venerdì 30 novembre 2012

La vittoria del partito superstite. Luca Ricolfi

Domenica sera sapremo chi, fra Bersani e Renzi, sarà il candidato premier del centro sinistra. E forse sapremo anche chi ci governerà nei prossimi anni, visto che la coalizione guidata dal Partito democratico ha buone possibilità di vincere le elezioni, né possiamo escludere che, oltre a vincere le elezioni, riesca persino a formare un governo. Si capisce dunque il clima surriscaldato di questi giorni, un clima che si è fatto rovente soprattutto intorno a due nodi.

Primo nodo: il centro-sinistra prenderebbe più voti con Renzi o con Bersani? Quasi tutti i protagonisti ritengono di saperlo, ma nessuno lo sa veramente. Secondo alcuni Renzi porterebbe al centro-sinistra diversi milioni di elettori disgustati dalla politica e/o delusi dal centro-destra, secondo altri provocherebbe la spaccatura del centro-sinistra e la nascita di un raggruppamento politico alla sinistra del Pd. Probabilmente succederebbero entrambe le cose, visto che Renzi è detestato da una parte dei suoi stessi compagni di partito, ma è impossibile stabilire se il saldo fra voti persi e voti conquistati sarebbe positivo o negativo.

Secondo nodo: l’accesso al ballottaggio. Vedremo come evolveranno le cose nelle prossime ore, ma quello che è evidente fin da adesso è che, limitando la partecipazione al ballottaggio di domenica prossima, l’apparato del Pd sta pagando un prezzo piuttosto alto per garantire l’affermazione del suo segretario. L’idea che per accedere al secondo turno si debba portare una «giustificazione» (come a scuola!), e che ci sia un organismo politico (il «Coordinamento Provinciale delle Primarie Italia Bene Comune», in pratica i funzionari del Pd) deputato a vagliare se la giustificazione è valida oppure no, è semplicemente grottesca, un buffo riflesso burocratico-stalinista che rischia di ritorcersi contro chi l’ha inventato. Perché è vero che chiudere l’accesso al ballottaggio avvantaggia Bersani, che ha già vinto al primo turno, ma è anche vero che, sul piano simbolico, avvantaggia Renzi, se non altro perché mostra di che pasta sono gli apparati per la cui rottamazione il sindaco di Firenze si batte. Senza contare la reazione di chi, escluso dal ballottaggio, negherà il suo voto al Pd alle elezioni vere, un sentimento e un’intenzione che ho già avvertito da più parti.

L’attenzione del pubblico e dei media su questi due nodi, tuttavia, rischia di non farci cogliere la straordinaria trasformazione del paesaggio politico che – in questi mesi – si sta producendo sotto i nostri occhi. Non solo la nascita di protagonisti nuovi (Grillo e il Movimento cinque stelle) e l’autodistruzione di protagonisti vecchi (Berlusconi e il Pdl), ma la vera e propria mutazione che sta scuotendo il maggior partito della sinistra. La sfida di Renzi, anche se dovesse terminare domenica con una sconfitta, sta cambiando e cambierà definitivamente il Pd. Dopo quella sfida, e grazie a quella sfida, il Pd avrà per la prima volta – accanto alla componente socialdemocratica tuttora maggioritaria – una componente liberalsocialista o di «sinistra liberale» di peso politico non trascurabile. Il Pd del futuro non sarà più un partito diviso fra comunisti e cattolici, o fra massimalisti e ortodossi, ma un partito in cui la componente socialdemocratica (oggi ben rappresentata da Bersani) e quella liberaldemocratica (oggi ben rappresentata da Renzi) competeranno per la guida del partito.
Il processo non è ancora compiuto, perché la componente liberale sta prendendo forma e coraggio solo in questi mesi, e quella socialdemocratica non è ancora pienamente tale: se lo fosse Renzi non verrebbe trattato da tanti compagni e compagne di partito come un traditore, un emissario del nemico, un corpo estraneo, o un ospite indesiderato. Ma la direzione di marcia è questa, ed è piuttosto veloce, a giudicare dai consensi che Renzi ha conquistato in pochi mesi.

Ma c’è anche un altro aspetto che merita forse di essere notato. Il mondo politico della seconda Repubblica è oggi un incredibile cimitero di rovine, su tutti i piani. Quasi tutti gli uomini e le donne che hanno occupato gli schermi televisivi negli ultimi venti anni hanno perso ogni credibilità. In giro non si sentono più idee ma solo «dichiarazioni» di nessun interesse, messaggi più o meno in codice ad uso e consumo dei soli politici. I partiti si sono dissolti, travolti dalle inchieste giudiziarie e dall’indifferenza dei cittadini. La destra è un’armata allo sbando, senza progetti e senza senso del ridicolo. Il centro nasconde, dietro l’evocazione rituale – quasi un mantra – di Monti e della sua agenda, il suo vuoto spinto di idee e di uomini.

