martedì 31 gennaio 2012

Ricusazione ammissibile: che significa? Gianni Pardo

...Per gli interessati il sentimento prevalente nelle aule di giustizia è l’angoscia. Mi si darà ragione o mi si darà torto? Sarò condannato o sarò assolto?
Invece per i professionisti, i magistrati e gli avvocati, il sentimento di gran lunga prevalente è la noia. In civile la noia delle lunghe attese e delle varie pratiche da sbrigare, in penale la noia degli interrogatori e delle arringhe dei colleghi. In generale l’inerzia sonnolenta di questa enorme macchina che macina le vite dei cittadini. Può sembrare strano ma questo è il motivo per il quale è lecito sperare di ottenere giustizia. L’indifferenza degli operatori della giustizia corrisponde infatti a ciò che si usa chiamare “terzietà”. Il giudice non è interessato a dar ragione a Tizio o a Caio. La loro lite è per lui solo una pratica da sbrigare. Se viceversa il giudice fosse in qualche modo interessato alla vicenda, la terzietà sparirebbe e con essa la speranza di una sentenza equa.Mentre giudicando un furto il magistrato è ben poco coinvolto, non essendo né un ladro né un amico di ladri, già se si giudicasse una vicenda che riguarda una squadra di calcio ci sarebbe da porsi dei problemi, perché alcuni giudici sono tifosi. Il colmo tuttavia si raggiunge con la politica, perché di politica si occupano tutti i cittadini indistintamente. Anche quando non sanno di occuparsene. Non è un caso che l’uomo sia stato definito da Aristotele politikòn zoon, animale politico. E proprio per questo tutte le sentenze che hanno implicazioni politiche sono sospette di partigianeria. Un esempio l’abbiamo sotto gli occhi. Mentre nella noia normale dei Palazzi di Giustizia la dichiarazione della prescrizione è un adempimento amministrativo espletato con un’occhiata distratta al calendario, quando si tratta del processo Mills in primo luogo si fa assurdamente decorrere il termine iniziale – a quanto dicono – non dal momento in cui il denaro è stato accreditato su un conto di quell’avvocato inglese, ma dal momento in cui egli ne ha disposto spostandolo su altro conto. Poi ora il processo dovrebbe scadere il 14 febbraio ma si sta pensando a speciali escamotage per farlo scadere in maggio, in modo che i giudici abbiano il tempo di emettere la sentenza di primo grado. Una sentenza che, lo sanno anche i sassi, non diverrà mai definitiva. E tutto questo non dovrebbe destare sospetti?Il primo sospetto è che il Tribunale desideri emettere una sentenza di condanna non perché poi Berlusconi rimanga condannato ma perché si possa scrivere sui giornali che è stato prima condannato e poi salvato dalla prescrizione, invece che salvato prima della condanna. Vantaggio giuridico? Assolutamente nullo: ma notevole quello politico. Questo è un punto di vista che dovrebbe essere del tutto estraneo a una giustizia “terza” e invece forse si vuole fornire materia di grandi titoli a giornali come il Fatto Quotidiano. E tutto questo non dovrebbe destare sospetti?Proprio per questo i legali di Berlusconi hanno presentato istanza di ricusazione. I magistrati si sono mostrati tanto frettolosi da non ammettere parecchi testi della difesa e dal manifestare chiaramente (come documentato nell’istanza stessa) la loro preoccupazione riguardo al decorso del tempo. Preoccupazione incomprensibile, visto che in qualunque caso il processo andrà in prescrizione, e che diviene invece comprensibile se si tiene ad infliggere lo sfregio di una condanna di primo grado. E soprattutto: se si trattasse di un processo normale, uno di quelli in cui tutti si annoiano a morte, i magistrati si strapazzerebbero tanto per arrivare ad una sentenza che sarà comunque giuridicamente inesistente? E tutto questo non dovrebbe destare sospetti?La Corte d’Appello, in dissenso rispetto al parere del Procuratore Generale, ha giudicato ammissibile l’istanza di ricusazione e a giorni dovrebbe decidere in materia. L’opinione pubblica, abituata a veder rigettare qualunque istanza presentata dai legali di Berlusconi, è rimasta sorpresa. Ma invece di pensare a una normale decisione, si sono aperte le porte ad ulteriori sospetti.La prima ipotesi, improbabile, è che la Corte d’Appello sia stanca delle irregolarità di quel processo e voglia porvi termine prima che una eventuale condanna del Cavaliere si risolva in uno scandalo riguardo all’imparzialità di un Tribunale. La Corte potrebbe invece volere confermare, col sigillo della propria autorevolezza, che quei giudici siano degni della massima fiducia. Potrebbe – ma di questo non siamo sicuri – portare le cose in lungo per qualche giorno per poi dire: i giudici non meritavano di essere ricusati ma il problema non si pone più perché il reato è estinto per prescrizione. Quale di queste ipotesi è vera?Domanda insulsa. Quella che bisogna porsi è: quanto vale una sentenza penale che è comunque interpretabile in termini politici? Ecco perché l’immunità parlamentare, come stabilita nell’art.68 della Costituzione com’era redatto prima del 1993 era sacrosanta: nessun giudizio penale è credibile se emesso da magistrati che non sono terzi rispetto alla materia oggetto del giudizio. E in campo politico nessuno è “terzo”. (il Legno storto)

mercoledì 25 gennaio 2012

Costa Concordia: la Linea d'Ombra del comando. Carlo Panella

Difficile fare giustizia nei processi per naufragio anche se, in estrema sintesi, il disastro ha una sola causa: in quel momento, la nave non doveva trovarsi lì. Di chi la colpa? A terra, è tutto più intricato, complesso: interagiscono molte forze e soggetti. In mare no, al solito, tutto è ridotto all’osso e per di più –in apparenza- tutto, rotta, comandi, responsabilità, regole, è codificato, previsto, scandito da ferree procedure, sedimentate non negli anni, ma nei secoli.
Naturalmente, in mare, come nella vita, spesso le procedure poco servono a evitare il naufragio e, dopo mille e mille anni di disastri, a volte si scopre che in realtà, le regole, i codici, sono più forma che sostanza.

Citata in questi giorni più a sproposito che a proposito, la catastrofica morte dell’Andrea Doria –perché fu morte, atroce, di una bellissima creatura sventrata, non un naufragio- dovrebbe oggi ricordare ai manichei linciatori di capitan Schettino, “capitan codardo”, che in mare e nella vita le cose sono un po’ complesse di quanto appaia. Soprattutto sotto la linea d’acqua, là dove l’uomo vìola la forza del mare, in quella zona di riflessi ancora schiariti dal sole che, non a caso, si chiama “opera viva”.

Il comandante dell’Andrea Doria, Piero Calamai, classe 1897 -chissà perché nessuno l’ha ricordato- nella maledetta notte del 26 luglio 1956, si comportò con il tragico stile di un grande del mare. Per due volte tentò di sprofondare con la sua creatura. “Andate – così ordinò ai suoi ufficiali, appena in salvo gli ultimi passeggeri - io resto in plancia”. Fu dissuaso con un semplice, secco: “Allora restiamo anche noi”. Non basta: saliti tutti gli ufficiali sulla scialuppa, ancora sulla nave, dall’alto, Calamai urlò l’ordine: “Voi andate…”. Lesto, uno degli ufficiali, risalì la scaletta sul bordo inclinato –la nave pareva inabissarsi da un istante all’altro- e non disse nulla, lo guardò e lui capì che la sua morte sarebbe stata la loro morte. Scese la scaletta. Distrutto, perché sapeva cosa sarebbero stati da quel momento i suoi giorni impietosi.

Il secondo naufragio del fiero Calamai, arrivò infatti, una mazzata, pochi mesi dopo, durante l’istruttoria pubblica secondo il rito anglosassone, a New York. Innanzitutto perché il suo armatore, la Società Italia di Navigazione, di proprietà dello Stato, fece alla Swenska Amerika Linien una proposta che deve essergli subito parsa inquietante: che non si vada al processo –dove saremo costretti a dire verità ingombranti- concordiamo un concorso di colpa e non parliamone più. Non solo un offensivo scaricamento di Calamai (la Costa non è la prima società armatrice cinica coi suoi uomini), ma anche il chiaro segnale che “c’era qualcosa sotto”. Qualcosa che però, lo stesso Calamai non sapeva (o almeno, affermò sino alla morte di non sapere). Gli svedesi, che intuivano il trucco, rifiutarono e si arrivò al processo.

30 milioni di dollari di risarcimento per la perdita della nave chiedeva la società Italia alla armatrice della Stokholm. Due milione di dollari chiedevano di converso gli svedesi agli italiani, per le riparazioni della prua e per il “mancato guadagno”. Per tutta la prima parte del dibattimento istruttorio, dedicata alla ricostruzione delle manovre effettuate dalle due navi e del rispetto o meno delle procedure, la partita parve sostanzialmente in mano gli italiani. Chiamati a deporre, gli svedesi fecero una figura quasi meschina: il capitano Gunnar H. Nordenson, comandante della Stokholm, che aveva lasciato il comando ad un giovane e inesperto ufficiale proprio nella fase cruciale di avvicinamento al porto di New York e se ne era andato a riposare in cabina, apparve incerto e confuso. Il giovane ufficiale Carstens Johannssen, che aveva portato diritta diritta la prua della Stokholm a squarciare il fianco dell’Andrea Doria, nonostante l’avesse vista da una decina di minuti sui radar, sotto il fuoco di domande dell’avvocato dell’Italia Navigazione, Eugene Underwood, non lasciò molti dubbi circa la sua responsabilità per la collisione. Peggio ancora il timoniere. Peder Larsen (“uno da controllare tre volte su quattro che gli si passa accanto” disse Johannssen). Ridicola, e smentita da molte testimonianze, la loro tesi che in quel momento non vi fosse nebbia. Successive ricostruzioni simulate dimostrarono i palesi torti del comando della Stokholm. Ma anche il comandante Calamai, imbarazzato, dovette ammettere che non aveva molta dimestichezza con i radar (erano stati introdotti solo nel dopoguerra sulle navi di linea), che non aveva seguito alcun corso di formazione al loro uso e soprattutto che non aveva dato ordine all’ufficiale di rotta di segnare sui fogli del carteggio i vari punti successivi rilevati dal radar. Se l’avesse fatto, la collisione certa, nonostante gli scarti successivi di rotta, sarebbe risultata lampante e i suoi ordini al timoniere ben diversi.

