopritori dell’alba che popolano i suoi romanzi, che non ci sarebbe nulla di male. Ma scrive al presidente del Consiglio, a Berlusconi, sul futuro dell’Alitalia. La letterina è fatta per essere ripresa e titolata, è articolata, cortese, educata - inizia con un formale «Signor Presidente» - e ovviamente finisce subito in agenzia. Adesso, anche un pollo capisce che Veltroni non sta scrivendo davvero a Berlusconi, ma sta scrivendo proprio perché la sua letterina finisca sulle agenzie.
Scrive letterine senza poter incidere, perché ritiene di non poter incontrare Berlusconi, di non potergli dire faccia a faccia cosa pensa, di non essere in grado di sopportare la ricaduta mediatica e politica di questo incontro, le inevitabili accuse di tradimento, inciucismo, svendita al nemico che gli pioverebbero sulla testa da qualche sito dipietrista, dalla sulfurea rubrica di Marco Travaglio, e probabilmente anche dal leader dell’Italia dei valori (quello che - sia detto per inciso - mentre il leader del Pd se ne va a spasso per Central Park, affila le lame per fargli la festa alle regionali in Abruzzo). Loro coltivano la grande mela, e intanto il populismo antagonista gli ruba la scena.Veltroni è tornato, scrive letterine garbate, ma il fuso orario è ancora quello americano, e la prosa sembra ancora quella con cui si rivolge al suo amato e letterario Patricio (protagonista di ben cinque racconti in uno dei suoi fortunati libriccini). Ancora inebriato per la presentazione newyorkese del suo best seller, Walter si è convinto che basti una sua pregiata epistola per tornare a far volare di nuovo Alitalia. Evidentemente, però, il leader del Pd è più bravo come romanziere perché la sua letterina - in mancanza di riscontri istituzionali apprezzabili - verrà ricordata come l’estremo tentativo di uscire dal vicolo cieco in cui da giorni si trova con Epifani. Ovvero dal romanzo alla fiaba, visto il cul de sac in cui si è ficcato il leader della Cgil.
Veltroni incalzato dai sondaggi, che raccontano di un Paese incapace di capire le scelte della Cgil, criticato dal suo stesso partito per la mancanza di leadership nella trattativa, ha cercato di imbarcarsi sull’ultimo volo utile, non trovando però posto nemmeno in lista di attesa. Walter preferisce scrivere le letterine, ma fra tante ovvietà evita di dire l’unica cosa ovvia che l’avrebbe accreditato come leader e come uomo che si candida a governare: Epifani torna indietro e firma. Se questa è la strategia per evitare il fallimento del Pd e farlo tornare a volare, ieri l’aereo di Veltroni è rimasto a terra. (il Giornale)

martedì 23 settembre 2008

La delusione della hostess. E del Corriere. Asterisco

Di fronte alla critica situazione di Alitalia, ai delicati e difficili rapporti sindacali e politici, ai molti e diversi soggetti coinvolti o interessati e alle controverse e preoccupanti trattative, il Corriere della Sera ha dedicato ben mezza pagina (occupata nell’altra metà dalle dichiarazioni di un certo Berlusconi), nientepopodimenoche all’hostess Maruska. La quale, con implacabile lucidità, ha finalmente fatto chiarezza sull’intricata vicenda e sulle responsabilità effettive, riassunte nel titolo “Giusto esultare. Ho votato Silvio ma mi ha deluso”. Così adesso, grazie al determinante contributo di un’assistente di volo con lo stesso nome con cui l’avrebbero chiamata anche i fratelli Vanzina, 30.000 lavoratori a rischio disoccupazione, Governo, Cai, parti sociali, compagnie di volo internazionali e operatori economici italiani e stranieri, hanno un quadro preciso della crisi e delle possibili soluzioni. (l'Opinione)

Consumi: Isae, recupera a settembre la fiducia

Roma, 23 set. (Adnkronos) - Recupera ancora a settembre la fiducia dei consumatori.L'indice sale di oltre tre punti, attestandosi a 102,8 da 99,6 tornando in prossimita' dei valoridello scorso maggio -rileva l'Isae- L'indice sintetico relativo alle opinioni sulla situazione personale degli intervistati passa da 111,9 a 114,4 sui massimi dell'anno; quello relativo al quadro economico generale sale da 77,2 a 80,4 in prossimita' dei valori di giugno. L'indice che comprende le indicazioni relative al solo quadro corrente sale da 106,5 a 107,3, massimo dallo scorso febbraio, quello relativo alla situazione futura passa infine da 92,0 a 96,7 valore superiore alla media dei primi nove mesi dell'anno.

lunedì 22 settembre 2008

Adesso serve la rivoluzione. Nicola Porro

Comprensibilmente l’attenzione è oggi concentrata sul solo caso Alitalia. Dove un sindacato irresponsabile, la Cgil, e una corporazione, quella dei piloti, che si è fatta sindacato, hanno compromesso l’ultimo tentativo per non far fallire l’azienda. Ma converrebbe guardare un po’ più in là. Alitalia, purtroppo, non è un’eccezione. Migliaia di altre imprese, in questi anni, sono passate per un trattamento simile.Il disgustoso applauso per la trattativa che si è interrotta sintetizza alla perfezione un modo di pensare così radicato nel nostro sindacalismo. Il principio è semplice: non conta l’azienda, non contano i prodotti o i servizi, men che mai contano i clienti. Anche al costo di morire, ciò che è importante è il lavoratore. Il monarca assoluto del nostro sistema capitalistico, in cui gli utenti, i cittadini non valgono nulla. E sulla base di questo principio si è costruita un’impalcatura giuridica altrettanto assurda: che va dall’intoccabilità dello Statuto dei lavoratori, approvato quasi 40 anni fa, a una giurisprudenza per cui la parte, supposta ex lege debole, il lavoratore appunto, ha sempre e comunque ragione.
Berlusconi sta facendo di tutto per trovare una soluzione ad Alitalia. Ma non perda di vista la grande preda: rivoluzionare il rapporto tra imprese e lavoratori vale cento volte il salvataggio di Alitalia. E se il costo (si fa per dire) è quello di rinunciare alla Cgil si proceda. Il caso Alitalia gli dà una forza unica. Ha dalla sua parte il sindacato più moderno, ma ciò che più conta, l’intero Paese. Non è una questione di destra o di sinistra, è semplicemente un moto di ragionevolezza. Il suicidio di Alitalia è il suicidio di un sindacato che ha preteso di cogestire la politica italiana sin dal dopoguerra. Di un sindacato che passa più tempo a Palazzo Chigi di quanto faccia nelle fabbriche. È la dequalificazione di un sindacato che facendo finta di tutelare i più deboli, pensa a tutelare se stesso. Molti hanno rivisto nel caso Alitalia la battaglia vinta dalla Thatcher contro i minatori inglesi. Se domani il governo riuscisse a trovare una soluzione per Alitalia (il rientro di Colaninno&co), ma non mettesse mano ad una seria riforma dei rapporti con il sindacato, sarebbe comunque una sconfitta. (il Giornale)

