giovedì 30 giugno 2011

Quando è la sinistra a essere accusata di rubare. Michele Fusco

Mi dispiace sinceramente quando uno di sinistra viene accusato di essere un ladro, ho ancora l’idea che uno di sinistra debba essere più onesto degli altri, senza esserne migliore. Quindi i comportamenti disgiunti dalla morale. O dai moralisti. Solo una banalissima questione di stile. Come ha opportunamente sottolineato Gad Lerner su Repubblica, non si capisce come il responsabile del trasporto aereo del Pd potesse mai sedere nel cda di Enac, in clamoroso conflitto di interessi. Anche qui, temo c’entri lo stile.

Sono ancora più addolorato (e anche sorpreso) nell’osservare le reazioni di quelli di sinistra quando un amico, un collega, un sodale, viene pizzicato nel grande mondo delle tresche. Dire che minimizzano è poco, si limitano alla stitica e abusata «la giustizia faccia il suo corso, abbiamo piena fiducia nella magistratura», per poi rinchiudersi ingenuamente nel grande mondo degli inconsapevoli. Siamo al punto che Bersani è riuscito a dire che Pronzato non era stato portato da lui (peraltro cosa vera). Altro?

Se per un mero calcolo statistico, è inevitabile pensare che prima o poi anche uno di sinistra (ci) cascherà, i numeri non potranno mai raccontare quella terra di nessuno in cui certi uomini di sinistra coltivano i propri rapporti con i portatori di denari, quei personaggi, discussi e discutibili, che si occupano di irrobustire le casse del partito o di associazioni vicine al partito.

State leggendo probabilmente delle inchieste che coinvolgono tal Morichini, amico stretto di Massimo D’Alema, il quale si è messo a collaborare con i giudici. Orbene, nelle carte dell’inchiesta si dice che parte di questi denari finivano nella casse della Fondazione Italiani Europei che è presieduta appunto da D’Alema. La Fondazione si è persino stancata nel ripetere che ogni centesimo è a bilancio, che non ci può essere traccia di malversazione alcuna, che tutto insomma è trasparente. Ma il problema non è qui, non è nella liceità amministrativa dei comportamenti.

Il problema è restare con i piedi dentro il mondo, sapere cos’è il senso di responsabilità, delegare nulla della propria condizione politica, non permettere che le persone che ci scegliamo come amici, o presunti tali, possano anche solo per un momento mettere in difficoltà l’integrità di una formazione politica che è composta dal sudore, dalla fatica, dalle idee, dalla dignità, dalla pulizia morale dei molti che ci credono e che si appassionano. È chiedere troppo, gentile Massimo D’Alema, è disturbare troppo il vostro lavoro, gentile Pierluigi Bersani?

Ci ricordiamo bene quell’«abbiamo una banca» che raccontava perfettamente una provincia delle idee che spesso accompagna questa povera sinistra. Non si è così ingenui da pensare che l’economia e le sue dinamiche non debbano appartenere a un partito importante come il Pd. Ma perdiana, abbandonate quell’idea bislacca per cui lo sbarco nei poteri forti debba avvenire con dinamiche da Totò e Peppino, perché altrimenti «con questi dirigenti non vinceremo mai», morettianamente parlando.

Lo stile viene persino prima delle idee. È chiedervi troppo? (Linkiesta)

Consiglio nazionale del Pdl on line

Domani, venerdi 1° luglio, possiamo seguire la diretta on line del Consiglio nazionale del Pdl, convocato da Silvio Berlusconi per la formalizzazione della nomina a segretario politico del Pdl di Angelino Alfano.

Appuntamento sul sito del Pdl www.pdl.it a partire dalle ore 10.

http://www.pdl.it/

Su la testa. Davide Giacalone

Tutti guardano alla partitella italiana, che sarà sospesa per l’ora di pranzo e ripresa con comodo, mentre pochi s’accorgono che la più grossa questione riguarda l’euro, in una gara che non si ferma e non prevede clemenza. Oggi gli occhi sono rivolti verso il Consiglio dei ministri, accompagnato dalla solita gnagnera sui contrasti interni. Intanto portano a casa un grandioso risultato di comunicazione: fra dolori annunciati e che non saranno arrecati e benefici promessi che non saranno mantenuti, tutti, alla fine, saranno disturbati e delusi, pur cambiando poco e niente. Non è facile, ma ci si riesce. L’importante è che ci sia collegialità.

Le cose vanno nel senso qui anticipato: nell’immediato modeste correzioni dei conti, salvo previsione di più massicci interventi, a valere entro tutto il 2014. Saluti e baci. L’ammontare complessivo dell’operazione è nell’ordine di 47 miliardi. L’approssimarsi della lama, incaricata dei fatidici tagli, crea terrore, urla e svenimenti. Salvo il fatto che da dietro s’avanza una mannaia e nessuno dice niente. Si fa finta di dimenticare alcuni elementi, che, come vedremo, travolgono non solo noi, ma l’euro.

Se 47 miliardi, in tre anni, sembrano tanti, ci si ricordi che per il solo differenziale dei tassi d’interesse sul debito pubblico ne paghiamo, ogni anno, 35 più dei tedeschi. Detto in modo diverso: i nostri concorrenti raccolgono denaro, sul mercato, con un vantaggio di più del 2%. Hai voglia a far crescere la produttività e il pil, per recuperare! Questa settimana il differenziale, spread, ha toccato un record: 223 punti base. E’ salito di 8 punti base (poi calati), che fanno 1,28 miliardi l’anno (il conto è della serva, perché si deve fare la media dei titoli già venduti e della loro scadenza, ma serve a capirsi). A ciò si aggiunga un dettaglio: la spesa media per gli interessi, calcolata in percentuale al pil, è costantemente scesa, dal 1995 al 2009, ma, contemporaneamente, il debito è costantemente cresciuto (passando velocemente dalle mani dei nostri cittadini a quelle d’investitori internazionali). Non è un miracolo, ma l’effetto dei bassi tassi d’interesse. Davanti a noi abbiamo un tempo in cui è ragionevole prevedere che quei tassi crescano. Morale della favola: si discute di 47 miliardi in tre anni, ma basta un niente che muova la mandria dei mercati e ce li rimettiamo in un anno solo, sull’unghia. Gli oneri del debito, sia chiaro, non sono spese che si rimandano: si paga tutto e subito.

E’ uno scenario di tipo greco? Assolutamente no. La Grecia equivale al 4% del debito europeo. Una pagliuzza. Noi abbiamo un peso decisamente diverso (cumulando debito pubblico e privato, più o meno quanto i tedeschi). Attaccare la Grecia significa costringere i governi europei a salvare le loro banche (specialmente tedesche e francesi), quindi lucrare sulla loro incapacità di conciliare una moneta unica con tanti debiti nazionali, per giunta assistiti da diversi tassi d’interesse. Attaccare l’Italia significa radere al suolo l’euro. Questo ci rende sicuri, ma, al tempo stesso, stuzzica il sadismo speculativo delle agenzie di rating, che già sbavano all’idea di declassare il nostro debito e vedere un po’ l’effetto che fa, vale a dire incassare soldi del contribuente italico.

Ciò che occorre fare è azionare contemporaneamente due leve: quella delle riforme interne, in modo da cambiare natura alla spesa pubblica, e quella delle relazioni internazionali, tanto per chiarire che non siamo i più fessi del globo e che già la guerra in Libia ci sembra abbastanza, in termini di cavolate fatte per danneggiarci. Invece che passare il tempo a discutere sull’essere il Tizio bollito, il Caio brasato e gli altri fritti, che se è questo il livello espressivo cui i governanti giungono non fanno che rendere desiderabile il silenzio, sarà meglio che ci si ricordi di avere un posto nel mondo e di essere una delle grandi potenze economiche, il che esclude l’accodarsi scodinzolante agli ordini di qualche autorità europea, governata da chi non sarebbe chiamato a guidare manco il paesello natio.

Paghiamo le nostre responsabilità per un debito giunto al 120% del pil, ed è giusto. Ma non possiamo prepararci a pagare anche quelle di chi non ha ancora capito che senza un debito federale non ha senso una moneta federale. Spesa, per giunta, finanziando una guerra contro i nostri interessi. Su la testa.

mercoledì 29 giugno 2011

Il male delle toghe. Tato Tripodo

Quando mi si racconta che la magistratura in Italia è scevra da condizionamenti politici se non addirittura essa stessa motore della lotta politica senza frontiere io non ci credo. Non ci credo non per partito preso ma perché in tanti anni ho visto molte cose che mi portano a conclusioni di senso opposto. Proverò di seguito a fare delle domande nella speranza che qualcuno sappia darmi una risposta convincente e così porre un definitivo punto alle mie manie circa l’esistenza di una lobby in magistratura.

Ad esempio, è vero che il pm milanese Francesco Greco esortò i colleghi di Magistratura democratica ad abbattere lo Stato borghese? E se si in che modo intendeva abbatterlo? E perché?

È vero che capita spesso che durante manifestazioni di protesta a tinte rosse, viola o per ultimo arancione, ogni qual volta accadono tafferugli, violenze, lesioni e danneggiamenti, i colpevoli vengono quasi sempre rilasciati dai giudici con le più svariate motivazioni, quasi a voler legittimarne la protesta violenta?

È vero che alle Frattocchie si studiava il politichese comunista e che a quella scuola furono inscritti molti magistrati in servizio? Il magistrato Petrella eletto nelle file del Pci sin dal 1972 aveva la tessera del partito ancor prima della sua elezione? Massimo Saverino sostituto procuratore generale della Corte di Cassazione era inscritto al Partito comunista con la tessera 2192226? E lo stesso Severino condusse importanti indagini contro gli oppositori del Pci?

E’ vero che Falcone andava criticato, osteggiato, isolato e delegittimato perché nell’ambito dell’indagine dell’omicidio La Torre, indagava sulle ombre illecite o presunte tali dell’attività del partito comunista e delle coop rosse in Sicilia? A tal proposito L’Unità recitava: “Falcone preferì insabbiare tutto” e La Repubblica invece: “Falcone è un vanitoso, un montato, uno che assomiglia ai guitti televisivi”.