Quell’istruttoria è famosa tra le genti di mare, perhé obbligò a cambiare le regole: le procedure e i protocolli di navigazione furono modificati proprio per evitare gli errori compiuti dalla Stokholm (e, in piccola parte, anche dall’Andrea Doria). Fu stabilito il raddoppio dei gradi di scarto in caso di avvistamento di nave in avvicinamento (dai 4 scartati infatti da Calamai a 8) e soprattutto furono studiati nuovi i radar, di modo che segnalassero graficamente lo sviluppo virtuale delle rotte.

Ma l’8 gennaio 1957, tre mesi e mezzo dopo l’inizio dell’istruttoria, tutto lo scenario cambiò, di colpo, nel mistero apparente. La Società Italia aveva fornito tre giorni prima ai periti degli avvocati della Swenska Amerika Linien 26 volumi del Cantiere Ansaldo di Genova, con i documenti da loro richiesti: piani di costruzione, prospetto della tubolatura, meccanica dell’allagamento incrociato e soprattutto definizione della dinamica di stabilità e del baricentro della Andrea Doria. Bastò poco tempo ai periti svedesi per capire, ancor meno per comunicare ai legali dell’Italia Navigazione che avevano capito e questi accettarono subito di por fine al processo con un accordo che schiantava il comandante Calamai: patta. Le parti ritiravano le reciproche richieste di risarcimento. Il processo si chiuse prima di iniziare.

Perché? Non fu mai detto. Tantomeno chiarì il fatto –in pubblico- la Commissione d’inchiesta avviata in Italia. La verità venne però rivelata dall’inchiesta condotta dal Committee on Merchant Marine and Fisheries della Camera dei Rappresentanti Usa che scrisse: “Non appare possibile spiegare il comportamento della Andrea Doria subito dopo la collisione se non supponendo che non fosse zavorrata in conformità delle regole prescritte”: In chiaro: le almeno mille tonnellate di carburante facevano parte integrante della zavorra e determinavano il baricentro corretto della Andrea Doria. Man mano che i serbatoi si svuotavano (ed erano quasi tutti vuoti all’arrivo a New York), la zavorra doveva essere ricostituita con acqua di mare (pena, lo spostamento verso l’alto del baricentro). Questo non era stato fatto, sicuramente per ordine della Società Italia, per la semplice ragione che a New York si sarebbero dovuti poi pulire i serbatoi con solventi, scaricando poi i liquidi non in porto, ovviamente, ma su apposite bettoline con consistenti costi. Da parte sua, il comandante Calamai dichiarò di essere del tutto all’oscuro delle manovre di zavorramento non fatte. Ma qualcuno, a bordo, sicuramente sapeva.

Insomma, per risparmiare qualche migliaio di dollari, la povera Andrea Doria aveva perso il baricentro corretto. Se lo avesse avuto, lacerata per l’altezza di tre ponti, ma appena di traverso tra l’opera morta e l’opera vita, pur imbarcando acqua, avrebbe dovuto inclinarsi al massimo di 7-15 gradi. Invece si abbatté, in sole 11 ore di 90 gradi. Di fatto, l’Andrea Doria non è affondata, ma si è capovolta e anche un mozzo sa che questo non può, assolutamente non può accadere a una nave moderna. A meno che…

Torniamo ora al nostro capitan Schettino e anche qui, scopriamo che quanto a procedure violate, non si scherza. Sia chiaro: è indiscutibile e ai limiti della demenza la colpa di Schettino che ha portato la Costa Concordia a poco più di 200 metri dal Giglio a squartarsi su uno scoglio emergente e ha così provocato la morte di una trentina di passeggeri. Nessuna attenuante, condanna certa per incauta manovra e omicidio colposo. Però, anche alcuni tra i suoi più feroci accusatori (verrebbe da dire, linciatori), hanno a loro carico responsabilità e complicità pesanti. Pare proprio infatti che il comportamento cinico e irresponsabile della Italia Navigazione abbia –ahimè- trovato proseliti nei dirigenti della Costa Crociere

Detto questo, non sarebbe male se gli autori del suo linciaggio mediatico (inclusa la Capitaneria di Porto di Livorno e i dirigenti della Costa Crociere) prendessero atto che capitan Schettino ha agito –da demente- all’interno di una consuetudine consolidata di incontri ravvicinati (52, si dice, sono stati gli “inchini” solo al Giglio), pubblicizzata dalla Costa Crociere sul suo sito (subito oscurato dopo l’incidente), addirittura magnificata dal comandante Mario Terenzio Palombo in un suo libro. Un formidabile documento d’accusa per i “complici morali” di capitan Schettino perché capitan Palombo oggi afferma: “Ho sempre informato la centrale operativa e la Guardia costiera di ogni deviazione. Adesso il governo proibirà queste manovre, e molti posti di lavoro andranno perduti”. Dunque, la Guardia Costiera, anche quella di Livorno, anche il capitano Gregorio De Falco (quello del “torni subito a bordo, cazzo!”), come è ovvio, quantomeno dal 1993, da 19 anni, erano al corrente di questa aperta, palese, irresponsabile pratica promozionale, per indurre gli spettatori a prenotare una crociera (per questo la sua proibizione farà “perdere posti di lavoro”). Ma hanno sempre lasciato fare, in deroga al Codice della Navigazione (non serve nessuna nuova legge per vietare queste follie, questa è pura demagogia), alle procedure e persino al buon senso. Tant’è, che chi passasse col suo gommone a quella distanza dalla riva, si vedrebbe togliere la patente nautica dalla Capitaneria. Pure, tutte le rotte della navi (sia pure ex post, a oggi) sono segnalate e descritte dal sistema di rilevamento satellitare.

E qui, proprio qui, sul tracciato del sistema satellitare Ais, troviamo il vero mistero di questa vicenda, vergognosamente evitato da settimane dai media (e dalla capitaneria di porto di Livorno, dalla Costa Crociere e dalla Procura di Grosseto). Inequivocabilmente, il tracciato reale dimostra che capitan Schettino, fatto l’errore tragico, si è subito comportato come un eccezionale comandante, come un lupo di mare provetto, salvando col suo sangue freddo centinaia, se non migliaia di vite.

Guardando il tracciato e la successione dei tempi, si spiegano anche i “video dello scandalo” in cui si vede e si sente una hostess filippina rimandare tutti i passeggeri nelle cabine. Si spiega il ritardo di più di un ora nell’ordine di abbandonare la nave. Dopo l’urto, infatti, la Concordia, con il timone fuori uso e i motori in panne, ha un abbrivio di circa un miglio, verso il largo, dove l’acqua è profonda 200 metri. E imbarca acqua, a tonnellate, come viene riferito a Schettino che capisce che dare in quel momento l’ordine di abbandonare la nave, a un miglio dalla costa, rischia di vedere la Concordia inabissarsi in acque profonde ben prima che le migliaia di passeggeri e membri dell’equipaggio possano salire sulle scialuppe. Schetttino allora getta le ancore, e fa filare le catene, impone così alla nave un testa coda, un prua-poppa, da vertigine, geniale, il tracciato forma un nodo strettissimo, come quel colosso di nave fosse un gozzo. Poi, con quel poco d’abbrivio e di forza di macchine che ancora ha, Schettino riavvicina la nave alla costa e la fa incagliare in acque bassissime, a un braccio dal porto del Giglio. Chapeau! E’ passato poco più di un ora dallo speronamento. L’ordine di abbandonare la nave viene dato da capitan Schettino esattamente dopo due minuti dall’incagliamento.

Una sequenza di decisioni da far tremare i polsi presa con perizia e bravura eccezionali.

Tutto questo è subito chiaro a chi sa un briciolo di mare. Ma viene taciuto da chi inizia la bagarre sulla viltà di capitan Schettino, con la Capitaneria di Porto di Livorno che dà in pasto alle belve la conversazione tra lui e il capitano De Falco (speriamo, contro la sua volontà) e la Procura di Grosseto che soffia sul fuoco sull’infamia del disgraziato.

Il tutto, si badi bene, in nome e in omaggio di un articolo del nostro Codice di Navigazione che prevede pene sino a 15 anni per il Comandante che – in buona sostanza- non abbandoni per ultimo la nave. Prescrizione giudicata poco meno che demenziale dall’autorevole viceammiraglio Alan Massey, capo esecutivo della marittima britannica, che ha affermato: «Nel diritto internazionale non è previsto che il comandante debba essere l'ultimo ad abbandonare la nave. Anzi, talvolta questa opportunità può risultare addirittura controproducente”.

Dunque, capitan Schettino, nel processo –ma sarà ormai troppo tardi- pur avendo tutta la indiscutibile colpa per la morte di una trentina di passeggeri, avrà materia per difendere quantomeno il suo nome, la sua onorabilità e anche il merito di avere comunque salvato centinaia di vite,.

Un chiaroscuro. Il peso della colpa per l’accostamento folle alla riva e il contrappeso della manovra da manuale per rimediare. Materia fine, complessa, comprensibile solo a chi frequenta quella “Linea d’ombra” che porta con sé il comando, specie sul mare. Materia totalmente estranea alla voracità manichea imperante.

