lunedì 30 giugno 2008

L'Italia s'è desta. Carlo Cerofolini

«Fratelli d'Italia, l'Italia s'è desta....». Queste sono le parole con cui inizia l'Inno Nazionale e questa è la «filosofia» che porta, finalmente, avanti il Governo Berlusconi anche per quanto riguarda i temi energetico-ambientali, con il Ministro delle Attività Produttive Claudio Scajola e con il Ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo. Il primo, infatti, ha rilanciato alla grande il nucleare attualmente possibile, cioè quello di terza generazione, per produrre elettricità (ma anche idrogeno), in modo da avere, quanto prima, energia a basso costo, disponibile e poco inquinante e così pure liberarci dai «ricatti» energetici dei signori del gas e del petrolio e dal costo sempre più esoso di questi combustibili. La seconda, dicendo a chiare lettere in sede Ue che il taglio di emissioni dei cosiddetti gas serra che deve fare l'Italia rispetto al 1990, in base sia al protocollo di Kyoto nel periodo 2008-2012 (siamo fuori del 19%), sia al traguardo Ue al 2020 di meno il 20% (già ora lo si supera del 33%), è per noi ingiusto e pure iugulatorio e quindi va ridiscusso. Ingiusto perché avendo - a differenza di altre Nazioni - già da lustri in uso centrali termoelettriche moderne ad alto rendimento ed alimentate soprattutto con combustibile «pulito», quale il gas metano, e senza nucleare, abbiamo poco margine di miglioramento in tema di riduzione di emissioni, senza poi considerare il fatto che in Europa siamo quelli che rispetto a molti altri Paesi a noi comparabili, consumiamo pure meno energia (già ora un italiano ha un consumo primario di energia di -11% rispetto ad uno spagnolo, -24% rispetto ad un inglese, -39% rispetto ad un francese e - 64% rispetto ad un tedesco). Iugulatorio, in quanto, stando così le cose, ci dovremmo nell'immediato «svenare» sia per comprare sul mercato diritti d'emissione sia ricorrere alle iper costose e scarsamente efficienti ed efficaci energie rinnovabili, soprattutto eolico e fotovoltaico, per poi comunque dover pagare ecomulte multimiliardarie, come già stiamo facendo, per l'oggettiva impossibilità di rispettare detti limiti nei tempi previsti. Il che - specie con l'aria di stagnazione che aleggia, con l'esplosione dei prezzi delle materie prime e con tutti i gravi problemi che abbiamo - è per noi improponibile. Certo il compito che attende entrambi i ministri è da far tremare le vene ai polsi, infatti:
1) il Ministro Scajola dovrà far passare gli italiani, anche per il nucleare, in breve tempo dalla fase Nimby, acronimo di Not In My Back Yard, ovvero non nel mio cortile, a quella Pimby, acronimo di Please In My Back Yard, ovvero prego (si) nel mio cortile. Però è probabile - pur con molta fatica - che riuscirà nell'intento, visto che, come risulta anche dai sondaggi, la maggioranza dei cittadini si è resa conto che nel mix energetico nazionale non può mancare una consistente presenza del nucleare. Questo «grazie» anche al rapido ed insostenibile aumento che ha avuto il petrolio. Inoltre se giocherà bene sia la carta dell'informazione scientificamente corretta sull'energia, sia quella relativa ai consistenti vantaggi anche economici che dal nucleare verrà non solo per il sistema Paese ma pure direttamente in tasca soprattutto dei cittadini e dei Comuni, sui cui territori verranno costruite le centrali nucleari, dovrebbe vincere qualsiasi resistenza residua, e pure mettere fuori gioco tutti i no nuke per mancanza di seguito, e così potremmo uscire dal sonno della ragione e nel 2013 vedere almeno l'alba del nucleare;

2) il Ministro Prestigiacomo, nella trattativa che dovrà affrontare nella Ue per ricontrattare le quote di emissione dei gas serra, dovrà soprattutto scontrarsi con i forti vantaggi economici che hanno molte Nazioni europee - soprattutto Francia e Germania - a mantenere lo status quo.

In particolare:

* la Francia dall'alto del suo 80% di fabbisogno elettrico prodotto con il nucleare, made in France, non ha grossi problemi per l'emissione dei gas serra. Inoltre il combinato disposto determinato sia dall'obbligo di ridurre queste emissioni sia dal costo sempre più proibitivo di gas e petrolio spingerà molte nazioni a convertirsi al nucleare o a potenziare questa fonte, con ovvi, forti, ritorni economici per la Francia stessa, con la vendita della sua tecnologia atomica;

* la Germania, che pur produce il 30% della sua elettricità con il nucleare ed il 50% con il carbone (sic), ha tutto da guadagnare da questa situazione in quanto è leader in Europa per il fotovoltaico e l'eolico, tant'è che è previsto che il fatturato delle sue industrie del settore passino dai 16 miliardi del 2006 ai 120 miliardi nel 2020. Non per nulla il Cancelliere tedesco Angela Merkel, quando è stata Presidente di turno della Commissione Ue nel marzo 2007, ha tanto insistito sul fronte del raggiungimento del 20% delle energie rinnovabili e pari diminuzione gas serra rispetto al 1990 entro il 2020, come obbligo per la Ue stessa.

Tuttavia, considerato che dopo il voto negativo dell'Irlanda al trattato di Lisbona la Ue non dovrebbe avere l'interesse a mostrarsi troppo rigida con i propri «soci», e quindi se l'Italia - soprattutto ora che Silvio c'è e che ha sì dichiarato che detto trattato va approvato ma che pure ha affermato che l'Europa ha bisogno di un «drizzone» - saprà agire con determinazione, con tutto il Governo coeso e gli europarlamentari, almeno del centrodestra, uniti, perché ne va degli interessi vitali della Nazione, un significativo allentamento dei vincoli legati alla riduzione dei gas serra dovrebbe essere un obbiettivo non irraggiungibile. Se però si vuole veramente spianare il cammino che deve e dovrà percorrere il Governo Berlusconi per i problemi energetico-ambientali, occorre liberarci definitivamente dalla spada di Damocle di ingiustificate, dannose, arbitrarie imposizioni di riduzione di gas serra antropici - con tutto ciò di negativo che ne consegue - facendo capire ai cittadini che questi non incidono minimamente sui (supposti) cambiamenti climatici. Riuscire nell'intento - considerata la vulgata comune contraria - è certo difficile, ma non impossibile, basta che in sede Ue nella discussione dei problemi energetici a livello di Capi di Stato e di Governo, l'Italia riesca a convincere l'Ue stessa sulla necessità di far svolgere, possibilmente, entro il 2008 una conferenza internazionale - con la partecipazione solo di scienziati di chiara fama competenti della materia - centrato su questo tema (se l'Ue non ci sta sia l'Italia a indire tale conferenza) e così l'obbiettivo sarebbe facilmente raggiunto, come ben si evince da quanto segue:

1) durante un importante convegno, svoltosi al Royal Institute of Technology (KTH) a Stoccolma nel settembre del 2007, un gruppo di autorevoli climatologi di fama mondiale ha sottoscritto un documento in cui, tra l'altro, si afferma che l'uomo produce troppa poca anidride carbonica (ogni anno appena 0,1% del totale dei gas serra presenti in atmosfera) per influenzare il clima. Inoltre tale documento evidenzia come la «carbon tax» ed il commercio delle quote per la riduzione delle emissioni siano costosi e risultino inefficienti ed ininfluenti sul sistema globale, ed in più politiche orientate in tal senso possono favorire l'abuso da parte delle parti coinvolte per fini ideologici e commerciali. A proposito dell'immissione dei gas serra in atmosfera, va detto che eruzioni vulcaniche di medie-grandi dimensioni ne liberano quantità paragonabili e pure superiori a quelle prodotte annualmente dall'uomo, ed i vulcani attivi sulla Terra sono più di 1.500 (1);

2) dai recenti carotaggi fatti in Antartide, risulta, senza ombra di dubbio, che nelle ere geologiche passate l'aumento di anidride carbonica (gas ad effetto serra) in atmosfera ha sempre seguito, non preceduto, di parecchie centinaia di anni - fino a 800 anni - gli aumenti di temperatura della Terra, a differenza di come afferma Al Gore nel suo catastrofico film Una scomoda verità. Anidride carbonica che si è liberata gradatamente dagli oceani, che hanno inerzie termiche fortissime, in cui era disciolta,in virtù degli aumenti di temperatura avvenuti però diversi secoli prima. E con questo ogni ipotesi di riscaldamento globale avente come responsabile l'anidride carbonica viene a cadere definitivamente e sconfessa platealmente, oltre gli ambientalisti in servizio permanente effettivo, pure l'onusiano (emanazione Onu) super politicizzato IPCC (International Panel on Climate Change) (2). Infatti l'IPCC ha ricevuto, assieme ad Al Gore, nel 2007 il premio Nobel per la Pace - così come lo ebbe Arafat (sic) - che è appunto un riconoscimento politico e non scientifico;

3) dati inoppugnabili, inoltre, dimostrano che c'è una perfetta correlazione nei valori rilevati negli ultimi 400 anni fra variazioni di temperature medie globali ed attività solare, in quanto il sole influenza il clima non solo direttamente ma anche indirettamente, attraverso la formazione delle nuvole che hanno un forte potere raffreddante. Nuvole che nella bassa atmosfera sono più numerose quando sul sole c'è minore attività, che è evidenziata da un minor numero di macchie solari. Mentre nessuna correlazione è stata trovata fra concentrazione di anidride carbonica e temperatura (2);

4) non è, infine, attualmente in atto nessun riscaldamento dell'atmosfera, in quanto se questo fosse in essere, per effetto stesso dell'effetto serra, se ne dovrebbe osservare uno ancora maggiore nell'atmosfera ad alcuni chilometri di quota, cosa che invece né i satelliti né i palloni sonda hanno rilevato (2);

