mercoledì 30 luglio 2014

Calcio, zingari e l'ipocrisia del vocabolario. Vittorio Feltri

Il nostro eccellente Giuseppe De Bellis si è già esibito sul Giornale scrivendo cose giuste sul caso Carlo Tavecchio, un cognome che ha una componente offensiva: in una società nella quale l'unico settore che non cala, bensì cresce, è la chirurgia plastica, accompagnata da terapie antiossidanti e roba simile, evidentemente la vecchiaia è considerata un'infamia.
 
Gaffe di Tavecchio e piovono critiche da tutta Europa
Chiedo scusa se mi cito. Su Twitter - la palestra dell'insulto elevato a categoria del pensiero - vi sono numerosi gentiluomini che, quando non sono d'accordo con me, non si limitano a dirmelo: mi coprono di contumelie fra cui spiccano quelle riferite alla mia non verde età, tipo «vecchio stronzo», «vecchio rimbambito», «brutto vecchio, cedi il tuo posto privilegiato a un giovane», «vecchio bollito» (la variante è «brasato»).
La parolaccia è entrata prepotentemente nei conversari correnti e quella che ferisce di più è «vecchio porco». Una volta si chiamavano «vecchi» i genitori, e nessun papà e nessuna mamma si adontavano. Ma oggi il sostantivo/aggettivo «vecchio» ha un significato talmente negativo da essere impronunciabile. Provate a dire a una signora che è vecchia: vi mangia vivi per dimostrare di avere ancora denti buoni e un'ottima digestione.
Torniamo a Tavecchio. Lo sciagurato, aspirante presidente della Federazione italiana giuoco calcio, in un discorso programmatico in cui ha espresso concetti condivisibili, si è lasciato scappare una frase che i più moderati hanno giudicato infelice. Questa, all'incirca: «Nel nostro Paese i club pedatori trascurano i giovani e inseriscono nella rosa dei titolari ragazzi modesti che fino a ieri si nutrivano di banane». Vogliamo esagerare? Non si è trattato di proposizione elegante, ma simile a mille altre che quotidianamente si odono in ogni ambiente. Anche nei giornali. Per esempio: il soprannome più diffuso di Silvio Berlusconi è il Banana, che viene usato regolarmente su giornali e in spiritosissimi (si fa per dire) programmi televisivi satirici. Dal che si evince che c'è Banana e banana. Se dai del banana al Cavaliere sei un sincero democratico dotato di senso dell'umorismo, se, viceversa, dai del banana a un africano abbronzatissimo sei un grandissimo bastardo, sinonimo delicato di figlio di puttana. E ti espellono dal consorzio civile.
Mi domando: come mai la banana ha una doppia reputazione a seconda di chi la mangia o, meglio, la interpreta? Trattasi peraltro di un frutto nobile, buono, nutriente e, fino a mezzo secolo fa, raro, il che lo rendeva prezioso. Quando ero bambino, soltanto Babbo Natale provvedeva a regalarmene una (di numero) per allietare la mia povera mensa. La trovavo la mattina sul tavolo della cucina accanto a due o tre pipe di zucchero rosso, un paio di arance e un'automobilina di latta. Se non ricordo male, c'era tra quel bendidio anche qualche carruba: forse non è un dettaglio importante per voi che leggete, ma, a mio avviso, rende l'idea del mondo in cui vivevamo, ammesso che ciò sia interessante.
Ecco. Abbacinato dai doni piovuti dal cielo, rimanevo in contemplazione dei medesimi per alcuni minuti, poi afferravo la banana, la incartavo e la portavo a un vicino di casa che sapevo esserne golosissimo. Suonavo alla sua porta e non appena egli si affacciava gli porgevo il frutto. Lui mi abbracciava e ringraziava. Per me era una soddisfazione, anche se non ero iscritto all'Arcigay. Il costume è mutato. Se oggi facessi omaggio di una banana all'inquilino del mio piano, sarei preso a calci nel deretano (eufemismo di culo).
Tavecchio ha 71 anni, quanti ne ho io. Sono certo che per lui, come per me, la semantica bananiera non ha alcuna valenza respingente. Sarebbe assurdo il contrario. Constato che ormai in Italia non si discute più sui contenuti, ma sull'involucro lessicale. Personalmente, ai tempi in cui gli extracomunitari furono malmenati e sfruttati a Rosarno (Calabria), pubblicai questo titolo sul Giornale : «Hanno ragione i negri». Non l'avessi mai fatto. Le penne di lusso, su numerosi quotidiani, mi redarguirono aspramente. Pier Luigi Battista del Corriere mi crocifisse. L'Ordine dei giornalisti mi processò dopo avermi tenuto sotto inchiesta quattro anni: fui assolto, e me ne stupii piacevolmente. Avevo dato la causa per persa, poiché nessuno aveva letto l'articolo che difendeva i poveracci: tutti si erano soffermati con indignazione solo sul termine «negri».
Il nostro direttore Alessandro Sallusti è pure stato sottoposto a procedimento disciplinare (si attende la sentenza) perché ha chiamato zingari gli zingari. E come doveva chiamarli? Extraterrestri? Le fobie linguistiche contrassegnano la nostra epoca politicamente corretta, forse, sicuramente imbecille. I netturbini non sono più spazzini, anche perché non spazzano una mazza, ma operatori ecologici. Guai a non attenersi al nuovo bon ton. Magari non ti denunciano, ma ti sputtanano, ti danno del razzista. Veniamo ai sordi. Che non sono più tali anche se non sentono: meritano l'appellativo di audiolesi. Tra poco definiremo così gli impotenti: tirolesi. Ovviamente gli orbi non sono orbi ma ipovedenti. E i ciechi non sono ciechi ma non vedenti. Con angoscia mi chiedo: come posso etichettare uno stitico seguendo lo stesso metodo glottologico? Sono in imbarazzo.
Il vituperato Tavecchio immagino sia sorpreso dal trattamento ricevuto per avere detto la verità con parole sue, brutte ma chiare. Condannato per una banana. Non è serio. Anche perché egli ha centrato il problema. Il nostro calcio è in declino in quanto esterofilo: apre le porte all'Africa e le chiude alla Campania e al Friuli, vivai di campioni o almeno di ottimi giocatori. Anche all'estero hanno arricciato il naso per le banane di Tavecchio. Ridicolo.
Noi italiani, anche orobici, valdostani e veneti, veniamo dileggiati con i soliti luoghi comuni: spaghettari, mandolinari, pizzaioli. E ci tocca stare zitti o, al massimo, sorridere. Se però evochiamo la banana siamo rovinati. E i primi a rovinarci sono i nostri compatrioti spaghettari della malora.