sabato 20 settembre 2008

Il mercato e la finanza. Francesco Giavazzi

Nei momenti di crisi lo smarrimento, la difficoltà di capire ciò che succede, favoriscono la popolarità di un certo numero di sciocchezze. A diffonderle spesso sono i politici: essi avvertono il disorientamento dei cittadini, vogliono dare l'impressione di avere le idee chiare, ma hanno poco tempo per riflettere e spesso elaborano sciocchezze. Il guaio è quando queste si trasformano in azioni di governo. Accadde durante la peste, a Milano nel Seicento, e negli anni Venti del secolo scorso negli Stati Uniti, quando gli errori del presidente Hoover trasformarono una grave crisi finanziaria in una depressione in cui un americano su tre perse il lavoro.
Prima sciocchezza: la crisi dimostra che gli strumenti finanziari che consentono di diversificare il rischio sono il cancro del capitalismo. Non è vero: diversificare il rischio protegge i deboli perché sono i poveri i più esposti alle fluttuazioni dell'economia. Chi soffrirebbe meno se venissero aboliti i mercati finanziari sono i ricchi: un grande proprietario agricolo può usare la sua ricchezza per far fronte ad una cattiva stagione, ma un piccolo coltivatore quando il raccolto va male, può solo tirare la cinghia. Altro che uno strumento per arricchire ancor più i ricchi: i mercati finanziari sono innanzitutto un'opportunità per i poveri. Basta chiedere ad un agricoltore indiano che cosa significa per lui poter vendere il suo prodotto su un mercato a termine e così assicurarsi contro fluttuazioni nel prezzo. Certo, questi strumenti debbono essere regolati e comunque non sostituiranno mai le assicurazioni pubbliche (ad esempio contro la disoccupazione). Ma appunto: regolati, non vietati.La crisi dimostrerebbe la superiorità dell'industria sui servizi, dei sistemi finanziari fondati sulle vecchie banche commerciali anziché sulle banche di investimento. Non e' vero. Ci sono paesi come la Germania che hanno successo con molta «vecchia» industria, altri come il Regno Unito che hanno scelto la strada dei servizi finanziari e per un decennio sono cresciuti più della media europea. Lo sviluppo di un' economia dipende dalla capacità delle sue aziende di innovare, quindi dalla qualità delle sue scuole, dalla capacità di trasformare idee e brevetti in imprese, da una finanza pronta a sostenere imprenditori nuovi, anziché far credito solo a chi possiede un immobile da dare in garanzia. Non esistono ricette buone per tutti, sebbene l'evidenza suggerisca che nei paesi in cui ci sono più banche di investimento nasce un maggior numero di imprese nuove.
«Vincono i Paesi che difendono le proprie aziende e bloccano gli investitori stranieri». Non mi sembra: basta confrontare Alitalia, un'azienda che vogliamo testardamente mantenere italiana, con il Nuovo Pignone che quindici anni fa vendemmo alla General Electric. Poiché poche aziende al mondo sanno costruire turbine e compressori come il Pignone, Ge concentrò le produzioni a Firenze. Oggi quello stabilimento è un centro di eccellenza per la fabbricazione di macchine che un tempo si costruivano in vari stabilimenti della Ge in giro per il mondo ed oggi solo a Firenze.Come si uscirà dalla crisi? Il Congresso di Washington sembra voler ripercorrere la strada seguita all'inizio degli anni '80, al tempo della crisi dell'America Latina, e più tardi dopo il fallimento di molte casse di risparmio: togliere dai bilanci delle banche i titoli che sono all' origine della crisi e sostituirli, sia pure a condizioni penalizzanti, con carta dello Stato, liquida ed affidabile. (Osservo, per chi pensa che gli economisti siano inutili, in particolare quelli italiani, che questa è la proposta che avanzò Luigi Spaventa in un articolo sul Financial Times il 10 aprile scorso).
Può darsi che a questo punto ciò sia inevitabile. Ma non si uscirà dalla crisi finché al sistema finanziario non affluirà una gran quantità di nuovo capitale privato. Dubito che ciò accadrebbe in un mondo in cui la politica diffondesse sfiducia verso il mercato e imponesse regole volte a impedirne il funzionamento. Chi oggi rivendica il diritto della politica di scrivere nuove regole per i mercati finanziari dovrebbe ricordare che fino a poche settimane prima della crisi i politici ritenevano che la maggior area di rischio nei mercati fossero i fondi hedge, una delle istituzioni che ha meglio retto alla crisi. (Corriere della Sera)

Agonia della sinistra. Carlo Panella

Marco Follini, oggi alto esponente del centrosinistra, ha definito la Cgil “irresponsabile” e non ha certo torto, ma sarebbe un errore giudicare casuale, o solo legata alla segreteria dell’ondivago Guglielmo Epifani, la demenza senile dell’ex sindacato comunista. C’è di più e di peggio, nel percorso che ha portato quello che amava definirsi “sindacato di classe”, a fare da sponda decisiva non al sindacato, ma alla “associazione professionale”, di quei piloti che hanno un reddito medio di 120.000 euro l’anno, infiniti privilegi e una solida tradizione corporativa, per usare un eufemismo. Questo connubio contro natura, che ha per esito ricercato e voluto il fallimento dell’Alitalia, inimmaginabile sotto la leadership di un Luciano Lama o un Bruno Trentin, ha una precisa ragione politica –la tara di un comuinismo mai elaborato- ben ancorata alla sua base sociale di riferimento. La Cgil, da anni, ormai, non è più un sindacato dei lavoratori. Tutto qui. E’ un sindacato dei pensionati: tre milioni su 5.700.000 iscritti. Tra questi, una percentuale elevatissima sono quelli per anzianità, andati in pensione ben prima dei 60 anni. La Cgil difende dunque non già un' ideologia “laburista”, ma il diritto parassitario al “non lavoro”. Questo fenomeno, in misura minore, riguarda anche Ul e Cisl, che però godono di un vantaggio enorme: hanno una tradizione e un gruppo dirigente riformisti. La dirigenza delle Cgil, invece, è tutta ancora impantanata nel fallimento del comunismo. La Cgil, dunque, soffre degli stessi mali del Pd di Veltroni: scarso e confuso impianto in una base sociale produttiva e incapacità assoluta di elaborare una proposta riformista. A questo, si somma il retaggio dell’estremismo pansindacale che fa ulteriormente impazzire la maionese nella testa della leadership, col buon contributo dei metalmeccanici della Fiom. La totale assenza di una proposta programmatica di Veltroni, si intreccia così con il caotico ondivagare programmatico di un Epifani che un anno fa accusò il ministro del Lavoro del Pd Damiano di avere barato, falsando il documento appena firmato sugli straordinari, che ora si allea con i piloti che avevano sino a ieri in An il principale partito di riferimento e che domani romperà di nuovo con Cisl, Uil e Ugl, non firmando il nuovo sistema di contrattazione concordato con Confindustria. Falene che sbattono contro le lanterne, Epifani e Veltroni, portano le loro due organizzazioni verso il nulla politico, accecati dal perenne, demenziale, miraggio salvifico della “piazza” del 25 ottobre. Il tutto, a braccetto non solo dei ricchi piloti di Alitalia, ma anche di quel alleato Di Pietro che è tutto e solo uomo di destra, con i suoi toni –e la sua incerta grammatica- forcaioli, poujadisti e qualunquisti. Una deriva allarmante, perché in tutta Europa –e negli Usa- la sinistra è in crisi, ma solo in Italia –a causa della dissennatezza degli ex Pci- lo sbocco di questo travaglio porta a una alleanza con l’estrema ala destra dello schieramento sociale.

giovedì 18 settembre 2008

Comunicazionme di servizio: il capitalismo è ancora vivo, vegeto e bello. Carlo Stagnaro

Breaking news: il capitalismo è vivo e vegeto. Le analisi sulla crisi finanziaria hanno scomodato l’intero repertorio del Dr House: si è parlato di cancro, metastasi, infezione, contagio. In verità, il capitalismo sta funzionando, e bene. L’arrivo di una crisi non nega l’economia di mercato più di quanto una tempesta neghi il clima. L’una e l’altra sono anzi necessari mezzi di aggiustamento. Sul Corriere della sera di ieri, Angelo Panebianco ha preso in prestito la distruzione creatrice di Josef Schumpeter per interpretare quanto sta accadendo. Se si guardano le cose attraverso queste lenti, il marasma finanziario assume un aspetto diverso – anche se non meno doloroso. Non è la Caporetto del mercatismo: è il modo con cui il mercato corregge i suoi stessi errori.

Gli stessi che oggi brindano alla morte della finanza globalizzata, ieri si lamentavano del sovraconsumo e sovraindebitamento causati dal credito facile. Ecco, il mercato sta appunto mettendo una pezza a quegli eccessi. Attraverso le crisi, il mercato sposta risorse dalle mani relativamente meno produttive verso utilizzi più proficui. Dà il benservito ai manager incapaci, distrugge le imprese inefficienti, contribuisce alla ricerca di un nuovo equilibrio. Così come sa premiare straordinariamente bene le intuizioni più geniali, il sistema capitalista è anche implacabile nel sanzionare gli errori. È chiaro che a volte i costi di aggiustamento possano essere politicamente inaccettabili: l’impatto dello tsunami dei subprime è devastante. Ciò lascia un margine di discrezionalità alla politica nel decidere se e come attutire le cadute. I vari salvataggi che si sono succeduti nel corso dell’estate — da Northern Rock a Bear Sterns, da Fannie e Freddie a Aig — rispondono a questa logica. Ma non rappresentano una sconfitta del mercato in quanto tale — al massimo dimostrano che talvolta il pragmatismo di governo fa premio sulla purezza delle idee.

Friedrich von Hayek ha descritto il capitalismo come un processo di scoperta, nel quale vengono mobilitate tutte quelle informazioni disperse che sarebbe impossibile centralizzare in un cervellone burocratico. In senso profondo, è infondata la contrapposizione tra l’economia industriale e il capitalismo finanziario. Si tratta di strumenti diversi che svolgono una funzione comune: consentire agli imprenditori di muoversi al meglio nella loro ricerca del profitto, in virtù della quale essi sono obbligati a fornire ai consumatori ciò che essi vogliono e di cui hanno bisogno. Alcuni strumenti finanziari si sono rivelati patacche: il mercato ha dato il suo responso, come lo dà quando un produttore commercializza una merce scadente. Estremizzando, non c’è differenza sostanziale tra industria e finanza: come diceva Ludwig von Mises, “nell’economia reale ogni soggetto è sempre sia imprenditore, sia speculatore”. Chi fabbrica beni fisici non sa se essi incontreranno il favore del pubblico; scommette; si assume un rischio. Chi opera sui mercati finanziari il rischio lo gestisce, lo distribuisce, lo rende meno costoso. La finanza puntella l’impresa, ma senza impresa non potrebbe esistere. È pertanto assurdo pensare che la finanza possa fagocitare l’industria, o viceversa. Entrambe, poi, devono stare alle medesime leggi, eterne e immutabili, della domanda e dell’offerta. Che poi il compito dello Stato sia fornire delle regole che consentano di operare in un clima di ragionevole certezza e di smorzare i cambiamenti troppo bruschi, è nell’ordine delle cose: è corretto quindi affermare che anche le regole, come i processi produttivi, devono cambiare per essere efficaci. Questo non significa né che debbano moltiplicarsi, né che sia utile mutarle troppo spesso. È forse vero, quindi, che l’attuale crisi richieda alle istituzioni pubbliche di ripensare il loro set di regole nel momento in cui il mercato rialloca le risorse economiche. È quindi essenziale rispettare la divisione dei compiti tra Stato e mercato, senza consentire che ansie e paure spingano la mano pubblica a uccidere l’attività privata.