In questa situazione il Partito democratico, di cui personalmente ho sempre visto e sottolineato gli immensi difetti, si staglia come l’unico «monumento» della seconda Repubblica che ha saputo sopravvivere al terremoto che il ceto politico ha provocato a sé stesso. Ha un’organizzazione, una rete di sedi e di militanti, un dibattito interno. Con le primarie ha saputo creare l’unico evento significativo di riavvicinamento dei cittadini alla politica. E con Renzi e Bersani ha offerto due candidati che possono piacere più o meno a ciascuno di noi, ma sono comunque fra i migliori politici in circolazione in Italia.

Insomma il Partito democratico gode oggi di un prestigio relativo altissimo. Un prestigio che è tanto più significativo, o sorprendente, se pensiamo che anch’esso è coinvolto in diverse inchieste, anch’esso è pieno di personaggi che non avrebbero reso orgoglioso Enrico Berlinguer. E’ questo prestigio relativo che spiega il fatto più interessante del nuovo panorama politico che si è andato consolidando negli ultimi mesi: il dibattito programmatico, le alternative fra cui scegliere, le poche idee sulle quali vale la pena scontrarsi, sono ormai quasi tutte dentro il Partito democratico. Ai suoi militanti, o a molti di essi, tutto questo sembra divisione, lacerazione, una ferita dolorosa. A Gramsci, invece, sarebbe parsa una (strana) forma di egemonia. La società italiana è così allo sbando che l’ultimo partito rimasto, anch’esso piuttosto logoro, disastrato e pieno di acciacchi, rischia di diventare l’unico luogo in cui si gioca davvero il futuro del Paese. Ecco perché la competizione fra Renzi e Bersani non indebolisce il Partito democratico, ma semmai lo rende più capiente, più capace di intercettare gli umori della società esterna. C’è solo da sperare che questa opportunità sia colta e coltivata, piuttosto che gettata al vento: magari anche lasciando che, domenica, chi vuole votare sia libero di farlo. (la Stampa)

Una ignobile marchetta al mondo arabo. Federico Punzi

              
  
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Un'altra brutta, ignobile pagina di politica estera (dopo l'incredibile vicenda dei due marò, da ben 288 giorni prigionieri e sotto processo in India, con il nostro governo incapace di muovere un dito!) è quella che ci regalano il presidente Napolitano, il premier Monti, e il ministro degli esteri Terzi schierando l'Italia a favore della risoluzione che riconosce alla Palestina, o meglio all'Anp, lo status di «stato non membro osservatore permanente» all'Onu. Una posizione che lungi dal favorire il processo di pace, lo indebolisce, aumentando le tensioni diplomatiche e ponendo le premesse per ulteriori rivendicazioni che alimenteranno gli estremismi. Questo voto, infatti, rappresenta – e così lo presenteranno i palestinesi e i paesi arabi – una "validazione" de facto da parte della comunità internazionale dei confini pre-1967. Riconoscendo all'Anp lo status di "Stato", seppure non membro, l'Onu ne riconosce implicitamente il territorio, quindi i confini, su iniziativa unilaterale dei palestinesi. Il che rende praticamente carta straccia gli accordi di Oslo (quelli che Hamas disconosce e che il nuovo Egitto dei Fratelli musulmani non vede l'ora di poter disconoscere), secondo cui uno Stato di Palestina sarebbe dovuto nascere a seguito di negoziati bilaterali.

Attenzione, questo è un punto fondamentale: perché il territorio, i confini, la statualità, sono le uniche merci di scambio che Israele può offrire in cambio di pace, della fine delle minacce alla sua esistenza. Se la questione dello Stato palestinese e del suo territorio viene risolta prima, o quanto meno "pregiudicata", al di fuori di un negoziato bilaterale, si toglie a Israele l'unica arma negoziale per ottenere la pace. Ecco perché si tratta di un voto profondamente anti-israeliano e chi ai vertici delle nostre istituzioni non lo capisce è o incompetente o in malafede.

Inoltre, un governo che volesse rilanciare il processo di pace non premierebbe con un tale riconoscimento i palestinesi, che per quattro anni si sono rifiutati di riaprire i negoziati con Israele. Per non parlare, poi, delle iniziative che potrebbe avviare l'Anp presso l'Onu grazie al nuovo status, tanto che lo stesso governo Monti ha chiesto ad Abbas di «astenersi dall'utilizzare l'odierno voto dell'Assemblea generale per ottenere l'accesso ad altre agenzie specializzate delle Nazioni Unite, per adire la Corte penale internazionale o per farne un uso retroattivo». Raccomandazione indicativa di come i palestinesi tenteranno di strumentalizzare il voto di oggi.