Infine, ma non per ultimo, qualcosa va ancora detto sul destino dell’ottimo comandante dell’Andrea Doria Piero Calamai. Il mare, il Fato, Poseidone, o chi per lui, non si dimenticò di non aver potuto divorare con la sua creatura anche la sua vita. E si vendicò.

Passati pochi mesi, suo fratello, il contrammiraglio Paolo Calamai mentre navigava con la sue vela tra Livorno e Barcellona (era comandante della Accademia Navale) per raggiungere la famiglia, venne rapito da un’onda e inghiottito dai flutti, il due alberi intatto.

Divinità feroci pareggiarono così il conto. (il Foglio)

Sfigati & laureati. Davide Giacalone

Secondo Michel Martone, viceministro al lavoro, chi non si laurea entro i 28 anni è uno “sfigato”. A parte la scelta del vocabolo, ha ragione. A patto, però, d’intendersi. Egli ha anche detto che chi sceglie di frequentare un istituto professionale è bravo, così come è da ammirare chi studia sodo, spregiativamente denominato “secchione”, piuttosto che chi fa il furbo, copia e si diploma passando impermeabile al sapere. Dopo le sue parole s’è scatenata la buriana, giacché nulla offende il luogocomunismo più delle cose ovvie.

Martone è giovane (38 anni) ed è andato in cattedra giovanissimo (29). Essendo figlio di padre noto se ne fa discendere che tutto ciò sia dovuto all’interessamento familiare. Non ne ho idea. Mi piace credere di no. L’uomo ha i numeri. Ora, però, trascinato dall’effetto di quelle sue parole, dimostri anche di avere testa per reggere la sfida e non indietreggiare. Quel che ha detto è giusto, ma solo se si è conseguenti fino in fondo, senza aver paura di pestare i piedi a una scuola di pensiero adagiatasi sull’idea che la cultura non sia competizione, ma letteraria sapienza.

Ho letto le prime reazioni: Martone non sa quel che dice, sostengono, perché non si può mettere sullo stesso piano il figlio dell’operaio e quello del ricco professionista. Dal punto di vista civico io li metto esattamente sullo stesso piano, non per questo mi sfugge l’evidente differenza economica, dalla quale, però, consegue che il figlio di chi ha meno soldi dovrà laurearsi il più in fretta possibile, per passare al lavoro e non essere un costo, mentre il figlio del ricco ha un bonus più ampio, con il quale fare lo scemo e dilapidare i soldi paterni. Anche questo è un modo di rendersi utili, separando i quattrini dagli incapaci.

Questi ragionamenti hanno un senso se s’intende la laurea quale acquisizione di competenze e titoli per entrare nel mercato (del lavoro, delle professioni, dell’arte, dove si crede). Non si deve confondere il titolo di studio con l’accesso alla cultura, che non ha e non deve avere limiti d’età. Se le competenze sono vere è chiaro che disporne è un vantaggio, mentre il loro valore è dato dal mercato. Se le competenze sono fasulle, come capita a tante lauree e a troppi laureati analfabeti, allora il vantaggio consiste solo nel pezzo di carta. Vantaggio spendibile dove, visto che non ha sostanza? Nello Stato, ovvero esattamente dove ora si trova Martone: molti studenti attempati sono dipendenti statali, militari compresi, in cerca del titolo per fare carriera. Se si vuole evitare il protrarsi dello sconcio, quindi, si deve cancellare il valore legale del titolo di studio.

Martone ha ragione, ma completi in questo modo la sua affermazione, altrimenti la contraddizione è insita nella posizione che ricopre. Abbiamo tutti letto che, durante lo scorso Consiglio dei ministri, s’è aperta (e non chiusa) una discussione sul valore da attribuire al voto di laurea nei concorsi pubblici, posto che i voti non sono paragonabili, dato che esistono università di qualità e severità diverse. Discussione oziosa: il problema non è il voto, ma il valore legale del titolo. State certi che da un ateneo serio chi esce con il massimo dei voti sarà sempre avvantaggiato, mentre chi esce con il bacio in fronte e pensando che il congiuntivo sia una malattia degli occhi sarà sempre una bestia. Il che, però, presuppone libertà nel mondo del lavoro, quindi premio al merito e non al titolo.

C’è chi non si è laureato, pur di far valere questo principio. Martone, che sta sia in cattedra che al ministero, non indietreggi e si spinga oltre. Oggi ha il potere di porre quella questione, quindi la responsabilità di non mancare a un dovere.

mercoledì 18 gennaio 2012

Rating, né dio né demonio. Davide Giacalone

Le agenzie di rating sono state divinizzare, ora non c’è bisogno di demonizzarle. Venno prese per quel che sono, vale a dire soggetti che operano nel mercato, portatrici d’interessi, non di scienza e preveggenza. L’Unione europea si è dotata dell’Esma (European Securities and Markets Authority), che ha compiti di vigilanza anche sull’operato delle agenzie. Giustamente la Consob italiana ha chiesto di sapere se c’è vita, in quel pianeta, e se si può consentire ciò che somiglia alla manipolazione del mercato. La reazione sbagliata è quella di credere sia utile creare una nuova agenzia, controllata dai governi europei. Come dire: compiamoci l’arbitro. Qui di seguito il perché tale discussione è oziosa.

L’arbitro è venduto, questo è sicuro. Solo che noi lo scrivevamo nel 2008, come al solito molestati dai maestrini senza idee. Ci dicevano: così è il mercato, le agenzie servono. Rispondevamo: ditelo a quelli che misero soldi in Parmalat, o in Lehman Brothers, o nella Enron, date per sane e forti, dalle mitiche agenzie, e crollate miseramente subito dopo. Quelle società hanno alcuni difettucci: a. sono in totale conflitto d’interesse; b. prendono sfondoni colossali; c. non sono in reale concorrenza, perché si muovono come un gregge, copiandosi i compiti da un banco all’altro; d. non pagano per gli errori che commettono. Dal punto di vista del mercato la soluzione è semplice: impedire che a fare le previsioni del tempo sia il venditore d’ombrelli, o, almeno, chiarire a tutti quali sono i suoi interessi. Se poi gli credono, son problemi dei boccaloni. Seconda parte della soluzione, lo ha ricordato Giuseppe Vegas, presidente della Consob: togliere ogni obbligo degli investitori a conformarsi ai rating decisi da altri. Oltre a essere masochismo finisce con il deresponsabilizzare e vincolare gli investitori istituzionali. Terzo: paghino per le indicazioni sbagliate, versando, in percentuale, ad un fondo per il risarcimento dei risparmiatori.

Ciò richiede un accordo internazionale, ma non ha nulla a che vedere con il rating sui governi. Andando dal grande al piccolo: 1. Se i governi non sfuggono alla morsa della finanza globalizzata, se non riaffermano la sovranità della legge, sarà la cattiva finanza ad allearsi con i cattivi governi, facendo allo spiedo popoli e mercati. Un giro finanziario pari a settanta volte il pil mondiale non è segno di grande fantasia, ma di profonda malattia. 2. Valutare gli stati come se fossero aziende è una superba bischerata. Il che non significa gli stati possano ignorare le compatibilità di bilancio (questa è la nostra colpa, che scontiamo duramente), ma neanche che la banca d’affari Tizio possa mandarmi, a nome dell’agenzia Caio, un ragioniere nelle cui mani mettere il governo. 3. Il madornale errore europeo è consistito nell’emettere titoli nazionali del debito pubblico in una valuta straniera, denominata “euro”. Qui si deve risolvere: o si cambia la valuta (la Grecia è a un passo, dopo di che il nostro problema cambia radicalmente e salta tutto), o si cambia emittente. Sono un europeista, quindi continuo a sostenere la seconda cosa, in assenza della quale, però, vale la prima. 4. Quando incontrate un politico, un giornalista, un sapientone che parla (o parlò) di spread, per dire che salgono per colpa dell’avversario e scendono per merito dell’amico, chiaritegli sinteticamente e, nei limiti del possibile, urbanamente, cosa è lecito pensare di lui.

L’odierna sollevazione istituzionale contro le agenzie, contro i tre cavalieri del declassamento, è, al tempo stesso, tardiva e stonata. Tardiva perché è tutto noto (e scritto) da anni. Stonata perché la sberla collettiva di venerdì scorso è irrilevante. Anzi, generosa. Perché nelle condizioni date, con questi tassi, con questo euro e con la recessione in corso, il debito è in-so-ste-ni-bi-le. Se le agenzie avessero un pizzico d’onore (non contateci, sempre arbitro venduto sono) dovrebbero aggiungere: il che travolgerà anche la Germania. Lo diranno, come al solito, dopo che sarà successo.

lunedì 16 gennaio 2012

"Colpito perché difendevo la sanità pubblica". Annalisa Chirico

Ottaviano Del Turco al soldo degli imprenditori della sanità privata. Ottaviano Del Turco nemico degli imprenditori della sanità privata. C’è qualcosa che non torna. E’ questa l’impressione che si ha leggendo la relazione tecnica del 2010 firmata dall’Agenzia sanitaria della Regione Abruzzo e pubblicata ieri.

I dati incrociati di Istat, Ministero della Salute e Asl locali segnalano “il drastico calo dei ricoveri”, oltre il 30% nella Regione per anni in cima alle classifiche per il più alto tasso di ospedalizzazione. I ricoveri per diabete calano del 74,9%, quelli per Alzheimer del 30,4%. Frutto di un miracolo? No, di buone politiche. Secondo il rapporto, infatti, “non possono non essere considerate le misure legislative e organizzative volte al contenimento della spesa sanitaria, che sono state introdotte a partire dall’anno 2006. Il calo dei ricoveri è iniziato in quell’anno, perlomeno nel settore pubblico, e nel 2007 in quello privato, dopo diversi anni di continua crescita”. Si dà il caso che il 2006 sia l’anno della legge regionale voluta proprio da Del Turco per il riordino del sistema sanitario. Il calo dei ricoveri si arresta dopo il 2008.