Concludendo: solo con una vasta, necessaria, incisiva e capillare operazione di demistificazione - che potrebbe avere la sua chiave di volta proprio nella conferenza internazionale prima ricordata - si può innescare un circuito virtuoso che in tempi brevi, parafrasando Brecht, ci consenta di affermare che se le ipotesi onusiano-ambientaliste contraddicono la scienza aboliamo non la scienza ma queste ipotesi. Quanto sopra consentirebbe, oltre tutto, di mettere in condizioni di non più nuocere i profeti di sventura che le hanno elaborate e che le divulgano e quindi pure di «sterilizzare» gli enti e/o le associazioni di cui fanno parte. Il che, francamente, non è poco. (Ragionpolitica)

Cfr.: R. Cascioli- A. Gasparri Che tempo farà pag. 19, 28-29, 49 ed. Piemme 2008 Italia
Cfr.: F. Battaglia-R.A. Ricci Verdi fuori rossi dentro pag. 194-205 ed. Libero-Free 2007 Italia

sabato 28 giugno 2008

Ritornano i signornò. Mario Giordano

Toh, guarda: sono tornati i signornò. No alla manovra finanziaria, no alla riforma della giustizia, no agli interventi sulla sicurezza. Abbiamo perduto il dialogo, come dice Veltroni. Chissà, forse l’ha nascosto in un buco di bilancio. Comunque il centrosinistra ormai è incastrato dentro la gabbia di quello che per mesi Walter ha definito come il vero problema del centrosinistra: il fronte del no, il dissenso per partito preso, il rifiuto a priori. Noto e pericoloso virus che trasforma chi ne rimane vittima in un clone di Pecoraro Scanio. O, per ben che vada, di Diliberto.
La regola degli oltranzisti del no? Nega, nega tutto, nega anche davanti all'evidenza. Perfetto. Peccato che, in questo modo, si rischiano incidenti di percorso. Ieri, per la seconda volta in pochi giorni, un'istituzione pubblica (l'altra volta il Csm, stavolta la Ue) è stata usata di sponda come un tavolo da biliardo per far rimbalzare critiche a un provvedimento del governo. Si capisce: chi non ha forza da sé deve necessariamente appoggiarsi all'esterno. La prossima volta, però, si prega l’opposizione di verificare almeno la tenuta della stampella.
I fatti, in breve. Il ministro Maroni annuncia che verranno prese le impronte digitali ai bimbi rom. Viene fuori il finimondo. C'è chi parla di razzismo, chi di fascismo, chi di discriminazione, si fanno scendere in campo addirittura i sopravvissuti dei lager, si paragona una banale misura di polizia allo sterminio degli ebrei. (Il senso delle proporzioni, evidentemente, si deve essere perso dentro l'urna elettorale).
A un certo punto esce pure il solito lancio di agenzia: l'Unione europea contraria al provvedimento italiano. E ai nuovi signornò in cerca di stampella non par vero di scatenarsi sull’onda del nazismo: «barbara idea», «si torna alla stella gialla», «a quando il numero tatuato sul braccio?», «tradito il concetto di umanità». Poffarbacco, parole grosse: peccato che nell'attesa di tradire il concetto di umanità, sia stato tradito il concetto di verità. «Non ci siamo mai espressi sul provvedimento», smentisce tutto a metà pomeriggio l'Unione europea. Il solito equivoco. Il secondo in pochi giorni. Nel frattempo, però, sull'equivoco il caso era montato come la panna. Panna acida, peraltro. Eppure sarebbe bastato poco per scoprire che le impronte digitali ai bambini sono previste da una norma Ue (regolamento numero 230 pubblicato in Gazzetta ufficiale il 29 aprile 2008) che riguarda gli extracomunitari. Sì, si dice, ma i bambini rom possono essere comunitari. E come fai a saperlo se non li identifichi? E poi perché, per i nostri illuminati di sinistra, prendere le impronte a un piccolo senegalese che sta tranquillo in braccio alla sua mamma è cosa buona e giusta mentre prenderle a un piccolo romeno che ruba i portafogli è un atto di discriminazione? «Trattandosi di un rilievo segnaletico può essere adottato», conferma il presidente emerito della Corte costituzionale Onida. E un magistrato del tribunale dei minori di Milano confida oggi al Giornale: «Noi lo facciamo da tempo».In effetti, il vero scandalo non sono le impronte digitali. È il modo in cui vivono i bambini rom. E i veri razzisti, i veri barbari sono quelli che, non facendo nulla, hanno consentito che tutto questo continuasse, indisturbato per anni: bambini picchiati e costretti a mendicare, bambini mutilati per fare più compassione, bambini mandati a rubare e a prostituirsi, bambini minacciati, laceri, obbligati a restare agli angoli delle strade fino a notte quando tornano stremati ai loro cartoni infestati dai topi, bambini calpestati, tenuti al guinzaglio, usati addirittura come cavie per addestrare i cani da combattimento. Ora finalmente c’è qualcuno che interviene, che prova a dire basta a questi orrori. Ma la sinistra fighetta dell’ultima spiaggia storce il naso. In effetti a loro non sta a cuore risolvere il problema, l'unica cosa che importa è sollevare la polemica di giornata: non si sono mai interessati alle vite di questi bimbi, ora si interessano alle loro impronte digitali. E parlano di razzismo, senza accorgersi che l'unica razza è la loro. Razza di signornò, che sono rimasti. (il Giornale)

venerdì 27 giugno 2008

Viva Bondi Sandro. Valerio Fioravanti

Se davvero eliminerà i benefici fiscali dedicati al mondo del cinema, e se davvero per rivalsa i “cinematografari” italici diserteranno i festival, Bondi sarà un eroe dei nostri tempi. Non perché i nostri cinematografari andassero puniti “a prescindere” per il fatto che sono visceralmente antiberlusconiani e si sentano in diritto di dirlo continuamente utilizzando i fondi pubblici, ma perché così, con leggi economiche uguali per tutti, si aprirà la strada ai nuovi talenti. I film fatti con i soldi dello stato non hanno senso. In tanti altri paesi esistono “aiuti di stato”, ma almeno il sistema di selezione non è così smaccatamente mafioso, e a lavorare non sono sempre gli stessi nomi. Piuttosto del nostro sistema basato su chi ha conoscenze, sarebbe meglio, paradossalmente, un sistema basato sull’estrazione a sorte di chi deve essere aiutato oppure no. In questo modo, almeno, qualche regista nuovo riuscirebbe ad esordire ogni anno, cosa che oggi non succede. È vero che qualche regista di sinistra nel frattempo è diventato bravo, ma hanno avuto a disposizione per anni soldi pubblici con cui fare pratica, e recensioni di favore con cui infarcire il curriculum. Diamo adesso la stessa opportunità a persone non di sinistra, o magari apolitiche, e vediamo che succede. (l'Opinione)

giovedì 26 giugno 2008

Il Csm si ribella a Napolitano, suo presidente e si arroga il diritto di giudicare sulla costituzionalità di una legge. Carlo Panella.

Due membri togati del Csm hanno deciso di dare uno schiaffo al Quirinale e hanno presentato una bozza di risoluzione sulla legge ''blocca processi'' che la boccia in nome della sua presunta anticostituzionalità. Livio Pepino e Fabio Roia citano l'articolo 111 della Costituzione e sostengono che la norma che sospende i processi per reati puniti con meno di dieci anni di reclusione viola il principio della ragionevole durata. Il testo che Pepino e Roia presentano al voto del Csm, parla esplicitamente di ''mancato rispetto del principio della ragionevole durata dei processi'', da cui ''discenderanno crescenti richieste risarcitorie'' in applicazione della legge Pinto. Ma i relatori avvertono anche che la norma ''oltre a ledere in modo assai grave gli interessi e le aspettative delle parti offese, può violare anche diritti dell'imputato''. Inoltre, sempre secondo Pepino e Roia,la norma approvata martedì al Senato nell'ambito del decreto sulla sicurezza farà fermare oltre la metà dei processi in corso. Come si vede i due togati, a nome di una corrente oltranzista della magiustratura, intendono proseguire sulla strada che porta diritto diritto il Csm ad essere una ''Consulta bis'', in palese, grave, aperta violazione della Costituzione stessa che assegna al Csm solo e unicamente compiti organizzativi, amministrativi e disciplinari interni al funzionamento dell'ordinae giudiziario. Nulla più.
Sta ora a Giorgio Napolitano decidere se tollerare che questa violazione della Costituzione da parte di alcuni membri del Csm può essere tollerata o meno. Sta a Napolitano, presidente del Csm, stabilire se è tollerabile che quel documento anticostituzionale, che peraltro condiziona il suo comportamento e le sue prerogative, può essere portato al voto dell'assemblea del Csm o deve essere bloccato. A norma di Costituzione, infatti, il giudizio di costituzionalità o meno di una legge può essere espresso solo e unicamente dal presidente della Repubblica e può essere valutato e giudicato solo ed esclusivamente dalla Corte Costituzionale. Da qui il ruolo eversivo di una dichiarazione di costituzionalità espresso da Pepino e Roia a nome del Csm.
Il gioco è nelle mani di Napolitano che -a norma di Costituzione- non può che imporre che quel testo del Csm non venga posto ai voti.
Se non lo farà, si tornerà ai tempi del peggior Scalfaro e la crisi istituzionale, il conflitto tra governo e Csm diverrà al calor bianco.