«Siamo molto delusi dalla decisione dell'Italia», è stata la reazione dell'ambasciata israeliana a Roma. Nel comunicato del governo naturalmente si spiega la decisione con la volontà di «rilanciare il processo di pace», la soluzione "due stati per due popoli", ma la geografia del voto rivela le motivazioni reali. L'Italia ha votato sì insieme agli altri paesi europei del Mediterraneo, mentre contro si sono schierati Usa, Canada, Gran Bretagna e Germania. E' evidente, quindi, che il vero scopo è accattivarsi le simpatie dei paesi arabi, vicini dell'altra sponda del Mediterraneo, contro il diritto di Israele all'autodifesa, contro la pace, la giustizia e i diritti umani degli stessi palestinesi e degli altri cittadini del mondo arabo.

Non meno grave, dal punto di vista istituzionale, che un governo tecnico, nato per far fronte ad un'emergenza finanziaria, ribalti la politica mediorientale italiana senza il pronunciamento del Parlamento che l'ha espressa non dieci anni fa, ma in questa stessa legislatura. (il Legno storto)

giovedì 22 novembre 2012

Porcheria fiscale. Davide Giacalone

Diciamo subito tre cose: a. le tasse si pagano; b. la pressione fiscale è troppo alta; c. le complicazioni fiscali, l’accanimento burocratico e la morbosità accertativa circa l’uso che ciascuno fa dei propri soldi sono intollerabili. La prima ha a che vedere non solo con l’onestà personale, ma anche con la sostenibilità collettiva. La seconda è questione economica di primaria importanza, cui abbiamo dedicato e dedicheremo molta attenzione, sicché oggi mi sia consentito saltarla. La terza è la tortura supplementare inflitta alle persone oneste, che non è affatto vero possano star tranquille e nulla temere. In tal senso, mentre il redditometro è uno strumento utile per accertare la fedeltà fiscale dei cittadini, il redditest è una bischerata moralistica con effetti recessivi.

Quando le autorità comunicano che 4.3 milioni di contribuenti non sono congrui e il 20% delle famiglie sospettate di evasione fiscale, diffondo il nulla e il terrore fiscale. Veleni. La non congruità non significa un accidente, perché la non coerenza con i modelli di consumo stabiliti in sede burocratica non accerta un bel niente. Inoltre ci sono redditi esenti o tassati con cedolare, che generano disponibilità senza andare in dichiarazione. Il sistema funzionerebbe se quel parametro fosse utilizzato solo per indirizzare gli accertamenti, i quali non dovrebbero nuocere a chi ha rispettato le leggi. Ma non è così, perché io stesso (che pago tutte le tasse, che ritengo giusto pagarle e che posso scriverlo senza timore di essere smentito, lusso non proprio diffusissimo) ho subito un accertamento fiscale, l’ho accolto con piacere, salvo prendere atto che: 1. è durato quattro mesi; 2. s’è concentrato su questioni meramente formali; 3. gli accertatori avevano una voglia matta di fare il verbale, salvo lasciare tutto al contenzioso successivo; 4. ho dovuto io documentare tutte le mie spese, ivi comprese quelle privatissime; 5. alla fine lo scherzo m’è costato seimila euro di spese, fra commercialista e documentazione chiesta alle banche. Riassunto: non solo il contribuente onesto deve temere, ma deve mettere nel conto che il solo subire un accertamento gli costerà come una tassa aggiuntiva, che si somma a quella che versa ogni anno al professionista senza il quale non potrebbe tenere i conti in ordine. Una porcheria.

Il redditest è una presa in giro terrorizzante. Dovrebbe servire a far sapere a chi lo compila se i suoi redditi sono coerenti con i suoi consumi. Ma chi mai si pone una domanda simile? E’ cretina quante altre mai! Lo so bene se sono coerenti, visto che li pago. Allora, la domanda vera è altra: i tuoi redditi dichiarati sono coerenti con i consumi emersi? Ecco, così ha un senso. Se scopro di sforare, o di essere al limite, che faccio? Contraggo i consumi o chiedo di pagare solo in nero. Nel primo caso aiuto la recessione, nel secondo aumento l’evasione. Bel risultato.

Il fatto è che il nostro fisco premia la povertà, reale o fittizia che sia, e penalizza l’onestà. Da troppo tempo le discussioni con il commercialista non si concentrano su come amministrare i propri soldi o su come far fronte ai propri debiti, ma su come fare in modo che redditi e consumi aderiscano allo schema burocratico-fiscale. E siccome chi sta sotto un minimo di fatturato ha trattamenti di favore, nessuno è disposto a superare di poco quel minimo, sicché o rinuncia al lavoro (spingendo la recessione) o propone un accordo illecito. E, si badi, quel tipo di evasione è doppiamente nociva: perché disonesta, sottraendo soldi alla collettività, e perché diminuisce la sensibilità verso l’eccessivo carico fiscale. Sono favorevole a che tutti paghino tutte le tasse anche perché diventerebbero moltissimi quelli che anziché mugugnare (nascondendosi) protesterebbero vivacemente (esponendosi).

