martedì 30 giugno 2009

Letta, Berlusconi e il Sunday Times. l'Occidentale

Nel numero in edicola venerdì scorso, L'espresso (gruppo De Benedetti) ci informava che Silvio (Berlusconi) e Gianni (Letta) sono ancora insieme, ma separati "da una invisibile cortina di sfiducia", perché il secondo - Gianni - a cena a casa di Silvio avrebbe deciso di non farsi vedere più.

La cosa, nel bailamme di questi giorni, passa inosservata: le agenzie la ignorano, gli altri giornali non la riprendono. Insomma, una voce come un'altra, manco troppo plausibile.

Ieri però, da oltre Manica, il Sunday Times - evocando beninformate, anonime e molto presunte fonti interne al governo italiano - ci ha fatto sapere che tra Gianni e Silvio qualcosa si è rotto. La prova? Che il primo declinerebbe gli inviti a cena del secondo. Apriti cielo! A cominciare dal sito on-line di Repubblica, passando per tutti gli altri, fino ad arrivare ai quotidiani di stamattina, la notizia era ormai oro colato.

Repubblica in particolare (gruppo De Benedetti) puntando al recupero, esibisce a pagina 11 la pistola fumante, a firma del corrispondente da Londra: Gianni Letta, sottosegretario e più fidato collaboratore di Silvio Berlusconi, ha preso le distanze dal premier e rifiuta i suoi inviti a cena. Sicuro? Sicurissimo, lo scrive il Sunday Times!

Resta il dubbio su quale dei colonnelli del Pd salterà su questa volta sventolando la stampa estera e accusando Berlusconi di esporre l'Italia al pubblico ludibrio. Ma il meccanismo ormai è piuttosto scoperto: i giornali del gruppo Debendetti riportano voci, fonti anonime, sospetti, sussurri di palazzo, finti virgolettati. Il giorno dopo la stampa inglese ormai specializzata, traduce (spesso male, ricordare il Signore nel senso del Padreterno scambiato per Berlusconi da Times?) ripubblica con tanto di sopracciglio alzato e il giorno dopo qui Italia tutto viene preso come Vangelo. D'altronde è la stampa anglosassone no?

La sinistra che non c'è. Davide Giacalone

Fino ad ottobre, data del congresso Pd, la sinistra sarà occupata a dividersi, recriminare sul passato recente e barcamenarsi fra correnti e candidati. Nelle dichiarazioni pubbliche, intanto, diranno: il nostro è un congresso vero, preparato da una lunga e travagliata discussione politica, gli altri, quelli che i congressi o non li fanno o li scambiano per celebrazioni, prendano esempio. Se fosse vero, avrebbero ragione, ma il guaio grosso è che neanche loro parlano di politica.
La sinistra italiana, oggi, è il combinato di quel che avanza del mondo comunista e di quel che resta della sinistra democristiana, cui si somma un fritto misto di naufraghi vari. Ciò che si sforza di raggiungere è un equilibrio interno che le consenta di coalizzare il massimo possibile di forze, quindi il massimo raggiungibile di voti, in modo da battere il proprio unico punto di riferimento, il proprio ideologo per negazione: Berlusconi. Questa è la missione, i cui fondamenti “nobili” sono il fossile della già ripugnante, prepolitica ed antistorica “diversità” berlingueriana, mescolata alla pretesa di detenere un qualche diritto di rappresentanza sull’elettorato di centro. Fine, per il resto non c’è lo straccio di un’idea.
La colpa di ciò non è solo dei dirigenti attuali, ma è l’eredità di un’insufficienza storica. La sinistra italiana ha, nel suo dna, il massimalismo e l’ideologia, che oggi adatta a moralismo e luogocomunismo. Così, periodicamente, si trova a scegliere: o porta i propri parlamentari a sostegno di governi commissariali, che chiamano “tecnici”, come accadde con Ciampi e Dini, oppure li usa per governare in proprio, creando i disastri autodemolitori di Prodi, D’Alema ed Amato. La discussione congressuale, così com’è impostata, è destinata a riprodurre il passato.
Quello che alla sinistra italiana manca, quel che la condanna, è la componente, anzi no, la guida di intelligenze laiche, democratiche (quindi anticomuniste), occidentali e pragmatiche (quindi riformiste). Se a quell’anima si consentisse d’esistere, la sinistra metterebbe in mora la maggioranza reclamando modernità e giustizia sociale, chiedendo riforme del sistema istituzionale, della giustizia, della scuola, del mercato del lavoro e delle pensioni. Oggi fa il contrario, guadagnandosi il destino che merita.

domenica 28 giugno 2009

Bondi:"Così Scalfari e Repubblica puntano a rovinare l'Italia". Vincenzo La Manna

Ministro Bondi, siamo dinanzi a minacce e disperazione, come titolava ieri nel suo editoriale Ezio Mauro, «tecnicamente» convinto che dalle parole di Silvio Berlusconi venga fuori una «pulsione totalitaria»?
«Ezio Mauro ed Eugenio Scalfari ritengono, non da oggi, che il popolo italiano sia moralmente tarato e abbia perciò bisogno di essere guidato e governato da una sorta di avanguardia politica e culturale, depositaria della virtù o rappresentante dell’Italia migliore. Dopo avere sperato nell’azione dei magistrati di “Mani pulite” e fiancheggiato la marcia della “gioiosa macchina da guerra della sinistra”, che avrebbe dovuto conquistare il potere, Repubblica ha individuato in Berlusconi l’interprete di quell’Italia moralmente inferiore e bacata che vive nella loro testa».
Perché, secondo lei?
«Il fatto è che non si spiegano come mai quest’Italia, che odiano e che disprezzano, finisca per prevalere rispetto ai loro disegni politici e vinca addirittura le elezioni, nonostante abbia contro tutti i mezzi di comunicazione, tutti gli intellettuali, tutti i rappresentanti dei poteri che contano. Siccome non si fanno una ragione di questo fenomeno, cioè non sono capaci di offrire una spiegazione culturalmente efficace e onesta della realtà, il loro odio e il loro risentimento giunge fino al punto di perseguire ogni mezzo e di utilizzare ogni strumento per liquidare gli avversari politici che si frappongono ai loro progetti e ai loro interessi. Per questo la posizione di Scalfari ha portato la sinistra in un vicolo cieco e ha determinato e determinerà la rovina dell’Italia».
Addirittura?
«Già, perché questo vogliono: la rovina dell’Italia. Come i giacobini, preferiscono distruggere tutto, ricostruire dalle macerie fumanti, piuttosto che riconoscere la realtà, il responso della democrazia. La democrazia che ha in mente Scalfari è quella in cui contano, non gli eletti e il popolo, bensì i cosiddetti poteri “illuminati”, cioè le élites, i circoli politici, economici e culturali che detengono il potere, ma non le sorti della democrazia».
Non le sembra uno scenario troppo impietoso?
«Guardi, il superpartito di Repubblica agisce per annullare la volontà del popolo che si esprime attraverso il fastidio della democrazia e per assegnare il governo della società a un comitato di salute pubblica, come durante l’età del Termidoro, a un gruppo ristretto di cittadini depositari della verità, del bene, della moralità repubblicana. Dovremo essere riconoscenti a Berlusconi vita natural durante per averci salvato e per resistere a questa minaccia eversiva».
Restiamo ancora a sinistra. Come valuta i movimenti interni al Pd in vista del Congresso?
«Credo che abbia detto una parola risolutiva Massimo Cacciari, una persona seria e intelligente, quando ha affermato che un’intera classe dirigente ha fallito nel dare vita a una forza politica riformista di governo. Aggiungendo che è il momento di passare il testimone ai giovani. Come non dargli ragione?».
Ai democratici servirebbe dunque un ricambio generazionale?
«Gli zii, come li ha chiamati sprezzantemente Scalfari, cioè i D’Alema, Veltroni, Franceschini e Bersani, ormai hanno fatto il loro tempo. Il problema per la sinistra, tuttavia, è più complesso, perché gli zii non hanno neppure preparato il rinnovamento, hanno sempre ostacolato la nascita di una nuova classe politica. E oggi capisco che è difficile passare da D’Alema, per quanti difetti abbia, alla Serracchiani».
Rimane ancora il nodo Idv.
«La questione politica dirimente per il Pd, qualunque ne sia il nuovo leader, è proprio il rapporto con Di Pietro. Ma temo che nessuno riuscirà ad affrontarlo e risolverlo con chiarezza, perché l’occasione per far nascere una forza politica riformista è stata persa da decenni. Ora è troppo tardi, e Di Pietro accompagnerà il lento tramonto della sinistra italiana, come un virus che, entrato nel suo corpo, lo ha portato alla morte».
Passiamo al rapporto con l’Udc. Per Verdini bisognerebbe rilanciare l’alleanza con il Pdl. «Il rapporto con l’Udc è complesso».
In che senso?
«Be’, non basta invocarne un’alleanza. È necessario anche prendere atto e rispettare il suo progetto politico, che si fonda sull’autonomia e sul rifiuto del bipolarismo. Inoltre, l’elettorato Udc ha subìto una trasformazione e un mutamento rispetto al passato, che richiederebbe una lettura più approfondita. E il tema, comunque, andrebbe affrontato coinvolgendo la Lega e solo dopo un’ampia discussione all’interno del nostro partito».
A questo punto apriamo il capitolo Carroccio.
«La Direzione del Pdl ha votato all’unanimità un documento politico nel quale l’alleanza tra il Pdl e la Lega di Umberto Bossi, molto simile a quella della Cdu-Csu in Germania, viene riconosciuta come strategica per il cambiamento dell’Italia».
Differenti ma uniti?
«Si tratta di un’alleanza tra forze politiche diverse, in qualche modo in competizione, ma con un grado di affinità e unità molto forte. E prevedere, nel futuro, almeno un rapporto federativo, non sarebbe da escludere a priori».
Pdl: si raccontano frizioni nel «triumvirato» di cui lei fa parte.
«È tutto frutto di ricostruzioni interessate a fornire l’impressione di un progressivo disfacimento del quadro politico, del governo e del partito di maggioranza relativa. In verità, i miei rapporti con gli amici La Russa e Verdini sono eccellenti e la nascita del nuovo partito procede senza alcun problema».
Si continua a discutere sul futuro ruolo di Gianfranco Fini.
«Ai miei occhi ha un grande merito: quello di avere aperto uno spazio di confronto democratico. È una novità estremamente positiva, perché il nuovo partito che nasce ha un leader forte e incontrastato, ma ha bisogno di sviluppare anche una vita democratica aperta e pluralistica. Stiamo preparando la nuova edizione della scuola di Gubbio e spero che il presidente Fini possa partecipare». (il Giornale)