Il 14 luglio 2008 che cosa succede?

Beh, vengo tratto in arresto. Da lì comincia la mia odissea giudiziaria.

Un’odissea che la vede impegnato a difendersi in un processo che sta smantellando l’edificio accusatorio mattone dopo mattone. Da Presidente al soldo dell’imprenditore sanitario Vincenzo Angelini adesso si scopre un Del Turco inviso a certi interessi dell’iniziativa sanitaria privata.

In realtà già nel giugno del 2008, un mese prima del mio arresto, i Nas dei Carabinieri segnalavano truffe nelle cliniche di Angelini ai danni del sistema sanitario regionale. Quel rapporto diceva che le aziende private si stavano attrezzando contro l’assalto della Giunta da me guidata e proponeva alla Procura l’arresto di Angelini. Poi la Procura arrestò me.

Quel rapporto dei Nas però è stato reso pubblico soltanto nel 2010 nel corso del processo.

Lì c’è già scritto nero su bianco che la mia Giunta stava ridimensionando il potere delle cliniche private.

Dal rapporto dell’Agenzia sanitaria si direbbe che esiste anche un Del Turco “taumaturgo”.

Questa storia ha del clamoroso. Ha visto i dati sul diabete e sull’Alzheimer? I ricoveri per queste malattie sono drasticamente calati. Insomma, siamo diventati la regione ideale per i diabetici in cerca di guarigione e per chi desidera riconquistare la memoria… E dire che Francesco Di Stanislao, l’ideatore di quel programma di razionalizzazione della spesa sanitaria, colui che insieme a me ha rimesso in piedi l’Agenzia sanitaria, ora siede con me al banco degli imputati.

Ma lei si sente vittima di un errore giudiziario o piuttosto della guerra ingaggiata da parte della sanità privata?

A volermi mandare a casa non era solo l’opposizione, ma anche la maggioranza e, in particolare, quella parte del Pd riunita attorno a Enrico Paolini.

Che era il suo vice Presidente in Giunta però.

Certo, la sua nomina mi fu notificata da Piero Fassino in un’intervista rilasciata a Il Centro.

Paolini non voleva impegnarsi contro la sanità sprecona?

Paolini, ogni volta che c’era da discutere di sanità, aveva altro da fare. Scompariva. Del resto, lui ha collaborato attivamente nel processo, sin dalla fase delle indagini, a stretto contatto con i pm, che mi accusavano.

E come scordarsi la conferenza stampa del luglio 2008 con il procuratore di Pescara Nicola Trifuoggi che esordisce dicendo “Ci sono le prove. Stavano distruggendo la sanità in Abruzzo”.

Beh, questo rapporto è la risposta al dottor Trifuoggi. In realtà eravamo noi a determinare le condizioni per far uscire la sanità abruzzese dai guai in cui era. A meno che non si ritenga che distruggere la sanità significhi indebolire il potere della sanità privata. Il pareggio di bilancio della Regione nel 2011 è anche figlio delle politiche sanitarie della mia Giunta.

Nel corso degli ultimi tre anni, anche di fronte all’evoluzione del processo, dal Pd le sono arrivati segnali di vicinanza, di ravvedimento rispetto alla condanna preventiva che in molti le avevano inflitto?

Nulla, nessuno. Quando mi incontrano, però, abbassano la testa.

Si è sentito abbandonato?

Dal momento che non mi sono mai sentito accompagnato, non ho sofferto neppure il dolore dell’abbandono.

Lei ha scontato un mese di carcerazione preventiva. Come ha vissuto la giornata del voto sulla richiesta di arresto nei confronti di Nicola Cosentino?

Penso che ci sia stata l’insurrezione della parte più nobile del Parlamento, e devo ringraziare il deputato radicale Maurizio Turco, l’unico che ha letto le carte e si è espresso in base a quelle. La Bindi, per esempio, quelle carte non le ha lette.

Ne è sicuro?

Ne sono certo. Il mio è un giudizio politico. La Bindi se la prende con i radicali e invece dovrebbe alzarsi in piedi e spiegare in base a quali passaggi dell’inchiesta giudiziaria ritiene che una persona debba essere arrestata. E’ una vergogna.

Si stupisce?

No, non mi stupisco. Nel Pd ci sono due anime: quella della parte più brutta della tradizione cattolica e l’altra risalente al Pci, quella dei Torquemada e dei Violante, che hanno avvelenato i pozzi della politica di inchieste giudiziarie.(The FrontPage)

giovedì 12 gennaio 2012

Quando Fini fa la differenza tra la libertà e la galera. Ipse dixit

12 Gennaio 2012 Nino Lo Presti il 10 novembre 2010, quando era un deputato del Pdl e per giunta relatore nella Giunta per le autorizzazioni: “Dall’esame delle carte e ascoltando la sua audizione emergono elementi che sostanziano un fumus persecutionis oggettivo”. Lo Presti vota contro l'arresto.

Nino Lo Presti, 2011, da deputato finiano: “Nella vicenda Cosentino non c’è traccia di fumus persecutionis. La Camera è chiamata solamente ad autorizzare la richiesta di arresto e solo alla magistratura spetta il compito di prendere in esame le accuse che gravano sull’onorevole Cosentino”. Lo Presti vota a favore dell'arresto. Da passato e libertà a futuro e galera... (l'Occidentale)

martedì 10 gennaio 2012

Una visione un po' Cortina

Premessa doverosa (altrimenti passo per difensore degli evasori): l'evasione fiscale è un reato e deve essere punito con giusta severità.

Il recente blitz della Guardia di finanza a Cortina sarà servito a mettere paura a qualche evasore fiscale, ma ha dimostrato pure che in certe situazioni si bada più all'apparenza che alla sostanza.
Inutile dire che non dovrebbe essere necessari i posti di blocco stradali per scoprire il proprietario di un'auto.

Come oggi non serve più esporre il bollo auto perché (era ora) adesso è tutto computerizzato.

Ma un particolare di non poca importanza viene sempre trascurato allorché, associando un alto tenore di vita ad una "bassa" dichiarazione dei redditi, si accerta quasi matematicamente un'evasione fiscale.

Non si vive solo di stipendi, salari, rendite immobiliari o benefit: molti integrano i loro introiti con rendite finanziarie.
Vorrei ricordare che tali rendite, per le persone fisiche, hanno una tassazione a titolo definitivo che viene operata alla fonte.

Per la precisione, dal primo gennaio di quest'anno, le rendite da azioni, obbligazioni e fondi d'investimento sono tassate al 20%, mentre i titoli di Stato e i buoni postali rimangono al 12,50%.

Quindi posso benissimo permettermi un tenore di vita al di sopra della mia dichiarazione se ho capitali (si spera lecitamente accumulati) le cui rendite - tassate alla fonte - mi consentono di integrare il mio reddito.

Per Repubblica tutti hanno una lobby tranne le toghe. L'Occidentale

Titolo di Repubblica in prima pagina: "Ecco come le lobby bloccano le Camere". La lettura si annuncia ghiotta. L'articolo spiega con dovizia di particolari come deputati e senatori siano riusciti negli anni a evitare qualasiasi riforma riguardasse le loro professioni e in genere i loro interessi.

Niente di nuovissimo, ma di questi tempi i giornali devono accontentarsi di quello che trovano. Repubblica però mette in prima pagina anche una tabella con le forze a disposizione di ciascuna lobby. Così veniamo a sapere che gli avvocati hanno 133 effettivi in Parlamento, i giornalisti 90, i medici 53, giù giù fino ai notai e ai farmacisti con 4 eletti ciascuno (pochi ma combattivi visti i risultati).

Poi uno riguarda la tabella, la scorre in sù e in giù, conta anche gli ingegneri (20) i commercialisti (23), gli architetti (13), cerca se per caso nelle pagine interne ce ne fosse una più completa e alla fine si chiede stupefatto: e i magistrati?

Come mai della potentissima lobby dei magistrati in Parlamento, Repubblica non fa alcun cenno nè nella tabella nè nell'articolo. Eppure ce ne sono eccome: secondo vari conteggi trovati rapidamente on-line tra i 15 e i 20. E anche molto attivi: se c'è una lobby che nei decenni è stata in grado di bloccare qualsiasi riforma potesse anche solo minimamente danneggiarla è proprio quella delle toghe e si può arrivare a dire che tra i vari poteri dello Stato, se c'è n'è uno che non è mai stato scalfito nel suo potere e nel suo provilegio, è quello della magistratura. In Italia, poche riforme sono evocate e rimaste sulla carta come quella della giustizia. C'entrerà pur qualcosa la lobby dei magistrati...

Eppure lo sguardo indagatore, lo sdegno civile, l'aspra denuncia di Repubblica ignorano del tutto i magistrati-legislatori. Tutti fanno lobby, tutti sono "casta", tranne loro. Poi non veniteci a dire che il "circuito mediatico-giudiziario" non esiste e non ha il suo organo di stampa prediletto...

Il fantasma di Tobin. Davide Giacalone

Se il fantasma di James Tobin si presentasse ai governanti europei il rumore che si sentirebbe non sarebbe quello delle catene trascinate, ma l’ululato di rabbia per il modo in cui è stata distorta la “Tobin tax”. L’idea che i proventi di quella tassazione possano servire ad alimentare la spesa pubblica o diminuire i debiti di questo o quello stato è non solo difforme dall’originale, ma destinata a sicuro insuccesso. A dispetto della fregola tassatoria il mondo va dove lo porta il portafogli.