Le crisi sono un momento di transizione che l’intervento pubblico dovrebbe stare attento a non prolungare oltre il necessario (come accadde nel ’29), ma comunque non possono essere eliminate e vanno anzi viste, nel lungo termine, come passaggi inevitabili. Molto semplicemente occorre guardare al presente con cinico realismo. Qualcuno ha detto che il capitalismo è il peggiore dei sistemi economici, tranne tutti gli altri. Non è vero: il capitalismo è il migliore dei sistemi economici possibili, e l’unico che funziona. (il Foglio)

18 settembre 2008. Andrea Marcenaro

Dio come ci piace il nostro Pierino preferito. Giulio Tremonti è in una forma smagliante. Fa, dice, sentenzia, bacchetta Draghi, viaggia sopra una nuvoletta, tiene banco al Tg1, parla latino con una disinvoltura invidiabile, “dixi”, ha detto sulla crisi, “taxi”, ha detto forte uscendo dagli studi, Tremonti è un pozzo di scienza, domina l’argomento, ne sa una più del diavolo, insegna precisione agli svizzeri, determinazione agli inglesi, gravità ai tedeschi, xenofobia ai francesi, rassicura gli italiani che questa crisi per loro è culo puro, dal momento che ne usciranno più forti di prima e più forti degli altri, Tremonti ragiona, mette in fila i banchieri di palazzo Altieri, evoca nuove regole, non vede l’ora di tenere lezione al G8, è incontenibile. Quando un uomo così, in tempi non sospetti, preannuncia che sta arrivando il Ventinove, e il Ventinove poi arriva davvero, due sono le cose. O è un vero genio, come crediamo noi, o se no porta una sfiga pazzesca. (il Foglio)

E non dico altro

Milano, 18 set. - (Adnkronos) - Una cinquantina di dipendenti Alitalia sta manifestando davanti al palazzo milanese dove si tiene l'assemblea della Cai. Tra gli slogan gridati dai dipendenti della compagnia di bandiera c'e' 'Meglio falliti che in mano ai banditi'. I lavoratori di Alitalia espongono anche cartelli con la scritta 'Cai, compagnia di avvoltoi italiani'.

mercoledì 17 settembre 2008

E adesso gli Stati Uniti da cicale diventino formiche. Giorgio Arfaras

Gli Stati Uniti importano più di quanto esportino. Hanno quindi dei disavanzi commerciali con l’estero. Se i cambi fossero fluttuanti, il dollaro cadrebbe fino a far diventare le esportazioni statunitensi competitive e le importazioni care. A quel punto il disavanzo si ridurrebbe, fino a scomparire. Invece, i Paesi industriali asiatici tengono il cambio col dollaro fisso (o semifisso), perché le loro banche centrali comprano attività finanziarie in dollari per evitare che questo si deprezzi. Lo fanno per continuare a crescere esportando; ossia crescere attraverso il settore esportatore, che, diventando più efficiente, modernizza le loro economie. I disavanzi statunitensi si trasformano così in crediti dei Paesi emergenti sotto forma di titoli di Stato americani, o titoli assimilabili, quelli delle agenzie, delle società che emettono obbligazioni a fronte dei mutui ipotecari, come Fannie Mae e Freddie Mac. Gli Stati Uniti hanno una quota crescente delle proprie attività finanziarie detenute dall’estero. E siamo al punto. L’estero che detiene una gran quantità di attività finanziarie statunitensi è composto dai Paesi asiatici industriali e dai Paesi petroliferi. Questi Paesi sono delle autocrazie. Gli Stati Uniti sono indebitati con le autocrazie. Segue, più precisamente, che gli Stati Uniti sono indebitati non con il settore privato dei Paesi democratici, ma con il settore pubblico dei Paesi autocratici.

Questo fatto, che possiamo etichettare come geopolitico, non è grave fino a quando è limitato, ossia fin quando la quota di attività detenuta da questi paesi è modesta. Diventa un problema quando la quota detenuta è notevole, come è oggi, più di un terzo del debito pubblico, circa un quinto del debito delle agenzie. Non solo la loro quota è notevole, ma questa quota è crescente, perché i disavanzi commerciali persistenti alimentano la crescita del debito con l’estero. Per capire di che si tratta, si torni indietro di circa dieci anni. I Paesi asiatici, la Corea, la Tailandia, l’Indonesia per esempio, ma non il Giappone la Cina, avevano un debito estero crescente. Ci fu una crisi del debito, ossia i capitali furono ritirati e le monete crollarono. La crisi esplose perché il rendimento atteso negli anni a venire sugli investimenti finanziari e reali in questi Paesi era giudicato inferiore al costo del debito. Questi Paesi finirono in una crisi grave, ma essi erano troppo piccoli per mettere in difficoltà l’economia mondiale. Una crisi degli Stati Uniti metterebbe in crisi tutti. Dunque il risanamento brutale dei conti esteri statunitensi è un evento, come si dice, sistemico. Per brutale s’intende che non sono più comprate le obbligazioni, i rendimenti salgono, il costo del denaro sale, il credito al consumo si riduce, e la Borsa crolla. Infine, il dollaro crolla. Insomma, la crisi asiatica o russa del 1997 e 1998. Troppo grande il dramma perché possa accadere, si direbbe speranzosi.

Il salvataggio di Fannie e Freddie ha avuto, fra le molte motivazioni, quella di sostenere il prezzo delle loro obbligazioni, detenute dall’estero. Se questo fosse incorso in perdite, avrebbe potuto minacciare gli Stati Uniti sul fronte dei titoli di Stato: “se mi fate perdere, cari statunitensi, ne compro di meno”. Va detto che la minaccia è reciproca: “se vado in crisi, cari asiatici, esportate meno”. Abbiamo insomma a che fare con un sistema che ricorda quello della Guerra Fredda, dove al posto dei missili si hanno i legami finanziari. La Guerra Fredda finì perché uno dei due contendenti “gettò la spugna”. Oggi non si vede chi possa gettare la spugna. Immaginiamo prima che tutto continui. Le autocrazie possono ridurre gli acquisti di obbligazioni per comprare azioni. Possono comprare, solo spostando una quota modesta dei propri proventi, un controvalore di azioni statunitensi pari agli acquisti di azioni statunitensi di tutto il settore estero privato nel 2007, oltre duecento miliardi di dollari. Trovarsi ogni anno con almeno un 1% della Borsa comprata dai cinesi, farebbe innervosire gli statunitensi.

Qualcuno, un broker garrulo, all’inizio affermerebbe che in questo modo si sostengono i prezzi, e che è un bene, ma dopo, persino lui, vedrebbe l’implicazione politica. Che quote crescenti del settore privato di una democrazia finiscano poco alla volta nel settore pubblico delle autocrazie, non è proprio una cosa innocente. Immaginiamo ora che gli Stati Uniti, esportando di più ed importando meno, ossia riducendo per qualche anno la crescita del proprio tenore di vita, lentamente finiscano col ridurre la dipendenza dall’estero. Questo sarebbe un bene. “Al margine” gli Stati Uniti dipenderebbero meno dai Paesi autocratici. L’uscita morbida dalla nuova guerra fredda è possibile, se gli Stati Uniti diventano una formica, dopo essere stati una cicala. Qualcuno in campagna elettorale pensa di poter diventare formica pur vivendo da cicala.

L’idea di trivellare gli Stati Uniti per cercare nuovo petrolio n’è un esempio lampante. Il disavanzo commerciale statunitense è in miglioramento, al di fuori delle importazioni petrolifere. Ossia, gli Stati Uniti esportano di più ed importano di meno i beni non energetici. Dunque se si taglia una parte del petrolio importato, grazie al petrolio scoperto trivellando gli Stati Uniti, le cose possono migliorare senza sacrifici. Tutti alla pompa a dar da bere al Suv. Peccato che le stime sul petrolio che si può trovare negli Stati Uniti diano dei numeri modesti. Gli Stati Uniti nel 2030 consumeranno 16 milioni di barili il giorno, di cui 10,8 importati, 5,6 prodotti dai vecchi pozzi, 0,2 prodotti dai nuovi pozzi. Alla pompa, il petrolio non potrà costare meno. Il motore ibrido magari prodotto dai giapponesi sul suolo americano con tanti nuovi treni sono meglio delle trivellazioni. (l'Opinione)

martedì 16 settembre 2008

Ho visto uscire...

Ho visto uscire dal palazzo della Lehman Brothers impiegati e dirigenti con i cartoni pieni delle loro cose. Erano rassegnati e consapevoli che in un mercato del lavoro flessibile e aperto può succedere di perdere il posto in qualsiasi momento.
Se ne cercheranno un altro, perché in America è facile perdere il lavoro e non è difficile trovarne uno nuovo.
Penso ai dipendenti dell'Alitalia e non dico altro.
Penso ai sindacati, specialmente quelli autonomi, e non dico altro.
Penso agli insegnanti ed alle loro contestazioni e non dico altro.