venerdì 26 giugno 2009

Berlusconi difende D'Alema. Affari italiani

Di Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio
"Non ho mai condiviso i modi di chi ricorre ai pettegolezzi ed alle chiacchiere di vario genere per insinuare dubbi o gettare discredito nei confronti di qualcuno. Esprimo perciò tutta la mia solidarietà a Lorenzo Cesa. Se si leggono gli articoli sul Giornale di oggi si vede che su Cesa non c'è nulla di nulla ma basta un titolo che fa un nome per criminalizzare una persona e sconvolgere una famiglia. Conosco Cesa, gli sono amico e lo stimo al di là delle differenze politiche. Lo stesso voglio dire espressamente nei confronti dell'onorevole Massimo D'Alema, dei suoi collaboratori, della famiglia Agnelli e per quanti siano stati colpiti oggi da questo tipo di polemiche. Sono stato facile profeta quando ho previsto che l'imbarbarimento provocato da una ben precisa campagna di stampa avrebbe messo in moto una spirale che va assolutamente arrestata. Poiché io ho denunciato aggressioni a mio danno nessuno può pensare che io possa approvare analoghi metodi ed aggressioni nei confronti di chiunque".

mercoledì 24 giugno 2009

Ma il Pd non sa contare. Luca Ricolfi

Declino della destra? Se non lo avessi visto e ascoltato lunedì sera dal vivo, mentre lo diceva in tv, non ci avrei creduto. Avrei pensato che i giornali avevano frainteso le dichiarazioni del segretario del Partito democratico, o le avevano forzate un po’, come troppo spesso accade. E invece no, Franceschini aveva detto proprio così: queste elezioni sono andate bene, «è iniziato il declino della destra».

Allora vediamole le cifre di questo declino della destra. Per ora il quadro è completo solo per le 62 Province e i 30 Comuni capoluogo (più lunga e complessa l’analisi dei risultati dei Comuni minori). Per capire dove tira il vento della politica c’è un sistema molto semplice: contare in quanti casi c’è stato un cambiamento di colore politico, e confrontare il numero di amministrazioni conquistate dai due schieramenti, ossia i passaggi da destra a sinistra e viceversa. Ebbene l’esito non potrebbe essere più chiaro: su 32 amministrazioni che hanno cambiato colore non ve n’è neanche una che sia passata da destra a sinistra, perché tutte - ossia 32 su 32 - sono passate da sinistra a destra.

Né si può dire che esista un’area del paese in cui la sinistra abbia tenuto: al Nord la destra ha conquistato 11 Province e 5 Comuni, nelle «regioni rosse» ha conquistato 2 Province e 1 Comune, nel Centro-Sud (dal Lazio alla Sicilia) ha conquistato 10 Province e 3 Comuni. Il risultato è che ora il centro-destra, tradizionalmente forte nelle elezioni politiche e debole in quelle amministrative, governa oltre il 50% delle Province e dei Comuni capoluogo in cui si è votato, mentre prima ne governava meno del 16%. Simmetricamente, il centrosinistra scende dall’84% al 48% e oggi governa in meno della metà delle realtà in cui si è votato.

Naturalmente può darsi benissimo che il consenso alla destra sia in declino, e che le prossime elezioni le vinca la sinistra, specie se si dovesse votare fra quattro anni e nel frattempo il governo non fosse riuscito a combinare granché, o Berlusconi - travolto dai suoi scandali e dai suoi guai giudiziari - fosse stato costretto a un’uscita di scena poco onorevole. E tuttavia per vedere nei risultati di questa tornata amministrativa i segni del declino del centrodestra mi pare ci voglia una fantasia decisamente fervida. Se fossi un dirigente del Pd, rifletterei semmai su questa circostanza: la disfatta per 32 a zero che il centrosinistra ha subito in questa tornata amministrativa non si è consumata in un momento politicamente felice per il centrodestra, bensì in un momento di difficoltà e debolezza. Debolezza per le vicende del premier (processo Mills, caso Noemi, caso Patrizia), che secondo i sondaggi hanno allontanato una parte dell’elettorato, soprattutto cattolico. Ma debolezza anche perché, come giustamente notava ieri Massimo Giannini su Repubblica, è probabile che una parte dei leghisti se ne siano andati al mare «preferendo l’affondamento del referendum al sostegno del candidato dell'alleanza di centrodestra».

Se il centrosinistra ha perso, e perso così sonoramente, nonostante l’avversario fosse in un momento di difficoltà, quel che viene da chiedersi non è se sia iniziato il declino del centrodestra ma, tutto all’opposto, se stia continuando quello del centrosinistra. La mia impressione è che la risposta sia affermativa, e che gli anni che abbiamo davanti saranno molto duri per il partito di Franceschini. Duri perché è possibile che, a differenza di quanto avvenne nella legislatura 2001-2006, le tornate amministrative intermedie (a partire dalle Regionali dell’anno prossimo) riservino amare sorprese a un partito che ha nel controllo delle amministrazioni locali una delle sue ragioni di esistenza. Duri perché d’ora in poi il partito di Franceschini dovrà convincere gli italiani non solo a preferirlo al Pdl, ma a preferirlo abbastanza da indurli a recarsi alle urne, visto che il «non voto per scelta» sta diventando un’opzione seria per molti cittadini stanchi di questa politica. E duri, infine, perché sarà difficile che qualcosa cambi davvero a sinistra se il Pd e i suoi mezzi di informazione conserveranno la più tenace fra le eredità dello stalinismo: l’indifferenza ai fatti, la mirabile capacità di capovolgere i crudi dati della realtà. (la Stampa)