(il Giornale)

giovedì 24 luglio 2014

Centrodestra = Tagliare le tasse




In queste ultime settimane, dopo i negativi risultati delle formazioni italiane di centrodestra alle elezioni europee, si è osservato un florilegio di pubblicistica sulla possibile costruzione di un modello vincente per quest’area che nel nostro Paese, checché se ne dica, è maggioritaria e che il 25 maggio ha visto gli elettori disertare i seggi. Evidentemente, l’offerta politica non li ha convinti pienamente e hanno preferito andare al mare.
Abbiamo così nell’ordine assistito:
Ed è proprio su quest’ultimo punto che Wall & Street vogliono dire qualcosa visto che quotidianamente si occupano di economia e di finanza e, quindi, non sono proprio gli ultimi arrivati. Escludendo qualsiasi notazione politica (che non è di nostra pertinenza), possiamo affermare tranquillamente quanto abbiamo sintetizzato nel titolo. Il centrodestra non ha bisogno di idee perché il centrodestra è una curva: la curva di Laffer, elaborata dall’economista che ispirò la politica fiscale dell’amministrazione di Ronald Reagan (e che fu tenuto in conto anche da Margareth Thatcher). Ebbene sì, abbiamo nominato due spauracchi della sinistra (e anche della destra italiana). Non possiamo farci nulla, ci dispiace: il centrodestra è questo.