Il petrolio come l'11 settembre. Stefano Lorenzetto

E se fosse il petrolio la vera arma di distruzione di massa in mano alle teocrazie mediorientali per sottomettere gli infedeli occidentali? Sì, d’accordo, mettiamo pure in conto l’esaurimento delle riserve di combustibili fossili, l’accresciuto fabbisogno energetico delle economie emergenti, gli sprechi, la speculazione, tutto quello che volete. Ma sarebbe da stolti non scorgere, dietro l’inspiegabile, tumultuosa escalation dei prezzi di gasolio e benzina (rispettivamente +6,8% e +5,4% su base mensile), la prosecuzione con altri mezzi della guerra dichiarata l’11 settembre 2001 contro la civiltà giudaico-cristiana.
Non credo che Mahmud Ahmadinejad si stia limitando ad arricchire l’uranio. L’impresentabile ingegnere eletto tre anni fa alla guida dell’Iran, seconda nazione al mondo dopo l’Arabia saudita per riserve petrolifere, sarà pure intenzionato a fabbricarsi in casa l’atomica. Ma già adesso gli basta chiudere il rubinetto del greggio per regolare la natalità dall’Europa fino alle Americhe.
È la bomba demografica che farà implodere l’Occidente. Se le famiglie italiane, ormai ridotte al figlio unico, non ce la facevano ad arrivare a fine mese col petrolio a 70 dollari al barile, ora che costa il doppio ce la faranno sempre meno. Finiranno per soccombere. Mi si obietterà che gli immigrati pagano la benzina quanto la paghiamo noi e sono meno ricchi, per cui dovrebbero essere ancor più oculati nel programmare le gravidanze. Rispondo: ma gli extracomunitari non disdegnano all’occorrenza la bicicletta, sanno ancora arrangiarsi senza doppi e tripli servizi e i loro figli non hanno le pretese dei nostri, cresciuti col culo nel burro, griffati Dolce & Gabbana, videodipendenti da cellulari di ultima generazione e monitor al plasma. E infatti continuano a riprodursi che è una meraviglia. Sostate in un pronto soccorso pediatrico, com’è capitato a me di recente, e ve ne renderete subito conto: il rapporto fra bambini italiani e stranieri, calcolato in un’ora e mezzo, è stato di 1 (mio figlio) a 12.
Per sbarcare il lunario, i nostri connazionali non soltanto si astengono dal procreare ma sono anche costretti a orientarsi verso prodotti a basso prezzo che arrivano da Paesi, come la Cina, già affamatissimi di energia proprio per poter tenere testa a questa crescente domanda. Un paradossale circolo vizioso che farà lievitare ancor di più le quotazioni del petrolio. Nel 2006 c’eravamo illusi che Ahmadinejad puntasse soltanto ad abbattere il monopolio del Nymex di New York e dell’Ipe di Londra, i due principali mercati mondiali dei carburanti, inaugurando a Teheran l’Iranian oil bourse, dove il brent è trattato in euro anziché in dollari. Errore. La sua politica dei prezzi persegue una strategia di lungo periodo.
È apprezzabile lo slancio con cui il presidente George Bush, nella conferenza stampa tenuta al termine della sua visita a Roma, s’è autoassegnato il compito di «fare una legge per incoraggiare l’estrazione di petrolio negli Stati Uniti, perché il nostro Paese possa diventare produttore e non più solo consumatore». Peccato che gli Usa controllino meno del 2% delle riserve mondiali e gli Stati occidentali arrivino tutti insieme a malapena al 4%, mentre 14 Paesi musulmani (Arabia saudita, Irak, Kuwait, Emirati arabi, Qatar, Yemen, Libia, Nigeria, Algeria, Kazakistan, Azerbaigian, Malesia, Indonesia e Brunei) detengono il 76% dell’oro nero ancora imprigionato nelle viscere della Terra. Dunque, di che sta parlando l’amico George?
La verità è che all’improvviso gli americani, abituati a pagare la benzina poco più dell’acqua minerale, si ritrovano col serbatoio asciutto e devono svendere le case perché non riescono più a onorare la rata mensile del mutuo. Gli italiani seguono a ruota. Allora qualcuno mi spieghi perché a una coppia nostrana, già di suo poco incline a prolificare, dovrebbe venir voglia di mettere in cantiere un figlio col carburante a 1,55 euro il litro, le bollette di luce e gas alle stelle, l’inflazione al 3,7% (la più elevata da 12 anni a questa parte), mezzo chilo di spaghetti aumentato del 20%, un chilo di pane del 13% e un litro di latte dell’11%.
Magari sarà dipeso dallo sciagurato ’68, dalla pillola, dall’ingresso delle donne nel mercato del lavoro, dall’eclissi dei famosi «valori», però è un fatto che la fecondità nel nostro Paese guardacaso cominciò per la prima volta a declinare proprio con la crisi petrolifera del 1973 e l’inflazione che ne derivò. Alla vigilia dell’austerity il tasso di fertilità era del 2,7%. Oggi è dimezzato: 1,29%. Significa che 100 coppie, cioè 200 genitori, mettono al mondo 129 bambini: poco più del figlio unico. Anche ammesso che riuscissimo a invertire la tendenza alla crescita zero, nella migliore delle ipotesi servirebbero 60 anni per riequilibrare la situazione. Non va meglio nel resto d’Europa, dove il calo è stato pressoché analogo: dal 2,66% all’attuale 1,3%.
Per completare il desolante panorama è sufficiente uno sguardo al quoziente di natalità, cioè al rapporto fra numero dei nati vivi e popolazione residente: altissimo nei Paesi di religione islamica in special modo africani (guida la classifica il Niger, con 50,16 nascite ogni 1.000 abitanti), bassissimo in Occidente. L’Italia, con appena 8,54 nascite, figura addirittura quint’ultima in classifica, al 213° posto. Riescono a far peggio di noi solo Andorra, Germania, Giappone e Hong Kong.
Stando così le cose, non ha davvero senso parlare di un’inversione di tendenza, come sembrerebbero accreditare i dati Istat sulla ripresa della natalità nell’ultimo quinquennio. Già passare da 530.000 a 560.000 bimbi rappresenta un successo irrilevante, se si pensa che mezzo secolo fa le nascite sfioravano il milione di unità l’anno. Se poi si considera che il trend è tornato positivo solo per effetto dei figli messi al mondo dagli immigrati (arrivati all’11,4% del totale, con un incremento del 629% negli ultimi 12 anni), si avrà la conferma che la bomba demografica è non solo innescata ma prossima a esplodere.
Come mi ha pronosticato il professor Antonio Golini, demografo e accademico dei Lincei, nel nostro Paese la popolazione di origine italiana potrebbe diminuire già a partire da quest’anno per effetto del saldo negativo nascite-morti. E benché il governo Berlusconi intenda metterci una pezza col bonus bebè, fino al 2020 l’Italia e le altre nazioni del Mediterraneo dovranno affrontare (impreparate) l’onda d’urto di 128 milioni d’immigrati, prevalentemente maomettani, provenienti dall’Africa subsahariana. Quando costoro avranno conquistato il diritto di voto, l’Islam non avrà più bisogno della spada: s’imporrà in forza delle sole leggi della democrazia. La nostra, mica la loro.
Otto anni fa chiesi ad Hamza Piccardo, cofondatore e segretario nazionale dell’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia: «Lei che cosa prevede?». Mi rispose: «Nel 2025 saremo cinque-sei milioni. Il vostro pane lo faranno i musulmani. Le vostre mucche le mungeranno i musulmani. Avremo il nostro partito e i nostri parlamentari». Facile profeta. (il Giornale)

martedì 24 giugno 2008

Ingiustizia uguale per tutti. Davide Giacalone

Non è bello, ma è così: della giustizia, quella vera, non importa a nessuno dei tanti commentatori, o delle tante coscienze a tassametro. Funziona il riflesso condizionato del giustizialismo, funziona la sfida fra poteri, avvince il clangore delle sciabolate, ma la giustizia ed il suo non funzionamento no, non interessa. Ecco la prova: nel giro di pochi giorni il governo ha varato prima un emendamento, destinato alla posposizione di alcuni processi, poi un decreto ed un disegno di legge che contengono indicazioni come la riduzione delle ferie per i magistrati (vanno in vacanza come i bimbi dell’asilo), l’estinzione delle cause per inerzia, le notifiche via mail e, per il processo del lavoro, il deposito contemporaneo di dispositivo e motivazione delle sentenze (per la verità è così, di già, anche per gli altri procedimenti, ma i giudici tendono a non leggere quegli articoli). Ebbene: della prima cosa si disputa e strilla, delle seconde nessuno si cura.
La prima mi parve sbagliata nel merito e nel metodo (ed ho l’impressione se ne siano resi conto, al governo), ma è impressionante i magistrati ritengano siano un centinaio di migliaia i processi che saranno sospesi. Seguitemi: la norma riguarda solo i reati commessi prima del giugno 2002 e sospende i procedimenti con pena prevista inferiore a dieci anni, ma noi siamo nel giugno del 2008, sei anni dopo, e secondo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo quattro anni è il tempo massimo perché possa considerarsi ragionevole il procedimento, quindi, in almeno centomila casi, secondo i magistrati, l’Italia ha una giustizia incivile. Bella roba! Se, però, si discute dei possibili rimedi, e qualcuno lo si adotta, allora il pubblico sfolla e gli ardimentosi duellanti s’abbioccano. A loro non interessa la giustizia, ma i processi a Berlusconi.
Capovolgiamo, allora, il corretto ragionare, e vediamo se ci capiscono. Il processo per la corruzione di Mills non andrà da nessuna parte, perché: a. i giudici sono viziati da faziosità politica; b. il presunto reato è in prescrizione. Il verdetto, ammesso che ci si arrivi, sarà falsato ed inutile. Questa non è una giustizia su misura per Berlusconi, è la normalità, perché, nel nostro scassato Paese, le sentenze o non arrivano o sono parole al vento. L’ingiustizia è uguale per tutti.

lunedì 23 giugno 2008

Brunetta: "Da gennaio class action anche per P.A."

L'annuncio del ministro della Funzione pubblica: ''I cittadini potranno fare causa a quei settori della Pubblica Amministrazione che non funzionano, e vederli condannati''

'Stiamo studiando una grande innovazione, che entrerà in vigore a partire dal prossimo gennaio. Applicare la class action, che stiamo riscrivendo, anche per il settore pubblico''. Lo ha annunciato il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, in un'intervista esclusiva a Radio R101.''