Dobbiamo stare tutti attenti. Chi, come me, critica, affinché non si confonda il dissenso con l’alibi all’evasione. Chi esige e controlla, affinché non eserciti il proprio potere finalizzandolo ai dati consuntivi da portare, anziché al rispetto della legge e del cittadino. Chi amministra la politica fiscale, il governo, affinché non nasconda dietro un inaccettabile moralismo fiscale il mero desiderio di aumentare il gettito per inseguire una spesa fuori controllo.

domenica 18 novembre 2012

L' anniversario nero del governo tecnico. Così ci ha affossato. Renato Brunetta

È passato un anno. E per favore, lasciamo perdere le strumentalizzazioni e i luoghi comuni. Lasciamo perdere la retorica e facciamo solo i conti, con onestà intellettuale e politica.

Facciamo il bilancio di un'esperienza di governo eccezionale e di una politica economica, anch'essa eccezionale, che non abbiamo voluto noi, ma ci è stata imposta dalla Germania.
 
Tiriamo le somme di un riformismo forzato, massimalista e conservatore al tempo stesso, ma che ha finito per produrre più danni che benefici.

È giunto il tempo di giudicare il governo, i suoi ministri, per troppe volte apparsi più burocrati che autorevoli tecnici illuminati. Oppure personaggi in cerca di un futuro politico, che saltano da un convegno all'altro, da una dichiarazione all'altra, piuttosto che disinteressati servitori dello Stato.

Un nome per tutti: Corrado Passera, un misto di velleità, impotenza, luoghi comuni e presunzione. Con gli altri membri dell'esecutivo ostaggi, più o meno consapevolmente, dei loro ministeri, degli interessi costituiti, del gattopardismo romano. Viziati dai troppi decreti legge, dalle troppe fiduce, poste e ottenute, dal non dover rendere conto a nessuno. Garantiti solo dalla Sua persona.

Una politica economica che senza tante analisi ha sposato acriticamente un percorso di austerità che ha prodotto la recessione. Sbagliando pure i conti. Una recessione peggiore del previsto, che ha finito per far mancare gli obiettivi per cui il rigore era stato voluto. Ma questi tecnici, di Angela Merkel e di casa nostra, non studiano? Non leggono i rapporti internazionali? Non capiscono che il mondo è cambiato, e che quindi devono cambiare anche le ricette di politica economica?

Non un indicatore socio-economico, in quest'anno, ha mostrato segno positivo. Vorrà pur dire qualcosa? L'Eurozona è in recessione (-0,1%): ci può spiegare perché? Non sarebbe il caso di mettere un punto fermo, cominciare a ridiscutere quello che è stato fatto nell'Ue in questi 4 anni di crisi? Non sarebbe il caso di chiedere all'Europa se le politiche sangue, sudore e lacrime e i compiti a casa siano state e siano quelle giuste? Non è bello, non è onesto veder andare in crisi tutti i paesi tranne uno: la Germania, che migliora i conti, anche contro le sue stesse previsioni, sulla pelle di tutti gli altri. Adesso anche della Francia.

Il Suo riformismo fondamentalista e conservatore ha portato all'introduzione dell'Imu, con relativa contrazione del valore del patrimonio immobiliare degli italiani. Ha portato all'aumento della tassazione sulla proprietà, già ai massimi livelli nelle classifiche Ocse; alla riduzione della produzione nel settore delle costruzioni, fondamentale in economia; al crollo delle compravendite di immobili. Insomma, è stato impoverito quell'oltre 80% di italiani che abitano nella loro casa. Non è giusto, professor Monti. Non è giusto.

La sua riforma delle pensioni ha creato il guaio tossico degli «esodati». Tossico perché mette insieme ingiustizie e opportunismi, producendo più costi che benefici. Forse era meglio non far nulla. Come era meglio non far nulla sul mercato del lavoro, la cui riforma sta facendo schizzare ai livelli più alti in Europa la disoccupazione giovanile, a causa del mancato rinnovo dei contratti a termine. Avevamo bisogno di più flessibilità nell'assumere, abbiamo prodotto solo un blocco. E la mitica spending review alla fine non si è concretizzata che in banali tagli lineari.

È stato un anno di consenso mediatico, ma di amarezza, impotenza e sconcerto nella gente. E di tanta retorica. La retorica per cui il governo di prima aveva portato l'Italia sull'orlo del baratro. La retorica del non riuscire a pagare gli stipendi pubblici del 2011 a causa dello spread, il grande imbroglio su cui non è stata fatta nessuna chiarezza.