La curva altro non è che una parabola che qui rappresentiamo nella sua forma più regolare possibile. Sulle ascisse c’è la pressione fiscale, sulle ordinate il gettito. Anche se una parabola è la rappresentazione di un’equazione, l’economia non è una scienza esatta e le leggi che se ne desumono derivano dall’osservazione empirica della realtà. Andrew Laffer aveva registrato che, oltre una determinata aliquota, il gettito decresce perché l’eccessiva pressione fiscale favorisce l’evasione, l’elusione e l’abuso di diritto (si portano i capitali dove sono meno tassati). Convinse così Reagan che per rilanciare l’economia Usa bisognava abbassare le tasse. E miracolo fu…
La curva di Laffer, infatti, altro non è che l’osservazione puntuale dell’applicazione della flat tax teorizzata dal premio Nobel, Milton Friedman (grande padre dell’economia liberale). Friedman riteneva che il sistema fiscale fosse un «casino del diavolo» (unholy mess): per semplificare e non incoraggiare gli evasori si sarebbe dovuta applicare un’aliquota unica (la flat tax) ed eliminare deduzioni e detrazioni. La flat tax si accompagna, generalmente, ai concetti di «no tax area» e di «imposta negativa», indi per cui il contribuente viene tassato solo sopra una determinata soglia di reddito e, se quest’ultimo è insufficiente a garantirgli una vita appena dignitosa, lo Stato gli ridà indietro gran parte della differenza tra il suo reddito e il reddito medio (non tutto perché altrimenti si incoraggerebbe l’economia di sussistenza). Lo ripetiamo, perciò, ancora una volta: il centrodestra non ha bisogno di idee perché il suo programma politico è tutto contenuto in questa discriminate di tipo economico-fiscale. Ogni tanto, anche in Italia, qualche esponente di centrodestra si ricorda dei principi fondamentali: un segnale di vita non da poco.
Ve la raccontiamo molto semplice (nella realtà la curva di Laffer ha un andamento più irregolare perché il gettito massimo si raggiunge in presenza di aliquote basse) perché è il principio che conta: le tasse si abbassano (un’aliquota del 20% per cittadini e imprese rappresenta il massimo della giustizia sociale, sopra il 33% si può già cominciare a parlare di furto legalizzato, in Italia siamo al 44%), l’evasione si punisce perché, in quel caso, è totalmente ingiustificata.
Da questo postulato derivano alcuni corollari:
  • Chi è di centrodestra non penserà mai e poi mai che sia giusto applicare un’imposta o aumentarla per favorire l’equità sociale e la redistribuzione. Lo Stato, se interviene nell’economia, moltiplica la miseria per tutti a vantaggio (non sempre) di pochissimi.
  • Chi è di centrodestra non penserà mai e poi mai che la tassazione spietata (come quella messa in atto dai governi Monti, Letta e Renzi) sia uno strumento di assestamento del bilancio perché inutile e controproducente. Gli aggiustamenti si possono fare solo durante i cicli di espansione economica. Il centrodestra ama e persegue il pareggio di bilancio, ma facendo dimagrire lo Stato anche a costo di innescare politiche temporaneamente recessive (come hanno fatto Reagan da governatore della California tagliando i dipendenti pubblici e Thatcher privatizzando il privatizzabile in Gran Bretagna).
  • Chi è di centrodestra non crede in concetti come «comunione» e «comunità». La tassazione riguarda il singolo individuo in quanto è il singolo individuo che deve essere messo nelle condizioni di sviluppare il proprio potenziale. A chi dice, come l’articolo 3 della nostra Costituzione, che lo Stato debba promuovere un’uguaglianza sostanziale (e non solamente formale) tra i cittadini, un liberale risponde con le parole di Margareth Thatcher: «There is no such thing as society» («La società non esiste» perché esistono solo gli individui).
Il centrodestra è proprio questo. È vero: interpretazioni neokeynesiane hanno cercato di definire la curva di Laffer come un modo di sostenere la domanda dando denaro un po’ a tutti (come aveva suggerito Keynes a Roosevelt: aprendo e tappando le buche). Non è così: Laffer teorizza la ritirata dello Stato che diventa meno vorace e lascia più libero il cittadino senza vessarlo con le tasse appunto ma chiedendo il giusto. Il centrodestra e il liberalismo contemporanei nascono così: con Ronald Reagan e Margareth Thatcher, appunto. Come vi abbiamo fatto vedere nella foto in cima al post.
Ci sono delle questioni da risolvere. Ne siamo ben consci. Ad esempio, rispondere alla vulgata dominante secondo cui la ritirata dello Stato sarebbe responsabile della crisi attuale. Niente di più falso: le teorie liberali (e liberiste) non sono certo autrici delle crisi e dello squilibrio. Da una parte la ritirata dello Stato va corroborata con un taglio della spesa pubblica (i cui effetti recessivi vanno tenuti sotto controllo). Dall’altro lato, la politica monetaria va strettamente monitorata proprio per evitare che la maggiore disponibilità di reddito generi conseguenze impreviste. Di sicuro l’attuale crisi ha tra le sue cause la troppa libertà lasciata dall’amministrazione Clinton alle banche Usa che ci hanno infettato con i subprime e via discorrendo. Così come la crisi del ’29 non si può imputare del tutto alla parte repubblicana.
Laffer non era keynesiano. Tagliare le tasse non è dare una mancia come ha fatto il governo Renzi che ha propugnato, lui sì, una politica neo keynesiana. Tagliare le tasse è un’assunzione di responsabilità perché vuol dire che non si discrimina nessuno e che, proprio per questo, si cerca di far dimagrire lo Stato. Ad esempio, nessuno ha mai avuto nulla da ridire sui 110 miliardi che lo Stato regala ogni anno alle gestioni pensionistiche pubbliche che altrimenti sarebbero in dissesto. Oppure su una spesa sanitaria da 110 miliardi che è fonte di numerosi sprechi. Insomma, chi è di centrodestra non crede alla scientificità della curva di Phillips che è la bandiera dei neokeynesiani e che sintetizza la necessità di creare inflazione per ridurre la crescita del tasso di disoccupazione.