sabato 20 giugno 2009

Il ricatto. Davide Giacalone

I fatti sono d’infinita miseria. Che se ne debba parlare è umiliante. Ma non c’è nulla di casuale, come avvertimmo già dieci giorni fa: dal compleanno alla mondana con il registratore, dalle foto all’inchiesta giudiziaria, c’è chi conosceva anticipatamente le tappe ed ha costruito il ricatto. Già la sola esistenza del ricatto è cosa d’enorme gravità, obbligandoci a riflessioni amare. Non solo sui ricattatori.
La prendo alla lontana, ma serve a capire. Camillo Benso, conte di Cavour, primo presidente del Consiglio del regno italiano, perse la testa per una ballerina magiara (o prussiana, non si sa): Bianca, che di cognome faceva Ronzani perché sposata. Camillo fece avere soldi, del governo, al marito, poi ne diede, dei propri, anche a lei. Gliene diede anche il nipote del conte, per riavere, dopo la morte del congiunto, le lettere infuocate di passione. Lei accettò, ma siccome con certe vocazioni si nasce, alcune le aveva già vendute (e c’è chi sostiene che non sia stata estranea alla morte prematura). Furono ritrovate, a Vienna, sicché gli amici dello statista le distrussero. Così va il mondo. O, meglio, andava.
Oggi, invece, non si butta via nulla. Cerchiamo di non buttare neanche il cervello, però, e non abbocchiamo tutti alla messa in scena. Guardate i fotogrammi di questo film, fatelo in maniera fredda, senza passioni antiberlusconiane, ma senza nemmeno un grammo di benevolenza per il protagonista passivo. Vi pare possibile che si monti uno scandalo colossale sulla stupidata di una festa di compleanno? E vi pare possibile che si distribuiscano foto scandalistiche dove quello nudo è un ceco di nome Topolánek (un nome, un programma), che se ne sta con la sua compagna e che, del resto, fu già protagonista di uno scandalo rosa, avendo tradito la moglie, Topolánková (aridaje)? Ma neanche l’Eco della Parrocchia avrebbe osato montarci su una campagna moralistica! Invece è successo, perché chi ha indotto a muovere il primo passo sapeva delle tappe successive, quindi sapeva che la cosa non sarebbe morta subito, e nel ridicolo.
Non credo che si tratti della sinistra, politicamente intesa. E neppure dei giornali, intesi come redazioni. Quelli sono strumenti. Neanche troppo vispi: pensate al Corriere della Sera, che in una pagina pubblica il numero di telefono delle agenzie che forniscono puttane, ed in quella appresso si scandalizza perché qualcuno ha telefonato. Qui non ci sono segugi del giornalismo, perché altrimenti non avrebbero preso cantonate epocali, intervistato gente che poi si scusa, o pubblicato che una venditrice di prestazioni intime avrebbe voluto dei favori per i propri terreni, sui quali, a questo punto, può coltivare patate per l’eternità. No, questa è roba più sozza.
La vedo così: nel 1992 i partiti di governo raccoglievano più voti di qualsiasi altra coalizione li abbia succeduti, e furono fatti fuori con un colpo giudiziario. Ancora tutto da raccontare. Ci hanno provato e riprovato con Berlusconi, ma non ha funzionato. Se la cosa avesse una finalità prettamente politica, occorrerebbe lavorare per un’opposizione seria e vincente, puntando sulle debolezze (che non sono poche) del governo. Invece nessuno ha la minima fiducia in questa opposizione, neanche quelli che la guidano. La politica l’hanno prima ammazzata e poi seppellita. La demolizione del capo del governo non serve tanto a prendere il suo posto, ma a far affari senza che nessuno si metta di traverso, a riprodurre la meravigliosa stagione del saccheggio, che con le maleprivatizzazioni mise in tasche private la gran parte del patrimonio industriale pubblico. Vorrei tanto sbagliarmi, ma se guardo all’energia, alla meccanica ed ai cantieri, vedo la ciccia che si vuol sbranare, e ganasce non solo italiane. Se guardo a chi possiede i grandi giornali, i conti mi tornano fin troppo.
Ci buttiamo tutti a difendere il governo, dunque? Calma. Mi sono abbondantemente rotto l’anima di vedere una squadra di superficiali occuparsi di cose serie. Le storie d’amore istituzionali non si contano più. E che diamine, ma non hanno altro da fare? Stiano attenti, perché l’etica pubblica ha le sue regole, che è giusto rispettare. Vale anche per il presidente: nessuno vuole ridurlo a frate trappista, che neanche noi ce ne sentiamo la benché minima vocazione, ma la funzione pubblica richiede costumi più morigerati, più consoni. Anche a me sta sul gozzo l’ipocrisia, ma questo non autorizza alla spontaneità disinibita.
L’ultima arrivata, alla ribalta della notorietà fondata sul materasso, è anche candidata alle elezioni. Bisogna che se ne rendano conto: è offensivo. Lo è per i cittadini chiamati a votare, lo è ancor di più per i militanti che si danno da fare con sincera passione (ce ne sono tanti), cui i potentati locali sbarrano la strada per evitare concorrenza reale. Alle politiche nazionali sono i partiti a scegliere gli eletti, e ne portano la responsabilità. Dove ci sono le preferenze tendono a svuotare le liste, in modo che i designati siano comunque eletti. Signori, con cordiale franchezza: fa schifo.
I moralisti senza morale lo fanno ancor di più, ma è triste il Paese in cui si debba scegliere in una classifica così organizzata. Il giustizialismo trinariciuto fece fuori molte persone per bene, che si dimisero all’arrivo dell’avviso di garanzia (quando non si ammazzarono). Il risultato è che oggi non ci si dimette neanche se condannati. Guardo con preoccupazione quel che succede, e non vorrei che il lenocinio divenisse titolo di merito.

Gli antidemocratici muovono un'altra volta i carri armati in toga. Maria Giovanna Maglie

Non ci cascate più, che siate elettori del centrodestra o del centrosinistra, anzi se siete di centrosinistra, non fatevi mortificare nella vostra libera scelta politica da questi patetici tentativi di golpe riciclato. Riflettete che l'opposizione al governo non solo commette l'errore tremendo di non riconoscere il voto della maggioranza dei cittadini, fa di peggio, pur di attaccare, colpire, ammazzare il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, se ne infischia della situazione del Paese. Non sono democratici, tutto qui. Di voi, della crisi economica, della necessità di un governo autorevole che governi l'emergenza, che è poi un’emergenza mondiale, delle richieste che anche ieri ha autorevolmente e giustificatamente avanzato il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, non gli importa. Questo film l'ho già visto, correva l'anno 1993, il pentapartito aveva il cinquantatré virgola due per cento, lavoravo alla Rai, ero la prima corrispondente donna, a New York dopo otto mesi di fatiche, rischi, super lavoro, tra Bagdad, Amman, Gerusalemme. Ero popolare e apprezzata, lavoravo duro. Da un giorno all'altro diventai ladra, imbrogliona, ambasciatrice di Bettino Craxi e perciò stesso non credibile e criminale; certi servi, come l'allora direttore del tg2, Alberto La Volpe, si liberarono di frustrazioni ataviche, un delizioso killer come Pierluigi Celli, lo dico perché lui per primo lo ha scritto, dichiarato, ammesso, mi fecero fuori con tali argomenti infami e tali accuse pretestuose, eppure rimbalzanti su qualunque quotidiano moltiplicate per cento anche rispetto alla bugia iniziale, che cedetti e me ne andai. Peggio per me, me l'avevano mandato per tempo a dire di fare il Giuda e salvarmi la pelle. Quando sei mesi dopo finì con un'archiviazione, gli stessi giornali che mi avevano concesso l'onore ripetuto della prima pagina, scelsero un trafiletto a fine giornale. Avevano allora deciso di scoprire che i partiti si finanziavano illecitamente, in realtà il finanziamento illecito alla politica era sempre esistito. Il Partito comunista, poi ribattezzato, i soldi li prendeva dall'Unione Sovietica, oltre che dalle tangenti nostrane della Coop, ma questo alle Procure di rosso togate (che errore fu lasciare ai comunisti reclutati i concorsi in magistratura per un paio di decenni) non sembrò rilevante. Gli Stati Uniti ambivano ai mercati dell'Est post comunista, c'era anche un oscuro magistrato che aveva frequentato molto, e molto si era accreditato, o provato a farlo, tale Antonio Di Pietro. Cito questo modesto ricordo personale solo per spiegare che di complotti e complottini siamo in molti a ricordare la storia, non perché mi voglia ergere a protagonista, ho sempre pensato che mi fosse caduta addosso solo una tegola del tetto della prima Repubblica, niente di più, ho sempre coltivato per qualche minuto al giorno il perseguimento della vendetta, ho sempre tenuto nel mio cuore l'apprezzamento, e il dolore per la fine di Bettino Craxi. Massimo D'Alema è uno dei suoi assassini. Forse con lui hanno ammazzato anche se stessi, le loro possibilità di farsi socialdemocratici, riformisti, blairisti prima di Tony Blair, ma non lo hanno mai capito. Tanto è vero che ci riprovarono nel 1994, dopo che il Cav ci aveva salvato, e da allora non hanno mai smesso, oggi stanno sparando a raffica, uno sparo per ogni voto perso. Non importa che Silvio Berlusconi abbia il partito più grande della storia d'Italia. Non contano le regole democratiche, pensateci bene. Oggi ripartono da Bari, anzi dall'intera Puglia. Leggete la storia con tutti i suoi dettagli che vi racconta Gianmarco Chiocci, controllate e paragonate i nomi dei magistrati, a partire proprio da Michele Emiliano, sindaco di Bari e segretario regionale del Pd, dalle sue indagini sulla missione Arcobaleno, una roba scottante per Massimo D'Alema. Finì in niente, lui però diventò sindaco. Io non so se il presidente del Consiglio inviti nelle sue dimore o barche, tutte guadagnate con le sue attività imprenditoriali, troppe ragazze, forse ha questo debole, condiviso con molti maschi italiani. Il mio giudizio morale non riveste valore politico. Voglio però sapere se questa debolezza ha qualcosa a che vedere con il governo del Paese. Se, come me, credete che non debba essere così, fatelo capire al senza macchia, o no, Massimo D'Alema. (il Giornale)

martedì 16 giugno 2009

Ecco chi sono i nemici del Cavaliere... Affaritaliani.it

Non è Massimo D'Alema. Non è Repubblica. Non è Gianfranco Fini. Non è Umberto Bossi. Non è una persona in particolare. Affaritaliani.it ha parlato del complotto anti-Berlusconi con una fonte governativa del Popolo della Libertà ai massimi livelli e molto vicina allo stesso Cavaliere. L'impressione è che sia in atto un tentativo da parte di una fetta dell'apparato statale di bloccare l'operato del governo.