Non è stato spiegato agli italiani perché tutto sia cominciato a giugno 2011 dalla vendita, da parte di Deutsche Bank, di 8 miliardi di nostri titoli di Stato. Vendita seguita da tutti gli altri operatori, meno di una ventina di banche, che fanno il bello e il cattivo tempo. Altro che mercati. Perché quell'ordine? Cosa era cambiato nella nostra economia, nella nostra politica economica, che giustificasse quella decisione da parte della principale banca tedesca? Un anno di retorica. La retorica del «Salva Italia», il Suo primo decreto, che non ha salvato proprio un bel niente. La retorica della credibilità ritrovata, dello stile di governo, del rigore, dell'agenda Monti. Un'insopportabile bolla mediatica.

E che dire del «Cresci Italia», del «Semplifica Italia», dell'«Italia Digitale» e degli altri stucchevoli slogan che appaiono come vere e proprie prese in giro? Altro che credibilità. Altro che coesione. Altro che responsabilità. Altro che legalità. Altro che visione.

Un anno di pacche sulle spalle e apparente apprezzamento in campo internazionale, salvo poi vederci isolati in India, come a Bruxelles, o additati al pubblico ludibrio a Washington. Italia sempre più sola, soprattutto in Europa. Unico contribuente netto (cioè paghiamo all'Ue più di quanto riceviamo), che non sa con chi stare. A parole (quasi da sindrome di Stoccolma) con Angela Merkel e i rigoristi, ma con tanta voglia del contrario. E il risultato di rimanere soli.

Il governo era nato con 4 fondamentali obiettivi: aumentare la credibilità dell'economia italiana sui mercati; promuovere l'azione dell'Italia in Europa, per una politica economica a carattere comunitario; ridurre il debito pubblico, con misure di carattere strutturale; lanciare una strategia di sviluppo e di crescita per il Paese. Obiettivi riassunti nel Suo discorso sulla fiducia, le cui parole d'ordine sono state: rigore, sviluppo e equità.

A un anno dall'esordio, i fatti mostrano che ha fallito su tutti i fronti. La credibilità non è aumentata, perché i rendimenti dei titoli di Stato decennali sfiorano ancora il 5%, gli spread sono in altalena, e in ogni caso continuano a dipendere dall'azione della Bce. Si ricorda, presidente Monti, il 24 luglio 2012, quando il Suo maledetto spread, il nostro maledetto spread, è schizzato a 534, praticamente allo stesso livello che il 9 novembre 2011 ha fatto cadere Berlusconi? E si ricorda le ragioni? Le voci dell'uscita della Grecia dall'euro. Non un giudizio sulla Sua politica. Non sarebbe il caso di riconoscere che i nostri fondamentali c'entrano poco o nulla?

Il ruolo dell'Italia in Europa è rimasto marginale e l'egemonia della Germania è aumentata. Il debito pubblico continua a crescere, sia in valori assoluti (+72 miliardi), sia in rapporto al Pil (+4,4%). Non è stata lanciata nessuna strategia di sviluppo, tanto che il prodotto interno lordo si è inabissato, la produzione industriale precipita, i consumi sono in picchiata e l'inflazione continua a salire, come la disoccupazione. In un anno nulla è cambiato in meglio, ma è tutto peggiorato.

L'unica cosa buona del governo Monti l'ha fatta la maggioranza, riscrivendo la legge di stabilità per il 2013, cosa mai vista nella storia repubblicana, rendendo intelligente un provvedimento banale, inutilmente cattivo con i deboli (dai malati di Sla alle vittime di guerra) e demagogico. Quello spruzzo di diminuzione dell'Irpef, che aveva proposto nel Suo disegno di legge, professor Monti, e che abbiamo rispedito al mittente, era degno di miglior causa. Un inutile e costoso specchietto per le allodole. La tanto bistrattata maggioranza dei partiti ha sostituito il governo dei tecnici, coniugando rigore, equità e sviluppo. Proprio quello che Lei, presidente, e i Suoi ministri non siete riusciti a fare in un anno di governo. Un anno che può a buon titolo considerarsi un annus horribilis. (il Giornale)

venerdì 16 novembre 2012

Europa da Draghi. Davide Giacalone

In un’eccellente riflessione pubblica Mario Draghi ha messo a fuoco tre punti cardine: 1. è la debolezza strutturale dell’euro ad avere consentito la speculazione contro i debiti sovrani, quindi l’allargarsi degli spread; 2. non ci sono politiche settoriali che possano rimediare a questa condizione, tanto è vero che molte cose sono state fatte ma quegli indicatori restano ingiustificatamente divaricati; 3. il consolidamento della finanza pubblica deve essere condotto mediante tagli della spesa corrente e non attraverso aumento della pressione fiscale. L’autorevolezza dell’oratore, presidente della Banca centrale europea, dà forza a queste tesi, che qui sosteniamo fin dall’arrivo di questa crisi in Europa, nell’estate del 2011.