Dico solo: stiamo vivendo l'undici settembre 2001 della finanza mondiale, per certi aspetti un nuovo '29 e in Italia c'è qualcuno che è rimasto al '68.

venerdì 12 settembre 2008

Sofri "confessa": Calabresi fu ucciso solo per pietà. Michele Brambilla

Ieri Adriano Sofri è tornato a parlare del delitto Calabresi. Non sarebbe una notizia se i toni e gli argomenti che ha usato per giustificare - sì: per giustificare - l’omicidio del commissario non ricordassero, anzi non superassero quelli che lo stesso Sofri utilizzò il 18 maggio 1972, cioè il giorno dopo il delitto, nell’articolo che scrisse su Lotta Continua: «Ucciso Calabresi, il maggior responsabile dell’assassinio di Pinelli». Allora Sofri parlava di «un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia». Un delirio, o se preferite una cialtronata propagandistica: ma non tanto differente dai deliri e le cialtronate a quei tempi cantate in coro dalla stragrande maggioranza dei giornali, compresi quelli cosiddetti borghesi, e dalla ancor più stragrande maggioranza della nostra intellighenzia. Insomma il Sofri di allora aveva quanto meno l’attenuante di vivere in un’Italia in cui spararle grosse era cosa talmente ordinaria che le parole a volte perdevano perfino il loro significato.

Il Sofri di oggi parla invece in un Paese per fortuna rinsavito da tempo; eppure quel che scrive non è tanto diverso, nei contenuti, dai lugubri comunicati delle Br. Nella sua rubrica «Piccola Posta» di ieri sul Foglio, Sofri ha scritto che «l’omicidio di Calabresi fu l’azione di qualcuno che, disperando della giustizia pubblica e confidando sul sentimento proprio, volle vendicare le vittime di una violenza torbida e cieca». E più avanti: «Fu dunque un atto terribile: questo non significa, non certo ai miei occhi e ancora oggi, che i suoi autori fossero persone malvagie». E ancora: «I suoi autori (del delitto, ovviamente, ndr) erano mossi dallo sdegno e dalla commozione per le vittime».

Insomma una vendetta contro un’ingiustizia, un atto di pietà verso «le vittime», e dicendo «vittime» si dà per scontato che Calabresi fosse un carnefice. Non è nuovo, il ragionamento di Sofri: se la strage di piazza Fontana e la morte dell’anarchico Pinelli erano da attribuire al «terrorismo di Stato», come scrive nella sua «Piccola Posta», una reazione era più che comprensibile e perfino giustificabile. Non è nuova, dicevo, questa argomentazione. Mai però il Sofri di questi ultimi anni aveva così freddamente rivendicato il diritto alla vendetta e all’omicidio; e affermato il principio che, se lo Stato non fa giustizia, la giustizia bisogna farsela da sé.

Sorprendente è anche il ritorno al linciaggio nei confronti di Calabresi: da tempo Sofri aveva preso le distanze dalla campagna di odio che il suo movimento e il giornale avevano orchestrato contro il commissario. Ora torna a infangarlo, lo definisce «un attore di primo piano di quella ostinata premeditazione», e stiamo parlando della strage di piazza Fontana, dell’incriminazione di anarchici innocenti e della morte (assassinio, per Sofri) di Pinelli. Tutte follie, specie se si considera che Calabresi non era a quei tempi che un giovane commissario lontanissimo dalle stanze del potere. Tutte accuse riportate senza lo straccio di una prova, accuse da cui Calabresi non può difendersi perché da quasi quarant’anni è sotto terra, e c’è - non dimentichiamolo - perché ce lo hanno mandato coloro che hanno creduto alle menzogne di Lotta Continua. Non lo diciamo noi e non lo dicono neanche i giudici: lo dice Sofri stesso, sul Foglio di ieri, che chi ha ucciso Calabresi era un angelo vendicatore della sinistra. Anche questo è un fatto inedito e molto importante: per anni Sofri ha cercato - prima al processo, poi con campagne di stampa condotte da giornalisti amici - di avvalorare la panzana di un Calabresi ucciso dai servizi segreti: adesso finalmente dice che quell’omicidio porta la firma dell’estrema sinistra.

Nell’articolo di ieri sul Foglio qualcuno ha visto, o ha creduto di vedere, una sorta di confessione. Dipende da che cosa si intende per confessione. Se si intende l’ammissione di ciò che i giudici gli hanno contestato, e cioè di aver conferito il mandato ad uccidere Calabresi, no, non c’è stata alcuna confessione, visto che anche ieri Sofri ha tenuto a ribadire: «Non ho mai ordito né ordinato alcun omicidio». Se si intende invece un altro tipo di confessione, più implicita, più contorta e tortuosa, forse perfino involontaria, allora sì, forse l’articolo di ieri segna una svolta non solo nel ritorno ai toni guerriglieri del Sofri d’antan, ma anche nell’apertura di uno squarcio nel velo di un mistero tragico.

Provo a spiegarmi. C’è una frase che nel contesto pare secondaria e che invece è forse risolutiva: «Io personalmente ebbi in Lc - scrive Sofri - un ruolo che mi costringeva e mi costringe a una responsabilità verso la sua storia intera, anche quando la mia responsabilità personale fu nulla, e così quella penale».
Credo che questa frase riveli tutto lo psicodramma del caso Sofri. Non ho alcuna prova, ma seguendo questa vicenda dal giorno degli arresti fino all’ultima sentenza della Cassazione, mi sono fatto questa convinzione: è possibile, possibilissimo che Sofri sia innocente. Però sa che a uccidere Calabresi sono stati alcuni figli suoi, o meglio figli della sua creatura, Lotta Continua, e li ha voluti coprire fino all’ultimo.

Ancora ieri sul Foglio Sofri ha scritto che in Lc non c’erano frange armate. Sa perfettamente che non è vero. Sa perfettamente che al congresso di Rimini del marzo 1972 - due mesi prima dell’omicidio Calabresi - il movimento si spaccò: c’era la fazione guidata da Giorgio Pietrostefani che voleva passare alla lotta armata, e quella di Sofri che si opponeva. Finì che Lc si spaccò in due: Pietrostefani andò a guidare il movimento al Nord, Sofri si trasferì a Napoli dove fondò un giornale che si chiamava Mo’ che il tempo si avvicina. Leonardo Marino, il pentito che ha dato origine al processo, non ha mai detto che fu Sofri a ordinargli di uccidere Calabresi. Ha detto che fu Pietrostefani, e che tutto fu organizzato a Milano. Solo due giorni prima del delitto Marino, secondo il suo racconto, volle una conferma da Sofri, e andò a cercarla in un improbabile colloquio a Pisa, nella ressa di un comizio. Quel colloquio resta il vero punto debole della confessione di Marino.

Non ho prove, ma credo che Sofri abbia preferito il martirio personale al racconto della verità. Meglio sprofondare con gli amici che far la figura del delatore; meglio stare in carcere da innocente che distruggere la creatura che fu ed è tuttora il senso della sua vita. Anche qui non ho prove: ma ho l’impressione che l’articolo sul Foglio sia, per chi sa e capisce, rivelatore, con quella inedita ammissione sulla paternità dell’omicidio da parte di estremisti di sinistra (tratteggiati da Sofri con indulgenza e affetto) e con quella rivendicazione di responsabilità totale per ciò che uscì da Lotta Continua («anche quando la mia responsabilità personale fu nulla e così quella penale»).

In questo immolarsi di Sofri non c’è nulla di eroico, né di nobile. C’è un ego smisurato, una concezione totalmente autoreferenziale della morale. C’è un malinteso senso di onestà verso gli amici, c’è la convinzione che le colpe non vadano espiate consegnandosi a uno Stato che si ritiene almeno egualmente colpevole. Se Sofri, come sospetto, è innocente ma non racconta ciò che sa, il suo è un grave peccato di orgoglio. È anche un peccato contro la verità - di cui la famiglia Calabresi innanzitutto avrebbe diritto -: non meno grave, a questo punto, di un omicidio di tanti anni fa. (il Giornale)