Il dito viene puntato verso quei dirigenti pubblici che non cambiano mai colore al cambio di maggioranza e che spesso contano di più dello stesso esecutivo. Una volta si sarebbe parlato di "boiardi". Di quei manager statali che vedono come fumo negli occhi la rivoluzione della Pubblica Amministrazione voluta dal ministro Brunetta, il federalismo fiscale che toglie potere al centro per distribuirlo alla periferia, la riforma della Giustizia che entra a gamba tesa in un potere granitico e sedimentato da decenni. Semmai - spiegano dal Pdl - D'Alema e Repubblica cavalcano questo sentiment ma non sono loro i mandanti. Bensì chi all'interno dell'apparato pubblico non vuole che la politica incida e modifichi antichi privilegi.

Gianfranco Fini? Il Cavaliere non è preoccupato delle mosse del presidente della Camera, che cerca soltanto visibilità ma non starebbe dalla parte dei "nemici" di Palazzo Chigi. Men che meno il Senatùr, che non a caso a Pontida ha parlato proprio di una Lega unita (concetto ribadito diverse volte) per mandare un messaggio chiaro a chi pensa di poter utilizzare almeno una parte dei voti parlamentari del Carroccio. Il premier, inoltre, spiega la fonte governativa, si sente rassicurato dal presidente della Repubblica. Berlusconi considera Giorgio Napolitano come estremamente equilibrato in questa fase difficile e una garanzia assoluta dal punto di vista degli equilibri democratici.

In sostanza l'avversario del presidente del Consiglio sarebbe la macchina pubblica fatta di direttori generali che, come dice Brunetta, si autovalutano dandosi sempre dieci. E di burocrati dello Stato che temono il cambiamento e un governo che possa avere più poteri e un Parlamento che con la fine del bicameralismo perfetto possa decidere più rapidamente. Sempre dal Pdl parlano di enormi similitudini con Bettino Craxi. Infatti anche il leader socialista tentò di riformare alla radice lo Stato. La differenza è che allora c'era la questione morale, Tangentopoli e il gradimento del segretario del Psi era bassissimo, il contrario di quello del Cavaliere. Che non a caso è tranquillo (abbastanza...).

domenica 14 giugno 2009

L'opposizione balneare. Mario Giordano

«Unica via giusta andare via lontano, lontano, lontano, magari a Cormano». Forse la vecchia canzone di Fabio Concato ronza in testa al premier sussiDario Franceschini in questi giorni amari in cui chiunque passi sotto la sede del partito viene preso in considerazione come suo possibile successore. L’umore non dev’essere quello dei giorni migliori. E non è un caso se ieri l’Unità, in versione ricostituente del buonumore, provava a strillare in prima pagina un «viaggio nel Pd che vince». Due pagine dense di box, titoletti, numeri, casi, esempi, per dire che, alla fine, è andata davvero bene. È vero: si è perso tutto il Nord, si è perso anche il Sud, al centro cade Piacenza, vacillano Prato, Ferrara, Parma, Rimini, e pure Bologna e Firenze, in Marche e Umbria c’è stato il sorpasso da parte del Pdl. Però, compagni, non demoralizziamoci troppo: in fondo abbiamo preso Cormano.
Ecco, appunto: unica via giusta, andare via lontano, magari a Cormano. La nuova linea dei Democratici la traccia Concato. Non è nemmeno difficile seguirla: a Cormano c’è pure l’uscita della tangenziale. Facile da trovare. Dal punto di vista del paesaggio non sarà un gran che, un po’ metropolitano, come dire?, tutta traffico e distintivo. Però a Cormano c’è villa Manzoni da visitare: un letterato come Franceschini saprà apprezzare. Al cimitero del paese sono sepolti anche i famigliari del grande Alessandro. E poi come diceva quella tiritera del XVII secolo? «Se Cinisell l’è bell, a Corman l’è pien de stell». Ecco, appunto, piena di stelle. Il posto giusto per Franceschini: magari riesce a trovarne una che gli porti un po’ di fortuna.
Finora ne ha avuta poca. Ieri per esempio era atteso al convegno dei giovani di Confindustria a Santa Margherita. Non si è presentato. Nessuna motivazione ufficiale. Ma come? Per mesi dici che vuoi confrontarti con i problemi reali del Paese, che vuoi discutere di economia e di crisi, e poi ti invitano a confrontarti sui problemi reali, a parlare di economia e di crisi e tu dai forfait? Il pacco alla Gheddafi è risultato ancor più evidente quando, poche ore dopo il mancato incontro a Santa Margherita, Franceschini è apparso a Roma, in una conferenza stampa convocata in tutta fretta, per riaccendere i fuochi della polemica personale con il premier. In questo breve passaggio orario, infatti, c’è tutta la strategia del segretario pro tempore del Pd: sui problemi reali tace perché non ha nulla da dire. Fugge, scappa, evita il confronto con gli imprenditori. Poi compare a Roma. Con un’unica ossessiva idea: attaccare Berlusconi.
Povero leggenDario. L’ex democristiano della corrente letteraria ormai s’è trasformato in questo: una macchietta dell’antiberlusconismo fuori tempo massimo, un Pancho Pardi al sapor di salama, un dipietrista senza nemmeno la forza d’urto di Di Pietro. Tonino, se non altro, marcia come se fosse sempre su un trattore, a Franceschini non hanno ancora dato nemmeno il triciclo. Il risultato s’è visto: nelle prime ore di confusione post elettorale ha cercato di convincere tutti che perdendo 7 punti percentuali rispetto alle politiche 2008 aveva ottenuto una vittoria. Ma ora sul suo tavolo piovono i numeri reali, e non si può più bluffare. Se si confrontano i voti reali si ottengono numeri impressionanti: fra le politiche 2008 e le europee 2009 il Pd ne ha persi il 33,6 per cento in Lombardia, il 47,1 in Trentino, il 75,6 in Valle d’Aosta, il 32,5 nel Veneto, il 33,1 in Piemonte, oltre il 40 per cento in Abruzzo e Molise, il 27,5 in Toscana e il 23,5 in Emilia, il 30,6 in Umbria, il 38,8 nel Lazio, il 33,4 in Campania e il 42,1 in Sicilia. Se si confrontano i voti delle province è peggio ancora: -42,4 per cento a Milano, -44,1 a Torino, -49,9 a Napoli, -40,5 a Venezia. E il tracollo non ha risparmiato le regioni rosse: -46,3 per cento a Piacenza, -37,1 a Rimini, -40,5 a Grosseto, -31,7 a Firenze, -26,7 a Bologna, -37,1 a Rimini, -30,3 a Prato, -36,9 a Pistoia. Però, ecco, come dice l’Unità, ci si può consolare: s’è vinto a Cormano.
Per carità, ci si consola con poco. Ma la verità è che, abbassato il polverone che avevano sollevato ad arte, gli esponenti non possono più fingere. Soprattutto, non possono fingere con loro stessi. Hanno preso una solenne batosta. E l’agitazione con cui Franceschini cerca di accendere e cavalcare nuove polemiche, dimostra proprio la sua debolezza. L’insuccesso, si sa, dà alla testa. «Cerca di passare come vittima», commentava ieri qualcuno. Ma vittima di chi, se non di se stesso e del suo partito?
Lo spettacolo che dà il Pd in queste ore, in effetti, è divertente, anche se un po’ imbarazzante. Il segretario che aveva assunto l’incarico chiedendo una sospensione delle lotte intestine è travolto dalle lotte intestine. Aveva chiesto per cortesia una tregua almeno fino ai ballottaggi. Ma la tregua non ha resistito nemmeno un minuto. Parla Bersani, sussurra D’Alema, s’impunta Letta. Escono fuori candidature come brufoli sul volto di un adolescente: Realacci, Binetti, Adinolfi, il medico esperto di eutanasia prof. Ignazio Marino (perfetto per un partito in coma), e naturalmente la Debora Serracchiani del Friuli, astro nascente eppur già un po’ cadente, passata in pochi giorni dall’emarginazione sul web al sogno di succedere a Berlinguer. È così facile diventare aspiranti segretari che pare ci sia la gara fra i garzoni dei bar attorno alla sede del Pd: hai visto mai che portando su un caffè dici la parola giusta e ti trovi in lizza? Franceschini, poveretto, urla e strepita contro Berlusconi solo per nascondere la sua delusione. Il suo fallimento. E la malinconia per il fatto che è appena arrivato e già i suoi lo stanno invitando a preparare le valigie con una certa urgenza. C’era una volta il governo balneare, ora abbiamo l’opposizione balneare. In scadenza, come uno yogurt. Il destino per il leggenDario è mestamente segnato. Unica via, come diceva Concato, andare lontano, lontano, lontano. Magari a Cormano. (il Giornale)