Ha aggiunto che il 2012 sarà ricordato non solo per la durezza della crisi, ma anche per le risposte che sono state date dalla Bce (egli ha aggiunto anche: dai governi e dall’Unione europea, ma ho l’impressione si tratti di mera cortesia istituzionale), dopo che tanti errori erano stati commessi, per troppo tempo. Si riferisce ai mille miliardi messi a disposizione delle banche europee, affinché acquistassero titoli del debito pubblico, scelta che ha il grande merito d’avere rotto l’immobilismo imposto precedentemente dall’asse Merkel-Sarkozy. Speriamo se ne ricordi anche il successo, che oggi sarebbe imprudente dare per scontato.

Con la creazione dell’euro i Paesi dell’Unione monetaria europea accettarono di cedere sovranità valutaria, affidandola però a una specie di pilota automatico, che funzionava secondo i dettami del trattato di Maastricht. Quel pilota s’è dimostrato inadatto ad affrontare la crisi dei debiti, originata negli Stati Uniti. Era stato programmato per un clima specifico (la paura era quella dell’inflazione) e non ha funzionato con diversa meteorologia (viviamo il pieno di una recessione). Draghi è stato il primo, dalla plancia Bce, a prendere in mano i comandi e disinserire il pilota automatico. Ora dice che un diverso equilibrio deve essere costruito su quattro pilastri: a. l’unione bancaria; b. quella fiscale; c. quella economica; d. infine quella politica. Giusto. Ho una sola obiezione: l’unione monetaria non può funzionare senza banche che coprano e agiscano nell’intera area valutaria di riferimento, senza un’armonizzazione fiscale e senza una comune politica economica, ma nel momento in cui i governi cederanno (quel che resta) di queste sovranità il loro peso politico sarà prossimo allo zero, saranno solo amministrazioni locali, in quel che sarà un’area federata, se non direttamente un’Unione federale. Ciò significa che quei quattro pilastri devono essere eretti contemporaneamente e che l’unione politica non può giungere per ultima.

Dall’estate 2011 a oggi, nel mentre la bufera degli spread annientava i governi uno dietro l’altro, abbiamo fatto i conti con un terribile deficit democratico delle istituzioni europee. Nel costruire il pilastro dell’unione politica non possiamo dimenticarci chi siamo: i popoli che diedero sostanza istituzionale alla democrazia moderna. Per costruire quel pilastro, quindi, non se ne deve negare la natura. Perché l’Uem abbia un futuro è necessario che finisca la stagione delle tecnocrazie e si apra quella della politica europea. Che non è la sommatoria delle democrazie nazionali, oramai vernacolari. Siamo sulla soglia di un passaggio epocale. Stona, purtroppo, il dislivello del dibattito politico interno.

Noi sappiamo da dove veniamo, conosciamo il valore della moneta comune (e quel che ci è costata). Sappiamo che non è istituzionalmente attrezzata a resistere senza un governo politico alle spalle, specie in un mondo in cui presto sarà convertibile anche la valuta cinese, il Renminbi. Sappiamo dove vogliamo arrivare, edificando quei pilastri. Il problema è il tragitto, i tempi e il modo. Quel che non può e non deve avvenire è che ci si trovi di fronte a cessioni asimmetriche di sovranità, per cui prima alcuni diventano protettorati monetari di altri e poi si giunge alla conclusione del lavoro. Non può e non deve succedere perché quel tipo di passaggio porta con sé non solo cessione unilaterale di sovranità politica, ma anche deflusso di ricchezza sottratta ai cittadini e indebolimento del sistema produttivo, mediante perdita di competitività indotta da tassi d’interesse più onerosi per alcuni e addirittura pari a zero per altri.

E’ un punto delicatissimo, che va affrontato con chiarezza d’idee e d’intenti. Non dimentichiamoci che nel secolo scorso l’Europa trascinò il mondo in due guerre (per allora) globali, innescate da nazionalismi alimentati da conflitti economici. Oggi, in era di effettiva globalizzazione, quello scenario è irripetibile, ma non lo è l’autodistruzione europea. Se si alza lo sguardo dalle questioni monetarie e si pensa allo scenario della guerra libica, del resto, ci si accorge che non mancano gli esempi. Vicini.

La stabilità, l’affidabilità e l’irreversibilità del processo d’integrazione non è garanzia solo per chi è in crisi, ma anche per chi è creditore. Anche qui Draghi ha ragione. Vale la pena aggiungere che i debiti sovrani di chi impartisce lezioni sono cresciuti più di quelli di chi era impegnato nei compiti a casa. Evidenza ineludibile.