I cittadini - ha spiegato il ministro - potranno arrabbiarsi, utilizzando le associazioni dei consumatori, fare causa a quei settori della Pubblica Amministrazione che non funzionano, e vederli condannati. Non tanto a un risarcimento, che nel settore pubblico avrebbe poco senso, ma alla rimozione di quei dirigenti che non garantiscono la giusta qualità dei servizi ai cittadini''.

Quanto al rapporto con i sindacati Brunetta si augura che ''si vada nella stessa direzione, ovvero dalla parte dei cittadini. Il sindacato rappresenta i propri iscritti, ma il governo e il ministro rappresentano tutti i cittadini''.

"Se gli obiettivi sono condivisi - ha concluso - la battaglia non potrà che essere la stessa. Se un sindacato si metterà di traverso per difendere i fannulloni farà una brutta fine. Alla discussione con i sindacati voglio comunque dedicare solo il 5% del mio tempo. Il restante 95% lo voglio dedicare ai cittadini''.

Intanto il Codacons oggi ha rivolto un appello al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, affinché non firmi il decreto legge che rinvia all'1 gennaio 2009 l'entrata in vigore della class action in Italia. ''I consumatori tutti si appellano al capo dello Stato perché non permetta l'adozione di un provvedimento che creerebbe evidenti danni alla categoria, al solo scopo di agevolare Confindustria e le grandi imprese italiane'', afferma il presidente del Codacons, Carlo Rienzi.

Secondo l'associazione si tratta di un rinvio "ad personam, chiesto da Confindustria e solo nel suo interesse perché le imprese non sono pronte, e con nessun vantaggio per i cittadini". (Adnkronos/Ign)

venerdì 20 giugno 2008

Addio Pd, grazie a te ho lasciato la politica. Peppino Caldarola

Torno all’Assemblea del Pd, per l’ultima volta. L’ultima volta da giornalista-delegato. La prossima mi farò fare il "passi-stampa". Non mi batte il cuore, anche se a questo partito devo molto. Grazie al Pd ho lasciato la politica. Non sono solo, ma provo una tranquilla ebbrezza a ritrovarmi, come a sedici anni, un apolide di sinistra. Ci sono quelli che si sono innamorati del Pd prima che ci fosse. E quelli che se lo sono fatti bastare quando hanno capito che ci sarebbe stato comunque. Io l’ho combattuto, poi ho creduto di trovarmi di fronte a un’altra cosa e ho detto «vengo anch’io». Quel che c’era prima del Pd l’ho raccontato tante volte, anche in presa diretta, su questo giornale. Per tre mesi di follie ho fatto più autocritiche io di un trockista nel Pcus.

E andata pressappoco così. Una sinistra che non voleva più essere sinistra si fa soggiogare dal fascino del grande partito all’americana che avrebbe dovuto far fare le acque agli ex-qualcosa. Una sorta di Baden Baden politico per redditieri impoveriti venuti alla stazione termale a sperperare gli ultimi denari e per ex combattenti provati da tante battaglie in cerca di riposo e belle compagnie. Aria triste e futile. Il partito di prima, i Ds, a cui tanti, ma non tutti i democrats, appartenevano, non lo amava nessuno.

Era il figlio della colpa. Pargolo secondogenito del grande partito comunista, frutto del capriccio di D’Alema, transitorio per definizione fino a diventarlo per destino quando lo prese in mano Fassino. Macaluso direbbe un partito del ni. Nato male, cresciuto peggio, destinato a morire.

Il Pd sembrava anche agli ex democristiani l’approdo obbligato e indesiderato. Mentre i cattolici scappavano a destra dietro il pifferaio Ruini, gli ex popolari, tornati democristiani d’antan visto che c’erano da spartire posti, immergendosi nel Pd pensavano di avere gioco facile con quei comunisti sconvolti dai sensi di colpa e dalle abiure. Al Pd credevano solo Prodi e Veltroni. Prodi credeva a una cosa che ha chiamato Pd ma era una maionese impazzita. Un Ulivo più grande, un partito unico "ma anche" un’Unione con i neo comunisti e i Verdi da combattimento. Insomma, con buona pace di Parisi, il Pd di Prodi era Pd solo perché c’era Prodi. Sotto il vestito niente.

Il Pd era il Pd solo con Veltroni. L’ex direttore de l’Unità che aveva pubblicato e commentato Kennedy prima di imparare l’inglese è stato l’unico vero sostenitore del Pd- doc. Dicesi Pd-doc nella improvvisata traduzione italiana, il partito che non è di sinistra ma neppure di destra, che è compassionevole con i morti di fame ma severo con i rom e i rumeni-romani, liberista in economia e statalista in Rai, plebiscitario, liquido quanto basta a sciogliere D’Alema, pigliatutto fino ad attrarre Folena e Nicola Rossi. Un partito di buoni spietati. Fratricidio e opere di bene. Ci fu chi vide che la maionese impazziva e chi no (io no). Nacque il Pd.

La prima assemblea costituente a Milano fu un casino ben organizzato. Delegati eletti nel giorno del plebiscito per Veltroni. Mi catapultarono ad Anzio. «Prenderemo scarsi mille voti», mi disse il segretario di sezione della zona. Ne prendemmo il doppio. Entusiasmo, nuovismo a go-go, sembrava il ‘68, verso la fine, quando le assemblee erano ancora affollate ma dentro si organizzavano partiti, partitini, gruppi rigorosamente gerarchizzati.

Veltroni nomina a tutto spiano. Tutti ebbero un incarico o la promessa di un ruolo. A mano a mano che la partecipazione politica si restringeva, che i vecchi elefanti organizzavano il branco superstite per resistere alla polvere sollevata da mandrie di zebre senza guida, centinaia di persone si potevano mettere all’occhiello un grado o un’onorificenza.

Il partito all’americana in Italia si fa così. Partito fai-da-te, partito senza sindacato alle spalle, senza lobby a proteggerlo, tutto coca-cola e rock and roll. Un partito molto radical ma benevolente verso Berlusconi. Un partito talmente presuntuoso da mandare al diavolo tutta la sinistra possibile. Un partito che agli operai e contadini sostituisce magistrati e cancellieri. Un nuovo blocco storico.

Poi il gioco si rompe. Prodi se ne va. Il Cavaliere si scoccia di aspettare Walter e se ne va anche lui. Al voto, al voto. Tutti a dire, vedrete cosa combinerà Walter con le liste, intellettuali famosi, registi da Oscar, scrittori da centomila copie. Invece del trionfale valzer viennese, braccia a mezza altezza per il cha-cha-cha della segretaria. Si perde alla grande. Si riperde a Roma. Si straperde in Sicilia. Non succede niente. Forse, si sente dire, non è neppure vero che abbiamo perso. Così tutti tornano a casa. Quella grande non c’è più. Restano quelle due-tre camere vista mare a Torvaianica. Io vado in montagna, da solo. (il Riformista)

Se il problema è la comunicazione. Arturo Diaconale

Il pacchetto-sicurezza è presentato all’opinione pubblica come un unico provvedimento. Quello salva-premier. E la manovra economica subisce la stessa sorte. Viene dipinta come un coacervo di banalità che il Consiglio dei Ministri approva in nove minuti e che rischia di reintrodurre l’odiata misura dei ticket per le prestazioni sanitarie. Grazie a questa presentazione la stessa Robin Tax perde l’aspetto di un freno all’eccesso di speculazione sullo spaventoso aumento dei prodotti petroliferi per diventare una misura demagogica se non, addirittura, le vendetta del milanista Berlusconi contro il petroliere presidente dell’Inter Massimo Moratti.
Tutto questo dimostra che il governo sta correndo un grave pericolo, lo stesso in cui è incappato dal 2001 al 2006. Quello di veder vanificata la grande vittoria politica ottenuta alle ultime elezioni perdendo la successiva battaglia sul terreno della comunicazione e dell’informazione. Questo non significa chiedere che la maggioranza soffochi di valanghe di comunicati inneggianti alle proprie misure le redazioni dei giornali e delle televisioni.

Non significa nemmeno auspicare, all’insegna di quel presunto gramscismo di destra che alcuni stenterelli del centro destra vanno riscoprendo in questi giorni, occupare e lottizzare tutti gli organi d’informazione del paese.
Significa, al contrario, ricordare che nella società dell’immagine e della comunicazione non basta andare incontro alle richieste dell’opinione pubblica con provvedimenti che affrontano concretamente le emergenze. E non è neppure sufficiente avviare concretamente a soluzione i problemi che marciscono sul tappeto da anni ed anni. Si deve obbligatoriamente imparare a presentare nel modo più efficace possibile all’opinione pubblica l’attività di governo. E farlo tenendo nel debito conto che l’informazione positiva ha un impatto sul pubblico decisamente minore di quella negativa e catastrofista, che la vecchia egemonia della sinistra è ancora attiva ed operante all’interno di una categoria di informatori professionali per troppi anni ignorata ed abbandonata a se stessa dai dirigenti del centro destra e che questa egemonia ideologica è affiancata, se non addirittura sopravanzata, dall’egemonia di quella parte del mondo della comunicazione che fa capo ai cosiddetti “poteri forti”.