E’ vero che Mario Almerighi, ex presidente dell’Anm così recitava nell’occasione della formazione dell’ultimo governo D’Alema: “Siamo pronti ad offrire alla politica un ramoscello d’ulivo ma tutto dipenderà dalla scelta del nuovo ministro della Giustizia…” ( ma da quando la magistratura deve indicare i ministri?) “ma se venisse scelto un infiltrato dell’altro polo che porta avanti le teorie sulla separazione delle carriere tutto si affosserà” (se non era una minaccia questa).

E’ vero che Tiziana Parenti fu costretta a lasciare il pool di Milano per aver indagato ai tempi di Mani pulite sulle coop rosse? E’ vero che la Forleo fu oggetto di provvedimenti disciplinari e di trasferimento per incompatibilità col foro per aver indagato su Piero Fassino?

Io credo di avere buone ragioni per ritenere che parte della magistratura conduca una lotta politica senza confini pur di ottenere il raggiungimento dei suoi scopi. (the Frontpage)

martedì 28 giugno 2011

Gli italiani e la povertà nata dalla ricchezza. Massimo Fini

Questa storia che gli italiani stiano diventando poveri, di una povertà insopportabile, mi convince fino a un certo punto. Nei ’50, a parte una sottile striscia di alta borghesia che si guardava bene dall’ostentare, eravamo tutti più poveri della media di coloro che oggi sono considerati tali.

Certo, avevamo molte meno esigenze. I bambini non venivano iscritti ai corsi di tennis, di nuoto, di danza. Noi ragazzini giocavamo a pallone nei terrain vague dove anche ci scazzottavamo allegramente (era la nostra “educazione sentimentale”) e tornavamo a casa la sera con le ginocchia nere e sbucciate (chi mai riesce, oggi, a vedere un bambino, vestito col suo paltoncino, come un cane di lusso, con le ginocchia sbucciate?).

A nuotare (parlo di Milano) si andava all’Idroscalo oppure, durante le vacanze scolastiche, accompagnati dalla mamma (il padre rimaneva in città, perché allora per mantenere la famiglia bastava uno solo) sulla Riviera di Ponente. Gli adulti non sognavano i Caraibi, non sapevamo nemmeno che esistessero. Vivevamo in un mondo circoscritto. La fabbrica o l’ufficio, a Milano, erano quasi sempre vicino a casa. In altre zone del Paese invece si doveva fare anche 30 chilometri. Allora si inforcava la bicicletta, che a quei tempi era un mezzo di locomozione (negli anni Trenta avevano la targa, come le automobili) e non un gadget per tipi snob.

In compenso non c’era bisogno di fare jogging. Eppoi la povertà aiuta la povertà. Passava lo strascè (“strascè, strasciaio”) e gli buttavi dalla finestra qualche vecchio lenzuolo bucato. Passava l’arrotino e ti affilava i coltelli per poche lire. Veniva il contadino (la città era ancora compenetrata con la campagna) e ti portava le uova, i pomodori, la frutta. Essere poveri dove tutti, più o meno, lo sono non è un dramma e nemmeno un problema. Quando uno ha da abitare, da vestire, da mangiare (nessuno nei ’50 moriva di fame, anche se la minaccia paterna, dopo la marachella, “Stasera vai a letto senza cena”, non era da prendere sottogamba), gli amici, la ragazza e, più tardi, una moglie e dei figli, cosa gli manca per essere non dico felice (parola proibita, che non dovrebbe essere mai pronunciata), ma almeno sereno?

La povertà nasce con la ricchezza. Quando una fetta consistente della popolazione la raggiunge. Innanzitutto per la concreta ragione che tutti i prezzi dei beni essenziali si alzano. Lo si vede bene nella Russia di oggi dove accanto agli Abramovich ci sono professori universitari che col loro stipendio ci comprano un mezzo pollo. Nei ‘50 e nei primi ‘60, in Italia, un pasto completo in trattoria con una bottiglia di buon Barbera costava 250 lire che, anche fatta la tara dell’inflazione, non hanno nulla a che vedere con i 25/30 euro con cui si paga oggi una pizza. Gli affitti erano abbordabili, oggi bisogna strangolarsi di mutui per andare ad abitare nell’anonimato dell’hinterland.

Inoltre scatta il meccanismo dell’emulazione, dell’invidia, su cui del resto si basa l’intero nostro modello di sviluppo. Raggiunto un obiettivo bisogna inseguire immediatamente un altro e poi un altro ancora – a ciò costretti dall’ineludibile meccanismo produttivo, che ci sovrasta – e, sempre inappagati, non possiamo mai raggiungere un momento di equilibrio, di quiete, di serenità. Ludwig von Mises, il più estremo ma anche coerente teorico dell’industrial-capitalismo, rovesciando venti secoli di pensiero occidentale e orientale, ha affermato: “Non è bene accontentarsi di ciò che si ha”. Ha interpretato lo spirito del tempo coniugato con le esigenze del sistema. Ma poiché “ciò che non si ha” non ha limiti abbiamo creato il meccanismo perfetto dell’infelicità. (ariannaeditrice)

venerdì 24 giugno 2011

Il matto e lo scemo. Davide Giacalone

L’egolatria di Marco Pannella è smisurata, comprendendo anche l’ipotesi di tirare le cuoia in una delle battaglie nel corso delle quali utilizza il proprio corpo come un’arma non violenta, ma, almeno, il grande capo radicale conserva passione e lucidità politica. L’egolatria di altri politici non scherza, al punto d’intestare a sé stessi i propri partiti, ma difettano largamente di idee e idealità. L’odierna campagna pannelliana, contro l’inciviltà delle nostre galere, dovrebbe muovere non a compassione per l’arsura delle sue carni, ma a indignazione per l’aridità mentale e morale di un vasto mondo politico.

Pannella digiuna e non si disseta per testimoniare le condizioni disumane in cui vivono i detenuti. Ha ragione, ma questa è solo una parte del problema. La più feroce inciviltà consiste nel fatto che più della metà della popolazione carceraria non sta scontando una pena, ma attende di sapere se sarà condannata o considerata innocente. Il malocarcere può essere considerato, con abbondanti egoismo e grettezza, un problema dei carcerati, posto che nessuno pensa mai di finire nelle fila di chi vi soggiorna ingiustamente, ma la malagiustizia è un problema certamente collettivo, con enormi costi sociali ed economici.

Le più grandi forze politiche votarono, nel 2006, un indulto. Lo votarono il Partito Democratico come Forza Italia, la maggioranza di centro sinistra, che allora governava, come anche la destra (ad esclusione della Lega). Lo fecero con un riferimento ipocrita alle parole di Giovanni Paolo II (pronunciate quattro anni prima), sollevando il problema del sovraffollamento. Era vero allora com’è vero oggi. Chi votò con quelle motivazioni dovrebbe rivotarlo oggi. Io ero contrario allora e resto contrario oggi, perché l’indulto non risolve un bel niente, come si è puntualmente e dolorosamente dimostrato. Vado oltre: cancellerei la possibilità stessa dell’indulto, vale a dire di uno sconto sulla pena che ha un sapore dispotico ed è uno strumento che non cambia di un capello la condizione della giustizia. Tutte cose già scritte.

C’è una cosa, però, che sappiamo tutti, che è chiara a tutte le persone solo lontanamente ragionevoli: la nostra giustizia è in bancarotta, capace solo di disonorare gli indagati, di piazzare sui giornali le intercettazioni (qualche volta ridicole), ma poi incapace di celebrare processi e impartire condanne e assoluzioni in tempi accettabili, sappiamo, quindi, che una volta riformata la giustizia si dovrà toglierle dal groppone il peso assassino dell’arretrato. E questa si chiama: amnistia. Non estingue la pena, estingue il processo estinguendo il reato. Un’ingiustizia, uno sfregio, un’offesa agli onesti, ma pur sempre meglio della putrefazione a cielo aperto. L’indulto si fece senza alcun cambiamento, l’amnistia non può che essere il frutto di una radicale riforma.

Se la politica esistesse, se non fosse il mestiere del parlare a vanvera e sopravvivere a sé medesimi, questo sarebbe un problema da affrontare. Quel pazzo di Pannella non mangia e non beve? Lo si usi. Con cinismo, con freddezza, pari al cinismo e alla freddezza con cui lui pianifica le sue campagne. Lo si usi perché ha ragione, perché è vero quel che dice, anche quando straparla. L’egolatria non pannelliana, invece, impone di parlare di giustizia solo a proposito dei processi che riguardano sé stessi e il proprio mondo, con il risultato di perderci la faccia e non cambiare mai nulla.

Invece che corteggiare Pannella per le alleanze elettorali, dove non conta nulla, sarebbe meglio avvicinarlo per queste partite, dov’è più credibile di altri. E anche se lui eviterà di crepare di sete noi rischiamo comunque di annegare in un mare di palta giudiziaria, con la somma ridicolaggine di un’indagine sulla violazione del segreto investigativo che s’è trasformata nell’inesauribile fontana di atti giudiziari offerti alla pubblica ricerca di qualcosa che somigli allo straccio di un reato. Pannella è matto, ma chi non capisce quanto convenga dargli spazio è scemo.

giovedì 23 giugno 2011

I batteri Gigi e Lele sono mortali. Marcello Veneziani

Non mi piace il magico mondo di Lele Mora e tutto quel circo di carne e va­nità che gli ruota intorno, fino ai poteri forti. Non mi piace la ragnatela di Gigi Bisignani e quell'intreccio di nomine e affari, cordate, gossip e poteri furbi. Mi sento estraneo ai due mondi più di un eschimese. Però non mi piace crimina­lizzare chi frequenta circhi e ragnatele, lobby e comitive gaudenti come se fosse­ro mafie e bande armate. Non mi piace mettere alla gogna chi ha avuto fugaci e occasionali rapporti telefonici o soltan­to ludico- pettegoli con i batteri Gigi e Le­le.