La crisi è una grande occasione per far fare un balzo in avanti all’Ue, conquistando la propria storia. Per farlo si deve ripensare anche il nostro modello sociale, giustamente ammirato nel mondo, ma che oggi richiede una cura dimagrante per lo Stato, compresi gli aspetti sperequativi del welfare, abbassando la pressione fiscale. Sentirlo, da quel pulpito, è stato un sollievo.

mercoledì 14 novembre 2012

Macelleria fiscale. Davide Giacalone

Il governo ha completamente perso il controllo della legge di stabilità, conservando a sé l’arma della vendetta contabile. Non si tratta di riconoscere il ruolo del Parlamento, come qualche ministro graziosamente fece, al momento della presentazione, perché quello è scolpito nella Costituzione (questa sconosciuta). Si tratta, semmai, di stabilire se il governo ha una qualche politica che non sia il mero ricondursi al rispetto dei saldi, perché in questo caso, come sta avvenendo, l’interlocutore del Parlamento diviene la Ragioneria generale dello Stato. E buona notte alla funzione governativa.


La cosa singolare è che nel mentre i (presunti) protagonisti della politica si dividono fra chi vorrebbe governare in proprio (salvo non dire come e per far cosa) e chi vorrebbe lasciare le cose in mano a Mario Monti, pur riconoscendoti quasi tutti nell’“agenda Monti”, proprio quest’ultima si svuota al punto da consentire che la legge di stabilità venga stravolta e capovolta, nell’indifferenza collettiva. Dagli sgravi fiscali agli orari scolastici agli esodati, non c’è materia rilevante in cui il governo abbia tenuto ferme le proprie posizioni. Sarebbe questo il ragguardevole costume cui ispirare il futuro? E, si badi, questa non è una critica al governo, perché la sua “colpa” è quella di durare troppo, ben oltre il pronto soccorso che si rese necessario un anno addietro, quindi di scomporsi per il venire meno della missione iniziale, mentre restano intatti i problemi di fondo. La critica è rivolta alle forze politiche maggiori, incapaci di capire quel che era evidentissimo nel novembre scorso e che fin da allora scrivemmo: tocca loro cambiare il sistema elettorale e condurre l’Italia al voto. In fretta. Invece sono ferme, ripiegate nelle loro miserie interne, nel mentre s’approssima la fine naturale, e ingloriosa, della legislatura.

La critica che muovo al governo è altra: assistendo all’implosione della politica, incapace di riforme profonde (l’unica, quella delle pensioni, si trascina dietro un imperdonabile errore tecnico, che ha generato gli esodati), il governo si abbandona alla vendetta contabile, accanendosi nel far crescere le entrate nel mentre non riesce a tagliare significativamente le uscite. Per evitare si dica che fa “macelleria sociale” si abbandona alla “macelleria fiscale”. Senza neanche evitare la prima, oltre tutto, ma praticandola nella sua versione più odiosa, ovvero con la “macelleria generazionale”.

Monti annette a sé e al suo governo la guerra (così l’ha chiamata), contro la corruzione e l’evasione fiscale. Guerre sante. Gliecché la storia ci consegna non pochi esempi di guerre benedette tradottesi in carneficine sadiche e senza tensione alcuna verso il sacro. Dire che la guerra contro la corruzione si conduce con la nuova legge, ancora in gestazione, non è propaganda, è fanfaroneria allo stato puro. Quella legge sarà approvata, statene certi, ma siate altrettanto sicuri che non servirà a nulla. Mentre la lotta all’evasione, nei fatti, si traduce nel far pagare più tasse a quelli che le pagavano, con effetti recessivi evidentissimi, talché la ripresa prevista per l’anno prossimo si sposta, come tempestivamente sottolineammo, in un imprecisato futuro.

E quando Monti dice che la ripresa ci sarà nel momento in cui cesserà la crisi dell’euro dice una di quelle cose utili a dimostrare che siamo senza timone e senza motori: stiamo andando a rimorchio. Solo che dal rimorchiatore hanno deciso di mettere le mani nella cambusa e portare via gli arredi, sicché, alla lunga, somigliano più a pirati che a salvatori.