sabato 13 giugno 2009

Gli abbiamo permesso troppo. Michele Brambilla

Ammesso che l’uomo visto in questi giorni a Roma sia davvero il colonnello Muammar Gheddafi e non Nino Frassica in uno dei suoi celebri travestimenti - come farebbero supporre la divisa caricaturale, il cerone e i capelli tinti con il lucido delle scarpe, la tenda le amazzoni e in genere tutta la grottesca scenografia - c’è da chiedersi se non ci sia stato un eccesso di buona educazione, da parte della diplomazia italiana, nell’accogliere l’ospite.
Siamo uomini di mondo, e conosciamo bene - come ha scritto su questo giornale Mario Cervi nei giorni scorsi - le ragioni della Realpolitik. A Gheddafi si dovevano comunque delle «scuse» per l’occupazione italiana in Libia di quasi un secolo fa (anche se, come ha ricordato ieri Sergio Romano sul Corriere della Sera, «il colonialismo fu molte cose, non tutte e non sempre necessariamente spregevoli»); e con Gheddafi, soprattutto, sono in ballo questioni importanti per non dire vitali: affari da cinquanta miliardi di dollari e la lotta all’immigrazione clandestina. Non solo, quindi, l’uomo andava ricevuto, e ricevuto con gli onori dovuti a un capo di Stato; ma si poteva pure mettere in conto di dover chiudere un occhio davanti a qualche prevedibile incontinenza.
Gheddafi però non è stato solo un po’ incontinente. Si è comportato da padrone di casa in casa d’altri; ha preteso un cerimoniale senza precedenti; non contento, ha voluto irriderci quando gli ha fatto comodo. Di tutto questo, naturalmente, egli è il primo responsabile. Ma i secondi siamo noi, che gli abbiamo permesso troppo.
Gheddafi, che della tenda se ne frega - infatti ha dormito in albergo -, ha preteso e ottenuto di trasformare in un circo il parco pubblico di Villa Pamphili, per l’occasione chiusa ai cittadini. Poi, alla sala Zuccari del Senato, di fronte ai nostri parlamentari ha tenuto, senza che alcuno potesse replicare, la sua arringa terzomondista e quartomondista contro il solito colpevole di tutti i mali, l’Occidente, del quale pure noi italiani, per inciso, facciamo parte. Ha potuto dire che la democrazia possiamo tenercela per noi, ma non dobbiamo sognarci di auspicarla per Paesi dove dittatori come lui vogliono continuare a fare ciò che vogliono; ai membri dei nostri partiti ha ricordato che i partiti non servono a niente, anzi sarebbe meglio scioglierli; infine, ha equiparato gli Stati Uniti a Bin Laden, ricordando il bombardamento Usa sulla Libia nel 1986. Senza che nessuno potesse fargli presente, magari, che quel bombardamento fu la risposta a una serie di attacchi terroristici da egli stesso commissionati, e culminati con la strage di soldati americani alla discoteca «La Belle» di Berlino. Per una volta, concordiamo con i senatori dell’Idv, che sono rimasti fuori dalla sala Zuccari (insieme a quelli dell’Udc) appuntandosi sulle giacche la foto dei rottami dell’aereo Pan Am distrutto nel dicembre del 1988 nei cieli di Lockerbie da una bomba fatta collocare appunto da Gheddafi. Una foto, quella esibita dai senatori Idv, che era una replica all’immagine anti-italiana ostentata dal leader libico all’aeroporto in faccia al nostro presidente del Consiglio.
A Gheddafi è stato poi concesso di pontificare - anche qui senza contraddittorio - alla Sapienza, dove al vero Pontefice, Benedetto XVI, era stato impedito di parlare. Del resto il Papa - ci ha detto, anzi ci ha potuto impunemente dire - ancora Gheddafi, è una specie di ayatollah o di mullah, e ha la stessa legittimità di un capo terrorista integralista. In Campidoglio, a fianco di un Alemanno non sappiamo se più imbarazzato o più infastidito, il dittatore libico ha salutato con il pugno chiuso.
Poi ha tenuto - proprio lui - una lezione sulla dignità della donna. È stata la penultima barzelletta. L’ultima è l’insolente ritardo con il quale il nostro ospite (non) si è presentato a Montecitorio. Un ritardo che Gheddafi probabilmente si è permesso anche perché aveva visto che poteva concedersi qualsiasi villania. Benissimo ha fatto Gianfranco Fini, dopo due ore di inutile attesa, ad annullare l’incontro. Finalmente uno che ha fatto capire al Prepotente che c’è un limite a tutto.
Qualcuno dice che la visita di Gheddafi ha avuto l’aspetto di una pagliacciata, e c’è del vero. Mike e Fiorello ne hanno subito fatto una divertente parodia. Ma di fronte al surreale Gheddafi di questi giorni non c’è niente da ridere. Anzi. Il kitsch, il lato comico e macchiettistico di Gheddafi e della sua corte hanno soprattutto l’effetto perverso di gettare in burletta un regime dagli armadi zeppi di scheletri. L’effetto di farci dimenticare che quel Ventennio che Gheddafi è venuto qui a denunciare, in Libia è tuttora vivo da un Quarantennio.
Gheddafi, rispetto a quando ordinava attentati in tutto il mondo, è cambiato. Lo sappiamo. E molti politici che hanno contestato la sua visita, lo hanno fatto soprattutto per contestare il governo italiano: sappiamo anche questo. Però nessuno ci toglie dalla testa che chi ha curato il protocollo di questi giorni debba farsi un esame di coscienza, e far tesoro di quel che è accaduto a futura memoria. Quanto a Gheddafi, la sua visita finisce oggi. Non ne sentiremo la mancanza. (il Giornale)

venerdì 12 giugno 2009

In Abruzzo neppure la propaganda di Repubblica scalfisce la fiducia nel Cav. Bernardino Ferrero

Dice Antonio Padellaro, già direttore dell'Unità, guest-star dell'ultima puntata di questa stagione di Annozero, che vi è una prova lampante della cappa plumbea che opprime l'informazione in Italia: la sordina che sarebbe calata sull'Abruzzo, dove invece fra le tendopoli e le migliaia di sfollati del terremoto sarebbe in corso una rivoluzione permanente contro Berlusconi, il governo e il Popolo della Libertà.

Ma per fortuna dalle parti di largo Fochetti, circondato da un mare di repressione e oscurantismo, resiste un atollo di libertà, presidiato dagli uomini di Repubblica. I quali, con sprezzo del pericolo e incuranti della censura di regime, nei giorni precedenti alle elezioni del 6 e 7 giugno, tra un'imboscata a Casoria e una puntatina a Villa Certosa, si sono introdotti nel cratere colpito dal sisma per dar voce all'ultima trincea di resistenti al fascinoso strapotere del Cav.

E adesso chi glielo dice, all'uno e agli altri? Chi glielo spiega a quelli di Rep. e a Padellaro, che l'unica notizia suffragata da numeri e dati a prova di bomba è che il popolo abruzzese ha deciso di fidarsi del presidente del Consiglio, del suo partito e della sua classe dirigente, con percentuali che non sono state raggiunte in nessuna altra parte d'Italia?

Eppure ai nostri eroi per evitare figuracce sarebbe bastato poco. Leggere qualche numero, ad esempio. Analizzarlo senza pregiudizi. E avrebbero scoperto che la realtà, nella terra in cui si soffre per davvero e ci si cura poco dei voli di Apicella o delle vicende private altrui, è profondamente diversa da come la si vuole raccontare. E assieme a un tuffo nella verità avrebbero (forse) avvertito il bisogno di un bagno di umiltà.