Non è normale, infatti, che di fronte ad un elettorato maggioritario che ha chiesto a gran voce misure per la sicurezza si subisca passivamente la vulgata prevalente di chi cerca di avallare la tesi che il governo alza un gigantesco polverone solo per nascondere una improvvisata operazione di salvataggio personale del Cavaliere. Non è concepibile che un piano triennale destinato a rappresentare l’atto più significativo dell’attività del governo e che suscita interesse e consensi anche all’interno delle forze dell’opposizione, venga sminuito a livello di una trovata estemporanea destinata al massimo a far ridurre lo stipendio a Mourinho o la liquidazione a Mancini. Gli esponenti della maggioranza sono stati da sempre abituati a considerare normali, scontate, immodificabili queste distorsioni e queste strumentalizzazioni informative. Se non vogliono ripetere gli errori del quinquennio 2001-2006 debbono incominciare a considerare come una emergenza d’importanza pari a tutte le altre la necessità di correggere le distorsioni e combattere le strumentalizzazioni. Come? Non con il gramscismo di destra, con le lottizzazioni indiscriminate o, peggio, con l’idea che venire a patti con gli uomini ed i gruppi delle egemonie forti sia sempre meglio che accettare la loro sfida. Basta incominciare ad essere consapevoli del problema. Ed imparare che nelle democrazie liberali la questione è stata sempre risolta puntando sul pluralismo. Quello che in Italia è zoppo da anni. (l'Opinione)

giovedì 19 giugno 2008

Abolire gli esami di maturità. Davide Giacalone

Nessuno si chiede come mai tutti gli studenti dell’ultimo anno delle scuole superiori sono oggi impegnati negli esami di maturità. Sembra normale, invece non lo è. La ragione risiede in un concetto anacronistico e da superare, il valore legale del titolo di studio. Funziona così: siccome il foglio di carta da dei diritti, che nell’amministrazione pubblica sono anche soldi, sarà un esame di Stato a stabilire chi lo avrà e chi no.

Dato, però, che su come esaminare ci sono idee diverse, la maturità cambia una o due volte l’anno: con crediti o senza, con commissioni interne, esterne, un po’ ed un po’. Sono l’ultimo baluardo della meritocrazia? Ma va là! Sono un rito inutile.
Anziché esaminare chi esce si dovrebbe esaminare chi chiede d’entrare. Mentre i voti degli esami non dicono niente sulla qualità della scuola (e neanche le bocciature con finalità statistica), interessanti sarebbero i dati su che fine fanno quegli studenti. Mi spiego. La selezione deve avvenire negli anni, deve essere un esercizio quotidiano. Se si vuole avere un quadro dell’andamento nazionale allora si usi uno strumento come lo statunitense SAT (Scholastic Aptitude Test), simulando quei questionari Ocse che, regolarmente, mettono i nostri giovani fra i più ignoranti e fessi. Poi si tengano dati aggiornati sulla successiva carriera scolastica dei ragazzi che hanno frequentato questo o quell’istituto, così come di cosa hanno combinato nella vita. Per le famiglie sarà una guida alla scelta. L’esame lo si faccia a chi vuole andare all’università, usando il collaudato ETS (Educational Testing Service), così da stabilire su quali intelligenze scommettere ed investire.
L’egualitarismo nell’ignoranza è un vantaggio per i privilegiati mentre la selezione del sapere funziona ed è preziosa per poveri e non protetti. Per funzionare ha bisogno di alcuni presupposti: a. libertà di scelta per le famiglie, compresa quella di quali scuole pagare; b. investimenti privati e pubblici in borse di studio e ricerca; c. non finanziamento delle scuole e delle università che non funzionano; d. credere che il far correre i migliori sia un vantaggio per tutti. Il corollario è l’abrogazione del valore legale, così la facciamo finita con gli esami di maturità e le annuali, patetiche, rimembranze dei presunti famosi.

Falce e martello come la svastica. Giordano Bruno Guerri

La decisione del Parlamento lituano di mettere al bando falce, martello e stella rossa non è né «triste» né «offensiva», come ha dichiarato Liudmila Alexeieva, responsabile moscovita del gruppo di Helsinki per i diritti umani. Il piccolo Paese baltico, annesso militarmente all’Unione Sovietica nel 1940, per quasi mezzo secolo è stato sottoposto al dominio russo e comunista senza essere né russo né comunista. La classe dirigente venne estromessa, perseguitata e sostituita con funzionari di partito; gli oppositori subirono tutta la sequenza dell’oppressione staliniana, incarcerati, spediti nei gulag, uccisi. Il popolo subì tutti i danni della collettivizzazione forzata, della burocrazia centralizzata, della totale mancanza di libertà. «Eravamo uno Stato totalitario, autoritario, ma non fascista», ha aggiunto la Alexeieva, seguita da parte della stampa russa: trascurando di ricordare che il comunismo ha provocato, nel mondo, centinaia di milioni di morti. A partire da quello sovietico.

Certo, i lituani - come gli altri popoli che ebbero uguale sorte - non hanno mai dimenticato i tre feroci anni di occupazione nazista (1941-44), che fra l’altro portarono allo sterminio di duecentomila ebrei locali. Ma è significativo che oggi mettano sullo stesso piano svastica, falce e martello: anche se pure da noi c’è chi può fare fatica a capirlo. In Italia abbiamo avuto il più potente Partito comunista dell’Occidente, che però non è mai riuscito ad arrivare al potere, o alla dittatura, grazie non tanto alle virtù della nostra democrazia quanto al patto di Yalta, che nel 1945 ci destinò al mondo libero. Da noi, dunque, la falce e il martello non sono stati percepiti come simbolo di distruzione e di violenza tanto più cieca quanto lucida, come quella nazista.

In Italia la memoria storica e collettiva di chi ancora crede nel marxismo, o se ne è distaccato da poco, è legata alle giuste lotte e ai sogni ottocenteschi di riscatto delle classi più povere; poi, falliti i tentativi insurrezionali del primo dopoguerra, il partito di Gramsci fu quello stroncato con la forza dal fascismo, e che contro il fascismo risorse vent’anni dopo. Oggi sappiamo che la Resistenza commise, oltre che subire, ferocie inaccettabili. E che moltissimi - troppi - partigiani aspiravano a fare dell’Italia un paradiso dell’Internazionale. I più non sapevano e non potevano sapere cosa ciò avrebbe significato: una dittatura che avrebbe portato miseria e isolamento, come negli altri Paesi satelliti dell’Unione Sovietica. Avendo avuto la fortuna - per loro e per tutti - di non arrivare al potere, i comunisti nostrani hanno potuto continuare a considerarsi i salvifici paladini degli umili, emendati dalle responsabilità storiche del comunismo sovietico per via di “strappi” sempre troppo parziali e tardivi: dopo Budapest nel 1956, dopo Praga nel 1968.

Per tutti questi motivi è impensabile che da noi si segua l’esempio lituano, mettendo sullo stesso piano la croce uncinata e la falce con il martello. Non si dica, però, che i lituani hanno torto. (il Giornale)

lunedì 16 giugno 2008

Tortora e la giustizia che peggiora. Davide Giacalone

17 giugno 1983. Non s’era ancora fatto giorno quando, venticinque anni fa, entrarono nella sua camera d’albergo ed arrestarono Enzo Tortora. Da allora ad oggi il buio s’è fatto più pesto, la giustizia si chiama ancora tale, ma a dispetto di quel che è. Il numero di quanti, innocenti, finiscono nel tritacarne è aumentato. L’incapacità di punire i colpevoli è, oramai, cronica. Eppure, in tanti, fanno ancora spallucce. Sì, è un problema serio, ma non li riguarda, non li tocca. Certe cose, si sa, succedono solo agli altri. E se succedono, in fondo in fondo, una ragione c’è. Non vi pare? Non è lo schifo della giustizia italiana, ma tale immondo atteggiamento che mi fa credere la storia di Tortora sia stata inutile, non sia valsa a far capire.

A far imbufalire. In tanti, del resto, credono di conoscerla, ma se prenderanno in mano il libro di Vittorio Pezzuto, “Applausi e sputi” (Sperling & Kupfer), misureranno quanto, invece, c’è ancora da sapere.
17 settembre 1985. Il processo scivola veloce, con una conclusione scritta nel suo inizio: Tortora è condannato a dieci anni di reclusione. Colpevole, quindi, d’aver vissuto con camorra e cocaina. Pezzuto ci consente di rivivere quel dibattimento, di ripassare quelle udienze. Fatelo, fatevi venire l’orticaria e la nausea. Ma non fatevele passare, non crediate che poi si sia rimediato, perché quei magistrati e quei giudici hanno fatto carriera. Quello che amministrarono non fu un verdetto sbagliato, che può capitare, ma un processo sbagliato, che non deve capitare. Ne hanno organizzati altri, altri ne organizzano. La loro bussola furono i pentiti, a loro volta guidati da quanti li amministravano. Furono in pochi a non volere dipendere dai pentiti, fra questi Giovanni Falcone, isolato, diffamato, additato in televisione quale colluso con la mafia, infine fatto saltare in aria.
9 dicembre 1985. Il Parlamento europeo respinge, all’unanimità, la richiesta di procedere contro Tortora, divenuto parlamentare, per oltraggio contro un magistrato. In udienza di lui avevano detto che era stato eletto con i voti della camorra. “E’ un’indecenza”, gridò Tortora. Chiesero di processarlo, ed il Parlamento, più che giustamente, osservò che l’offeso era il parlamentare, non certo il magistrato.
31 dicembre 1985. Subito dopo, però, Tortora si dimette da parlamentare, rinuncia all’immunità e soggiace agli arresti domiciliari. Una cosa, per lui, è sempre stata ferma: da innocente voleva che fosse riconosciuta l’innocenza. E questo è un uomo.
15 settembre 1986. Assolto. Per la Corte d’Appello non solo l’innocenza sua è piena, ma la condanna precedente è da attribuirsi a dichiarazioni di pentiti che parlavano solo per avere in cambio qualche cosa. Più che una sentenza d’assoluzione per Tortora, è una sentenza di condanna per i giudici di primo grado e per la procura di Napoli. Ma, come detto, è tutta gente che farà carriera.
20 febbraio 1987. Tortora torna in televisione, comincia Portobello con la una citazione: “Dove eravamo rimasti …”. No, non è un lieto fine, perché quell’uomo violentato ha conservato la lucidità della mente, ma perso quasi tutto il resto. Il 17 giugno 1987, ancora lo stesso giorno, la Cassazione gli consegna l’assoluzione definitiva. Il 18 maggio 1988 muore, come un guerriero che ha vinto la battaglia, ma ha lasciato sul campo troppo sangue.
Il libro di Pezzuto racconta, spiega, lascia la parola al protagonista. Fa accapponare la pelle a chi ancora ne ha una. Ma, alla fine, dobbiamo tutti ammettere d’essere stati sconfitti. La giustizia italiana è oggi peggiore di quella che volle uccidere Tortora. La politica, se possibile, è ancora più vile.