Lo stesso premio Nobel, Paul Krugman, che è un economista neokeynesiano, ha messo in discussione la curva di Phillips riducendola a una linea (anche in questo caso la facciamo semplice: egli afferma che non c’è una correlazione matematica universale). Non si può tuttavia non riconoscere che disoccupazione e deflazione nell’area euro si rincorrono, tranne che per la simpatica Germania che prolifera (fino a un certo punto) alle spalle di tutti gli altri.

Il paradigma del centrodestra è totalmente rovesciato rispetto a quello dominante. Ad esempio, è di centrodestra chiedersi (ma anche il centrosinistra farebbe bene a domandarselo) perché la crescita reale dei Paesi di Eurolandia – tranne la solita Germania – sia stata del 5-10% al di sotto di quella potenziale. Ed è un modello, quello del centrodestra, che implica quotidianamente un’assunzione di responsabilità. Se abbassare le tasse può creare ricchezza, perché dobbiamo assistere all’arricchimento della Germania a scapito del nostro Paese? Il centrodestra sa già qual è la risposta: la politica monetaria, così come quella fiscale, non va bene perché gli aggiustamenti di bilancio non si fanno durante i cicli recessivi come invece Frau Merkel ci ha imposto, mentre la rigidità dell’euro (e il tardivo intervento della Bce nell’immissione di liquidità sul mercato) è un freno sia alla produttività interna che alla competitività sui mercati internazionali. Ma l’accento è sempre sulla crescita, cioè sul prodotto tangibile della libertà. Libertà e tutte le parole che ne derivano non si prestano a compromessi. Ecco il centrodestra sa che tra aggiustamento richiesto dall’Europa e stabilizzazione e allargamento del bonus da 80 euro promesso da Renzi serviranno l’anno prossimo tra i 24 e i 30 miliardi di euro. Vale la pena aumentare le tasse per elargire benefit elettorali? La risposta è negativa. Se siete di centrodestra, lo sapete già. Se, invece, pensate che «Mister Spending Review», Carlo Cottarelli, riuscirà a fare miracoli, date un’occhiata a quest’articolo che evidenzia le criticità di cui avevamo parlato poco sopra in merito alla politica fiscale e alla spesa pubblica.
D’altronde, chi si professa di centrodestra sa che può camminare, come Isaac Newton, sulle spalle di giganti che si chiamano non solo Laffer e Friedman, ma von Hayek, von Mises e Rothbard. E per chi è italiano su grandi come Luigi Einaudi e Benedetto Croce. Tutti punti di riferimento che mettevano innanzitutto la difesa dell’individuo e delle sue prerogative da qualsiasi attacco che potesse essere spacciato come tutela del bene comune (a partire dalle tasse). Di recente solo un presidente del Consiglio ha tenuto a mente queste lezioni (non lo citiamo affinché non ci si tacci di essere in conflitto di interessi).
In conclusione, vanno ricordati i due rischi principali che minacciano da sempre il centrodestra. Che poi si possono sintetizzare in uno solo: il fanatismo. Ci sono i fanatici delle teorie libertarie che, in nome della purezza dell’ideale, ne compromettono la realizzabilità politica. In Italia gli esempi sono molteplici: diciamo che il centrodestra si divide spesso tra chi privatizzerebbe tutto e taglierebbe di tre quarti i costi dello Stato (sono una minoranza ma è molto rumorosa) e chi, invece, tende a salvaguardare i diritti acquisiti (che si chiamino pensioni, posti di lavoro pubblici o privati) spostando più in là le riforme (sono la maggioranza). A questa divisione si aggiunge quella riguardante i temi etici: il centrodestra ha vocazione liberale e, proprio in nome di questa, a volte non riesce ad assimilare i principi connaturati a una società tradizionalmente cattolica come quella italiana. Ma queste sono problematiche che un liberale vero lascia alle coscienze individuali (la difesa della libertà si attua impedendo qualsiasi tipo di discriminazione sia in positivo che in negativo), quello che non può aspettare è la messa in pratica della teoria di Laffer che di Reagan e Thatcher già fece le fortune.
Wall & Street