In Abruzzo, infatti, alle elezioni europee il Popolo della Libertà ha raggiunto con il 44,52 per cento il risultato record fra tutte le regioni italiane, e il Pd si è fermato al 22,8 per cento. Alle amministrative, i cinque grandi appuntamenti - le provinciali di Pescara, Teramo e Chieti e le comunali di Pescara e Teramo - sono stati centrati tutti al primo turno, con risultati ben al di sopra della soglia necessaria per evitare il ballottaggio.

All'Aquila, in particolare, nel cuore del dolore, laddove la scommessa della ricostruzione assume i connotati della sfida per la vita, laddove il presidente del Consiglio ha messo in gioco la sua faccia e il governo la sua credibilità, laddove lo Stato ha voluto far sentire la sua presenza, 55 elettori su 100 fra quelli che hanno potuto e voluto recarsi a votare hanno scelto di fidarsi di Berlusconi e della forza politica di cui il premier è alla guida. Hanno suggellato un patto che oggi è ancora più forte di ieri. E soprattutto hanno lasciato al palo, al di sotto del baratro del 20 per cento, il Partito (democratico) di quanti, finanche all'interno delle istituzioni, hanno irresponsabilmente soffiato sul fuoco di una sofferenza oggettiva nel malcelato tentativo di lucrarne un vantaggio politico, ora e in vista delle amministrative rimandate al prossimo autunno.

Non ha avuto fortuna la furibonda cavalcata di quanti, negli enti locali amministrati dal centrosinistra, anziché collaborare con le istituzioni governative alla gestione dell'emergenza e ai primi passi della ricostruzione hanno preferito inscenare una mobilitazione permanente. E non ha avuto fortuna neppure il "benaltrismo" dei soloni democrats, sempre pronti a inforcare la penna rossa e blu.

Per le strade del capoluogo ferito a morte, dove ancor più che i cumuli di macerie a gridare il bisogno di speranza e di futuro è lo spettrale silenzio dei palazzi con le fondamenta apparentemente intatte, ma in realtà implosi su se stessi e vuoti come un dente cariato svuotato di ogni polpa; lungo le vie residenziali, dove sotto il peso delle colonne superstiti sbucano surreali i fanali delle auto accartocciate; nelle piazze militarizzate, dove i soldati, gli agenti e gli uomini delle forze dell'ordine piangono con l'espressione del viso il dolore dei passanti attoniti, e gli abruzzesi fieri e solidali sono un monumento vivente alla dignità. Laddove c'è l'ansia di ricominciare a vivere non c'è bisogno di parolai, tantomeno di sciacalli. C'è bisogno di dare fiducia, e di pretendere che non venga tradita.

Ed è questo che il "regime", quello vero, ha deciso che nessuno dovesse sapere. (l'Occidentale)

giovedì 11 giugno 2009

La vittoria del partito che non c'è. Luca Ricolfi

Che cosa sia successo alle Europee è piuttosto chiaro: il Pdl e il Pd sono andati male entrambi, ma mentre il Pdl è arretrato solo rispetto alle politiche del 2008 (mentre ha guadagnato qualcosa rispetto alle Europee del 2004, e sta vincendo le amministrative), il Pd è franato sia rispetto alle politiche dell’anno scorso, sia rispetto alle precedenti Europee (-5%). In compenso l’alleato principale del Pd (l’Italia dei valori di Di Pietro) è cresciuto di più dell’alleato principale del Pdl (la Lega di Bossi). E’ come se si fossero intrecciati due match: uno scontro Berlusconi-Franceschini vinto nettamente da Berlusconi, e uno scontro Bossi-Di Pietro vinto da Di Pietro.

Se sommiamo i risultati dei protagonisti principali, infine, il verdetto diventa più nitido: fatta 100 la forza dei tre principali partiti di centro-destra (Forza Italia, An, Lega), la coalizione rivale formata dal Pd, dai radicali e dall’Italia dei valori valeva 95 nel 2004, valeva 82 nel 2008 e vale 80 oggi. Il ritmo di caduta medio del consenso è del 3,3% all’anno, il che - tradotto in voti - significa che i partiti di centro-sinistra che si candidano a governare l’Italia perdono circa 400 mila elettori all’anno, quasi 1000 voti al giorno.

Fin qui la parte immediatamente visibile del voto di domenica. C’è anche una parte nascosta, tuttavia, e forse è la più interessante. Per riconoscerla dobbiamo dimenticare le percentuali di voti validi, su cui si appuntano tutti i commenti, e concentrarci sul corpo elettorale, formato da circa 50 milioni di elettori. Ebbene, se ragioniamo su questa base possiamo notare alcuni fatti.

Il primo è che, nonostante i tentativi di rendere bipartitico il sistema elettorale, Pd e Pdl attirano al più 1 elettore su 2 (per l’esattezza il 54,7% del corpo elettorale nel 2008, e il 38,2% oggi). In concreto questo vuol dire che alle ultime Europee poco più di 1 elettore su 3 si è scomodato per andare a votare uno dei due partitoni, Pdl e Pd, che ambiscono a contendersi il governo del Paese. Per rendersi conto di quanto poco il sistema stia evolvendo in senso bipartitico basti pensare che 5 anni fa, quando ancora non era nato il Pdl e Forza Italia correva ancora da sola, le due liste principali messe insieme - ossia Forza Italia stessa e Uniti nell’Ulivo - raccoglievano già allora il 35% del corpo elettorale: insomma, nonostante la nascita del Pdl, il bipartitismo non è decollato, perché la fusione fra An e Forza Italia è stata cancellata dall’implosione del Pd.

La creazione dei due super-partiti Pd e Pdl, in compenso, ha avuto un interessante effetto anestetico, o di occultamento. Grazie alla confluenza di An e Margherita nei due partiti maggiori, ossia in Forza Italia e nei Ds, oggi è difficile accorgersi di quanto il consenso verso i due partiti leader sia sceso in basso. Ho provato a stimare quanto avrebbero raccolto Forza Italia e Ds se non si fossero presentati con le stampelle di An e Margherita, e il risultato è drammatico. Forza Italia raccoglierebbe il 22-23% dei voti validi, i Ds il 14-15%: in breve, Forza Italia starebbe appena al di sopra del suo minimo storico (il 21,1% della «discesa in campo», 1994), mentre i Ds starebbero addirittura al di sotto dei due minimi storici toccati nel 1992, ai tempi di Occhetto (16,1%), e nel 2001, ai tempi di Veltroni (l6,6%). Se oggi Berlusconi e Franceschini possono arrampicarsi sugli specchi, minimizzando la severità del verdetto elettorale, è anche perché nessun segnale univoco li avverte che le due ammiraglie storiche della seconda Repubblica - Forza Italia e Ds - si sono incagliate nelle secche.

Ma nelle secche di che cosa?

Nelle secche del nostro scontento, è ovvio. E qui sta l’ultimo dato invisibile delle elezioni Europee. In queste elezioni il primo partito non è stato il Pd, non è stato il Pdl, ma è stato il partito che non c’è, il partito che potremmo definire del «non voto volontario». Un partito certo eterogeneo, fatto di persone deluse, arrabbiate, stanche, ma tutte accomunate dal fatto che hanno scelto di non votare un partito vero e proprio. Persone che non sono andate a votare non perché non potevano, ma perché non volevano. Una stima molto prudente del loro numero, basata su un classico lavoro di Mannheimer e Sani (Il mercato elettorale, Il Mulino 1987), che giustamente ci ricordano che fra gli astenuti ci sono anziani e persone che materialmente non possono recarsi alle urne, suggerisce che il «non voto per scelta» possa coinvolgere oggi circa il 30% del corpo elettorale, ossia 15 milioni di persone: un numero mai così alto nella storia repubblicana, e che nessun partito, nemmeno la Dc di De Gasperi nel 1948, nemmeno il Pci nel 1984 (dopo i funerali di Berlinguer), nemmeno Forza Italia nel 2001 (ai tempi del «Contratto con gli italiani»), è stato finora in grado di raggiungere.