Non mi piace questo permanente giu­dizio universale, con sputtanamento e pena al seguito, questo vivavoce inces­sante di tutte le più stupide minchiate che si possono dire in una conversazio­ne privata. Non mi piace questa giusti­zia che lascia languire milioni di proces­si che toccano la gente comune e invece castiga lo star system per entrare anch' essa nel programma Saranno famosi , dalla porta dei divi. Non mi piace la ditta­tura della virtù, d'origine giacobina, la confusione tra penoso e penale, tra mal­costume e delitto, il finto stupore e la più finta indignazione per pratiche di mon­do, di sesso e di lobby che si fanno da quando esiste il potere e il sottopotere, la pancia e il sottopancia.

Non mi piace che i comitati d'affari gestiti dai partiti, dalle cooperative, dai sindacati siano be­naccetti e quelli a conduzione privata debbano passare per eversivi. Non mi piace che l'esibizione sessuale possa sfi­lare per strada ma non possa esercitarsi in certe case: preferisco che il porcume resti di nicchia, anziché popolare. Non mi piace che le mafie ideologiche, edito­riali e culturali, le cordate dello spettaco­lo, possano dominare nel Paese e mo­strarsi in pubblico e in video e invece le lobby altrui siano roba da crimini & mi­sfatti. Non mi piace che ci siano miliarda­ri di cui vergognarsi - per usare l'espres­sione veterostaliniana di Bersani - e mi­liardari (de)benedetti a cui chiedere di fare lobby e sistema tra giornali, tv, par­rocchie della sinistra.

Se il bipolarismo è tra Lele Mora/Bisi­gnani e costoro, lasciate che io santifichi i proletari, gli eremiti e gli sfigati. (il Giornale)

martedì 21 giugno 2011

Sono berlusconiano e ho qualcosa da dichiarare. Mario Sechi

Le forze della Buoncostume Progressista hanno fermato un mio amico e gli hanno chiesto: lei è mai stato berlusconiano? Quello li ha guardati, ha sorriso, è sceso dalla macchina impolverata e ha risposto: "Sì, sono berlusconiano e ho qualcosa da dichiarare". Presi in contropiede, gli agenti democratici si sono accigliati e hanno replicato con un sospettoso: "Prego, dica pure…". Ecco il verbale raccolto dagli intrepidi moralizzatori: "Sono stato berlusconiano e, confesso, lo sono ancora. Non mi sento affatto in colpa per questa mia scelta. Ho votato Forza Italia fin dal 1994, poi il Pdl e domani non voterò nessuno. Sono stato berlusconiano perché quando è caduta la Prima Repubblica non potevo pensare al paradosso storico dei post-comunisti che in Europa venivano sepolti dalle macerie del Muro di Berlino e da noi s'apprestavano a governare grazie alle inchieste della magistratura. Sì, lo ammetto, sono stato berlusconiano perché ho creduto nella rivoluzione reaganiana importata in Italia, perché non ne potevo più del consociativismo e pensavo che quel signore venuto da Arcore fosse qualcosa di diverso. Sono stato berlusconiano e non mi pento neanche un po' di questa disordinata avventura politica ed esistenziale. Perciò ho qualcosa da dichiarare: del berlusconismo non avete capito mai niente. Chi vota il Cavaliere non è lobotomizzato e non è antropologicamente inferiore. Anzi, ho il sospetto fondato di esser migliore dei miei amici di sinistra che sfilano con gli operai e fanno il week end a Capalbio. Non vi farò cambiare idea. Lo so. E capisco il vostro sguardo perplesso, i vostri dubbi sulla mia versione dei fatti. Ma fidatevi, ho letto anche io i testi della Scuola di Francoforte, perfino Marcuse, per non parlare di Gramsci che fin da piccolo ho divorato. Ero figlio di poveri, volevo capire dove stava l'ingiustizia che vedevo sotto i miei occhi. Poi sono cresciuto in maniera anarchica e oggi addirittura so di vini e riconosco certe marche di champagne. Però mi annoia delibare in maniera progressista. Ecco, proprio lo Slow Food non sono mai riuscito a comprenderlo del tutto. È un limite. Tuttavia ho una discreta praticaccia del belmondo dal quale provengono le vostre icone contemporanee. Saviano? Ah, sì, certo, dovrei rispondervi: be’, come scrittore non vale niente, non ho letto Proust perché mai dovrei leggere Saviano? Dite che questo aggrava la mia posizione? Be’, ma sono stato berlusconiano e dunque immagino di essere per voi irrecuperabile. Un campo di rieducazione progressista? No, dai, non fa per me. Tutto quel Zagrebelsky da leggere, non ce la posso fare. Confermo: ero un ribelle fin da piccolo, figuriamoci se funziona ora nella mia mezza età. Scalfari? Ovviamente lo ammiro, un grande imprenditore. Come? Sì lo so che è un giornalista, ma Eugenio per me è prima di tutto un uomo d'impresa, sapete come si apre (senza mai chiuderlo) un giornale? Bisogna essere intelligenti e tenaci. Non vi convinco? Non cito i suoi libri e dunque voglio solo sviarvi? Mi dispiace. Forse è perché sono berlusconiano. Sì, certo, che pago tutte le tasse, faccio parte del gruppetto di quelli che non riescono a comprarsi un appartamento in centro a Roma, non ha lo yacht e non possiede neppure un Suv, ma per il fisco è ricchissimo, insomma sono il fesso che paga le tasse per i furbi. Orgogliosamente prezzoliniano. E berlusconiano. La mia vita berlusconiana è stata più precaria di quella dei precari che sono in piazza, sono sempre stato imprenditore di me stesso. No, non salgo sui tetti come il vostro grande timoniere Bersani. Non ce la faccio, soffro di vertigini, mi sporco i vestiti, ho solo tre giacche tre per stagione e soprattutto non ho tempo: sapete, devo lavorare, dodici ore al giorno, partecipo attivamente alla creazione di una cosa chiamata Pil. Cos'è? No, nessuna associazione segreta, non so niente di P4, ma attendo con ansia la P5 e pure la P6. Il Pil, dicevo, è semplicemente quella ricchezza che volete redistribuire attraverso sussidi vari anche a chi non li merita. Sissignori, sono i miei soldi. Sono irrimediabilmente berlusconiano e continuo ad esserlo mentre Berlusconi si è dimenticato cosa significa. Io mi ricordo il popolo delle partite Iva, gli imprenditori e quella promessa: meno tasse per tutti. Come tutti i berlusconiani, sto ancora aspettando che questo e molto altro accada, anzi, vogliate correggere il verbale cari agenti, io in quel miracolo non ci spero più perché sono stato berlusconiano, lo sono ancora e Berlusconi non lo è più". (il Tempo)

Grecia fallita, ma sciopera. Salviamo i suoi salvatori. Nicola Porro

La crisi greca è tanto semplice quanto grave: il Paese è fallito. Tra luglio e agosto deve ripagare debiti per circa 13 miliardi di euro, ma non ha i soldi in cassa. Se l’Europa e il Fmi non le prestano i quattrini promessi salta il banco. E i creditori non si beccano un euro. La Grecia per il momento preferisce pagare gli stipendi, le pensioni ai suoi cittadini che pagare il debito (un greco su tre riceve il cedolino della paga dallo Stato). Ha ottenuto un prestito monstre da 110 miliardi di euro (ma diviso in più tranche) e ne vorrebbe uno aggiuntivo di importo superiore. È una macchina che fagocita quattrini. E non riesce a mettersi in sesto. Nei primi quattro mesi dell’anno i suoi ricavi (che sono fatti dalle tasse riscosse) sono scesi quasi del 10 per cento. In compenso le spese hanno continuato a correre come se nulla fosse: anzi sono aumentate del 4 per cento.

Ricapitoliamo. La Grecia non ha soldi in cassa per ripagare le prossime rate del mutuo e invece di fare economie, riducendo le spese e aumentando le entrate, si mette a ballare il sirtaki. Il punto dunque non è discutere se la Grecia sia fallita (lo è, basterebbe vedere quanto deve remunerare quei pazzi che oggi volessero comprare un suo titolo pubblico), ma stabilire perché non sia ancora saltato il banco.

E qui le cose si complicano. Il mutuo complessivo contratto dalla Grecia (il debito pubblico) vale 330 miliardi di euro. E secondo stime accreditate la metà è detenuto da banche europee. Andando un po’ più a fondo scopriamo che circa un terzo del debito totale, quasi cento miliardi di euro, sono in mano a banche francesi e tedesche. Quelle italiane hanno investito in titoli greci «solo» 3 miliardi di euro. Ordunque, se la Grecia dovesse fallire, dovesse cioè decidere di non pagare i suoi conti, i primi a portarsi a casa il buco sarebbero gli istituti creditizi francesi e tedeschi. A quel punto il fallimento farebbe decisamente male. Merkel e Sarkozy si troverebbero una bella grana in casa: dovrebbero salvare le proprie banche nazionali gravate da perdite su crediti di ingenti dimensioni. R&S di Mediobanca ha recentemente calcolato quanto valgono gli attivi delle prime due banche dei principali Paesi europei. Il risultato è da capogiro. Le prime due banche francesi valgono il doppio dell’intero Pil d’Oltralpe; in Germania gli attivi delle prime due star valgono più o meno tutto il Pil tedesco. Se una banca in questi Paesi ha un raffreddore, lo Stato rischia la polmonite.

Nelle ultime concitate ore non si sta discutendo il salvataggio della Grecia. E men che mai la morte dell’euro. Basti pensare che il Pil greco oggi pesa meno del 3 per cento di quello dell’intera Europa. Oggi è piuttosto in discussione, come sempre avviene nei fallimenti, il salvataggio dei creditori e cioè delle grandi banche europee che hanno prestato senza grandi indugi al malato di Atene.