Attorno alla tassazione delle transazioni finanziarie l’Unione europea ha vissuto il suo ennesimo dramma, con annessa rottura da parte inglese. Il fatto è che non solo David Cameron ha ragione, dal suo punto di vista, ma la cosa non funzionerebbe neanche se ci fosse l’unanimità. Per rendersene conto basta osservare la realtà, leggendola con occhiali non ideologici.

A cavallo delle festività sono stati pubblicati diversi articoli, fra il colore e il compiaciuto, nei quali si raccontava il ritorno delle file per far benzina in Svizzera, dato che costa meno. Se, invece, si parla di quanti portano i soldi in svizzera il tono cambia completamente, e si passa alla condanna. A muovere i due eserciti trasfrontalieri è la stessa cosa: la convenienza. Salvo due differenze, significative: a. fare il pieno non è illecito, ma è conveniente solo per chi guida nei paraggi; b. esportare valuta non è lecito, ma la convenienza non si misura con il chilometraggio. La regola è comune: i soldi vanno dove li si tratta meglio. Chi li trasferisce con le valigette non gode di buona stampa, ma se ne trasferiscono tanti anche in modo lecito e trasparente, visto che in Europa ci si fa accesa concorrenza fiscale. Provate a contare quante aziende chiudono in Italia e non riaprono in Cina o in India, ma in Polonia e Austria. Opporre a questi fenomeni la proibizione del doganiere è come cercare di fermare i tifoni atlantici con il mose, che non funziona manco a Venezia.

Veniamo alla finanza e all’anima di Tobin. I mercati finanziari spostano ricchezza per un volume pari a 70 volte il prodotto annuo mondiale. Pensateci: una follia. Nessuno chiede di tornare all’epoca del baratto, scambiando mele contro uova. Ma neanche possiamo restare in un mondo in cui si assume che un chilo di pere vale dieci milioni e un uovo cinque, sicché scambiando un chilo contro due ovi si realizza una transazione da venti milioni. Le cose si sono terribilmente complicate da quando il globo è diventato piccino, il che è successo a partire dal giorno in cui abbiamo smesso di farci la guerra e s’è diffusa la telematica. Due fatti positivi. Bellissimi. Ma che possono essere utilizzati per farci del male.

Muovendo denari per 70 volte il pil mondiale, facendolo da ogni dove e 24 ore al giorno, questa roba ha superato la fantasia della Spectre, accumulando un potere largamente superiore, non imbrigliabile da nessuno stato nazionale. A guidarla, poi, non c’è un Tizio che liscia il micio, ma migliaia di Caio e Sempronio anonimi che se ne stanno dietro i computers, a far da protesi umana del programma che guida acquisti e vendite. Nel 1795 Immanuel Kant scrisse della necessità del governo mondiale per porre fine alle guerre, vivesse oggi proporrebbe la stessa cosa, ma per regolare la finanza.

L’idea di Tobin, premio nobel per l’economia, è tassare le transazioni a breve e in valuta straniera, in modo da stabilizzare i mercati. Solo che è stata fatta nel 1972 e si riferiva al mondo post Bretton Woods, quando Nixon liberò il dollaro dall’essere la valuta stabile, cui gli altri avevano il dovere di riferirsi. Quel mondo lì e il nostro non hanno nulla in comune. Ma, comunque, Tobin pensava, correttamente, a un accordo globale, con proventi da mettere a disposizione della comunità internazionale. Se si tassano le transazioni solo in un’area del mondo, in questo caso l’Ue, si ottiene il risultato di vederle migrare da un’altra parte, in virtù del principio che i soldi vanno dove rendono di più e sono meno tassati. Cameron, che guida il Paese dove si trova la piazza di Londra, ha già detto che non se ne parla nemmeno. Ma ove anche cedesse (e non lo farà) il risultato non sarebbe maggiore gettito, ma più veloce transumanza dei quattrini, alla ricerca di verdi pascoli.

Imbrigliare i mercati finanziari è necessario, ma gli strumenti non possono che essere diversi e globali. Tutto questo per dire, quindi, che i governanti europei sono miopi e piccini, affetti da statolatria fiscocentrica, quindi destinati a prender sganassoni dagli statunitensi, che esportano la loro crisi, e lezioni di mercato dagli asiatici, che importano i nostri soldi. Speriamo il fantasma di Tobin (defunto nel 2002) visiti le loro notti.

venerdì 6 gennaio 2012

E ora difendiamo chi produce. Luca Ricolfi

Lo so, ci sono cose che oggi non si possono dire. Non si può parlare dell'articolo 18, non si può dire quel che ha detto Grillo, non ci si può sottrarre alla guerra santa contro gli evasori e gli speculatori, non si possono difendere i ricchi (un clima così pesante e antiliberale da indurre Alesina e Giavazzi a ricordare che la ricchezza non è una colpa). Abbiamo bisogno di certezze e di capri espiatori. La certezza di non perdere quel che abbiamo. I capri espiatori su cui scaricare ogni responsabilità per i tempi duri che viviamo.

Così, una plumbea nuvola di cecità e di conformismo sta lentamente avvolgendo un po’ tutto e tutti.

Il governo sta finalmente, faticosamente e meritoriamente aprendo il dossier delle liberalizzazioni, ma il clima che si respira è di prudenza e di sospetto, specie in materia di mercato del lavoro. Gli altolà e gli avvertimenti scattano automatici, non per quel che uno ha fatto effettivamente, ma già solo per quello che potrebbe aver pensato, o avere in animo di pensare (vedi quel che è successo al ministro Elsa Fornero, rea di aver osato dire che si doveva parlare di mercato del lavoro «senza tabù»).

In un clima siffatto, io vedo il pericolo che, nel dibattito pubblico dei prossimi mesi, si mettano da parte alcuni dati di fondo, che sono cruciali per prendere decisioni sagge, ma appaiono urticanti o «politically taboo» a quasi tutti i soggetti in campo. Quali dati? Il primo dato è che la pressione fiscale sull'economia regolare è la più alta del mondo sviluppato (intorno al 60%), e così il livello di tassazione sulle imprese, il cosiddetto Total Tax Rate (68.6%). Questo è un handicap di fondo dell'Italia, che è stato ulteriormente aggravato dalle manovre finanziarie di Berlusconi, e in misura ancora maggiore da quella di Monti. Questo livello abnorme di tassazione si accompagna da sempre a norme vessatorie nei confronti di qualsiasi violazione (anche solo formale, o di entità irrisoria) delle regole fiscali, per non parlare dei comportamenti arroganti, intimidatori, o semplicemente umilianti degli emissari del fisco, che ovviamente non sono la regola ma di cui esistono purtroppo innumerevoli testimonianze, talora drammatiche e commoventi. Mi spiace doverlo dire, ma mi sono convinto che oggi in Italia un sentimento di paura verso l'Amministrazione pubblica sia ampiamente giustificato anche quando non si sia commesso alcun errore, reato o violazione. E tutto mi fa pensare che, affamato da decenni di spesa pubblica in deficit, lo Stato stia in questi anni accentuando il suo volto rapace e intimidatorio.

Il secondo dato di fondo è la strabica selettività della repressione dell'evasione. Ci sono intere zone del Paese in cui quasi tutto è in nero, si sa perfettamente dove si annidano gli abusi più clamorosi (compreso il caporalato e varie forme di sfruttamento del lavoro degli immigrati che ricordano i tempi della schiavitù), ma si preferisce chiudere ipocritamente un occhio, concentrando l'azione sulle porzioni del Paese in cui l'evasione c'è, ma è molto più contenuta. Pur di salvare il principio astratto che il lavoro deve essere pagato decentemente e iperprotetto, Stato e sindacati tollerano di buon grado che in un quarto del territorio nazionale si possa operare in modo del tutto irregolare, non solo sul versante dei salari ma su quasi tutto il resto (dal mancato pagamento del canone Rai alla violazione di ogni norma igienica, di sicurezza, antinfortunistica, etc.). Il fatto è che se volesse intervenire contro l'illegalità, lo Stato dovrebbe militarizzare circa un quarto del territorio nazionale, e distruggere un paio di milioni di posti di lavoro, che si reggono sui bassi salari.

C'è un terzo dato di fondo, che mi pare fondamentale ora che si sta per aprire lo spinoso capitolo del mercato del lavoro: da un paio di anni l'Italia sta riducendo la sua base produttiva. Fallimenti, chiusure volontarie di attività, bassi investimenti, distruzione di posti di lavoro, si stanno susseguendo senza interruzione dal 2008. Un po' dipende da un fatto nuovissimo, e cioè che questa crisi è, dal 1945, la prima in cui si prende in considerazione non solo l'eventualità di un double dip (doppia recessione, la prima nel 2009, la seconda nel 2012), ma anche l'ipotesi che la crescita non tornerà mai più, come ha già tristemente sperimentato il Giappone negli ultimi due decenni. In queste condizioni a molti pare inutile resistere in attesa di una ripresa che forse non ci sarà né l'anno prossimo né mai. Un po', però, dipende anche da un altro dato che ci si rifiuta di vedere, e cioè che lavorare e produrre in Italia sta diventando sempre più proibitivo sul piano dei costi di produzione.

Quando dico costi di produzione, però, non intendo solo le voci che sono al centro della prossima trattativa governo-Confindustria-sindacati. E' chiaro che salari e profitti sono troppo tassati, è chiaro che le imprese medio-grandi hanno troppi vincoli, è chiaro che in Italia si fa troppo poca ricerca, è chiaro che c'è troppo poca concorrenza sul mercato interno, è chiaro che bisogna aumentare la produttività del lavoro. E tuttavia, attenzione, non possiamo esagerare con la colpevolizzazione dei produttori, siano essi le imprese (cui si rimprovera cattiva organizzazione e scarsa innovazione), i lavoratori autonomi (cui si rimprovera di evadere le tasse), o i lavoratori dipendenti (cui si rimprovera di non essere abbastanza produttivi). Come tutti, vedo anch'io diversi furbi e farabutti che evadono spudoratamente il fisco, ma sempre più frequentemente mi capita di incontrare persone per bene, che gestiscono in modo efficiente un'attività, ma si trovano ormai di fronte al dilemma se chiudere o «fare del nero», e per lo più - proprio perché sono persone oneste - scelgono di chiudere.