Adesso mi aspetto che i colleghi politologi mi spieghino che quella che è nata non è una nuova stella del firmamento politico, che il non voto è fisiologico in tutte le democrazie più moderne (Usa, Regno Unito, Svezia), che il partito del non voto non è un vero partito, perché ha dentro di sé troppe anime: ci sono gli ostili e i lontani, il disgusto e l’indignazione, la passione e l’apatia, l’opzione voice (protesta) e l’opzione exit (defezione), per usare le fortunate categorie di Albert Hirschman. Tutto giusto, ma il punto è un altro. Nel nostro sistema politico c’è chi pensa di avere un consenso popolare così ampio da esimerlo in qualche modo dal dovere del confronto con il Parlamento, con le forze sociali, con la macchina della giustizia. Ebbene, i dati ci dicono che - su 100 italiani - 22 hanno votato Pdl, circa 14 avrebbero votato Forza Italia se si fosse presentata da sola, e meno di 6 (sei) hanno espresso un voto di preferenza per Berlusconi. Fino a ieri si poteva (forse) obiettare che gli italiani che hanno votato per l’opposizione sono ancora di meno. Da oggi, mi pare, chiunque vorrà autoattribuirsi un mandato popolare dovrà fare i conti con le crude cifre del partito che non c’è. (la Stampa)

mercoledì 10 giugno 2009

Amministrazione e reti di potere. Davide Giacalone

Per capire cosa significa perdere le elezioni amministrative, specie per la sinistra, si deve comprendere come è strutturata la distribuzione del potere reale. Prendete quel che rimane delle “regioni rosse”, ovvero delle aree dove la sinistra, prima comunista e poi negante d’essere mai stata comunista, sempre rappresentata dalle stesse persone, ha interrottamente governato: ebbene, si tratta delle uniche zone, in tutta Europa, che dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi non hanno mai cambiato colore dell’amministrazione. Non è un miracolo di coerenza, ma denuncia la scarsa libertà del cittadino.
In intere regioni Peppone ha organizzato la propria parrocchia assai meglio di Don Camillo, ed è anche stato capace di farla evolvere. In vaste lande dell’Emilia Romagna, della Toscana o dell’Umbria vieni al mondo con la tessera del partito. Vai a tirar calci al pallone presso il circolo dell’Arci, che poi ti segue e t’assiste per il resto della vita, sia che tu voglia diventare cacciatore o gay. Il partito organizza i campi estivi dei ragazzi, sempre per il tramite delle strutture collaterali. Dopo aver lasciato il pargolo al campetto, i genitori vanno al supermercato, dove hanno lo sconto perché soci della cooperativa. Altra parola magica: se c’era uno contrario al concetto stesso di cooperazione era Togliatti, ma il suo partito comprese benissimo quel che ci si poteva fare. Sempre una cooperativa è proprietaria della “Casa del popolo”, che è la sede del partito, ma anche luogo d’incontri e vita sociale. Ciascun socio è proprietario per una parte, ma non puoi essere socio se non sei iscritto al partito, e se te ne vai perdi tutto. Stando dentro, invece, ti diamo pure il compagno per l’assicurazione dell’auto, quello per la banca, quello per la clinica e così via.
L’amministrazione pubblica locale ha un ruolo decisivo: è da lì che vengono i quattrini per le convenzioni, lì si fanno gli accordi per spartirsi i ragazzini da portare in colonia, lì si danno le licenze edilizie ed i permessi per aprire supermercati. Con un buon controllo di queste decisioni si può fare la fortuna di alcuni e la sfortuna di altri. Perché, non era la stessa cosa con democristiani o socialisti? No. S’incontravano (e s’incontrano) troppo spesso amministratori disonesti, come anche quelli bravi e per bene, ed i primi ti chiedono la classica mazzetta, senza la quale la pratica non si scolla. Deprecabile, anzi, da galera. Ma i compagni erano diversi, non mettevano (ai bei tempi) soldi in tasca, costruivano una rete di potere. Qualcuno penserà che erano migliori. Sbagliatissimo: le tangenti sono sempre un reato, ma prenderle da tutti è meglio che consentirle solo agli amici, perché nel primo caso si diffonde la corruzione, mentre nel secondo anche, ma in più si restringe la libertà.
Nel tempo il sistema s’è trasformato. Per averne un racconto sanguigno andate a sentire quel che vi raccontano i comunisti che, da presidenti delle cooperative, furono abbandonati al fallimento, con danni gravissimi ai lavoratori. Urlano che “quelli” sono venuti meno ai patti, hanno preso i soldi accumulati in tanti anni ed hanno puntato al potere finanziario, facendo marameo a tanti compagni. Ve ne ricordate? Coop, Unipol, “abbiamo una banca”. Quella roba lì.
Quindi, un po’ il sistema si logorava, un po’ qualche pescecane mangiava i pesci rossi, un po’ i giovani s’erano rotti l’anima e smettevano di frequentare l’intero baraccone, e, piano piano, molto lentamente, l’intero edificio viene giù. Alcuni pilastri sono ancora in piedi, apparentemente solidi, ma gli elettori stanno provvedendo. Perdere le elezioni amministrative, pertanto, significa perdere il polmone che fornisce ossigeno al sistema. Quel che succede dopo dipende da chi le vince, le elezioni. Capita anche che i successori si mettano subito al servizio delle medesime strutture. Vuoi perché non ce ne sono altre, vuoi perché dopo essere stati a lungo esclusi fa piacere essere riveriti, vuoi perché i potentati locali è con quelli che fanno affari, vuoi per insipienza allo stato puro.
Il lavoro nobile e promettente non consiste né nel sostituire la vecchia rete con una nuova, né nel conquistarsi il diritto di sedere allo stesso tavolo. Si deve smantellare l’arcaico carretto del capitalismo municipale, anche se travestito dagli anglicismi falsotecnici portati da consulenti troppo pagati. Il lavoro buono è quello di restituire libertà a quei mercati ed a quei cittadini. Un lavoro per fare il quale si devono prima vincere le elezioni, ma poi avere le idee chiare, la capacità, la determinazione e la trasparenza per andare avanti. Se manca un pezzo, la vittoria diventa di bandiera.

martedì 9 giugno 2009

E' saltata la base sociale del Pd. Tutta, ovunque. Carlo Panella

E’ saltato per aria il cuore del blocco sociale della sinistra: questa è la vera novità del voto di domenica scorsa. La somma delle notizie locali tende in queste ore a nascondere il senso complessivo di quanto è successo nelle urne, ma se si dà uno sguardo d’insieme e si sommano la sconfitta di Piacenza, col sorpasso del Pd in Umbria e Marche, con il ballottaggio a cui è costretto Delbono in una Bologna in cui pure il centro destra non si è risparmiato uno strafalcione, con Firenze in bilico e con l’impietoso consuntivo complessivo delle province (quasi tutte perse o in bilico per il Pd, nessuna conquistata, un pugno mantenute) il quadro è chiaro.

Non è più vero che per il Pd prioritaria è la “questione settentrionale” (quella meridionale è ormai strapersa), per la drammatica ragione che è finito anche il mito della “buona amministrazione” e che dal 7 giugno 2009 non si può più parlare di “regioni rosse”, come patrimonio politico intangibile per la sinistra. Ogni città del centro Italia è diventata oggi “contendibile”, non vige più il monopolio, è finita la cinquantennale “posizione di rendita”. Tutto questo sarebbe già un disastro per la sinistra italiana, se non fosse accompagnato da un disastro ancora maggiore: la palese e assoluta perdita di lucidità. Come nota saggiamente un preoccupatissimo Paolo Franchi su Corriere di oggi, il Pd non solo non ha nessuna proposta, nessuna analisi, nessun programma e tantomeno nessun “sogno” da proporre alla sua propria base elettorale (e ancor meno agli italiani), ma –e questo ha del pazzesco- non cerca neanche lontanamente di ovviare a queste mancanze.

In questo sconfortante quadro, accade così che prenda dimensioni patologiche il vizietto che da Occhetto in poi ha ottenebrato le menti della dirigenza progressista: credere alla propria propaganda. Come è noto in politica –questo è il suo bello- si può dire e sostenere tutto e il contrario di tutto, si può prescindere dalla realtà per fare le campagne elettorali, si può dipingere l’avversario come un diavolo, si può dire e stradire. Con un vincolo –ferreo- non credere alle falsità che si dicono. Invece, Franceschini e la dirigenza del Pd solo di questo vivono. Profittano della stupida subalternità culturale del mondo dei media italiani (e quindi, a ricaduta, di quelli esteri) e sostengono che hanno vinto perché hanno perso 7 punti percentuali. Ovviamente possono farlo, a patto però poi di mettersi a piangere e di strapparsi i capelli non appena nessuno li vede. Ma non è così: siccome hanno “intortato il pupo” dei media lunedì scorso, sono ora convinti sul serio di avere vinto, non si pongono nessun problema strutturale, continuano come se niente fosse a tessere i loro complotti e le loro tresche abituali.