Questa banale constatazione è molto chiara ai greci. Una parte dei politici ateniesi sa che il conto del fallimento potrebbe essere pagato dai contribuenti tedeschi e francesi costretti a ricapitalizzare le loro banche. È per questo che giocano con il fuoco: e non hanno la minima intenzione di adottare quelle misure da lacrime e sangue che si dovrebbero subito mettere in campo. Un buon motivo per affrontare la crisi greca, con i criteri di mercato e pretendere che l’azienda ateniese faccia pulizia al suo interno o altrimenti salti una volta per tutte. (il Giornale)

Referendum, finita l’euforia è svelato il bluff. Ecco la verità: l’acqua pubblica costerà di più. Laura Cesaretti

RomaPassata la sbornia di entusiasmo per la «spallata» affibbiata a Berlusconi con la vittoria referendaria, in casa Pd si iniziano a fare i conti con le conseguenze concrete della consultazione. E sull’acqua «bene pubblico» per gli amministratori locali del Pd son già dolori. Tanto che si vuol cercare una soluzione legislativa che rimetta ordine nel caos creato dai due quesiti idrici: «È necessario mettere riparo in fretta ai vuoti normativi che si sono aperti», dice Sergio D’Antoni, responsabile dell’organizzazione e delle politiche del Pd sul territorio. E per farlo, ammette, occorre trovare un’intesa con la maggioranza di centrodestra, senza i cui voti nessuna legge può passare. Dal Pdl però si reagisce con cautela: «Certo bisognerà trattare, ma come facciamo a fidarci di un Bersani che fino ad un anno fa propagandava le privatizzazioni dei servizi locali e poi si è buttato sul carro referendario?».

Per capire la portata del problema che ora si pone agli amministratori (e ai cittadini che aprono i rubinetti), si prenda il caso Hera, la holding bolognese quotata in Borsa che gestisce i servizi idrici, ambientali ed energetici in Emilia Romagna. Un colosso, il secondo gestore delle acque in Italia, e legato a doppio filo ai governi locali della regione più «rossa» d’Italia: per Hera, il referendum è stato un terremoto, e sono i cittadini che rischiano di pagarne il conto salato. Il 13 giugno la società ha annunciato che non firmerà più la convenzione con gli enti locali che prevedeva investimenti per 70 milioni di euro sulla rete idrica. In Borsa ha perso circa il 10 per cento del suo valore, bruciando circa 187 milioni di capitalizzazione: per il Comune di Bologna (appena riconquistato dal Pd), che ha il 13% delle quote, si tratta di una perdita secca di 25 milioni e mezzo; 35 i milioni persi dai comuni della provincia. Le conseguenze catastrofiche del sì ai due quesiti vengono spiegate, in una intervista al Corriere di Bologna, dall’assessore provinciale all’Ambiente della Provincia di Bologna, Emanuele Burgin, che non a caso era schierato per il no: «Serve una nuova legge nazionale, perché siamo in una situazione di stallo. Se a Bologna si fermano 70 milioni di investimenti, con tutte le conseguenze che si possono immaginare anche in termini economici e di occupazione, il dato nazionale è pari a 6 miliardi». Difficile però pensare che governo e Parlamento rispondano a questa esigenza in tempi brevi. Quindi? «Quindi — dice Burgin — non sappiamo come fare. I soldi per fare investimenti gli enti locali non li hanno. Rispettiamo la volontà espressa dal referendum, che ha abrogato una norma introdotta dal governo Prodi, ma bisogna dire con altrettanta onestà che il ricorso ai privati era l’unico modo per finanziare gli investimenti».

Erasmo D’Angelis, ex consigliere regionale toscano del Pd e oggi presidente di Publiacqua, la società idrica locale, solleva un altro problema potenzialmente esplosivo: «Da oggi, dopo l’abrogazione del 7%, che bollette mandiamo ai nostri cittadini? Formalmente dovrebbero valere le vecchie tariffe, ma mi aspetto che se non le riducessimo saremmo presto sommersi da una valanga di ricorsi dei consumatori». E infatti il Codacons già minaccia: «Le bollette devono scendere immediatamente del sette per cento. Siamo pronti ad una class action nel caso i gestori non applichino immediatamente l’esito referendario». Incalza De Angelis: «Dove li prendiamo adesso i soldi per le infrastrutture? Ce li daranno i sindaci? Publiacqua ha aperto un cantiere da 71 milioni di euro a Firenze, per dare una fogna a mezza città. In totale abbiamo programmato investimenti per 740 milioni nei prossimi dieci anni. Quelli di Milano mi hanno detto che loro hanno in cantiere opere per 800 milioni. Come facciamo? Tremonti ci mette a disposizione la Cassa depositi e prestiti per finanziarci?». (il Giornale)

lunedì 20 giugno 2011

Il chiodo e la P4. Davide Giacalone

Fra le cose bislacche di un’Italia abbandonatasi alla lussuria dell’autodissoluzione, vi sono anche i numerosi attesati di solidarietà a Gianni Letta. Un galantuomo, è vero. Ma se anche non lo fosse (e solo chi non lo conosce può supporlo), non per questo sarebbe meno inquietante che debba difendersi, e farsi difendere, dall’assunto d’essere nel mirino di procuratori i quali neanche lo indagano. Gli stessi indagati, del resto, non possono essere considerati colpevoli di ciò di cui sono accusati e, invece, passano già per condannati di ciò cui neppure il giudice delle indagini preliminari crede. Che possa, difatti, esistere una P4 senza che sussistano, neanche come mere ipotesi, i reati associativi è cosa potentemente ridicola. Ma anche potentemente pericolosa.

Letta non è solo un galantuomo, è uno dei pochissimi servitori dello Stato rimasti in circolazione, e, fra questi, forse l’unico in grado di mettere in relazione la forza elettorale (non sua), quindi il consenso popolare, con l’esercizio concreto del potere, quindi il necessario rispetto delle forme istituzionali. Provate a togliere questo chiodo e verrà giù l’edificio.

E veniamo all’esistenza di reti oscure che manovrerebbero la vita pubblica. La P2 era stata fondata un centinaio d’anni prima della nascita di Licio Gelli. Fu sciolta con una legge, voluta da Giovanni Spadolini. Provvide poi la cassazione a stabilire che l’essersi iscritti a quella loggia massonica non era un reato. Ciò non toglie che alcuni degli affiliati commisero reati, per i quali sono stati condannati. Nel luglio del 2010, un anno fa, i giornali informarono l’opinione pubblica, grazie alle carte di un’inchiesta penale, circa l’esistenza della P3: presunta associazione d’individui, coordinati da Flavio Carboni, che affiliando magistrati condizionava l’opera della giustizia italiana. Stiamo ancora aspettando che l’inchiesta si concluda. In compenso sappiamo che tutte le faccende su cui la P3 adoperò la sua potentissima influenza si sono risolte all’opposto di quel che gli associati desideravano. Una mandria di attempate teste di cavolo, che avevano deciso di farsi capitanare da un condannato il cui volto è automaticamente associabile a ogni forma d’intrallazzo. Non so se mettevano il cappuccio, comunque glielo suggerirei, se non altro per la vergogna di tanta dissennata dabbenaggine.

Anche la P4 avrebbe scelto un pregiudicato, Luigi Bisignani, per esercitare la sua segreta influenza. Si sarebbero dedicati alla violazione del segreto investigativo, che la riforma del 1989 sostituì al segreto istruttorio (vedo che diversi fanno ancora confusione, e non hanno torto, visto che quella norma non la rispettano neanche i magistrati). Per corroborare le accuse dei procuratori, cui, al momento, non crede nemmeno il giudice delle indagini preliminari (non ve lo avevano detto? così vanno le cose) i giornali pubblicano i verbali d’interrogatorio dei vari indagati e testimoni, senza far mancare le intercettazioni telefoniche raccolte nel corso d’indagini che sono ben lungi dall’essere concluse. Allora, di grazia, in che consiste il segreto?

Fatemi capire: se scrivo su questo giornale d’inchieste, rivelandone gli aspetti che qualcono (chissà chi) mi ha soffiato, sono coraggioso e aduso alle inchieste, se quelle medesime cose le dico riservatamente ad un conoscente, invece, sono un delinquente? La risposta positiva presuppone il manicomio, non il palazzo di giustizia.

Con ciò non sostengo, proprio per niente, che, escluse le inchieste, viviamo nel migliore dei mondi. I problemi sono tre: a. il mercato; b. i lobbisti; c. i magistrati che fanno politica. In un mercato in cui lo Stato occupa più della metà dello spazio, con una classe politica raccogliticcia, il normalissimo confronto e scontro degli interessi diventa inciucio e camarilla. Se non c’è un premio al merito lo si assegna a chi ha le conoscenze che funzionano.

Rappresentare gli interessi particolari è cosa buona e giusta. Pensare che abbiano titolo solo gli “interessi generali” è cosa fessa e ipocrita. Nelle democrazie sane il lobbismo è regolato per legge, da noi è bandito come fosse un peccato. Se tale attività fosse regolata nessuno si affiderebbe a chi è stato condannato per corruzione. Non essendolo, quella condanna funziona da utile referenza.

Gente come Papa non dovrebbe sedere in Parlamento, me neanche Narducci dovrebbe essere assessore a Napoli e De Magistris sindaco. Il che vale per decine d’altri magistrati, di destra e di sinistra, ma che la storia e il giustizialismo hanno accasato prevalentemente a sinistra. Tutti rampicanti come se l’articolo 98 della Costituzione non esistesse (i partiti li fondano, altro che iscriversi!).

Come non dovrebbero rimanere al loro posto procuratori che sbattono in prima pagina cittadini che non saranno condannati. Ha torto l’onorevole Maurizio Paniz, del Pdl, a sostenere che magistrati così dovrebbero andare al civile. Gli incapaci e gli esibizionisti vanno a casa, non a far danno altrove.

venerdì 17 giugno 2011

I Referenda della stupidità e dell'intelligenza. Aldo Reggiani

Nel commercio si usa dire che il cliente ha sempre ragione. Naturalmente fino a quando non ti mette a soqquadro e ti danneggia il negozio.

In teatro diciamo che il pubblico ha sempre ragione. Naturalmente fino a quando, come accade talvolta con lo studentame, fa un tale "rebelott" (in milanese "bordello") che non ti lascia recitare.

In una Democrazia si dice che il Popolo ha sempre ragione. Naturalmente fino a quando non compie azioni talmente stupide da mettere a repentaglio, come durante manifestazioni violente, il vivere civile.