Comunità protette e coscienza ipocrita. Valerio Fioravanti

Un bambino Rom di 12 anni è stato fermato 46 volte per furto, e i carabinieri non sanno più che fare, se non segnalare il caso ai telegiornali, sperando che qualcuno studi una soluzione per lui e le altre migliaia di bambini che vivono nelle stesse condizioni. I militi spiegano che segnalano il fermo al Tribunale dei minori, il quale, secondo legge, dispone il “ricovero” del bambino in una cosiddetta “comunità protetta”. Il bambino però di notte scavalca il muro e se ne va, perché non esistono sbarre alle finestre, né serrature di sicurezza alle porte, né reticolati sui muri, altrimenti i piccoli ospiti potrebbero riceverne turbamento. Non è chiaro perché le chiamino “comunità protette” se nessuno protegge i bambini al suo interno dal ritorno alla vita di strada. Non è chiaro per quale forma di perverso buonismo, si teme che il bambino possa essere turbato più da una serratura, che non dalla vita randagia che fa, senza studio, senza igiene, senza niente. A meno che per “protetta” non si intenda la nostra buona coscienza, leggermente ipocrita. (l'Opinione)

giovedì 11 settembre 2008

Il lato buono del caro-petrolio. Nicola Porro

Il cartello dell’Opec ieri, a sorpresa, ha deciso di tagliare la produzione di greggio. Il mercato non ha reagito, e ha mantenuto la sua tendenza discendente. La mossa dei produttori ha un significato che va ben oltre le considerazioni di breve periodo, ma rischia di essere miope. Il taglio della produzione ha il fine (pur rappresentando l’Opec meno del 40% della produzione mondiale di oro nero) di mantenere i prezzi sostenuti. Nonostante questo, si può rivelare ottimo per la crescita globale e pessimo per gli esportatori di petrolio. Un caso esemplare di eterogenesi dei fini. La crisi degli anni ’70 ha portato (il caso francese è il più eclatante) alla ricerca di fonti di energia alternative. Il nucleare ha avuto proprio in quegli anni la spinta più forte. La ricerca di soluzioni alternative, l’esplorazione di nuovi giacimenti, il contenimento dei consumi, sono tutte contromisure che, inevitabilmente, verranno messe in campo.
I paesi produttori giocano dunque con il fuoco. L’età della pietra è finita non per mancanza di pietre: l’era del petrolio rischia di finire non per l’esaurimento del petrolio. Il costo della materia prima è ovviamente solo uno dei fattori che determinano la ricerca di alternative. Nella nostra epoca alla presunta scarsità della materia prima si somma infatti anche la ricerca di un equilibrio ambientale più corretto. Agli incentivi economici per la sostituzione del petrolio con altre fonti oggi si somma anche una tendenza per così dire filosofico-ambientale.
Il petrolio a prezzi bassi non aiuta, un petrolio su livelli insostenibili agevola invece la sostituzione. È un problema che riguarda i Paesi europei in maniera più attenuata rispetto ad altri. Il prezzo della benzina da noi è infatti gonfiato dalla componente fiscale, che rende il valore del combustibile artificialmente alto. Ma questo non avviene ovunque. In Cina, ad esempio, vi sono ancora sussidi al prezzo del carburante. Così come negli Usa la componente fiscale è molto ridotta. Dunque, l’aumento del prezzo si farà sentire maggiormente proprio dove oggi il costo della benzina è più basso.
L’Opec dunque, tagliando la produzione, in ultima analisi non fa un favore a se stessa. Se davvero riuscisse a mantenere i prezzi artificialmente alti, non farebbe che accelerare un processo che appare comunque irreversibile. Si tratta di una decisione che va ad alterare il funzionamento corretto di un’industria e di un mercato. Quando mai si è visto che un’impresa utilizzi solo una parte della propria capacità produttiva? È diseconomico e folle. Nelle prossime settimane vedremo l’effetto pratico del taglio deciso ieri. Ma la paura del greggio a 200 dollari non è passata e i governi europei hanno capito che un modello di sviluppo dei trasporti basato solo sulla benzina è destinato a finire. Meglio prima che poi. (il Giornale)

mercoledì 10 settembre 2008

Il tabù degli esuberi. Nicola Porro

Perdere il lavoro in una società immobile come quella italiana è un dramma. Soprattutto se la famiglia, come spesso avviene, si regge su un solo reddito. Un dramma amplificato dal fatto che il nostro sistema di protezione sociale per gli outsider (coloro che sono fuori dal sistema) è ridicolo. A ciò si aggiunga la scarsa flessibilità sia in entrata sia in uscita del nostro mercato del lavoro, che rischia di inchiodare a reddito zero un ex dipendente anche per molti anni.
Eppure questa rottura avviene in migliaia di casi tutti i giorni. Ci sono interi comparti industriali che negli ultimi anni sono andati a gambe all’aria. Ci sono piccole e medie imprese che chiudono. E ci sono grandi industrie che ogni giorno, ahinoi, annunciano stati di crisi e mobilità (l’anticamera del licenziamento collettivo) per centinaia di loro addetti. Ma due casi di queste ore fanno storia a sé: Alitalia e i professori della nostra scuola. Il dramma del loro possibile licenziamento assume un sapore diverso. Gode di uno Statuto privilegiato. La capacità di questi insider è decisamente maggiore rispetto a quella di migliaia di privati che si trovano nelle loro stesse condizioni. Essi infatti hanno un rapporto speciale con la politica. Il tema diventa la difesa del posto del lavoro, a prescindere. Conta l’occupazione che può garantire Alitalia e non già la decenza del suo servizio. Conta il numero dei professori impiegati e non già la qualità dell’istruzione che vede il 97 per cento delle risorse utilizzate per pagare stipendi.
Si tratta di una logica perversa. Non solo perché, come dimostra il caso Alitalia, è destinata ad infrangersi con le compatibilità di bilancio. Ma piuttosto perché rende più debole nel suo complesso il Paese. La tutela a qualsiasi prezzo degli insider, mette sul lastrico gli outsider. Non esistono solo i dipendenti Alitalia, ci sono anche 60 milioni di italiani che hanno bisogno di viaggiare. Non ci sono solo i nostri malpagati professori, ci sono milioni di studenti. Ribaltare la logica e pensare all’interesse collettivo, dopo cinquant’anni di cancrena assistenziale, è necessario.
Una parte del sindacato (la Cisl e la Uil nella trattativa Alitalia stanno dando segnali in questo senso) ha capito che la festa è finita e che per di più è costata davvero cara. E che il modo migliore per tutelare i lavoratori è far sì che il Paese cresca. (il Giornale)

martedì 9 settembre 2008

Eppure il vero errore è quello degli studiosi. Giordano Bruno Guerri

Il concetto di male assoluto riguarda più la linguistica e la teologia che la storia e la politica. Non a caso il caotico dibattito di questi giorni nasce perché l’espressione è stata applicata, da un politico, alla storia. Allora cominciamo col dire che la definizione di «male assoluto» può essere associata soltanto al Maligno, al Diavolo (per chi ci crede, s’intende). Il demonio è un male assoluto in quanto tende - esclusivamente, totalmente – al Male. Si può dire la stessa cosa di un sistema politico?
Il regime fascista, come quello staliniano, ripugnano alla coscienza della maggioranza dei contemporanei perché entrambi portatori di un male facilmente riconoscibile come tale, ovvero la privazione della libertà, per i singoli individui come per i popoli. Entrambi, poi, commisero errori e ebbero colpe che sono la negazione di ciò che consideriamo bene: le guerre, l’imperialismo, la soppressione degli avversari politici e via via, in un elenco che ognuno può allungare a piacimento. Ma è insostenibile che tendessero lucidamente, istituzionalmente, soltanto al male. Vi si aggiunga che qualcosa di apprezzabile fu fatto da entrambi i regimi; basta citare l’aumento della scolarizzazione e il miglioramento dei sistemi assistenziali e sanitari.
Il nazismo si avvicina molto di più all’idea di «male assoluto», perché ha nella sua più intima essenza un concetto di superiorità razziale – e di sterminio - dei popoli «inferiori». Ponendo come bene la superiorità e la purezza della propria razza, a danno di altre, il nazismo va - in piena lucidità e volontà - contro la scienza, la filosofia, la storia: e, più semplicemente ma ancora più gravemente, contro un’evoluzione millenaria del pensiero e della civiltà. Inoltre, il nazismo perseguiva obiettivi dissimulati con piena coscienza del perché non dovevano essere manifesti. In definitiva, dunque, finisce per avere ragione Alemanno, quando sostiene che il razzismo fu un male assoluto, e il fascismo no: non lo fu perché le sue leggi razziali, i suoi progetti, non puntavano a cancellare dalla faccia della terra un’intera razza, peraltro nobilissima.
A questa considerazione si obietta che il fascismo fu, però, alleato con il nazismo. E qui si arriva all’altra polemica di oggi: le dichiarazioni del ministro La Russa, che ha voluto onorare anche i caduti della Repubblica Sociale Italiana. I quali erano alleati dei nazisti, e quindi ne condividerebbero – secondo un giudizio diffuso – la responsabilità. Si sa invece che, nella Rsi come nel resto del mondo, quasi nessuno era a conoscenza di quanto avveniva ad Auschwitz, a Dachau e negli altri turpi campi di concentramento nazisti. Ed è lecito supporre che, se lo avessero saputo, molti non avrebbero accettato di combattere ancora al fianco di un simile alleato. Sbagliarono, certo, ma perché anteposero al valore universale della libertà quello nazionale della patria. Proprio come altri anteponevano al valore universale della libertà quello ideologico del comunismo. Però il giudizio storico, per essere tale e non distorto, deve tenere conto dell’epoca in cui si svolsero i fatti. Quei giovani, e quegli adulti, erano stati educati tutta la vita al culto della patria, prima con le lezioni sul Risorgimento, poi con il gran macello della prima guerra mondiale, poi con la propaganda del nazionalismo fascista. Stato, scuola, genitori avevano inculcato loro concetti di patria e di onore difficili da estirpare nel corso di una notte, proprio quando sembrava averli traditi lo stesso re che di quei principi doveva essere il custode. Sbagliarono, sì, ma non è giusto disprezzarne la memoria, se non si macchiarono di delitti che con la guerra nulla avevano a che fare.
Infine una considerazione, anche personale. Dispiace che queste polemiche nascano sempre da dichiarazioni di uomini politici di destra, siano o no al potere. Perché, inevitabilmente, si finisce per sospettarli di interessi di parte e per coinvolgere nel sospetto chi – come me – arriva alle stesse conclusioni per tutt’altre vie, storiografiche e non politiche. Dispiace anche di più che la responsabilità, forse, sia proprio degli storici, che non hanno ancora fornito ai politici – di destra e di sinistra – gli strumenti per una comprensione meno manichea del nostro passato. (il Giornale)

lunedì 8 settembre 2008

Se Alemanno sgarra il test antifascista. Uovo di giornata

Un po’ su tutti i giornali, il sindaco di Roma viene messo in croce con la solita accusa di non esecrare a sufficienza il fascismo, ogni giorno prima e dopo i pasti. Alemanno partecipava ad una visita “bipartisan”allo Yad Vashem, il museo dell’Olocausto, e in alcune interviste della vigilia aveva detto che il fascismo è un fenomeno complesso e non lo si può condannare in toto come “male assoluto”, mentre quella condanna assoluta doveva essere riservata alle leggi razziali.