Il tasso di occupazione, la produttività e la competitività non dipendono solo dai rapporti fra capitale e lavoro, come sembra suggerire l'attuale enfasi sulle relazioni industriali, ma anche da alcune fondamentali condizioni esterne all'impresa: il costo dell'energia, il costo del credito, i tempi di pagamento della Pubblica amministrazione, il costo degli adempimenti burocratico-fiscali, l'efficienza della giustizia civile. E' ingenuo pensare che l'operaio tedesco, che guadagna di più di quello italiano, sia più produttivo essenzialmente perché più stakanovista o meglio attrezzato dal suo datore di lavoro. Il valore aggiunto di un'impresa è la differenza fra il valore della sua produzione e i suoi costi, e lo svantaggio dell'Italia su questi ultimi è abissale. Fatti 100 i costi unitari dei Paesi a noi più comparabili (Germania, Francia, Regno Unito, Spagna), i costi dell'Italia sono circa 120 per la benzina, 170 per il gasolio, 250 per l'energia elettrica, 300 per i tempi di pagamento della Pubblica amministrazione, 400 per il rispetto dei contratti (senza contare gli ulteriori aggravi prodotti dalle recenti manovre «salva Italia»).

Se poi a tutto questo aggiungiamo la tassazione più pesante del mondo sviluppato, la rigidità del nostro mercato del lavoro regolare, l'enorme prelievo sul reddito e sulla ricchezza operato con le ultime manovre, il quadro si capovolge: la domanda non è più perché l'Italia non cresce, ma perché i produttori non hanno ancora gettato la spugna. Da questo punto di vista i governi che si sono succeduti negli ultimi anni mi paiono tutti molto simili. Sotto la pressione dei mercati, non hanno mancato di chiederci dei sacrifici, per «rimettere a posto i conti pubblici». Ma ben poco hanno fatto per abbassare in modo apprezzabile i costi di chi produce ricchezza, quasi a lasciar intendere che il problema della produttività riguardi essenzialmente le parti sociali. Temo sia stato un errore, e che la chiusura di tanti negozi, attività, imprese, che osserviamo così spesso oggi nelle nostre città, ne sia l'amara conseguenza. (La Stampa)

Imparate a zappare. Paolo Visnoviz

Ormai l’aria in que­sto Paese è dive­nuta irre­spi­ra­bile. C’è un clima da cac­cia alle stre­ghe, dove i primi nemici pub­blici sono dive­nuti gli eva­sori, veri o pre­sunti che siano, basta l’apparenza. Para­ful­mini di ogni ita­lico male fanno da con­trap­punto ad un clima sobrio, che si vor­rebbe moral­mente ele­vato. La nota com­pa­gnia di giro è final­mente sod­di­sfatta: “sì, biso­gna fare sacri­fici, tocca tirare la cin­ghia, ma che sod­di­sfa­zione non sen­tir più par­lare di Bunga-bunga ora che il Cai­nano è scom­parso e final­mente siamo diven­tati un Paese nor­male!”. Que­sta, in estrema sin­tesi, il senso di una recente pun­tata di Otto e Mezzo, pro­gramma de “La7” con­dotto da Lilli Gru­ber, inti­to­lata “Con sobrietà, senza Bunga-bunga”. Ospiti Clau­dio Sabelli Fio­retti e Carlo Frec­cero, anti­ber­lu­sco­niano doc dopo essersi arric­chito pro­prio con Berlusconi.

Certo che non si sente più par­lare di Bunga-bunga, era­vate voi — nota com­pa­gnia di giro — che ne par­la­vate, pronti ad enfa­tiz­zare nega­ti­va­mente ogni gesto e parola del Cav, e sem­pre voi siete sod­di­sfatti di quest’Italia sobria per­ché vivete come dei Panda nelle riserve, scol­lati dalla realtà. Nel frat­tempo il vostro nuovo nemico è dive­nuto l’evasore, per­so­nag­gio mito­lo­gico rico­no­sci­bile non da evi­denti frodi con­ta­bili, ma da simboli.

Nel tri­ta­carne sono finiti tutti i pos­ses­sori di auto di lusso che dichia­rano, secondo voi, troppo poco: tutti ladri. Ma la Guar­dia di Finanza dov’era fino ad oggi? doveva atten­dere di recarsi hol­ly­woo­dia­na­mente a Cor­tina per sco­varli? è così dif­fi­cile met­tere insieme i dati del Pra con una dichia­ra­zione dei red­diti? Eppure è per­fet­ta­mente pos­si­bile – e legale – dichia­rare meno di 30mila euro/anno e pos­se­dere un’automobile di lusso. Può essere per ere­dità, patri­mo­nio, ren­dite finan­zia­rie o infi­nite altre ragioni. Sta appunto alla Guar­dia di Finanza con­trol­lare. Che debba farlo a Cor­tina con simile insi­stito bat­tage fa sem­pli­ce­mente orrore.

Quanto sta acca­dendo altro non è che l’evoluzione della lotta di classe: non più ope­rai con­tro padroni, ma una certa ita­lietta con­tro i “ric­chi”, che spesso ric­chi non sono. E dell’italietta fanno parte prin­ci­pal­mente — oltre alla classe diri­gente e buona parte di quella intel­let­tuale — quasi tutti i 3,6 milioni di dipen­denti pub­blici, tanti bene­fi­ciari dei 24 milioni di pen­sioni ero­gate ogni mese, molti occu­pati delle grandi indu­strie o del para­stato, tutti quelli cioè che non si ren­dono conto di quanto sta acca­dendo nel Paese reale.

Non si pre­oc­cu­pano dei sui­cidi, quasi quo­ti­diani di impren­di­tori ridotti allo sfa­scio da que­sto Stato ini­quo, per­ché non sono toc­cati dalla crisi, se non mar­gi­nal­mente: ben­zina, vari rin­cari e a breve anche l’Imu. Ben poca cosa per chi è tran­quil­la­mente a sti­pen­dio fisso, con tre­di­ce­sime, quat­tor­di­ce­sime e cassa malat­tia. Qual­siasi cosa capiti.

Mario Monti ha dichia­rato che non biso­gna più aver paura dell’Italia, certo: l’ha defi­ni­ti­va­mente ammaz­zata. Le aziende che pote­vano sono fug­gite all’estero, altre stanno chiu­dendo. Il com­parto della nau­tica è stato affon­dato e fra un po’ capi­terà al mat­tone: oltre all’Imu, le riva­lu­ta­zioni degli estimi cata­stali si tra­mu­te­ranno in un salasso al momento del rogito. L’edilizia è già finita. L’industria auto­mo­bi­li­stica, annu­sata l’aria, da tempo è con le vali­gie in mano. Gli auto­tra­spor­ta­tori devono tenere fermi i camion per­ché non pos­sono pagare un pieno di gaso­lio; ma non c’è pra­ti­ca­mente più alcun set­tore che non sia ridotto sul lastrico.

Sem­pre più arti­giani, com­mer­cianti, pic­cole aziende usci­ranno dal cir­cuito pro­dut­tivo per­ché chiu­de­ranno o per­ché lavo­re­ranno defi­ni­ti­va­mente a nero: più aumen­tano le tasse, più con­viene eva­dere. Quelli che ancora non sono scap­pati o non hanno ancora chiuso è per­ché non pos­sono farlo, intrap­po­lati da qual­che fido bancario.

Si è final­mente riu­sciti ad uni­fi­care eco­no­mi­ca­mente l’Italia, ma non por­tando il Sud a livello del Nord, piut­to­sto spro­fon­dando il set­ten­trione a livelli meri­dio­nali. Quello che non volete capire — cari esti­ma­tori del dolce stil sobrio — è che così facendo si ammazza la gal­lina dalle uova d’oro. È così dif­fi­cile com­pren­dere che gli sti­pendi ero­gati dallo Stato sono pagati dalla parte pro­dut­tiva del Paese? Con­ti­nuate ad affer­mare che voi — sta­tali a red­dito fisso — pagate tutto, per­ché le tasse sono trat­te­nute alla fonte e non potete eva­dere. Non è vero, le tasse che voi pagate sono solo una par­tita di giro per le casse nazio­nali e lo sti­pen­dio una gene­rosa elar­gi­zione cor­ri­spo­sta da chi si spacca la schiena vera­mente e viene pure addi­tato come ladro. Siete un costo secco.

È finita, non ve ne siete ancora resi conto ma è finita anche per voi. Guar­da­tevi intorno e vedrete che cimi­tero di sara­ci­ne­sche abbas­sate c’è. Quando anche l’ultimo arti­giano, com­mer­ciante, pic­colo indu­striale avrà chiuso, quando anche Equi­ta­lia avrà finito di seque­strare quanto può e dove può, dando il colpo di gra­zia a chi fati­co­sa­mente cer­cava di resi­stere, pure voi rimar­rete senza più sti­pen­dio. Le casse dello Stato, già ora asfit­ti­che, saranno defi­ni­ti­va­mente vuote e non potranno essere rim­pin­guate stam­pando moneta o aumen­tando il debito pubblico.