L'Europa s'è fermata a Dublino. Davide Giacalone

L’Europa s’è fermata a Dublino, e forse è bene che non riparta troppo in fretta. Lo dico da europeista: i fallimenti sono tanti, l’impopolarità grande, il verticismo intollerabile. Che gli irlandesi sono solo l’1% degli europei lo scrivevo prima del referendum, e per sottolineare quanto scombiccherato sia il percorso istituzionale, ma non è ragione sufficiente per fare spallucce, giacché l’Unione era già stata bocciata da francesi e spagnoli. Proviamo a votare tutti e la tumuliamo per sempre.
I padri fondatori la pensarono durante la seconda guerra mondiale e l’Europa che conosciamo è, difatti, un’oasi di pace e benessere. Un capitolo inedito della storia continentale. Si sognò di costruirla per via istituzionale, ma poi s’imboccò la strada dell’integrazione economica, che avrebbe dovuto innescare quella politica. Fu così che l’Europa divenne mercato, e sede di mercanteggiamento, la Commissione ed i Consigli dei Ministri un luogo dove bilanciare interessi, spesso risolvendo i contrasti interni con protezionismo verso l’esterno (si veda la politica agricola). E’ stata poco Europa dei cittadini e molto delle lobbies. L’inesistente identità politica è stata compensata con una burocrazia di feroce astrusità, autoalimentata dai finanziamenti nazionali e dalla costruzione di un linguaggio incomprensibile, fra procedure marziane. Il Parlamento non conta un accidente, e, del resto, ciascuno lo elegge come gli pare, solitamente mandandoci quelli che non trovano posto fra i seggi nazionali.
Il gigante economico ospita cittadini che hanno paura dell’immigrazione, fino al mitico idraulico polacco che ha terrorizzato i francesi (tranne quelli con il rubinetto rotto, spaventati dal non trovarlo). La fortissima moneta unica non difende dall’aumento del prezzo, in dollari, del petrolio. L’Europa, dunque, è bocciata per ciò che poco dipende la lei. Ma è anche vero che non esiste laddove avrebbe il dovere di essere unita, nella politica estera, dall’Afghanistan all’Iran, che è alle porte di casa.
Andare avanti per tentativi è suicida. Basta. E’ divenuta troppo larga per essere vera, mentre defezionano i fondatori. Altiero Spinelli parlava di geometria variabile: un nucleo ad alta integrazione istituzionale ed aree di scambio che lo circondano. Può essere un punto di ripartenza.

lunedì 9 giugno 2008

Il mondo ritrovato. Livio Caputo

«Lo conosco, mi fido di lui, mi piace. È uno dei leader mondiali davvero interessanti», ha detto Bush al Tg1 di Berlusconi alla vigilia del suo arrivo in Italia. A sinistra qualcuno ha subito strillato che un elogio dell'odiato George W., ormai giunto a fine mandato, non vale niente, anzi dovrebbe essere addirittura considerato una specie di bacio della morte. Ma, con un po' di sconcerto di quella stampa internazionale da sempre ostile, che ha già rimesso il premier nel mirino, Bush è soltanto una delle voci in quello che sta diventando un coro. L'incontro tra Berlusconi e Sarkozy è stato un grande successo, tanto da far nascere l'ipotesi di un abbastanza inedito asse Roma-Parigi all'interno della Ue. Zapatero si è affrettato a venire a Canossa dopo gli stupidi attacchi di alcuni suoi ministri sul tema dell'immigrazione. Angela Merkel è ancora un poco sulle sue, perché si oppone all'ingresso dell'Italia nel cosiddetto gruppo 5+1 che tratta con l'Iran, ma è probabile che, visto l'entusiastico sì di Francia e America, presto si unirà al gruppo. Se a questo aggiungiamo il buon feeling (qualcuno dice fin troppo buono...) con la Russia di Putin e Medvedev, il nuovo rapporto con l'Egitto sanzionato dall'incontro con Mubarak e i rinnovati legami con Israele, bisogna concluderne che in meno di un mese Berlusconi, che secondo i suoi avversari avrebbe trasformato l'Italia in una specie di paria, le ha invece dato nuovo peso e nuovo prestigio dopo gli sbandamenti del governo delle sinistre: un nuovo peso che la visita di Bush (che in due anni non aveva mai ricevuto il professore) contribuirà a certificare.
Il bello è che non c'è neppure voluto molto, visto che il presidente del Consiglio non ha ancora avuto il tempo di compiere un solo viaggio all'estero. È bastato rimuovere i caveat che impedivano al nostro contingente in Afghanistan di cooperare in pieno con gli alleati, facendone una forza di serie B; è bastato prendere le distanze dai movimenti terroristici islamici, Hamas e Hezbollah, verso cui D'Alema era un po' troppo condiscendente; è bastato assumere una posizione più dura nei confronti dei piani nucleari di Teheran. Ma, a rilanciare il ruolo dell'Italia, ha contribuito anche la sensazione che a Roma c'è di nuovo un governo pronto a prendere di petto i problemi e capace di prendere decisioni epocali, come il ritorno all'energia nucleare. Insomma, nella partita a poker che è la politica internazionale, abbiamo di nuovo delle fiches da mettere nel piatto: cerchiamo di giocarcele bene, tenendo conto dei grandi cambiamenti che si preparano. (il Giornale)

Ricoverate Contrada al Celio: ci ascolti almeno La Russa. Lillo Maiolino

Persino al generale Herbert Kappler, comandante nazista della Gestapo, fu consentito il ricovero all’ospedale militare del Celio - la storia poi ci consegna la sua evasione insieme alla moglie -; non credo che si possa minimamente paragonare il generale Kappler con il generale Contrada”. Parole di Giuseppe Lipera, anzi dell’avv. Giuseppe Lipera, tristemente diventato famoso perché, da legale della difesa, continua a combattere una battaglia per la dignità di Bruno Contrada.

L’avvocato dell’ex agente del SISDE ha scritto una lettera al magistrato di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere e al ministro della Difesa Ignazio La Russa, nella quale chiede la disponibilità immediata e il pronto trasferimento del suo assistito dal carcere militare di Santa Maria Capua Vetere all’Ospedale Militare del Celio a Roma.

La missiva è stata inoltrata “per quanto di eventuale competenza” anche al capo della Polizia di Stato Antonio Manganelli e “per conoscenza” al ministro della Giustizia Angelino Alfano. Nella lettera, Lipera spiega come Bruno Contrada, essendo un ex dirigente generale della Polizia goda del rango di generale di divisione o prefetto e, pertanto, debba usufruire della struttura sanitaria del Celio.

Questo, però, non è stato previsto nell’ultimo ricovero di dicembre al quale si è sottoposto l’ex 007 anzi, il magistrato, ha disposto il ricovero al Cardarelli di Napoli. Contrada, durante la degenza di fine 2007, inoltre, è stato ospitato nel reparto detenuti comuni del nosocomio partenopeo, ambiente che - come scrive l’avv. Lipera - ha contrariato giustamente il generale, le cui condizioni di salute sono sempre più critiche e il quale, spontaneamente, dopo pochi giorni ha chiesto di ritornare in carcere.

È questo l’ultimo atto di una vicenda che si protrae ormai da mesi e che, pare, non riesca a trovare alcuna soluzione. Si è parlato di grazia, di differimento della pena, sino alla richiesta di eutanasia presentata dalla sorella dell’ex agente, ma, intrappolati in una perfetta trama kafkiana, che lascia nel dramma insoluto dell’esistenza, con il passare delle settimane la vicenda di Contrada diventa sempre più inascoltata, sia dalle Istituzioni, sia da un’opinione pubblica continuativamente distratta e indifferente.

Intanto il tempo passa, la salute di Contrada si aggrava e la voglia di vivere dell’ex numero tre del SISDE si affievolisce come una candela che non trova più ossigeno e soffoca lentamente. L’ennesimo tentativo del suo legale, dunque, “è l’unica strada percorribile” - spiega Lipera - visto che la magistratura non intende concedere alcun beneficio all’anziano generale”.

Fin ora tutte le istanze proposte dalla difesa sono state rigettate, compresa la richiesta degli arresti domiciliari. A questo punto chiediamo e speriamo che il neoministro Ignazio La Russa sia sensibile e si interessi alla drammatica vicenda di un servitore dello Stato che, dopo anni di processi, nei quali hanno pesato le testimonianze di numerosi pentiti da lui stesso arrestati, si ritrova con una condanna di 10 anni da scontare per concorso esterno in associazione mafiosa.