Apriti cielo: la traduzione giornalistica di questa affermazione è stata a caratteri cubitali: “Il fascismo non è il male assoluto”. Con la solita sequela di accuse e anatemi che da Veltroni in giù si sono abbattute sul malcapitato.

Per la sinistra italiana e la sua stampa di famiglia, se non si fa del fascismo il punto più basso raggiunto dall’umanità nella sua tragica deriva totalitaria, tutto ciò che può dirsi del ventennio diventa irrilevante: sarebbe come continuare ad ascoltare chi esordisce affermando la liceità e la doverosità della crudeltà esercitata su esseri inermi, bambini e animali.

Chiunque abbia un minimo di consuetudine con gli studi di Renzo De Felice sa invece che il fascismo fu un totalitarismo monco e imperfetto, e che, pertanto, inferiore, sul piano della quantità di violenza erogata contro i suoi oppositori, risultò meno peggio di nazismo e stalinismo.

Si può non essere d’accordo sul piano storico e storiografico e magari ritenere che, ad esempio, una vena antisemita fosse fin dall’inizio nascosta tra le pieghe dell’ideologia delle camice nere. (Non dimentichiamo, però, che l’antisemitismo ideologico, nella storia europea, nasce a sinistra e trova il suo primo teorico in un socialista vicino all’antisemita Proudhon, Alphonse de Toussenel, autore di Les Juifs rois de l’époque, 1847).

Quello chè è invece insopportabile è la continua pretesa degli antifascisti di professione di vedere ogni giorno ripetuto il rito formale della condanna assoluta. Ormai un puro esercizio vocale e retorico, ma necessario secondo costoro, a garantire la presenza dei necessari anticorpi democratici di chiunque gli capiti a tiro.

Loro hanno stabilito il test, dettato i parametri e fissato le sanzioni. Chi sgarra va preso a randellate. (l'Occidentale)

Cari terroristi è ora di pagare. Paolo Granzotto

Il 17 giugno del 1974 giunse alle redazioni dei giornali un foglio ciclostilato sormontato da una stella a cinque punte. Era il primo comunicato delle allora e per lungo tempo «sedicenti» Brigate Rosse. Questo il testo: «Lunedì 17 giugno 1974, un nucleo armato delle Brigate Rosse ha occupato la sede provinciale del Msi in via Zabarella. I due fascisti presenti, avendo violentemente reagito, sono stati giustiziati».
Era andata così: il sessantenne Giuseppe Mazzola e il ventinovenne Graziano Gilarducci si trovavano quel giorno nella sede milanese del Movimento sociale quando irruppero, pistole puntate, due brigatisti, Fabrizio Pelli e Roberto Ognibene. Sulle scale, a fare da palo, erano appostati Susanna Ronconi e Martino Serafini. Ad attenderli in strada, al volante di un’auto, Giorgio Semeria, autista del commando. Il primo a reagire fu Giuseppe Mazzola, che, nel tentativo di strappargliela di mano, afferrò per la canna il revolver di uno dei due brigatisti al quale, immediatamente dopo, Graziano Gilarducci saltava al collo. Nella colluttazione Mazzola cadde a terra e a questo punto il secondo brigatista esplose due colpi. Il primo colpì alla spalla Gilarducci. Il secondo la gamba e l’addome di Mazzola. Dopo averli resi inoffensivi, il brigatista sparò altri due colpi. Mirando alla testa e uccidendoli - «giustiziandoli» - sul colpo.
Negli anni successivi e fino al 1980, la magistratura sembrò più interessata a seguire la pista «nera» piuttosto che quella, sedicente, «rossa». Ma poi qualche pentito cominciò a parlare, le indagini presero un’altra direzione e il commando di via Zabarella finì sotto processo. E finalmente, nell’anno del Signore 1992, Semeria, Ognibene, Pelli, Serafini, Susanna Ronconi, Renato Curcio, Alberto Franceschini e Mario Moretti - la nomenclatura brigatista - furono condannati (gli ultimi tre per «concorso morale in omicidio») in Cassazione. Con sentenza, dunque, definitiva.
Otto anni più tardi, Piero Mazzola, figlio di uno dei due «giustiziati», intentò causa civile «per una questione di principio - precisò - perché se mai arriveranno i soldi, saranno interamente devoluti in beneficenza». Il processo si è concluso in questi giorni con la condanna dei brigatisti al risarcimento dei danni: 350mila euro, oltre agli interessi di 34 anni, ai familiari delle due vittime. Ma i brigatisti pare non abbiano una lira e quel po' lo difendono con le unghie e con i denti (per sfuggire all’ufficiale giudiziario Serafini s’è addirittura barricato in casa. Ma con uno stratagemma l’ufficiale è poi riuscito a entrare pignorandogli il televisore al plasma e un paio di mobili di qualche valore).
Non resta quindi che il pignoramento del quinto dello stipendio, che è poca, pochissima cosa (Curcio è socio di una coop; Susanna Ronconi, lei Caina, lavora per il gruppo Abele; Roberto Ognibene è geometra al Comune di Bologna e gli altri non hanno reddito fisso). I giustizieri la passeranno dunque liscia, ma non così liscia come sperano se fosse accolta una proposta avanzata da Giuliano Ferrara e che facciamo con sincera convinzione ed anzi, con energia, nostra: confiscare i proventi delle esibizioni mediatiche di quel gruppo di assassini. E ci aggiungerei anche i proventi delle loro produzioni editoriali, marchette comprese.
Ciò servirebbe un duplice scopo: rimpinguare la scarsella del risarcimento (che, è bene ripeterlo, andrà tutto in beneficenza) e costringere i brigatisti a smetterla con le loro narcisistiche esibizioni, con le loro deplorevoli «lezioni», con i loro sgangherati e offensivi addottrinamenti e storicizzazioni e, in sostanza, autoassoluzioni. Un provvedimento del genere li indurrebbe a quella discrezione assai somigliante al pudore che fino ad oggi non hanno mai mostrato come mai hanno mai mostrato segno di pentimento. Ed è ora che paghino anche questo. (il Giornale)

domenica 7 settembre 2008

Tre candeline

Oggi "centrodestra.blogspot.it" compie tre anni.
Ho aperto il blog per "dare una mano" al centrodestra in prossimità delle elezioni 2006 che Berlusconi ha perso per una manciata di voti.
Non trovavo risposte alle tante domande che, da simpatizzante, mi ponevo: non esistevano blog amici, non c'era un sito ufficiale con cui dialogare, non esisteva un'opposizione decente alle innumerevoli menzogne che la sinistra andava propalando, si respirava una rassegnata aria di sconfitta e, come se non bastasse, all' interno del centrodestra i malumori erano evidenti.
Solo Lui era convinto di farcela, ma lottava solitario contro tutti.
Per caso sono riuscito a mettere in piedi il blog, perché ero e sono rimasto poco pratico di computer: oggi la grafica essenziale, disadorna e quasi monocromatica è diventata una caratteristica del mio blog, ma è una prerogativa che rimarrà visto che non so andare oltre.
Quello che mi interessa, e che ho sempre cercato di perseguire, è la corretta informazione ed il ristabilimento di una verità equilibrata e non faziosa: sono schierato e non lo nascondo, ma i fatti hanno una loro forza che non può essere piegata alla volontà di parte.
Quasi sempre "copio e incollo" articoli che rispecchiano mie idee e lo fanno meglio di me, ma, soprattutto, cerco quegli articoli che ristabiliscano la verità allorquando la stampa di regime ha suonato una campana sola.
Questa mia politica ha premiato perché le visite sono costanti ed anche gli attacchi, non sgraditi, dei detrattori di sinistra sono diminuiti.
Andrò avanti con l'orgoglio di non aver mai cancellato un commento - tranne una volta sola, ma gli insulti erano talmente pesanti che screditavano più l'autore che il destinatario - e di aver aperto al dialogo civile e non fazioso.
Chi frequenta il mio blog sa che può trovare lo spunto per una riflessione, la notizia non parziale, il chiarimento non trovato altrove, il testo originale di una dichiarazione, la medaglia vista dal rovescio e l'amore per la libertà di pensiero e di espressione.
Grazie a voi tutti e grazie ai tanti colleghi blogger che mi fanno visita e che segnalano il mio sito.