Non a caso, infatti, uno studioso del Seicento, il Clapmarius, definisce un “Arcano del Potere”, quello che tiene insieme per secoli e millenni una Civiltà, come il «saper escogitar ragioni per le quali il popolo, affascinato, si astiene dall’uso delle armi».

Non fidandosi molto dell’equilibrio mentale degli italianuzzi, colpevoli ai loro occhi di aver molto apprezzato il Fascismo (con buona pace della favola metropolitana di un “Popolo di Partigiani”), i tanto sacralizzati (alla faccia del laicismo) Padri Costituenti, decisero di stendere una Costituzione (oggi anch’essa strumentalmente sacralizzata dalle laiche Sinistre, che nelle loro scuole di partito insegnavano che una Costituzione è solo una "sovrastruttura") in cui l’italico Popolobue, dichiarato in pompa magna come il vero detentore del potere, veniva di fatto defraudato del potere fondamentale di eleggere direttamente il Presidente della Repubblica e/o quello del Consiglio dei Ministri, come invece accade in Democrazie ben più antiche e collaudate della nostra.

Come ciliegina sulla torta, l’attuale Carta costituzionale, notoriamente discesa dal Cielo sul Monte Bianco, per la serie “ragazzino, fammi lavorare”, defraudava il succitato Popolobue Sovrano anche della possibilità di eleggere un qualsiasi pirlacchione al Parlamento, col vincolo che avrebbe esercitato la sua funzione di Parlamentare nella forza politica nella quale era stato eletto. Il Parlamentare italiano gode tuttora dell’assenza di “vincolo di mandato”, come si chiama tecnicamente, cosa che gli dà modo, all’occorrenza, di saltabeccare a piacimento e come gli garba da una parte all’altra. Come del resto ho già denunciato nell’articolo del 17 ottobre 2010: Italia: Res Publica o Monarchia?

Come contentino ad un Popolo non di cittadini bensì di sudditi di una Monarchia in cui la Camera bassa e la Camera alta eleggono un Re ogni sette anni, fu data la possibilità, per la serie che i ragazzini ogni tanto vanno lasciati sfogare, di Referenda e di proporre leggi di iniziativa popolare. Sai che lusso.

Referenda come quello sul divorzio furono epocali, ma solo perché in fondo non andavano ad intaccare i privilegi di Poteri Forti. Mentre quello sulla responsabilità civile degli italici Magistrati per i loro (numerosissimi e spesso gravissimi) errori, fu subitamente neutralizzato da apposita leggina.

Perché? Semplicemente perché andava a disturbare un vero Potere Forte, quello della Magistratura, a cui la nostra Santa Costituzione scesa dal Cielo, e quindi intoccabile quasi come il Corano, dava fin dall’inizio un enorme potere di interdizione sulla politica, come inutilmente si sgolò ad avvertire il povero Calamandrei. E di fatto, come prevedeva Calamandrei, attualmente viviamo ancora in una Monarchia Giudiziaria, nella quale una qualunque legge che non piace ai Magistrati, o ai loro serventi politici, viene tranquillamente abrogata da una Consulta che, lungi da esser un organo istituzionale “terzo”, è di fatto un organo politico.

Un quadro indubbiamente edificante.

Il fatto che i Sudditi di tal Monarchia Giudiziaria abbiano testé risposto in massa a quattro quesiti “sentimentali”, che abbiano partecipato con gran gusto a un reality show orchestrato da demagoghi, offre però una possibilità.

Non sono un costituzionalista. Però, come ben sanno tutti, anche coloro che fanno finta di niente, se il Belpaese non riforma dalle fondamenta anche e soprattutto costituzionali l’assetto della Giustizia italiana, portandola ad esser apolitica ed efficiente come le Magistrature inglesi, francesi, o tedesche, non si potranno mai avere un Governo e un Parlamento realmente indipendenti da essa e un’efficienza ed una celerità degne di una Democrazia moderna. Forse si potrebbe trovare il modo di coinvolgere in una specie di mobilitazione generale il sentimentale sudditame italiano sul tema della separazione delle carriere dei Magistrati, sulla loro (finalmente) effettiva responsabilità (come indicava lo stesso Popolobue già nel 1987), e il divieto ai Pm, in caso di assoluzione in primo grado, di perseguitare con altri gradi di giudizio per decenni un Cittadino, a meno che non si trovino tali prove provate a carico del Cittadino assolto, che a giudizio di un Giudice effettivamente terzo, possano indurlo a far riaprire la causa.

Sono certo che se si trovasse il modo di procedere in tal guisa, l’enorme numero di errori giudiziari e le lungaggini bibliche di cui la Giustizia Civile e Penale beneficia attualmente il Popolobue, con grave depressione per la tenuta sociale ed economica del Belpaese, indurrebbero almeno la popolazione attiva e produttiva ad una approvazione plebiscitaria della Riforma della Giustizia. (Legno storto)

Io, giornalista abusivo, difendo Sallusti. Mauro Mellini

Dunque Sallusti, direttore de "Il Giornale", è un giornalista riprovevole, da interdire, almeno (per ora) per due mesi, dal diritto di divulgare il proprio pensiero con la stampa e con altri mezzi di comunicazione, perché ha consentito, accettandone la collaborazione, che un altro giornalista, privato della "patente di esercizio" del diritto costituzionale di cui all'art. 21 della Costituzione, esercitasse il diritto stesso e lo aiutasse ad esercitarlo.

Il cittadino interdetto in perpetuo del diritto di scrivere e parlare è Renato Farina, condannato alla mordacchia (lo strumento che il boia applicava alla bocca degli eretici condannati al rogo perché non scandalizzassero i convenuti allo spettacolo pronunziando in extremis qualche frase blasfema) perché aveva collaborato con i servizi segreti. Mica quelli sovietici (ce ne saranno pure stati di giornalisti che osservavano il dovere di solidarietà con i compagni dell'Est!), collaborava con quelli italiani. Servizi che, fino a prova del contrario, non sono un'associazione a delinquere, ma un organismo dello Stato, della Repubblica Italiana.

Ma, il discorso è, per me, qui ed ora, un altro. Sono un giornalista abusivo. Abusivo se, come sembrerebbe, per fare il giornalista ci vuole patente, come per guidare l'auto (non ho neanche quella… e non perché me l'abbiano tolta perché, magari, avrei potuto collaborare con i servizi segreti, ma perché non l'ho mai avuta).

Però scrivo, scrivo sul bisettimanale internet Giustizia Giusta. Scrivo, per L'Opinione, scrivo, qualche volta, per Il Foglio. Scrivo anche molto, forse troppo. Ma per questo il rimedio c'è: mi leggono poco. Scrivo sempre (e sempre, ho scritto) gratuitamente, ma l'autolesionismo non è reato. Renato Farina, "ridotto allo stato laicale" (come dice la Chiesa dei preti colpiti da censure ecclesiastiche) è, né più né meno, un cittadino come me, che se scrive e si fa leggere, esercita un suo diritto costituzionale. Chi gli consente di esercitarlo compie dunque un delitto?

Sallusti si è valso della penna (o magari dell'aiuto alla penna sua o di altri suoi collaboratori) di questo cittadino senza patente per esercitare il diritto di cui all'art. 21 della Costituzione. Come Perricone, Diaconale, Ferrara si valgono, abitualmente il primo, saltuariamente gli altri due, della collaborazione di quest'altro sans papier che sono io.

Sospenderanno anche loro dall'iscrizione dei cittadini aventi diritto a pieno titolo (e non di straforo) ad avvalersi dell'art. 21 della Costituzione?

O forse questi tre, ottime persone, non giungono al grado di colpevolezza di Sallusti perché io non sono pagato e mai lo sono stato anche in passato mentre, forse, Renato Farina, oltre che dell'art. 21 della Costituzione, si sospetta usufruisse anche dell'art. 36 (quello della retribuzione del lavoratore?). Ma allora è forse, questa storia dell'Ordine dei Giornalisti, tutta una questione di denaro?

Probabilmente sì, o, forse, no. E' questione d'altro. Sallusti ha parlato, giustamente, di persecuzione. E' una parola che non vorremmo sentire. Ma se le considerazioni di questo giornalista abusivo che rivendica il diritto costituzionale per sé e per gli altri a tale abuso, non sono poi una totale sciocchezza, allora, signori miei, dobbiamo riflettere seriamente che non solo c'è un abuso in danno di Sallusti, ma l'Ordine dei Giornalisti è concepito, come lo concepì il fascismo, solo in funzione della possibilità, se non altro, di abusi del genere.
(da Giustizia Giusta)

Inchiestona senza gatto. Davide Giacalone

Inchiestona succosissima, quella gia conclusa sulle prime pagine dei giornali, tanto che le tappe successive le si percorrerà per puro amore dello sport. Dunque abbiamo la P4. Posto che la 2 non era un reato e la 3, che la gran parte del pubblico non saprebbe più a quale combriccola si riferiva, non aveva nulla di specificamente massonico. Siamo a corto di fantasia, anche per le denominazioni. Per la Spectre, forse, mancava il gatto.

Nella vita si devono cogliere gli aspetti comici, che tengo alto il morale. Mi par di capire che all’accusato si contesta la diffusione di notizie sulle inchieste giudiziarie in corso. E chi credeva d’essere? Un giornale, una televisione, una radio? Tutti possono pubblicare atti delle inchieste, ma gli indagati tacciano. Finirà che tutti possono dire la loro, in Tribunale, tranne gli imputati. Il loro difendersi sarà considerato un oltraggio ai cortigiani, vale a dire ai pubblicatori seriali delle veline di procura.

Fa meno ridere che si sia già individuato l’altolocato di riferimento, anch’egli trascinato nella condanna preventiva. Si potrebbe fare un bel referendum ed emettere sentenza con plebiscito.

Intendo, con questo, sostenere che sono tutti innocenti? No, perché solo la barbarie di questi tempi ha portato a confondere il garantismo con l’innocentismo e il credere nella giustizia con il colpevolismo. E’ questo il concime naturale che ha fertilizzato un terreno pericolossissimo, nel quale stiamo riprecipitando. Ammesso che se ne sia mai usciti.