Dalla diagnosi di dimissione del 29 aprile scorso dell’ospedale civile di Santa Maria Capua Vetere in quadro delle condizioni di Contrada appare allarmante. Il peso corporeo è al di sotto dei 68 chili e la miscela di diverse patologie su un fisico anziano (Contrada ha 77 anni) sono un rischio letale per la sua vita. La cartella clinica parla chiaro. Un elenco senza fine di malattie e, se molte le tralasciamo agli addetti ai lavori, anche per la complessità dei termini medici che ai più può significare poco, alcune sono di facile comprensione e di triste gravità. Contrada soffre di cerebrovasculopatia cronica aterosclerotica; ipertensione arteriosa; broncopneumopatia cronica; ernia iatale. Ha seri problemi alla vista: nell’occhio sinistro pseudoafachiae, in quello destro cataratta parziale senile. Inoltre, soffre di ipertrofia prostatica, depressione, ischemia e ritardo dell’attivazione ventricolare destra. Senza bisogno di dovere attingere ad un pizzico di autocritica certamente risulta noiosa l’ultima parte di questo articolo, ma forse informare dettagliatamente è l’unica cosa rimasta da fare. Speriamo un giorno di potere scrivere solo la parola“fine”al calvario di quest’uomo. (l'Occidentale)

Immigrazione, giustizia e politica. Davide Giacalone

Magari fosse vero quel che ha, assai superficialmente, sostenuto Palamara, presidente dell’associazione magistrati, magari il sindacalismo togato, il corporativismo giudiziario ne avesse azzeccata una, magari si potessero creare “gravissime disfunzioni” introducendo il reato d’immigrazione clandestina. Non si può, gentili funzionari della malagiustizia, perché tutte le disfunzioni possibili si sono già verificate.
Quel reato sarebbe del tutto coerente con i sani principi del diritto, ma non funzionerebbe proprio perché la giustizia italiana è inesistente, quindi complicherebbe le cose. Ma i magistrati associati hanno confuso la causa con gli effetti. Presi dalla fregola di far politica e volendo avere un ruolo più in Parlamento che in tribunale, si son gettati a denunciare la malattia senza avvertire d’essere il malato. Sì, lo so, non sono i soli e la politica ha contribuito con slancio a scassare la giustizia, ma fra ricoverati nel reparto malattie infettive c’è poco da rimproverarsi a vicenda sulla trascuratezza dell’igiene. Visto che sono riuniti a convegno, suggerisco che qualcuno relazioni sul bidello di Brescia. Chi è costui? Nessuno, come i tantissimi che ogni giorno vengono massacrati senza suscitare l’interesse altrui. Uno di quei nessuno la cui vita deve essere immolata all’intoccabilità della malagiustizia.
Il bidello, dunque, fu accusato di pedofilia. Ha subito dieci mesi di carcere, tre anni agli arresti domiciliari e sette anni da imputato. Ora si scopre che “il fatto non sussiste”. Perché Palamara e colleghi non provano ad essere accusati di pedofilia, dovendolo spiegare a moglie, figli, conoscenti e sé stessi? Certo, l’errore giudiziario non può essere eliminato, e, per quello che ne so, tale può essere anche l’odierna assoluzione, ma è l’orrore di quei dieci mesi, tre e sette anni che grida vendetta. Il bidello sarà risarcito, dallo Stato ed a spese dei contribuenti, se avrà lo stomaco di far causa. Nessun magistrato pagherà, perché chi persegue e giudica non vuol essere perseguito e giudicato. Ne andrebbe della sua libertà, dice. Ne andrebbe, semmai, della sua irresponsabilità, compresa quella di comiziare nel corso di un week end congressuale, cui il legislatore non contrappone la forza delle riforme serie, ma il tremolio delle parole perse.

sabato 7 giugno 2008

7 giugno 2008. Andrea Marcenaro

Concesso che dura sarà sempre, per lo meno adesso la questione è più civile. Una volta confermato che, con Borrelli ai giardinetti, Scalfaro ai giardinetti, Caselli (come insinua Sorrentino nel “Divo”) più che altro dal coiffeur, e con Colombo e D’Avigo nei pressi a loro volta delle panchine del parco, straconfermato, si diceva, che in questa sua nuova e meno infelice condizione l’Italia potrebbe diventare perfino un paese passabilmente anormale, due considerazioni bisogna aggiungerle. La prima è che Borrelli, Caselli e compagnia trascorsa, non è che avessero puntato la prua esattamente su un paio di frilli. Craxi, Andreotti, Berlusconi, ma pure Previti, Mannino, Pomicino, insomma, era tutta gente tosta, per cui onore quantomeno al fegato. Il secondo rilievo è figlio invece delle cronache di questi giorni e delle inevitabili preoccupazioni per il bilancio. Dal momento che i nouveaux magistrates, con quello che costano laurea e concorsi, d’ora in poi faranno i ganassa solo con le Vanne Marchi e i Vittori Cecchi Gori, non si potrebbero prendere dei diplomati? (il Foglio)

venerdì 6 giugno 2008

Intercetto, ergo sum. Dimitri Buffa

Non ci sono i soldi per i cancellieri. Non ci sono i soldi per la benzina delle auto di servizio di magistrati e scorte. Non parliamo dei denari per gli uomini della polizia giudiziaria che svolgono le indagini o almeno dovrebbero farlo. Non ci sono neanche i soldi per comprare nuovi computer più aggiornati. Però i fondi per il capitolo intercettazioni telefoniche, quelli si trovano sempre: 224 milioni di euro per il 2006 e 280 milioni di euro per il 2007. Con un aumento del 20 per cento e una cifra che raggiunge ormai un terzo dell’intero bilancio annuo a disposizione di via Arenula per amministrare, si fa per dire, la giustizia.

I dati li fornisce lo stesso ministero sul link delle statistiche e ci sono anche quelli su chi fa intercettare di più. E ci vuole poco a indovinare le procure più calde, basta leggere sui giornali da dove vengono le telefonate dei politici più o meno eccellenti: Catanzaro, Potenza, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Catania e Reggio Calabria. Parafrasando Cartesio, ogni procura nel suo piccolo ragiona così: “intercetto ergo sum”. Negli altri paesi le autorizzazioni vengono date solo per i reati di terrorismo e per quelli di criminalità organizzata, magari anche quella finanziaria. Certo, non per incastrare la mamma di Cogne o per sapere se D’Alema aveva o non aveva una banca. O se Mastella si incontrava o meno con Antonio Saladino per discutere di affari e politica. E nemmeno per sapere se Moggi o chi per lui si comprava le partite di calcio.

E qui si viene al nodo della questione: questa mole di intercettazioni in realtà garantisce un enorme know how per tutte quelle toghe che intendono condizionare la politica e gli ambienti a essa contigui. Con una specie di talk show continuo. Il vero “grande fratello” lo fanno loro, mica Canale 5. La maggior parte delle intercettazioni che vengono depositate direttamente nelle tipografie dei giornali riguarda infatti episodi di malcostume economico e politico, ma anche esistenziale. Con una dose di pruderie sessuale che non guasta mai. Il tutto andando a caccia di reati che prevedono nel massimo della pena, quando non passano in prescrizione, pochi anni di carcere. Ne sa qualcosa l’ex portavoce di Fini, Salvo Sottile, crocifisso perché parlava al telefono in maniera volgare di donne di presunti facili costumi. E allora cosa cavolo si intercettano a fare tutte le conversazioni private delle varie Anne Falchi, Elisabette Gregoraci e compagnia parlante? Il sospetto è che, quanto più clamorose siano le rivelazioni da Novella 2000 che si leggono sui giornali, tanto più qualcuno, dentro alla magistratura, faccia carriera o diventi il divo del momento.
Senza che necessariamente tutta questa mole di chiacchiere telefoniche o ambientali costituisca reato di per sé. E pure quando lo costituisce spesso si tratta di reati di quasi nullo impatto sociale. Ai Rom che delinquono o ai microcriminali, per dire, non li intercetta nessuno.

I dati parlano chiaro, in Italia ogni anno vengono disposte non meno di 100 mila intercettazioni telefoniche o ambientali e per le compagnie questo iperattivismo è una vera e propria manna: Telecom, Vodafone, Tiscali, Tre e quant’altri vengono infatti pagati a cottimo e non a forfait. Per cui quanto più si intercetta tanto più esse incassano per un servizio che in realtà dovrebbe essere quasi dovuto verso quello stesso Stato che fornisce le concessioni spesso a prezzi irrisori, ma tant’è. Un giorno scopriremo anche chi ci mangia sopra nel mercato secondario della privacy e dei suoi derivati. Per capire a che livello siamo giunti basti pensare che già nel 2006 l’Europa ci aveva ammonito: possibile che voi intercettiate 72 persone ogni 100 mila abitanti? Qualcuno dirà: in Olanda è quasi la stessa cosa perché si parla di 62 ogni 100 mila abitanti. Peccato però che gli abitanti dei Paesi Bassi siano molti ma molti ma molti di meno di quelli della nostra penisola, che sono praticamente quasi tutti a rischio cimice come in un vero e proprio stato di polizia. In Francia, per fare una proporzione più calzante, si autorizzano un quinto delle intercettazioni del Bel Paese e i cittadini le considerano già tantissime.

Si torna quindi al discorso di base: in realtà ascoltare politici, vallette, procuratori dei calciatori, calciatori, mamme di Cogne, truffatori, giornalisti e portaborse non serve tanto alla giustizia, quanto al database di quella parte della magistratura che poi utilizza di fatto politicamente questa enorme dose di gossip per stare sempre alla ribalta con le proprie inchieste e fare così anche carriera. Più sull’apparenza che sulla sostanza. L’Italia è piena di magistrati che aprono inchieste per qualsiasi cosa. E hanno una caratteristica: l’apertura delle indagini è garantita la chiusura e l’esito invece no. In compenso nelle more escono tante belle chiacchierate in libertà dei soggetti indagati. Che non serviranno magari nel processo, ma per sputtanarli sulla stampa quello invece sì. E questo carosello assolutamente improduttivo dal punto di vista dell’efficienza della macchina della giustizia grava sull’intero apparato ormai in crisi cronica per un terzo del proprio budget. E’ una cosa seria tutto ciò? (l'Opinione)

Napolitano è molto, molto distratto nei confronti dei giudici della Campania. Carlo Panella

Continua l'incredibile amnesia del Quirinale e del primo magistrato italiano su un caso eclatante di tradimento dei proprii doveri: se è vero, come ricorda Napolitano, che centinaia di tonnellate di rifiuti tossici sono stati deposti in discariche abusive in Campania, come mai i magistrati campani non se ne sono accorti?
Si tratta di montagne o di cave immense, di centinaia, migliaia di camion.
Come mai nessuno li ha intercettati?
Come mai nessuno ha visto quei depositi?
La risposta è ovvia: perché i magistrati campani non hanno volutamente fatto il proprio dovere.
E' evidente che il presidente del Csm dovrebbe chiedere all'organo che presiede di avviare procedimenti contro tanti e tali magistrati.
Ma non lo fa.
Tace.
Pessimo servizio al meridione.
E all'Italia.

mercoledì 4 giugno 2008

Il conflitto d'interessi impaccia il centrodestra anche quando non esiste. Galeazzo Vendramin

E’ un curioso valzer di paradossi la vicenda parlamentare dell’emendamento che la stampa ha intitolato a Retequattro e che in realtà non tratta affatto di Retequattro. La vicenda nasce due anni fa, il 25 luglio 2006, quando la Commissione invia allo Stato italiano una lettera di costituzione in mora a norma dell’art. 226 del trattato Ue: è il primo passo di una procedura lunga e complessa che la Commissione avvia quando ritiene che alcune norme vigenti in uno Stato membro (nel caso in questione le norme sono incluse nella legge 66 del 2001, varata dal governo Amato, e nella legge 112/2004, il testo unico derivato dalla legge Gasparri) non siano compatibili con il quadro giuridico comunitario (il riferimento è al pacchetto di direttive sulle comunicazioni elettroniche approvato nel luglio 2002).