La follia autodistruttiva del nostro dibattito politico sta proprio nel credere che questa sia una politica, semmai discutendo se continuarla a cura degli ideatori o a cura dei gestori partitanti. Invece questa è una non politica. E’ l’altra faccia di una medaglia che da una parte reca il ritratto di Beppe Grillo. E’ il frutto del crollo, non un modo per evitarlo. E se le forze politiche non vogliono suicidarsi devono imparare a fare in modo che cambino le cose, non il loro o il proprio nome. Giacché, com’è noto: ca tu ‘o chiamme Cicco o ‘Ntuono/ ca tu ‘o chiamme Peppe o Giro/ chillo ‘o fatto e niro niro,/ nino niro comm’a che.

domenica 11 novembre 2012

La legge elettorale, in soldoni. Gianni Pardo

  

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Nessuna legge elettorale è perfetta. La governabilità e la rappresentatività, ambedue necessarie, sono infatti inversamente proporzionali fra loro e ogni partito giudica il compromesso secondo che esso gli convenga o no.
Attualmente per convenzione bisogna dire peste e corna del “Porcellum”. Lo si accusa perfino di provocare l’ingovernabilità mentre questo al massimo può avvenire perché il sistema non è applicato al Senato come alla Camera. Qui la coalizione di Prodi, pur essendo prevalsa per sei decimillesimi dei voti, non ebbe infatti nessun problema: aveva il 55% dei seggi.

Oggi al “Porcellum” si rimproverano quattro cose: (1) la soglia di sbarramento al 4%, (2) la mancanza delle preferenze, (3) il premio di maggioranza e (4) la mancanza di un livello minimo di voti per beneficiarne.

La soglia di sbarramento non è molto discussa. Serve infatti ad evitare il possibile ingresso in Parlamento di formazioni lillipuziane tuttavia capaci, all’occasione, di esercitare ricatti.

L’eliminazione delle preferenze fu voluta, a suo tempo, per evitare l’imperversare del voto di scambio e per non sottoporre i candidati a grandi spese per farsi pubblicità. Se si vuole tornare alle preferenze, che lo si faccia: ricordando però che anche in questo caso i nomi nelle liste sono stabilite dai partiti, non dagli elettori.

Il premio di maggioranza è graditissimo alle grandi formazioni, che sperano di beneficiarne, e sgraditissimo ai piccoli partiti, che da esso sono resi irrilevanti. Naturalmente i più ostili sono quelli che ancora non sanno se faranno parte di una coalizione o se dovranno correre da soli: Udc, Lega e Idv. Dunque si pensava che si volesse riformare il “Porcellum” in modo da dar voce ai piccoli, tornando al proporzionale. E infatti se ne è parlato a lungo. Il buon senso però avvertiva che probabilmente la legge non sarebbe stata affatto cambiata: la rinunzia al premio di maggioranza non era infatti nell’interesse dei due grandi partiti.

Viceversa, il crescente successo del partito di Beppe Grillo ha cambiato lo scenario. Tutti si sono preoccupati e si sono messi a riflettere sul quarto elemento, cioè la mancanza di un livello minimo di voti per beneficiare del premio. Prima era certo che o avrebbe vinto il Pdl, con i suoi alleati, o avrebbe vinto il Pd, con i suoi alleati: e poiché essi vantavano percentuali intorno al trenta per cento o più, tutto sembrava accettabile. Oggi invece da un lato il Pdl sembra in gravi difficoltà (è sotto il 20% e la Lega è andata per conto suo), dall’altro lo stesso Pd, temendo il vento della protesta, paventa che, per un’imprevedibile manifestazione di malumore dell’elettorato, tutti i partiti abbiano percentuali basse. Potrebbe avvenire che il partito di Grillo, avendo per ipotesi il 22% dei voti, benefici di quell’enorme premio di maggioranza perché il Pd è arrivato solo al 21%. Grillo potrebbe avere il 55% dei seggi alla Camera solo per avere ottenuto il 22% nelle urne. Assurdo.

E allora, per non dire che aboliscono il premio di maggioranza, Pdl, Lega e Udc hanno proposto una soglia minima di voti, per beneficiarne. Solo che la soglia “minima” invece è “stratosferica”, addirittura il 42,5%: in modo che nessuno la possa raggiungere. L’intento è trasparente: meglio la proporzionale che un governo dominato dai dilettanti qualunquisti della politica.

Naturalmente ciò danneggia i partiti che sembrano destinati a vincere le elezioni. Grillo infatti ha parlato, nientemeno, di colpo di Stato. Dal Pd ci si aspettava che “insorgesse”, che negasse il proprio voto, che almeno si opponesse seriamente. Invece, dopo avere affermato che la soglia del 42,5% era demenziale, ora sembra disposto ad accettare uno sbarramento al 40%. La zuppa no, il pan bagnato sì.

Vedremo come andranno le cose. Attualmente sembra che i partiti si metteranno d’accordo per una soglia alta e di fatto si tornerà al proporzionale. Il Pd e il Pdl, a costo di tenersi Monti e a costo di allearsi di nuovo fra loro, sono risoluti a non permettere che la cosa pubblica vada in mani peggio che inesperte. Un Masaniello deve vendere pesce, non sedere a Palazzo Chigi.

Si ha quasi l’impressione – falsa, naturalmente – che per una volta essi siano preoccupati, oltre che per sé, anche per l’Italia. (il Legno storto)