Le persone civili sperano due cose: a. che l’indagine si concluda in fretta e che si giunga al processo, sicché gli innocenti siano scagionati e i colpevoli condannati; b. che ai primi si chieda scusa e che i secondi scontino la pena.

mercoledì 15 giugno 2011

Dai Silvio dimettiti, così se la fanno tutti sotto. Marcello Veneziani

Sono stato a Palazzo Grazioli e ho det­to al padrone di casa che a questo punto c’è solo una cosa da fare: si dimet­ta. Subito, in fretta. È l’unica cosa che davvero getterebbe nel panico un po’ tutti, dopo una settimana di baccanali per festeggiare l’evento gioioso. Lo ha capito bene il rude Tonino, scarpa gros­sa cervello fino, che teme le dimissioni delCavaliere come la peste. Ma l’avran­no capito pure loro, le sinistre, i Tre Tre del Terzo polo, la Confindustria, la stes­sa Lega irrequieta, l’ufficio stampa e pro­paganda del Potere.

Dove vanno se lui se ne va a casa? Da dove ripartono, intor­no a cosa si uniscono, come fanno au­dience? Sì, magari chiederebbero un go­verno ponte nello stesso centrodestra per prender tempo. E poi, Celentano premier? Intanto farebbero i carri alle­gorici come l’europride, Bersani si senti­rebbe Lady Gaga per una sera, la gente direbbe ma che forte Lenin Gargamella, gli ha intimato di andarsene e lui se n’è andato. Vendola, su vertiginosi tacchi a spillo ne farebbe sul podio la narrazio­ne, lacrime di gioia del piccolo Walteri­no risalito dal pozzo, Fini per una sera smetterebbe di sentirsi un vuoto a per­dere. Sarebbe un tripudio di piazza, di stampa e di audience. Ma poi comince­rebbero a piangere e a maledire il gior­no in cui l’odioso tiranno ha fatto le vali­gie. Perché a quel punto, nei suoi panni, l’ho detto a Palazzo Grazioli, io me ne andrei non per finta ma sul serio. Spari­rei, andrei lontano.

Chi dice che non se ne va perché deve tutelare i suoi interes­si e difendersi dai processi, dice un’astu­ta sciocchezza, perché ormai si è capito che la sua situazione si aggrava se resta lì al governo. Se va via, magari, si disin­nesca o perlomeno si depotenzia la cac­cia. Dopo un biennio fuori rischierebbe perfino di essere reclamato di nuovo sul­la scena e non solo dai suoi. Io l’ho detto a Palazzo Grazioli, già prima dell’esito referendario.L’ho detto a cena al padro­ne di casa, ospite gentile e principe di­screto, Lallo Caravita di Sirignano (la mamma è una Grazioli, da cui il nome del Palazzo), che abita al piano di sopra del Cavaliere. Spero che l’inquilino di sotto abbia origliato. (il Giornale)

martedì 14 giugno 2011

Toh, la sinistra ha imparato la lezione di populismo. Marcello Veneziani

Dopo una vita passata a condannare il populismo di Berlusconi ora saluta­no euforici la vittoria del populismo refe­rendario. Non solo l'arma del referen­dum in sé è inevitabilmente populista ma gli argomenti usati in favore del referen­dum sono stati schiettamente populisti: quando si chiede alla gente di votare per l'acqua di tutti contro l'acqua ai privati, quando si chiede se preferiscono l'ener­gia pulita o le scorie nucleari sull'onda di quel che è successo in Giappone, o anco­ra quando chiedono se la legge debba es­sere o no uguale per tutti, è normale che la reazione della gente sia di votare in quel modo.

Quando si semplifica in quel mo­do brutale e anche demagogico, quando si agitano le paure e i bisogni elementari, le reazioni popolari sono quelle. Dunque un voto populista, emotivo e contro la politica. Ma da rispettare. Per­ché il popolo è sovrano comunque, per­ché il populismo è una delle forme vigen­ti della politica, è una scorciatoia a cui fan­no ricorso un po' tutti. E se non ci ha scan­dalizzato finora il populismo berlusco­niano, la democrazia dei sondaggi e la sua legittimazione popolare - il popolo è con me- non può ora indignare il populi­smo opposto. Questa è la democrazia, prendere o lasciare. Non mi attaccherei nemmeno alla mobilitazione massiccia e unilaterale a favore dei referendum di istituzioni, media, poteri, partiti, comici e cantanti, associazioni, piazzate e roba varia, che pure denunciammo.

Ci sarà stata manipolazione del consenso, ci sa­ranno stati imprenditori della paura, ma tutto è avvenuto nel quadro della demo­crazia. Dunque questo referendum che abbiamo apertamente avversato, va ri­spettato nel suo esito. Ma non ne discen­de la caduta del governo e il ritorno del paese allo stato di natura. Anzi mai come ora il governo deve cercare di finire in bel­lezza la legislatura alzando il tiro delle re­alizzazioni vere e urgenti. Alle opposizio­ni invece vorrei dire: ragazzi, non vi illu­dete, ieri come alle amministrative, ha vinto l'antipolitica, suona l'allarme an­che per voi. Non penserete davvero che la gente si sia bevuta l'immagine che Ber­sani e Di Pietro siano Uliveto e Rocchetta, le acque della salute... (il Giornale)

domenica 12 giugno 2011

Mal di quorum. Davide Giacalone

Il raggiungimento del quorum nuoce gravemente alla salute di una sinistra che voglia candidarsi a governare, e non solo a vincere le elezioni. Lo sa benissimo anche Matteo Renzi che (come me) dice di votare No perché gli sembra brutto (come a me) invitare alla diserzione. Ma non votare è l’unico modo esistente per evitare un autentico disastro. La non-politica, che è quasi peggio dell’anti-politica, ci consegna un appuntamento referendario senza possibili sbocchi positivi.

Anche le prediche dal pulpito, non a caso apprezzate dalla sinistra nemica del mercato, segnalano il precipizio antimoderno nel quale stiamo precipitando. Già che ci si trovava, Benedetto XVI, oltre a chiedere energia pulita e senza rischi poteva anche reclamarla abbondante e senza costi. Tanto, sempre di miracoli si tratta, visto che non esiste una sola fonte al mondo che risponda alle prescrizioni vaticane. In quanto all’acqua hanno ragione le gerarchie a considerarla un bene pubblico e prezioso, ma la si paga, mentre il Vaticano la usa gratis, grazie al concordato del 1929 (quando l’Acea entrò in Borsa comparvero i nomi dei debitori, il primo dei quali era il Vaticano, che si ostinò a non pagare, lasciando il conto allo Stato italiano).

I referendum, purtroppo, sono un miracolo al contrario, un punto di regressione, uno scivolamento nell’irrazionale. Quindi nel pericoloso. Le elezioni amministrative hanno sconfitto il bipolarismo, i referendum di domenica prossima serviranno a dimostrare l’inutilità delle forze politiche che occupano la scena. Non s’è trattato di un rifiuto del sistema bipolare in sé, ma di una severa punizione al modo in cui è stato realizzato e ai partiti che pretendono di guidarlo. I referendum segnalano un esito più grave: l’oscillare del pendolo fra la viltà e l’inaffidabilità.

Tutti i protagonisti del bipolarismo, buona parte del Pd compresa (i sindaci del nord, i Chiamparino, i Renzi, la componente ex democristiana alla Marini, gli ex miglioristi, gli stessi dalemiani), sperano che non ci sia il quorum. Tutti i profittatori del bipolarismo, ovvero le forze che lo rodono dall’interno, le minoranze che ricattano le maggioranze, sperano che il quorum ci sia e che la valanga di Sì certifichi la totale ingovernabilità dell’Italia. I due partiti più consistenti, il Pdl e il Pd, sono rosi dalla paura di dire quel che pensano e dalla furbata di dire il contrario, per cavalcare l’onda. Al Pdl sono pronti ad accendere un cero se la mancanza di votanti eviterà alla sinistra di cantare vittoria, e al Pd (almeno quanti considerano un incubo finire prigionieri del dipietrismo, del grillismo e del vendolismo) sono pronti ad andare in pellegrinaggio se la pigrizia civile li aiuterà a non dovere spiegare per quale cavolo di motivo si sono schierati con il medioevalismo superstizioso, nemico del mercato e della ricchezza. Azzoppare Berlusconi vale il prezzo di spezzare le gambe all’Italia e rimangiarsi le proprie stesse idee? In caso di vittoria si consoliderebbe la posizione di Bersani, salvo chiudere l’intero Pd dentro la prigione del massimalismo demenziale. Consegnando la chiave agli alleati, fra i quali c’è chi è aduso a tale costume.

Delle materie specifiche, intanto pochi si curano. Dimostrandosi fondato il peggiore degli incubi: questo è un Paese di vecchi egoisti, che non credono in nessun cambiamento ma s’attaccano ad ogni privilegio, compreso quello di far scelte irrazionali. Del futuro, del mercato, dei giovani poco gliene cale. Per non dire niente.

Affinché la lezione non sia solo e del tutto negativa, quest’orrida scena dovrebbe suggerire di aggiornare l’istituto referendario. Sono molti anni che gli italiani lo snobbano, anche perché se ne è abusato e perché li si prende in giro: votammo per la responsabilità civile dei magistrati, contro il finanziamento pubblico dei partiti e così via, salvo il fatto che il legislatore sistemò le cose e non cambiò nulla. Due cose, allora, andrebbero fatte: rendere più difficile la convocazione di un referendum, alzando il numero delle firme necessarie, e introdurre quello propositivo, come già alcuni volevano fare alla Costituente. Si otterrà, almeno, il risultato di costringere i promotori a far lo sforzo di spiegare quel che vogliono, impedendo loro di campare di rendita in un Paese e in una politica in cui si è sempre pronti a bloccare tutto, pur di non fare i conti con la realtà.

sabato 11 giugno 2011

Per fermare i poteri forti non andiamo alle urne. Marcello Veneziani

Annusato il vento, il Potere è sceso compatto a sostenere i referendum, annunciando che andrà a votare, così vincono i sì. Perché si sa che a votare compatti vanno quelli che votano sì. I contrari non sono così scemi da votare no, aiutando i sì a raggiungere il quorum. Non ci vanno. I referendum ormai da anni vivono di questa asimmetria, non fate i furbi consigliando di andare a votare no. I Poteri suddetti passano dal Quirinale, la Corte Costituzionale, i grandi gruppi editorialile alleanze finanziarie che li sostengono, fino a ieri favorevoli alle liberalizzazioni e al nucleare. Più i comici e i cantanti. Infine si è accodato al fronte idraulico il subacqueo Fini, riemerso a pelo d’acqua appena ha saputo che si può nuocere a Berlusconi. Il Potere si allinea alla sinistra e si fa perfino ecologista pur di dare una spallata al governo. I miei figli trasportati dall’idealismo idrico votano sì. Su altri versanti i ragazzi di Casa Pound votano sì contro «le mani sporche dei privati». Dietro i puri sognatori di chiare fresche e statali acque, ci sono gli avvelenatori dei pozzi. I puri pensano di votare contro i pescecani e invece i pescecani votano come loro e usano il loro voto.