Il re sindacale è proprio nudo. Arturo Diaconale

In passato sarebbe stato crocifisso e costretto a rassegnare in gran fretta le dimissioni. Adesso, invece, Renato Brunetta rimane saldamente al suo posto. E può tranquillamente registrare che contro la sua affermazione secondo cui sulla vicenda Alitalia si può anche fare a meno della concertazione con i sindacati, si sono avute solo poche proteste di maniera. Qualche dirigente sindacale ha parlato di “provocazione fuori luogo”. Qualche isolato esponente della maggioranza, come Stefano Saglia di An, ha invitato il ministro a “mordersi la lingua” prima di parlare. Insomma, poco o niente. Al punto che la più decisa critica nei confronti di Brunetta è venuta da un corsivo de “La Stampa”, il giornale controllato dalla famiglia Agnelli e diretto da Giulio Anselmi, grondante sdegno, condanna ed esecrazione per l’attentato compito dall’esponente di Forza Italia alla sacralità dei sindacati.ì La ragione di questa differenza del presente rispetto al passato è che l’affermazione di Brunetta sarà stata anche brutale ma ha colto perfettamente nel segno. Dei sindacati si può fare anche a meno. Perché non rappresentano più la maggioranza dei lavoratori ma solo la maggioranza dei pensionati. Perché la società italiana è profondamente cambiata rispetto all’ultimo trentennio del secolo scorso e non ci sono più le condizioni per consentire al sindacato di rappresentare il quarto potere effettivo dello stato.

E, soprattutto, perché il movimento sindacale si è talmente adagiato nel suo ruolo politico da non sapere più svolgere il proprio mestiere originario. L’osservazione di Dario Di Vico secondo cui ai più forti sindacati di Europa come quelli italiani corrispondono i salari più bassi del vecchio Continente è fin troppo illuminante di quanto Cgil, Cisl e Uil possano essere caduti in basso. A Brunetta, quindi, si può forse rimproverare di parlare un linguaggio troppo crudo. Ma nessuno può rimproverare di essersi comportato come il bambino della favola e di aver osservato che “il re è nudo”. Il vecchio potere di veto e di condizionamento che i sindacati avevano ottenuto da un potere politico debole, dai capitalisti privi di capitale ma assistiti dallo stato e soprattutto dalla comune convinzione che i costi dell’immobilismo sarebbero stati comunque scaricati sul debito pubblico, non esiste più. Al suo posto c’è l’esatto contrario. Cioè la consapevolezza generale che la crisi incalzante azzera veti e condizionamenti perché, come nel caso dell’Alitalia, pone come alternativa secca o la corresponsabilizzazione nei confronti dei sacrifici o la morte delle aziende e la scomparsa del lavoro.

I vertici dei sindacati confederali (ma quelli di Cisl e Uil sono più avanzati e consapevoli di quelli della Cgil) possono anche rifiutare di prendere atto di questa realtà. E continuare nella difesa ad oltranza dei loro vecchi poteri nella speranza di far saltare gli attuali equilibri politici attraverso l’aggravamento e l’accelerazione della crisi. Ma corrono il rischio di perdere definitivamente il consenso dei lavoratori e di abbandonare del tutto la scena pubblica del paese. Viceversa, se si rendono conto della loro sostanziale ininfluenza, possono contribuire all’azione di risanamento e di rilancio dell’economia nazionale tornando a svolgere quell’azione di tutela concreta degli interessi dei lavoratori per cui sono nati. (l'Opinione)

Con "Locazione sicura" niente più rischi per gli affitti agli extracomunitari.

L’operazione si chiama “Locazione Sicura”. Grazie a questa iniziativa il proprietario che affitta ad extracomunitari regolari si garantisce il pagamento dei canoni e si pone al riparo dai rischi locativi

Il Decreto-Sicurezza ha inasprito le pene per i proprietari di case che decidono di affittare l’immobile a extracomunitari irregolari: oggi si rischiano dai tre ai sei mesi di carcere, e perfino la confisca del bene. Proprio per agevolare la “vita” del proprietario, costretto a verificare la regolarità dello straniero, scende in campo la Fiaip, la Federazione Italiana delle Agenzie Immobiliari Professionali (1.500 agenzie rappresentate in Emilia-Romagna, e oltre 12.000 in tutta Italia).

«Abbiamo appena lanciato ‘Locazione Sicura’ - spiega Luciano Passuti, numero uno della FIAIP Emilia Romagna oltre che presidente onorario nazionale - un servizio in esclusiva per i nostri soci che ha l’obiettivo di eliminare qualunque rischio per il proprietario.»
«Intanto chi si affida alle nostre agenzie ha la certezza che verrà svolto un accertamento completo circa la regolarità del permesso di soggiorno oltre che la capacità reddituale dell’inquilino. Quest’ultimo è un aspetto molto delicato. Non basta un permesso di soggiorno regolare se poi lo straniero non può contare su un reddito accettabile per lui ed eventualmente per la sua famiglia.»

«Inoltre, grazie ad un accordo raggiunto con Unipol Banca, il proprietario può contare sulla fideiussione dell’istituto bancario che lo garantisce nel caso di mancato pagamento dei canoni di locazione da parte dell’inquilino. Nel caso di morosità il proprietario ha la facoltà di chiedere i canoni non percepiti a Unipol Banca la quale provvederà al pagamento “a prima richiesta” e cioè senza la necessità di dover vincere una lunga e incerta causa giudiziaria”.»

«Non solo. La fideiussione bancaria sostituisce il cosiddetto deposito cauzionale, a cui chi ha preso in affitto l’immobile è tenuto al fine di garantire la conduzione dell’immobile concesso in locazione secondo criteri di correttezza e buona fede, il che implica la riconsegna dei locali in buono stato, così come sono stati consegnati all’inizio della locazione.»

«Infine – conclude Passuti – mettiamo a disposizione una polizza assicurativa a garanzia dell’incendio nella forma ‘Rischio Locativo’, tipica garanzia del conduttore nei casi di danni riconducibili a sua colpa, che lo tiene indenne dalle legittime richieste del proprietario, per un massimale di 150mila euro.» (Quotidianocasa.it)

giovedì 4 settembre 2008

La sinistra italiana tra "bad company" e "newco". Marco Taradash

Cosa manca all’Italia per essere un paese normale? E perché Veltroni attacca (involontariamente) la magistratura per il rilascio degli ultrà del calcio e allo stesso tempo blocca il dialogo sulla riforma della giustizia auspicato da Luciano Violante? Un attimo.

Qualche giorno fa Massimo Calearo, ex presidente di Federmeccanica e della confindustria vicentina e ora deputato del Pd, ha espresso a Repubblica la sua opinione su Alitalia. A noi non interessa. Sulla compagnia aerea ci basta quel che pensa l’ex presidente dei giovani confindustriali e ora ministro ombra del Pd, Matteo Colaninno: “Tengo famiglia” (tradotto dalla lingua ombra). Tra le righe di quell’intervista a Calearo c’era invece qualcosa di illuminante sotto il profilo politico. Scriveva Repubblica: “E’ appena tornato dalle sue prime vacanze cubane e assicura che non ci ritornerà. Perché – spiega- c’è di meglio del comunismo”. Viene da pensare. Forse Calearo ha ritenuto suo dovere da “uomo nuovo” della sinistra recarsi a Cuba? Forse non sapeva che c’era il comunismo? Forse non sapeva bene cosa fosse il comunismo? Non c’è altra spiegazione. Mai saputo nulla della repressione castrista, della delazione, dei ricatti polizieschi, dei disperati tentativi di fuga, delle segrete di cinquanta centimetri per cento dove i dissidenti erano costretti a giacere indefinitamente fra i propri escrementi a scopo di rieducazione politica e sessuale coll’unico conforto di una lampada elettrica perennemente accesa? Ora che è tornato Calearo potrebbe almeno guardarsi (è una punizione, lo so, il film è brutto, ma lo conforterà la comparsata di Sean Penn) il film – “Prima che sia notte” - sulla vita di Reinaldo Arenas, scrittore omosessuale e anticastrista, emigrato da Cuba nel 1980 (quando Castro generosamente scaricò sugli Usa una strana compagine composta da omosessuali, delinquenti abituali e malati di mente) per morire di Aids a New York qualche anno dopo (e così si risparmia pure una puntata al Gay Pride).

Quel lampo di verità nell’intervista a Calearo spiega meglio di mille editorialesse cosa manca all’Italia per essere un paese normale, come ci domandavamo all’inizio. Manca la sinistra. Qualche decina di anni fa la situazione era più semplice: per essere un paese normale all’Italia mancava tutto, persino il concetto di paese. Da una parte una sinistra legata a Mosca, dall’altra una destra che si definiva di centro e che aveva nel Vaticano il punto di riferimento politico e culturale. L’Italia del secondo dopoguerra non era uno stato occidentale come gli altri ma un contenitore di partiti che neppure si preoccupavano di dargli una fisionomia. Flaiano sintetizzò limpidamente la situazione sul “Mondo”, annata 1956: “Abbiamo da una parte il forte partito comunista che ha per scopo di spiegarci, con un ritardo di dieci anni, quel che ci succederebbe se si instaurasse qui un governo comunista, come se noi non lo sapessimo.. Oggi il comunista è un partito conservatore e reazionario, che non vuol fare rivoluzioni e si accontenta che gli altri partiti lo credano capace di farlo”. Sull’altro versante c’era “Un partito confessionale-economico, talmente vasto che lo si potrebbe scambiare per la volontà degli italiani, se non sapessimo che a dirigerlo è una volontà che ha sempre avversata l’idea stessa di un’Italia libera.. Un partito fortemente involuzionario”.