Quel giorno è vicino. Oltre a chie­dere rac­co­man­da­zioni e ad essere bravi ad imbu­carvi in qual­che sper­duto inu­tile uffi­cio di pro­vin­cia, sapete anche fare qual­cosa di con­creto con le mani? Alle soglie del nuovo medio evo non ci sarà biso­gno di chi sa met­tere tim­bri o pas­sare carte, ma di chi sa zap­pare. Preparatevi. (http://www.zonadifrontiera.org/)

Perché il Pd tosco-emiliano teme la libertà di bottega? Chiedere alle Coop

Favorevoli a liberalizzare le farmacie e i benzinai, contrari, contrarissimi, a dare libertà ai negozianti perché possano scegliere autonomamente gli orari di apertura delle loro botteghe. Matteo Renzi osserva cauto ma sempre più perplesso le fluide evoluzioni di Enrico Rossi, cui vengono attribuite ambizioni nazionali da sinistra antibersaniana, e di Vasco Errani, entrambi suoi colleghi del Partito democratico, rispettivamente presidenti di Toscana e di Emilia Romagna. Al sindaco rottamatore di Firenze la battaglia dei governatori rossi contro le liberalizzazioni del commercio volute da Mario Monti – e già bandiera (strappata) del segretario Pier Luigi Bersani – appare come un documento straordinario sull’antropologia del Pd, partito che rischia di essere “dominato dalla quasità”, pensa il sindaco: quasi liberale, quasi moderno, quasi socialdemocratico. Così se la regione Toscana fa ricorso alla Consulta contro il governo (“non è il consumismo la risposta giusta alla crisi”, ha detto Rossi), e la maggior parte dei comuni toscani non sa ancora bene come muoversi, a Firenze invece Renzi applicherà subito la legge Monti, lui che aveva già garantito libertà di apertura dei negozi in città per il Primo maggio incorrendo nella censura di Susanna Camusso, segretario generale della Cgil. “Per il nostro paese le liberalizzazioni in tanti settori dell’economia non possono che essere un valore. Siamo il paese più arretrato in Europa, legato da corporazioni e gruppi di potere che continuano a crescere vivendo di rendita e impedendo l’accesso al mercato di nuovi competitori”, dice il vicesindaco renziano di Firenze Dario Nardella.

Ma se Renzi ne fa una questione culturale e politica interna al Pd “liberale a intermittenza”, e con le sue mosse (intende anche ignorare la circolare regionale della Toscana che invita i comuni a rispettare le normative regionali e non le nuove regole nazionali) vuole rottamare riflessi da vecchia sinistra quasi bolscevica, c’è anche chi sospetta più prosaici interessi di potere dietro la durissima difesa dello status quo messa in campo dal Pd tosco-emiliano (e anche umbro) contro le liberalizzazioni.

“Vogliono difendere il sistema delle Coop rosse”, dice Sergio Pizzolante, deputato romagnolo del Pdl, che aggiunge: “E’ lobbismo, assolutamente legittimo, ma è lobbismo. La questione è semplice: la legge Monti riduce le prerogative degli enti locali nel rilasciare concessioni commerciali. E’ evidente che questo indebolisce il rapporto storico tra le Coop e i Ds che in Emilia Romagna e in Toscana sono un sistema integrato e a porte girevoli, si passa dal partito all’azienda e viceversa”. Secondo Pizzolante, “il complesso del provvedimento approvato dal governo tecnico attacca i monopoli, che nelle regioni governate da Rossi ed Errani sono ‘il’ monopolio Coop e crea invece competizione di mercato, non solo per l’orario di apertura libero ma anche perché avvia una deregulation sulle concessioni”. Conclusione: “Potranno arrivare altri grandi operatori a fare concorrenza alle Coop, e non dovranno presentarsi ai politici che governano province e regioni rosse con il cappello in mano”.
© - FOGLIO QUOTIDIANO

giovedì 5 gennaio 2012

Sceneggiata dolomitica. Davide Giacalone

Quel che è accaduto a Cortina d’Ampezzo, con i controlli fiscali su esercizi commerciali, alberghi, ristoranti e proprietari di auto, suscita una certa ripugnanza. Sotto molti e diversi punti di vista. Il solo fatto che la presenza degli ispettori abbia magicamente raddoppiato il fatturato dei ristoranti la dice lunga. Ma non la dice nuova. Chiunque non viva fuori dal mondo sa benissimo che la tendenza generale è a trovare il punto d’equilibrio connivente: l’esercente evade le tasse, il cliente paga meno e l’economia in nero cresce. Si può scoprirlo a Cortina come a Porto Cervo, ma vale la stessa cosa a Ladispoli o Milano Marittima. Il vantaggio, in questo caso, a voler vedere il lato divertentente, è che non sentiremo tiritere sui meridionali fregoni.

Attenzione, però, a non pensare che tanto basti per gettare la croce addosso a ristoratori e commercianti, additandoli quali principi dell’evasione fiscale: se questo è possibile è perché gli italiani sono ancora molto liquidi. Quando si dice che ristoranti e aerei sono comunque pieni scatta il riflesso fessacchiotto di chi invita a valutare l’esistenza di chi fa la fame, ma ciò non toglie che il dato è reale: gli italiani vanno molto fuori e in giro. Che non è un male, non è un comportamento deprecabile, ma neanche la condotta di un popolo povero. Anzi. E qui vengo al punto dolente: se la disciplina fiscale fosse fatta valere con rigore, come giustizia vorrebbe, il tenore di vita scenderebbe. Vi fanno male le orecchie a sentirlo? Non staranno meglio nel mentire.

Tutto ciò non è bello. Anzi, è vagamente ripugnante. Ma non lo è meno l’idea che possa imboccarsi la via del dagli al ricco e al consumatore di prodotti affluenti. Primo, perché tali sono tantissimi italiani, non solo i presunti ricchi da telefilm. Secondo, perché quello è un mercato che dovremmo favorire non punire, che c’invidiano nel mondo e dovrebbe essere utilizzato per attirare ricchezza, non per distruggerla.

Dubito che gli autori dei controlli, per il luogo e per la data scelti, non avessero messo nel conto un certo clamore mediatico. Piuttosto credo che lo abbiano cercato. Un esempio: i controlli sui proprietari di auto di grossa cilindrata non solo si possono fare ovunque e sempre, ma anche stando dietro una scrivania. E’ facile. Cercarli nella perla delle Dolomiti ha, però, un valore aggiunto spettacolare. Tutto questo, però, nuoce gravemente alla credibilità dello Stato. Intanto perché non è un peccato possedere grosse macchine. Poi perché l’Italia le produce, ed è bene qualcuno le compri. Infine perché le notizie comunicate alla stampa omettono di ricordare un dettaglio: nulla di quello che è stato accertato ha il benché minimo valore se non passato al vaglio di un giudice terzo (nel caso il contribuente voglia ricorrere). Lo spettacolo dell’accusa, cui l’Italia s’è assuefatta, non è la messa in scena della severità, ma la tragedia dell’inciviltà. La vettura può essere intestata ad un familiare (coniuge, figli) non dotato di reddito, ma non per questo è un evasore, visto che, magari, il pagamento è stato effettuato da chi dichiara cifre più che congrue. Dite che sto sognando? Può darsi, anzi vado oltre: i numeri dicono che troppi italiani spendono soldi che ufficialmente non hanno. Ma metterne alla berlina alcuni, sollecitare l’invidia sociale, offrire motivazione alla rabbia, è la via sicura verso la perdizione.

La vedo così: posto che da noi la pressione fiscale è troppo alta, sicché chi è onesto paga troppo, la via di fuga non può essere la disonestà (che va punita), ma il premio all’onestà. Non chiedetemi di fare l’esattore del ristoratore, ma premiatemi se, pagando in modo regolare, contribuisco al prodotto interno e al fisco. Allettatemi con la convenienza, non intimoritemi con il terrore fiscale. L’obiettivo è essere più ricchi e più onesti, non più poveri e ipocriti.

martedì 3 gennaio 2012

Mafia e procura. Davide Giacalone

Quando inizia un nuovo anno è naturale che si pensi al futuro. Il 2012, però, dovrà vedersela con il passato, anche perché la storia bugiarda non passa mai, rimane lì, aggrappata a intrappolare il futuro. Quest’anno dovrà concludersi il processo a Mario Mori, generale dei carabinieri ed ex capo dei Ros, accusato di avere favorito la mafia. Credo che Mori verrà assolto, ma non è questo, con tutto il rispetto per la sua vicenda personale, il fulcro del problema. L’assoluzione di chi ha servito lo Stato ed è stato ingiustamente accusato è, tutto sommato, un dettaglio. Quel che conta è la verità, che nel caso del processo a Mori significa anche la verità sulla morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, quindi sul marcio che c’era alla procura di Palermo. Avete letto bene (e non è la prima volta): il marcio in procura, nella magistratura.

Chi ha seguito le nostre riflessioni, chi non s’è spaventato e a buttato via i nostri scritti, perché così distanti, così incredibilmente diversi dalla vulgata più accreditata e applaudita, non si stupirà. Ma anche chi non ci ha considerati dei pazzi potrà sentire un brivido correre lungo la schiena nel leggere quel che Mori racconta, in un libro scritto con Giovanni Fasanella (Ad alto rischio). Noi abbiamo usato la logica, partendo dai fatti, Mori è un protagonista dei fatti. Racconta come la procura di Palermo massacrò l’inchiesta cui Falcone e Borsellino tenevano tanto, denominata “mafia e appalti”. Racconta come quelle carte furono spappolate, divulgate per essere massacrate, quindi archiviate: “Per la parte che riguardava le connivenze politico-amministrative, a tre giorni dalla morte di Borsellino, la procura richiese e ottenne l’archiviazione. Ancora oggi non ne ho compreso i motivi”. L’archiviazione ufficiale porta una data che descrive una storia: ferragosto. Il giorno in cui neanche i morti fanno notizia. Ferragosto, quando è facile nascondersi, ma poi risulta clamoroso essersi lì rimpiattati.