Così ci hanno servito il referendum all’acqua pazza. Un referendum idrocefalo ed emozionale. Deploravano il populismo demagogico del Cavaliere; ma questa sinistra acquatica, sostenuta dal Potere, è più demagogica di lui. Imbonitori d’acqua dolce, fino a ieri erano d’opinione opposta. Bersani beveva frizzante e privato, ora è apostolo dell’acqua naturale. Per Repubblica, ora il voto emozionale è bello, scrive la Spinelli. Buonanotte Lumi e voto secondo ragione. Il referendum è incentrato su un fiume di equivoci. L’invocazione di facciata è sacrosanta: giù le mani dall’acqua, bene primario di tutti e per tutti. Sora Acqua utìle et umìle. Giusto, benedetto, francescano. Poi ci pensi un attimo e dici: ma scusate, al di là dell’acqua delle fontanelle, quella che ci arriva a casa la paghiamo sì o no? E l’acqua che beviamo non ce la forniscono a pagamento i privati, in vetro o in pvc? Non è quello lo scandalo, che un bene primario abbiamo finito per pagarlo, anche quando è liscia e naturale, perché non ci fidiamo di quella erogata dagli acquedotti pubblici? E le aziende che gestiscono oggi acquedotti, falde, fogne e liquami vari non sono società per azioni, e gli azionisti non sono privati, magari anche stranieri? E allora contro che votiamo? Preferisco uno Stato che non gestisce un tubo ma impone ai gestori l’interesse pubblico. Perciò questo referendum è un buco nell’acqua. E poi, le liberalizzazioni e le privatizzazioni, non le avevano fatte i governi di centro-sinistra, anche regionali e non le sostenevano i corrieroni e le repubblicone? E negli acquedotti pubblici quanti sprechi, disservizi, tangenti e clientelismi, più racket degli invasi e mafia delle cisterne? Longanesi già negli anni ’50 diceva che l’Acquedotto pugliese dà più da mangiare che da bere. Ma poi l’acqua resta demanio pubblico, nessuno la privatizza. Cos’è allora questa idrofobia? In realtà sperano nell’acqua alta per annegare il piccolo Silvio e il suo governo.

Per questo io non la faccio complicata e dico: non vado a votare e spero che sia la maggioranza a non andarci, così salta il quorum. Anche il quesito sull’energia nucleare non mi persuade perché non ci fa uscire dal rischio nucleare ma ci rende più servi di chi la produce, dei Paesi che forniscono petrolio e gas, di petrolieri e lobby dell’energia alternativa. E il quesito sul legittimo impedimento mi pare una bufala, perché sono i giudici a decidere se riconoscere o meno il legittimo impedimento. Che poi non significa fermare i processi ma consente solo di rinviare un’udienza per impegni di governo. E allora? Al diavolo il referendum, viva il sole; preferite l’acqua salata ai piranha d’acqua dolce. (il Giornale)

martedì 7 giugno 2011

Telecombattenti. Davide Giacalone

Nei palinsesti futuri della Rai, così come disegnati dal direttore generale, Lorenza Lei, non si trova nessuna trasmissione di Michele Santoro. Chi, per questo, griderà alla censura sarà ottuso tanto quanto chi inneggerà alla liberazione. Entrambe queste reazioni, oltre ad essere prive di senso, dimostrano di avere assorbito l’incantesimo di cui è stato capace Santoro: farsi credere unica voce sana in un mondo privo di libertà e colmo d’asserviti al potere. Ci vuole la fantasia allucinata dei gruppettari d’un tempo, per abboccare ad una simile fandonia.

In realtà è la Rai a portare audience a trasmissioni come Annozero, le quali non portano, nella dovuta proporzione, quattrini alla Rai. E’ stata la Rai a donare il sangue a Santoro, non certo quest’ultimo a rivitalizzare le esangui casse della televisione statale. Il perché di ciò non è difficile da capirsi: è la Rai, con il suo ruolo di concessionaria pubblica, a dare valore alle trasmissioni d’informazione, ed è la Rai, con il suo scarso affollamento pubblicitario, essendo finanziata per la metà con una tassa (odiosa e ingiusta), a non costringere questo genere di conduttori a dovere accettare le regole del mercato. E’ vero quel che dice Santoro, circa gli alti indici d’ascolto. Ma quel tipo di numeri ha un senso se si porta dietro gettito pubblicitario, altrimenti sono mera muscolarità dell’etere. Adunate da Piazza Venezia al plasma.

Il primo a sapere bene queste cose è proprio Santoro e per questo aveva accettato, appena un anno fa, di far le valigie. Dopo averle riempite di soldi. Quando lui stesso si misurò con le regole e i tempi della televisione commerciale, ideando trasmissioni come Moby Dick, in Mediaset, ha rimediato sonore sconfitte. Non era cambiato Santoro, che resta un maestro d’egocentrismo e istrionismo televisivo, era cambiato il rapporto: Mediaset non gli portava audience, ma si aspettava che fosse lui a farlo. Stanno ancora aspettando. La lezione fu importante e lui seppe capirla. Sono gli altri che non capiscono, ostinandosi a combattere in una trincea arretrata. Fu allora che l’uomo proveniente dalla sinistra maoista, reso famoso dalla pessima stagione del giustizialismo forcaiolo e del qualunquismo antipartitico, decise d’abbracciare l’ulivismo prodiano e farsi eleggere al Parlamento Europeo. Mossa furbissima, perché gli permise di dare in fretta le dimissioni da quel seggio (del resto poco frequentato) e di farlo in polemica con le regole relative all’apparizione televisiva di coloro che fanno politica. Se ne sono dimenticati quasi tutti, ma ne conserva buona memoria l’interessato. Si riverginò nella polemica con quelle regole e rompendo a sinistra, il tutto grazie a un signore che spadroneggiava con monologhi lunghissimi, in una trasmissione che parlava seriamente di Rockpolitik: Adriano Celentano. Quando si dice la gratitudine: Santoro chiude la sua stagione in Rai tornando a dare la parola a Celentano, che fa liberamente campagna referendaria senza rispondere a nessuna regola. Del resto, non era proprio contro le regole dell’equilibrio che si erano, assieme, battuti?

Inevitabile parlare di Santoro, ma la vera protagonista della decisione è la direttrice generale. Mi sbaglierò, ma credo che ella abbia trovato un’interessante chiave per ridare fiato ai conti della Rai: disarmando le trasmissioni politicizzate, i cui costi sono alti, e riuscendo a farlo (a quel che sembra) senza pagare i dobloni che il suo predecessore era pronto a scucire, la Lei toglie attenzione e significato politico alla determinazione dei palinsesti. Certo, resta tutto il vasto capitolo delle spese allegre e delle produzioni agli amici degli amici, ma voglio vederti a difendere questo genere d’affari se viene meno la motivazione ideale della resistenza contro il tiranno. Ho l’impressione che se potesse chiudere anche i telegiornali, sostituendoli con le informazioni su quel che avviene, non esiterebbe.

La Lei può imboccare la strada del disarmo (politico) unilaterale perché il principale concorrente, Mediaset, non ha nulla di lontanamente paragonabile alle trasmissioni tipo Annozero o Ballarò. Semmai qualche pallida imitazione, qualche contenitore che gareggia in faziosità senza competere in ascolti. Il che è inevitabile, come la passata esperienza di Santoro a Italia 1 dimostra. Solo che la Lei ne approfitta, liberandosi di pesi e costi. Forse farebbe bene ad approfittarne anche Mediaset.

I telecombattenti andranno a La7? Può darsi, perché quando si è bravi si trova sempre un illuso disposto a darti soldi (non propri, perché in quel caso si trovano interlocutori piuttosto attenti). Ma in nessun luogo televisivo potrà mai ricrearsi quel rapporto possibile solo in Rai. Il che, non mi si fraintenda, non significa che creda indispensabile la sua presenza nel mercato, ma, al contrario, che la sua sola esistenza distorce totalmente il mercato. Prima o dopo si tornerà a parlare di cose serie, accorgendosi che non serve una roba denominata “servizio pubblico”. Senza neanche esserlo.

Quaranta: Corte che parla. Davide Giacalone

La Corte costituzionale ha un nuovo presidente, Alfonso Quaranta, non scelto per anzianità. La nostra lunga, e per vasti tratti solitaria, battaglia ha avuto successo. L’abbiamo condotta, come capita ai fessi, per ragioni di principio. Non ci siamo rassegnati a vedere calpestata la Costituzione. Che va cambiata, ma anche rispettata. Fino ad oggi ci avevano dato tutti torto, avendo dalla nostra parte solo il buon senso e l’onestà intellettuale. Ci rimproveravano quelli che, dall’alto di cattedre nane, sostenevano inesistenti o insignificanti le parole scritte nella Costituzione, come anche quelli che vedevano l’evidenza della nostra ragione, ma contestavano l’opportunità di esporla e la pretesa di farla valere, quasi ci fossimo prestati ad una condotta sconveniente. Ma non eravamo noi ad esserci messi le dita nel naso, durante un pranzo di gala, erano gli altri.