Nella storia comunitaria le procedure d’infrazione sono eventi abbastanza frequenti e danno luogo a comportamenti standard: gli Stati coinvolti difendono le proprie ragioni e offrono alla Commissione alcune modifiche (in genere il minimo indispensabile) per sanare il contrasto. Il Governo Prodi, in carica nel luglio 2006, invece agì diversamente: non difese le ragioni di Stato, non propose varianti tecniche, ma offrì addirittura una legge di vaste ambizioni volta a riorganizzare l’intero sistema televisivo italiano. Ai grandi propositi non corrisponde pari capacità operativa: gli ostacoli tecnici derivanti da una materia molto complessa bloccano l’iter della legge già alla Camera, dove i fautori sono in largo vantaggio numerico, e il Governo si esibisce a Bruxelles in un’umiliante serie di promesse smentite dai fatti circa i tempi del dibattito parlamentare (prima marzo 2007, poi giugno, conferma di giugno e infine una lettera in cui, come nota con puntiglio la Commissione, si manifesta “difficoltà oggettiva a formulare una previsione sui tempi di approvazione”).

Di fronte all’inerzia del Governo Prodi la Commissione compie il secondo passo della procedura d’infrazione: il parere motivato. Il Governo Berlusconi, insediato a maggio 2008, deve quindi agire rapidamente per recuperare i tempi perduti dal predecessore: predispone un articolo in cinque commi che risponde alle principali richieste della Commissione e lo veicola come emendamento a un decreto legge, varato il 9 aprile (uno degli atti finali di Prodi), che recepisce norme comunitarie e gode di una corsia celere alle Camere (per convertirlo in legge c’è un tempo massimo di 60 giorni). Nell’emendamento ha rilievo il comma 3 in quanto risponde a una delle richieste cruciali formulate dalla Commissione: indicare una data certa oltre la quale agli operatori analogici non è consentito utilizzare le frequenze necessarie per trasmettere con tale tecnica: le norme della legge Gasparri, secondo la Commissione, “non fissano un termine per la validità di tali diritti speciali, ma collegano quest’ultima alla ‘realizzazione delle reti digitali’ (da parte degli operatori esistenti)”.

E’ a questo punto che parte il gioco dei paradossi. Il Partito democratico, che ha fra le sue insegne la devozione agli ideali europei e la fedeltà alla prassi comunitaria, insorge contro una norma che si allinea a una richiesta della Commissione quando per due anni i partiti che ora lo compongono hanno sostenuto un Governo incapace di adeguarsi alla volontà di Bruxelles. L’Italia dei valori, la cui ragione sociale sta nell’ossequio alla magistratura (sempre e comunque), reclama norme per attuare i contenuti di una sentenza della Corte di Giustizia estranea alla procedura d’infrazione e anzi inserita in un procedimento pendente davanti al Consiglio di Stato (e ciò sarebbe da parte del Governo un’interferenza che lede l’autonomia dei giudici amministrativi). Il Governo vara una norma dovuta e la ritira, pur sapendo di far brutta figura e crearsi problemi a Bruxelles: quando c’è aria di conflitto di interessi, il centro destra si muove – anche se fa la cosa giusta – con impaccio.

I paradossi, nel loro insieme, segnalano che l’assetto politico del dopo Veltroni (riconoscimento reciproco, esame di merito delle norme) è ancora in prova: i soggetti politici non conoscono bene il nuovo galateo, i riflessi pavloviani sono forti, gli interessi strategici non sempre risultano chiari. C’è parecchio da imparare. (l'Occidentale)

martedì 3 giugno 2008

I falsi profeti del dialogo. Antonio Polito

Ce l’aspettavamo, la consueta lezioncina di buona diplomazia sull’Iran. E’ puntualmente arrivata, per la firma dell’ottimo Lucio Caracciolo, sulla Repubblica di ieri. Il suo ragionamento è il seguente: bisogna parlare anche con il Diavolo, lo fanno tutti, compresi gli israeliani, prima o poi lo faranno anche gli americani (Obama), e noi per fare i filo-israeliani e i filo-americani resteremo col cerino in mano. Rifiutando «di ricevere il presidente iraniano, il governo italiano sembra escludere l’utilità di negoziare col Diavolo». E siccome non sembra essere nemmeno favorevole all’attacco armato all’Iran, allora che politica fa l’Italia? «Il punto è - conclude Caracciolo - ci serve oggi discutere con gli iraniani, e in particolare con il loro presidente? La risposta è sì». Perché così non sparano addosso ai nostri soldati in Libano.

Sembra ragionevole, no? Soprattutto per un paese come l’Italia che tenta disperatamente di entrare nel gruppo 5+1, proprio per poter trattare con Teheran. E infatti la tesi sarebbe ragionevole se non si fondasse su una premessa del tutto falsa. La premessa falsa del ragionamento di Caracciolo è che Ahmadinejad non viene oggi a Roma per «dialogare», «discutere», «trattare» o «negoziare» (sono i quattro termini alternativamente utilizzati dall’editorialista di Repubblica). Viene per farsi vedere dal suo popolo mentre stringe la mano dei potenti del mondo, e rafforzare così la sua posizione. Viene per dare qualche pacca sulle spalle, e tornarsene poi a casa a costruire reattori nucleari e a impiccare omosessuali. Venisse per trattare a nome del suo popolo e del suo paese, certo che bisognerebbe trattare. Ma non viene per trattare. Se volesse, tratterebbe con l’Aeia sul programma atomico; oppure non avrebbe ripetuto che vuole distruggere Israele alla vigilia della sua visita a Roma. Per caso, quando Prodi gli strinse la mano all’Onu, dopo Ahmadinejad trattò? No, non trattò. Se ne tornò a casa più forte di prima.

La premessa della lezioncina di buona diplomazia è dunque completamente falsa. Qui non si tratta di trattare, dialogare, discutere o dibattere. Qui si tratta di dire a un pericoloso tiranno che se vuole trattare deve prima cambiare, o andarsene. Alle trattative non si va in ginocchio, altrimenti sono finite prima di cominciare. Ciò che succede oggi a Roma, e di cui siamo felici, è che per una volta l’Italia non si è messa in ginocchio.Chi martella sui princìpi, dice Caracciolo, maschera l’assenza di una politica. Ma chi martella sulla politica, maschera l’assenza di princìpi. (il Riformista)

Il tiro al piccione della signora Luisa. Paolo Guzzanti

La signora Louise Arbour delle Nazioni Unite accusa l’Italia di xenofobia a causa di una legge che ancora non esiste: quella che introduce il diritto all’arresto e alla punizione di chi, violando la legge e le frontiere, penetra illegalmente in Italia. Alle Nazioni Unite sono da tempo disoccupati: ignorano schiavismo e mattanze in Cina, ignorano i pogrom di studenti e intellettuali in Iran dove le ragazzine sono impiccate sulla pubblica piazza appese al gancio di una gru, non sanno che farsene dei diritti umani calpestati da Hezbollah e Hamas a Gaza dove si fanno a pezzi le persone che osano dissentire, ma hanno tempo per aprire un «dossier Italia» accusandoci più o meno di razzismo. Il gioco è sempre lo stesso: l’input parte dalle sinistre italiane che spingono organismi stranieri – talvolta giornali, talvolta agenzie, o istituti di gente che non sa nulla dell’Italia e neanche capisce l’italiano – e ritorna confezionato da «condanna», un giorno dall’Economist (oh, per carità: l’«autorevole» Economist, guai se dimenticate l’«autorevole» aggettivo) e un altro di una funzionaria della stessa Onu che non sa fermare neanche una strage in Ruanda o di cristiani in Africa. Dopo di che la sinistra che purtroppo non perde né pelo né vizio, si dà al banchetto orgiastico dei tribunali speciali «all’estero» sbandierando i verdetti di condanna.
La signora Arbour forse ignora che per aver varcato illegalmente la frontiera, nel Regno Unito e socialista ti possono ficcare in un campo di detenzione senza limiti di tempo (per questo la legge italiana prevede un «massimo» di 18 mesi, alla maniera di quella già operante in Germania). Forse la signora Arbour ignora che il presidente francese Sarkozy ha annunciato nuove restrizioni per chi vorrà restare in Francia, perché dovrà dimostrare di saper parlare e scrivere la lingua e rispettare le leggi francesi. Ma cosa volete che importi a una signora Louise Arbour di tutto ciò? La moda del tiro al piccione internazionale, da quando la maggioranza degli italiani ha scelto il centro destra, è quella di trasformare a tutti i costi l’immagine dell’Italia in quella di una nazione xenofoba, razzista, inospitale, probabilmente incline ai campi di concentramento. Qualsiasi ingrediente è buono: un momento di indignazione popolare per un neonato rapito o per una donna stuprata e assassinata, oppure il semplice proposito di porre i famosi paletti, tanto cari alla sinistra quando li mette lei, in materia di invasioni barbariche. È un vecchio disco rotto che conosciamo da anni e che sorprende soltanto per impudenza e mancanza di rispetto. (il Giornale)