In sintesi: hanno perso ogni residuo rapporto con la realtà. E questo è un disastro, per loro, ma anche per il paese.

venerdì 5 giugno 2009

Chiusure. Jena

Oggi si chiude la campagna elettorale del Pd, domani e domenica si vota e lunedì si chiude il Pd. (la Stampa)

martedì 2 giugno 2009

Da Noemi alla Saras, in morte del giornalismo d'inchiesta. Affaritaliani.it

Sguinzagliati in Sardegna a cercare veline discinte e foto compromettenti (piccoli Corona crescono) gli esponenti del mai domo giornalismo d'inchiesta, trovandosi già sull'isola, potrebbero, nelle pause del lavoro ai fianchi del fotografo Zappadu e degli appostamenti tra i cespugli di villa Certosa, scendere da Olbia e dalla Costa Smeralda verso Sud, rotta Cagliari. E raccontarci anche, giacché son lì, che cosa si è poi saputo dell'incidente alla Saras, delle cause delle tre morti, dell'inchiesta in corso, dell'autopsia, delle colpe, degli aiuti alle famiglie. Perchè Tyssens sì e Saras no? Non solo i giornaloni cosiddetti indipendenti, ma anche Unità o Manifesto hanno ammainato la bandiera e il cavallo di battaglia delle morti bianche.

Niente, sparita. Dai giornali, dalle agenzie, dai blog.

Inserendo su Google- news, il grande aggregatore in tempo reale di quanto viene scritto minuto per minuto la parole chiave "Saras, tre morti": il primo articolo che compare è del 28 maggio: "I tre morti hanno cercato di salvarsi a vicenda". Notizie relative all'evento: 7. Inserendo, invece, le parole Noemi-Berlusconi su Google-news ci sono 9 mila e 400 articoli. Quasi una Treccani.

Ma dove sono finiti i giornalisti d'assalto, le dichiarazioni infuocate dei sindacalisti sull'emergenza dei morti sul lavoro? E le fabbriche ferme per solidarietà, i minuti di silenzio e i moniti del capo dello Stato che sul tema non fa mai mancare il suo giusto e severo richiamo? Nulla.

D'accordo, si tratta dei Moratti. E sul loro conto al momento non si intravedono responsabilità specifiche. Ma un pezzullo a seguire, un'intervistina, una telefonata al procuratore, un reportage alla Santoro sulle famiglie disperate, un'inchiestina su Tv7 sulla fabbrica il giorno dopo, un Gianantonio Stella sulla casta petrolifera, un affresco di costume della Aspesi sulla grande famiglia bipartisan, dove Gianmarco e Letizia stanno (e coagulano) a destra e Massimo e Milli stanno (e coagulano) a sinistra, alla testa di un network bipartisan che va dalla Confindustria al Comune di Milano, dall'Inter di Mourinho a Emergency di Gino Strada, da Bruno Ermolli al regista Salvatores e alla controinformazione di Peacereporter, da San Patrignano di Muccioli al Barrio di don Rigoldi e via dicendo...

Ma perché a Berlusconi (nelle cui aziende non è morto nessuno) i giornalisti investigativi non perdonano nulla e ai Moratti tutto?.

Che Paese! Come diceva Arbasino, un Paese senza.

Per un pugno di voti

Cari Emma e Marco,
perché continuate a farvi del male?
Vorrei darvi il mio voto per consentire che i radicali siano rappresentati al Parlamento europeo, ma voi, i voti, li cercate a sinistra e da quella parte -come si dice- non c'è trippa per gatti.
Di Pietro sta prosciugando tutti i bacini elettorali di sinistra, raccogliendo il consenso di delusi, incazzati, giustizialisti, contestatori e qualunquisti.
Ricordate, a suo tempo siete stati alleati del centrodestra con un programma liberista, laico, legalitario e avanzato.
Perché adesso appiattirsi su luoghi comuni e prendere le distanze da Berlusconi?
La vostra visibilità negli ultimi giorni è pari a quella dei grandi partiti: non sprecate l'occasione e parlate agli italiani della vostra storia, dei meriti che tutti vi riconoscono, delle battaglie fatte per il bene del Paese e della vostra onestà politica e intellettuale.
I radicali hanno progetti, proposte e visioni più vicine a Berlusconi che non a Franceschini e Di Pietro.
Fate leva sui punti di contatto con il centrodestra, anziché evidenziare le divergenze.
Sviluppate i temi comuni mettendoci quella propulsiva componente radicale che non guasta.
Siate propositivi e non distruttivi, fate del sano populismo, allargate il vostro elettorato mettendo in seconda linea battaglie troppo elitarie, ascoltate di più e parlatevi meno addosso.
Sarebbe un bene per tutti avere una rappresentanza radicale al Parlamento europeo: avete dimostrato di essere attivi, presenti ed efficienti.
Metteteci, per favore, nelle condizioni di darvi il voto!

In bocca al lupo

lunedì 1 giugno 2009

Di Pietro, Gramsci e gli intellettuali engagées. Girolamo Cotroneo

Credo che nessuno, dopo il declino nel dibattito filosofico-politico del pensiero di Antonio Gramsci che lo aveva posto con forza, immaginava che il problema del rapporto tra “intellettuali” e “politica” sarebbe stato riproposto; né tanto meno che a riproporlo sarebbe stato Antonio Di Pietro, che non mi sembra proprio tra i più colti leader politici del nostro paese.

Ma chi sono – visto che se ne riparla – gli “intellettuali”? Non sono gli storici, i filosofi, i letterati, i poeti in genere, ma soltanto quegli storici, quei filosofi, quei letterati, quei poeti che firmano i manifesti proposti dai partiti politici o che entrano nelle loro liste elettorali: quei personaggi, insomma, che una volta – riprendendo una nota espressione di Jean-Paul Sartre – si definivano engagées, impegnati.

La presenza degli intellettuali nelle vicende politiche del nostro paese ha una sua storia e una sua precisa data di nascita: il loro primo, massiccio, intervento fu il celebre ”Manifesto degli intellettuali del Fascismo”, apparso il 21 aprile del 1925; e al quale, come è noto, replicò un "contromanifesto" – “Una risposta di scrittori, professori e pubblicisti italiani al manifesto degli intellettuali fascisti” – redatto da Benedetto Croce, e pubblicato il primo maggio di quello stesso 1925.

Nel secondo dopoguerra i manifesti firmati dagli “intellettuali” si sprecarono; e gran parte di essi proveniva dall’area politico-culturale di sinistra, dietro la quale si allungava l’ombra del Partito Comunista Italiano. Il declino della cultura totalitaria – matrice riconosciuta di questo fenomeno – comportò un declino del “manifesto”. Ma non quello della presenza di intellettuali nelle liste elettorali dei vari partiti; a proposito della quale dovrebbe indurre a riflettere sul fatto che la loro presenza nella vita politica e parlamentare non ha praticamente lasciato tracce di rilievo: una volta “scesi”, come usa dire, in politica, si sono presto accorti della povertà del loro ruolo, del poco spazio loro concesso; e molti l’hanno abbandonata, “ridiventando” intellettuali.

Ora Antonio Di Pietro riapre il problema. E lo riapre in maniera – mi spiace dirlo, ma è così – culturalmente piuttosto rozza. Ha dichiarato infatti – a quanto si legge su autorevoli giornali nazionali – che gli intellettuali che in occasione delle prossime elezioni non si schiereranno con l’"Italia dei valori", saranno “corresponsabili di ciò che sta accadendo”: con il loro non schierarsi, infatti, o con lo schierarsi altrove, favoriscono il ritorno della cultura dell’olio di ricino, la nascita di un regime ormai “dietro l’angolo”.

Non mi sembra di vivere, pur nelle notevoli disfunzioni della nostra vita politica, in un democrazia debole e vacillante; e non credo proprio, né ritengo di essere il solo a crederlo, che la cultura dell’olio di ricino stia per riapparire in Italia. Ma tra quest’ultima e quella, in cui tanti credono, e dalla quale siamo per fortuna ancora molto lontani, delle manette o del brutale giustizialismo, altra differenza non vedo se non di forma; e non ne vedo alcuna, ad esempio, tra il “Me ne frego” degli squadristi padani del 1922 e il “Vaffà” di Beppe Grillo.

Ma a parte questo, nemmeno mi sorprende leggere che intellettuali di prestigio come Magris, Tranfaglia, Camilleri o l’ineffabile e immancabile Vattimo, abbiano accolto l’invito di Di Pietro. Cicerone ha detto una volta che non c’è sciocchezza che non sia stata sostenuta da qualche filosofo. Parafrasandolo, direi che non c’è stata nell’ultimo secolo nefandezza politica che non abbia avuto il sostegno di molti intellettuali. Niente di nuovo sotto il sole. (l'Occidentale)