Non facciamoci troppe illusioni, però, e fissiamo alcuni paletti, in modo da evitare futuri scivolamenti all’indietro. Il posto di presidente sarebbe “toccato” a Paolo Maddalena, il più anziano di nomina, che decade nella seconda metà di luglio. I giornali hanno scritto che questa candidatura non s’è posta perché l’interessato ha inviato, ai colleghi, una lettera di diniego. Non è così: Maddalena avrebbe voluto fare il presidente, sebbene per pochi giorni, come altri prima di lui, ma non c’erano i numeri. Già la volta scorsa, quando era stato eletto Ugo De Siervo, Quaranta aveva preso appena un voto meno di lui. Posto che adesso De Siervo non vota, perché decaduto, e posto che non è ancora stato sostituito, ne sarebbe derivato uno stallo. Il secondo in graduatoria, in ordine d’incostituzionale anzianità di servizio, era Alfio Finocchiaro, destinato a decadere i primi di dicembre. Ciò ha creato un’opportunità: da una parte i numeri non cambiavano, dall’altra saltare anche Finocchiaro, considerato più vicino al centro destra, consentiva di dimostrare che non si trattava di una manovra contro Maddalena e, inoltre, un certo equilibrio politico. Questa è la via che ha condotto a Quaranta.

Via non esattamente retta, come vedete. Non c’è nulla di male, anzi è del tutto normale, che i giudici costituzionali possano dividersi, sia nelle decisioni che nelle designazioni, confrontando non solo scienza giuridica, ma anche sensibilità personale e diverse scale di valori, non è bene, invece, che quelle discussioni siano così vincolate all’attualità politica. E’ normale, specie per i giudici di nomina parlamentare (ma anche per gli altri), che si possa consideratali più o meno vicini a questa o quella politica, non lo è che da questo si faccia discendere il loro voto. C’è da dire che ciò vive più sui giornali e nella polemica politica che non nella realtà della Corte.

A tal proposito, e per evitare equivoci, sottolineo che non c’è nessuna relazione fra la nomina di Quaranta e il ricorso, presentato dal governo, contro il referendum sul nucleare. Il presidente ha solo poteri organizzativi, che possono essere rilevanti ma, certo, non in questo caso visto che è ovvio il ricorso sia discusso immediatamente, dato che il voto è previsto per domenica prossima. Anzi, visto che il neo presidente era stato considerato vicino al centro destra, questi ha subito sentito il bisogno di annunciare, e con questo ipotecare, la futura decisione collegiale circa l’ammissione del ricorso: sarà respinto. Non solo non c’era alcun bisogno funzionale che il presidente si soffermasse pubblicamente su una decisione da prendere, facendolo, del resto, ha depotenziato l’autonomia dei colleghi, ma ha sentito il bisogno di quelle parole come a dire: guardate che sono autonomo. E non è un bello spettacolo, perché le guarentige della carica dovrebbero affrancare da certe necessità. In ogni caso, e ove ve ne sia bisogno, questo è un ulteriore sintomo della debolezza politica del governo.

Neanche Quaranta durerà in carica tre anni, come vuole la Costituzione. Visto l’andazzo, comunque, la sua sarà una presidenza lunga. Si approfitti di questo tempo per spazzare via, una volta per tutte, il malcostume delle presidenze stagionali, ribadendo la lettera e lo spirito del dettato costituzionale. Sarebbe un buon servizio, reso dai quei giudici alle istituzioni e a se stessi.

mercoledì 1 giugno 2011

Fini e Casini esultano. Ma perché i perdenti adesso fanno festa? Giancarlo Perna

E ora si affacciano pure gli imbucati ai festeggiamenti post elettorali. A vincere a Mi­lano e Napoli - lo dico per pro­memoria - sono state la sinistra dura di Pisapia e quella giustizialista di De Magistris. Ma vedo che si eccitano an­che una quantità di tamarri che, stando ai numeri, dovreb­bero essere in rianimazione. Che ci fanno tra i giubilanti il trio del Terzo polo, Udc-Fli-Api, e i loro baldi condottieri Casini, Fini, Rutelli? E l’eufori­co Bersani che sul palco al Pan­theon si sbraccia per Romano Prodi e gli offre il Quirinale, mentre non sa se domani sarà ancora in sella? Sembrano quei diciottenni con i brufoli che nessuno si fila ma vanno egualmente alla festa, a costo di fare da tappezzeria. Cominciamo dal trio centrista che dal doppio turno delle amministrative esce più sconfitto dello strabattuto centrodestra. I tre insieme sono più deboli di quanto fosse l’Udc da sola e si attestano sul cinque per cento. Irrisori a Torino, Bologna, Milano, hanno fatto un po’ meglio a Napoli, grazie al capolista Raimondo Pasquino, un signore che si definisce demitiano, ossia un reperto storico. Questo al primo turno. Al secondo, quello dei ballottaggi, hanno deciso di non dare indicazioni di voto ai propri striminziti elettori. Ohibò e perché?, chiederete voi. Risposta. Da un lato, perché sono dei pesci in barile per natura. Dall’altro, per riaffermare il chiodo fisso: siamo contro il bipolarismo, non siamo né di destra né di sinistra, siamo i calmi, siamo i buoni e lasciamo liberi gli elettori. In realtà, visti i drammatici risultati della tornata del 14 maggio, hanno semplicemente evitato di farsi contare. Pura tattica per nascondere che il loro apporto - per la vittoria o la sconfitta - sarebbe stato nullo. Adesso invece questi tre impudenti, che si erano rifugiati impauriti nel mutismo, rovesciano la frittata e si presentano al festino come se fossero stati indispensabili per i trionfi di Pisapia e De Magistris.

Il più impudico, al solito, è Gianfranco Fini che per sfacciataggine è imbattibile. Chiuse le urne, Gianfry - che è ancora presidente della Camera (lo ricordo, perché a nessuno viene più in mente)- ha telefonato a De Magistris per ricordargli il «prezioso» contributo suo e dei suoi alla vittoria. Gli ha detto. «Spero di vederti presto. Nel frattempo però rammenta che il nostro capo-lista ( il succitato reperto demitiano, prof. Pasquino, ndr ) si è dato da fare per te nel ballottaggio », ergo trovagli un posto e vedi di esserci grati. Ecco: questo intendo per imbucati. Tralasciamo l’inverecondia personale dell’ex leader di An, ma né lui né i suoi due sodali del Terzo polo- Pierferdy Casini e Cicciobello Rutelli - hanno ufficialmente mosso un dito per l’ex pm, eppure presentano egualmente la cambiale all’incasso. Inutile dire che è una truffa, poiché il loro presunto apporto non è minimamente verificabile. Per quanto se ne sa, gli elettori del trio, lasciati a se stessi, potrebbero essere rimasti tutti a casa.

Cosa peraltro probabile dato che a Napoli circa metà degli aventi diritto, disgustata da lustri di democristiancomunismo bassoliniervolinesco, ha disertato i seggi. Da Fini ci si deve ormai aspettare di tutto. Al momento, è su di giri perché il Cav, l’arcinemico, ha preso una scoppola grossa come il cenotafio di Arcore. «Il berlusconismo è archiviato », ha gongolato a caldo. Vero o no,è l’unico motivo della sua gioia. Altri non ne ha. I voti del suo Fli - il partito che condivide con le tre Grazie, Bocchino, Granata e Briguglio - si sono attestati sull’uno e rotti per cento. Una percentuale da lista civica di pescatori di telline a Borca di Cadore. Se non lo trattenesse l’odio per il Cav, Gianfry dovrebbe emigrare a Montecarlo. Pensate che An, la sua ex compagine fiorita all’ombra del berlusconismo, nelle ultime elezioni in cui si presentò, quelle del 2006, raccolse oltre il 12 per cento dei suffragi. E anche dopo la fusione nel Pdl, An e Fi uniti ebbero più voti di quanti non ne avessero separatamente. Ora, invece, dopo essersi fatto comandare a bacchetta da un livore da pastore anatolico (categoria nota per le faide), Fini è diventato un’entità politica pari a Turigliatto. Ma non ci bada, perché gli basta che pure il Berlusca sia in disgrazia, anche se la disgrazia del Berlusca veleggia- presumiamo, in attesa di calcoli - sul 25-30 per cento. Perciò, avvolto dai fumi di un’infantile euforia, si è spudoratamente vantato: «Io ho fatto tutto quello che potevo fare per fare finire il governo». È l’ammissione di come ha ridotto la «neutrale» presidenza della Camera: un’occulta casamatta da cui tramare contro l’istituzione Palazzo Chigi. Nutriamo speranza che Napolitano trovi uno spiraglio, tra le esternazioni di pranzo e quelle di cena, di spiegare a Gianfry la differenza tra la penisola italiana e l’atollo della Spectre.

Ci sono poi i residui centristi. Una sottospecie di tre cartista politico alla Fini, è il ventriloquo di Casini, Lorenzo Cesa, che ha venduto la stessa fuffa: «Siamo stati determinanti ai ballottaggi». Il giorno che lo dimostri, Lorenzo, il Giornale ti offre cena. Gli altri perdenti del Terzo polo - che so, Rutelli, Tabacci, Bocchino ecc. - tacciono sulla propria catalessi. Manifestano però illimitata contentezza per la sconfitta dell’orrido facocero arcoriano e la fine del berlusconismo. Antevedono l’inizio di un nuovo mondo, senza però- ahi loro- chiedersi se ne faranno parte. Una prece. Due parole per concludere su Bersani e il Pd. Si sentono vincitori e non hanno vinto niente. Dopo venti anni di danni, hanno perso Napoli. Il loro candidato è stato espulso al primo turno. Al secondo, senza essere invitati, si sono uniti al banchetto di De Magistris, infilandosi tra le gambe dei commensali come cagnetti a caccia di briciole. A Milano, hanno dovuto inghiottire Pisapia al posto del loro candidato Boeri e inchinarsi alla supremazia della sinistra vendoliana ( contro la quale il Pd era nato tre anni fa). Ambivano allearsi col centro, ma è crollato. Adesso sono a rimorchio della sinistra che detta le condizioni. Sognavano di essere le mosche cocchiere. Si sono risvegliati con un pugno di mosche. (il Giornale)