Finché queste cose le scriviamo noi la cosa può risolversi con il più antico e collaudato dei rimedi: l’omertà. Si copre tutto con il silenzio e si lascia che i riflettori puntino sugli eroi fasulli di una storia bugiarda, sullo sfondo mendace di un palcoscenico immaginario. Ma quelle parole, ora, sono sulla bocca del carabiniere che organizzò e diresse le indagini. In un Paese appena appena normale ciò sarebbe scandalo. In un Paese in cui l’onestà intellettuale non fosse prostituita al luogocomunismo della più ignorante codardia questo dovrebbe far rumore su tutti i mezzi d’informazione. Invece nulla. A conferma di quanto solido e radicato sia il male.

Un brivido l’ho provato pure io. Trovando nelle pagine di Mori il riferimento al provvedimento d’archiviazione con cui il gip di Caltanissetta chiuse l’inchiesta sullo scontro fra le procure siciliane. 250 pagine dense di nomi. Sono rabbrividito perché anche io ero partito da quelle pagine, per ragionare, e c’ero arrivato su indicazione del braccio destro di Paolo Borsellino, un altro valoroso carabiniere, un uomo probo e con la schiena dritta, che s’è ciucciato anni di processi come se fosse un mafioso: Carmelo Canale. Assolto, lui. Condannati, noi, invece, a perpetuare il falso racconto di quelle morti.

Scrive ora Mori: “ero convinto che non tutti i pubblici ministeri di Palermo fossero decisi a combattere Cosa nostra”. Detto in modo diverso: la mafia aveva uomini avvicinabili e avvicinati, in procura. Che sia stata la mafia dei macellai, quella dei capi, o quella degli amici degli amici, che cambia? La storia è chiarissima: morirono i magistrati che erano stati isolati dentro la procura di Palermo, morirono gli sconfitti, morirono Falcone e Borsellino. Gli altri rimasero, ridendo della loro memoria e appropriandosene, inneggiati dalla stolta sinistra dei conniventi. Forse io non ho capito mai niente, forse Mori è un delinquente depistatore. Forse. O forse nessuno ha mai voluto mettere il naso nel covo più losco: la procura di Palermo.

Non è finita qui, perché anche il mancato rientro, per testimoniare, di Gaetano Badalamenti, Mori lo mette nel conto dell’“impossibilità di bypassare la procura palermitana”. In quel caso ci fu il morto, ma dalla parte dello Stato, o, meglio, di quella parte dello Stato interessata a combattere la mafia. Morì Antoniono Lombardo, carabiniere, suicida. Accusato da Leoluca Orlando Cascio, in diretta televisiva, d’essere amico dei mafiosi. La politica intervenne, pubblicamente, per fermare i carabinieri che avrebbero fatto testimoniare un mafioso. Eppure ancora si fa finta che siano misteriose e sconosciute, le interazioni fra mafia e politica. O, magari, a supremo scorno dei morti e mortificazione dei vivi, si fa gestire lo spettacolo antimafia a chi fu utile alla mafia. Lombardo, del resto, lo lasciò scritto: “la chiave della mia delegittimazione sta nei viaggi americani”. Nero su bianco. E lo disse suo cognato, Canale: Antoniono è stato ammazzato. Hanno processato lui.

Mori non spende una parola sulle così dette “stragi di mafia” e sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia. Capisco, in questo momento è lui che subisce il processo, proprio per quelle storie. Restano le nostre ricostruzioni, le nostre date, i fatti che abbiamo messo in fila. Seguendo lo stesso metodo e la stessa logica. Ecco perché dico che l’anno appena iniziato deve guardare al futuro, ma che quel futuro sarà una cloaca se non si avrà l’onestà di fare i conti con il passato. Il coraggio scarseggia, nell’Italia degli accodati. Ma non contino sul nostro silenzio. Auguri.

lunedì 2 gennaio 2012

Fango e falsi moralismi: ecco cosa davvero ha portato Don Verzè alla morte. Vittorio Sgarbi

Mi dicono che Massimo Cacciari ha scritto o ha detto di Don Verzè cose alte e nobili, e persino minacciose nei confronti di quanti abbiano messo in dubbio l’integrità morale di quell’uomo per i suoi probabili generosi errori.

Non posso che condividere questa posizione e aspettarmi che l’assumano altre personalità del pensiero, come la docente della «Filosofia della Persona » Roberta De Monticelli.

Nel caso dei due filosofi si tratta quasi di un dovere d’ufficio,essendo stati, senza manifestare incompatibilità o riserve, docenti dell’Università Vita-Salute del San Raffaele, fondata da Don Verzè.

Comunque sia, io credo che sia venuto il momento di dire dell'infamia di chi ha cercato nella vita di Don Verzè altro che il desiderio di contribuire alla felicità e alla salute degli uomini, con uno schietto amore suggerito dall’amore in Dio.

Delle cose terrene, e dei conti e delle questioni materiali sono assolutamente certo che la responsabilità di Don Verzè non fu mai diretta ma sempre preterintenzionale.

Mi viene in mente oggi, che lo si accompagna al luogo dell’estremo riposo, che gli ultimi anni fra protagonismi, paradossi e parossismi giudiziari (sia in ambito religioso sia in ambito profano) ci hanno offerto uno spettacolo orribile, di mistificazione e di finzione, chiamando comportamenti umani e talvolta debolezze, con il nome delle più inverosimili cospirazioni e dei più gravi reati e intrallazzi ( P3, P4, favoreggiamento della prostituzione), trasformando in mostri uomini come Emilio Fede, Alfonso Papa, Luigi Bisignani, Lele Mora, Guido Bertolaso. Tutte bufale, falsificazioni, interpretazioni tendenziose e certamente in mala fede, per trasformare persone deboli o fragili o anche titolari di vizi privati, in pericolosi delinquenti. Non ci facciano ridere. Ci avevano già provato con una costruzione giuridica ( opera di Gherardo Colombo) smantellata dalla Corte di Cassazione, con la P2, non spiegandoci mai quali reati avrebbero commesso il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, Roberto Gervaso, Maurizio Costanzo, Enrico Manca, Alighiero Noschese, e giornalisti come Alberto Sensini, Roberto Ciuni, Franco Di Bella. Invenzioni. Che hanno lasciato una scia indelebile di diffamazione, senza una sola condanna, con la retorica della Commissione presieduta da Tina Anselmi, e con il riconoscimento della sola responsabilità individuale, non associativa, di Licio Gelli.

La magistratura ha creato dei mostri.L’aveva tentato,senza riuscirsi, bloccata da un’ondata di indignazione, con Enzo Tortora. E soltanto il suicidio ha sottratto a questa macchina del fango istituzionale (perché tale è stata ed è) uomini valorosi come il magistrato Luigi Lombardini, umiliato da Giancarlo Caselli e dai suoi con uno stringente interrogatorio ritenuto regolarissimo dal Csm. Sconfortato, però, Lombardini si uccise.

Sono alcuni dei tanti casi di arbitraria demonizzazione. Con l’inizio delle inchieste di tendenza, su pedofilia e omofobia (spesso associate nelle inchieste della magistratura) si sono creati altri straordinari casi. Quello di Don Pietro Gelmini, uomo straordinario, umiliato, mortificato, ridotto allo stato laicale, dopo decenni di straordinaria attività in favore dei giovani: 8mila, 9mila, 10mila riportati alla salute e restituiti alle famiglie con un’opera grandiosa di assistenza, conforto, persuasione. E infine costretto a riferire di alcune insignificanti debolezze per qualche parola o carezza indirizzata ai più subdoli e maliziosi tra i giovani che ne avevano accettato le manifestazioni di amicizia e di affetto. Nulla. Don Gelmini non ha fatto nulla e la sua opera è stata sporcata, annichilita e dimenticata. Gentilezze e bontà trasformate in violenza e sfogo di bassi istinti.

Infine si è tentato con Don Verzè, che si è sottratto ai suoi aguzzini con una morte naturale (?) calcolata. Perfetta nei tempi, nel giorno in cui si bandiva l’asta del suo amatissimo ospedale.

Qualcuno per lui avrà fatto male i conti? Ebbene, l’impresa non è meno grande per questo. Ma la diffamazione patita da Don Verzè, quella sì, è certamente un reato, compiuto con l’apparente copertura del «nome del Popolo Italiano».

Così si è cercato di trovare vizi e debolezze di un uomo buono, interrogandosi sull’acquisto di un aereo di cui ha spiegato, con apparenti paradossi, l’esigenza,per evitare ( in ciò diverso da Don Gelmini) di farsi mettere le mani addosso in assurdi e irrazionali controlli cui ci siamo rassegnati.

Così per andare a vedere malati Don Verzè doveva farsi toccare e magari consegnare una bottiglia di vino o la schiuma da barba, o una marmellata, proibite nel bagaglio a mano, ma naturalmente consentite nel duty-free. Uno schifo, una insensatezza con cui si cerca di dimostrare un’uguaglianza da deportati, per trovare terroristi che puntualmente sfuggono.

Senilmente irritato da questa mancanza di rispetto, Don Verzè avrà cercato di disporre di quell’aereo che talvolta qualche amico mecenate gli avrà prestato. Tutto qua. Dopo settant’anni di impegno per la medicina, per la cultura, per i valori etici. Onore a Don Verzè e disprezzo per i suoi detrattori. Ha ragione Cacciari.

Vorrei concludere: nell’elenco sopracitato (Don Gelmini, Fede, Papa, Mora, Bertolaso, Don Verzè) delle vittime della diffamazione giudiziaria, sistematica, implacabile, orientata, non sarà che il reato innominabile che le accomuna, laici o preti che siano,è l’amicizia con Silvio Berlusconi? (il Giornale)