Oggi non è più così, a destra. Berlusconi ha creato un partito di destra occidentale, alle volte molto conservatore, alle volte un po’ liberale, come tutti. A occupare lo spazio della sinistra c’è invece qualcosa di indecifrabile, che nessuno sa bene dove collocare (come dimostra l’ininterrotto questionare sul “chi siamo-da dove veniamo-dove andiamo” in corso da mesi sui quotidiani italiani). Intanto: dove sta la destra e dove la sinistra? Dipende. Dal punto di osservazione. Di fronte o di spalle? Rosy Bindi o Di Pietro? E qual è la fronte e quale la schiena? Per fortuna l’antiberlusconismo definisce oggi tutto ciò che non è destra, a parte Storace. Il resto è un catalogo vintage: un vecchio partito comunista guidato da un politico che può vantare come maggiore successo il rilascio di Silvia Baraldini dalle carceri americane; un nuovo partito della rifondazione comunista, attualmente senza guida, impegnato nella ricerca della nonviolenza attraverso il sostegno ai movimenti terroristi internazionali. Infine un nuovissimo e consistente Partito Democratico che cerca di trarre linfa dalla fusione dei rami attivi derivati dalla liquidazione delle “bad companies” comunista e democristiana. Oggi ci si interroga sul ruolo del suo leader, Veltroni. E’ famoso per la sua ambiguità, per i suoi “ma anche”. Vero, ma cos’altro potrebbe dire o fare il segretario di un partito la cui metà degli iscritti soffre di allergia per le idee, i costumi e gli inni (“l’internazionale” – avete presente?) dell’altra metà, la quale disinteressatamente contraccambia? Se il nuovo poi sono i Calearo, i Colaninno e le ovazioni della festa democratica a Di Pietro con immediato contrordine compagni sulla riforma della giustizia, non ci sarà da attendere molto prima che Veltroni cominci a ripetere a manovella un mesto ma più autentico “ma neppure”. Non vediamo l’ora. (l'Occidentale)

"Le misure dell'Italia sui nomadi non violano le norme"

Bruxelles - (Adnkronos) - Il commissario europeo per Giustizia, libertà e sicurezza, Barrot: ''Non c'è nessuna raccolta sistematica di impronte.

La presa ha il solo fine di identificare le persone quando non sono in possesso di un documento e comunque come extrema ratio".

E sottolinea: ''La buona cooperazione tra le autorità italiane e la Commissione ha permesso di verificare la natura delle ordinanze''.

mercoledì 3 settembre 2008

Neanche. Jena

Il Vaticano: «La morte cerebrale non basta per sancire la fine di una vita».
Neanche per la sinistra? (la Stampa)

martedì 2 settembre 2008

L'arte diplomatica di Berlusconi. Raffaele Iannuzzi

Berlusconi il saggio. La crisi georgiana non ha bisogno di muscoli, né di esternazioni da anime belle. Non ha bisogno dei cahiers de doleance della premiata coppia Glucksman-Henry-Levy, i nouveaux philosphes in servizio permanente, anche quando non sono più nouveaux. La partita è difficile e ci vuole coraggio e prudenza. Il coraggio per una Nazione come l'Italia, che ha appena siglato un accordo euro-mediterraneo e si trova appunto nel cuore del Mediterraneo, vuol dire evitare di agire di rimessa, cioè di reagire, dimostrando duttilità e capacità di giudizio strategico.

Berlusconi, a Bruxelles, ha giustamente gettato acqua sul fuoco e si è dichiarato «amico di tutti» e, per ciò, in un certo senso, amico di nessuno, il che vuol dire, amico del proprio Paese. Egli ha giudicato una provocazione inaccettabile l'aggressione dell'Ossezia da parte della Georgia di Saakashvili e, alla replica circa la sproporzione della reazione della Russia, ha domandato quale dovesse o potesse essere una reazione «proporzionata», non ricevendo risposta alcuna.

Il re è nudo: dopo l'errore dell'indipendenza del Kossovo, la frittata è fatta. La legittimazione nella comunità internazionale della Georgia non può essere ottenuta a scapito della Russia, né è possibile pretendere che territori della Georgia come l'Ossezia del Sud, che ha votato nell'ultimo referendum al 97% per l'indipendenza, si senta parte della Georgia, in una scacchiera di pesi e contrappesi imperialistici. Questi sono i dati. Se, ad essi, aggiungiamo che l'Europa non ha politica energetica comune, non ha un esercito ed una politica strategico-difensiva comune, cosa pretendere? Ogni eccesso di zelo in termini di sanzioni nei confronti della Russia rischia di far saltare l'asse degli equilibri internazionali. Yalta non c'è più da tempo, non da oggi, come ha sostenuto Sarkozy. La Russia sa di poter contare su un impianto di egemonia regionale assai compatto e di poter tenere sotto schiaffo l'Europa e gli Usa con eventuali accordi e scambi a base di missili e strategie comuni con l'Iran. Si tratta, certo, di una smoking gun, che vale, però, una piena e solida deterrenza, soprattutto oggi, con l'America in stato di debolezza.

Dunque, Berlusconi si staglia, oggi, per senso strategico e arte diplomatica. Non a caso, con questa posizione equilibrata e ragionevole, perché fondata su una seria analisi dello status quo, il Presidente del Consiglio è riuscito a mitigare la posizione degli inglesi e a rintuzzare le posizioni anti-russe di Paesi come la Polonia, dei Cechi, della Lituania, portando a casa una mediazione al rialzo, che non scontenta nessuno, né la Russia, né gli Stati Uniti. Complexio oppositorum: talvolta, è una posizione che paga. Tenere insieme gli opposti, facendo quadrare il celebre cerchio può servire a creare le condizioni per un futuro di incerta ma contrattabile stabilità, anziché far piombare il mondo in un'altalena di tentati golpe regionali e azioni militari destabilizzanti, in un'area calda e sensibile come l'Asia Centrale, con la Turchia che sta vivendo uno dei momenti più delicati della sua storia. A causa di un nemico comune: il fondamentalismo islamico.

Meglio un Putin ancora filo-occidentale pagando qualche prezzo, che un Putin neoimperialista rivolto ad Oriente, apparentemente a zero costi al tavolo da gioco. Berlusconi è uno statista mediterraneo, con caratteristiche, anche temperamentali, da statista mediterraneo e con la logica che non privilegia l'aut-aut, favorendo, per contro, l'et-et. Lo statista giusto al momento giusto. (Ragionpolitica)

L'oro a Prodi. Davide Giacalone

Alle Olimpiadi del cinismo Prodi conquista la medaglia d’oro, il podio e l’inno alla furbizia. La sinistra che tanto si lamentò (giustamente) per le intercettazioni di Dalema e Fassino può, ancora una volta, misurare quanto il veleno prodiano ne immobilizzi i riflessi. I complimenti dei compagni sono un autonecrologio. La destra che sperava di beccare il professore in difficoltà, solidarizzando con il sorriso sotto ai baffi, può, ancora una volta, prendere atto che il gran democristiano, il figlio puro delle partecipazioni statali, non deve mai essere sottovalutato.Prodi ha il vantaggio di essere un leader politico che non ha mai preso e mai prenderà dei voti. Come nei film di fantascienza, la sua specialità consiste nell’entrare in corpi altrui ed impadronirsi della loro vita, avvizzendola e traendone forza per la propria. Grazie ai demeriti altrui s’è trovato, per due volte, a far finta d’avere vinto le elezioni, alimentando l’equivoco che ciò sia democraticamente possibile senza che vi sia un partito da lui capeggiato e che in lui si riconosca. Grazie a questa particolarità, così come quando faceva il ministro od il presidente dell’Iri per conto della sinistra democristiana, del potere Prodi può badare alla sostanza, senza perdersi nelle uggiosità della raccolta del consenso. Così procedendo, pertanto, egli sa che l’inchiesta penale, relativa alla vendita dell’Italtel ed alle tangenti pagate dai tedeschi, è partita da tempo, si riferisce a fatti vecchi e non arriva da nessuna parte. E’ vero che le intercettazioni (cimeli giudiziariamente inutili) dimostrano l’uso familistico del potere, ma: a. non gliene importa nulla; b. sa che nessuno ha mai creduto le cose vadano diversamente. Quindi se la ride e dice: pubblicate quello che vi pare.
Il gesto beffardo finge d’essere ossequioso con i magistrati, in realtà sfregia il volto dei concorrenti, specie interni alla sinistra. Ed è reso possibile perché nessuno ha il coraggio di prendersela con il bersaglio vero, vale a dire le inchieste inutili, costruite con intercettazioni di spericolata legittimità, mentre si spara sul bersaglio falso, ovvero le carte passate (dai magistrati) ai giornalisti. Che il cielo fulmini i velinari di procura, visto che ha già accecato quanti dovrebbero difendere lo Stato di diritto.