(il Giornale)


mercoledì 23 luglio 2014

Se l'odio per Israele uccide la verità. Vittorio Feltri

Giova ricordare una banalità: la guerra si fa almeno in due, l'uno contro l'altro. Quanto ai motivi dei conflitti armati che nella zona si susseguono da oltre 60 anni, è vero che sono molto complessi, un miscuglio di torti e di ragioni, ma volendo semplificare si può dire che la nascita di Israele comportò una durevole emarginazione dei palestinesi. Gli attriti cominciarono subito. Una risoluzione dell'Onu raccomandava una cosa semplice: l'istituzione di due Stati, uno israeliano e l'altro palestinese.

Il secondo non ha mai visto la luce, perché il Piano di partizione approvato dalle Nazione Unite nel 1947 fu respinto dai Paesi arabi. Mentre il primo nel giro di pochi lustri si è sviluppato ed è diventato un'enclave occidentale nel Medioriente. Una civiltà avanzata nel deserto non poteva che creare dissidi. A parte ciò, bisogna riconoscere che un popolo senza patria (i palestinesi) coltiva i semi dell'odio. E l'odio prima o poi (o periodicamente) esplode. Fra due Stati si sviluppano spesso rapporti di buon vicinato. Ma fra una nazione organizzata e moderna e un popolo allo sbando la compatibilità è difficile. Senza farla tanto lunga, la vicenda è questa. Se aggiungiamo che la Stella di David ha vinto ogni battaglia nell'area, si comprende ancor meglio la rabbia di chi ha sempre perso. Ma comprendere non significa giustificare.

Israele, in fondo, reclama solo il diritto di esistere che, di fatto, gli viene negato. L'aspirazione (varie volte dichiarata) dei Paesi di quell'area geografica è quella di distruggere i nemici ebrei, i quali per evitare di essere massacrati si armano fino ai denti e, quando sono minacciati, reagiscono, alimentando l'antisemitismo internazionale, ancora molto forte, che trova ospitalità anche in Italia sia in certa sinistra, sia in certa destra, specialmente fascista, sia nella maggioranza della stampa. Cosicché in modo assai rozzo, gli israeliani vengono fatti passare - a causa di una propaganda disgustosa - per cattivi, e i palestinesi per povere vittime. Sorvoliamo per brevità su tutte le guerre che hanno insanguinato quelle terre, ma non sui tentativi di istituire uno Stato palestinese che avrebbe consentito una pace duratura. Tentativi immancabilmente falliti.

Una maledizione? Il sospetto è che in Medioriente prevalga l'interesse a tenere alta la tensione e a impedire in Israele la costruzione di un assetto definitivo, non insidiato dai nemici storici. L'antisemitismo gioca un ruolo fondamentale (in Europa e in Italia) nella demolizione sistematica della reputazione israeliana. Un esempio emblematico: se si tratta di celebrare la Shoah, ci sentiamo tutti fratelli degli ebrei e deprechiamo i nazisti e i fascisti che li sterminarono; ma non appena esplode un colpo di fucile lungo i confini dello Stato ebraico, il sentimento di solidarietà nei loro confronti si trasforma subito in antipatia se non in autentico razzismo. In questi giorni ne abbiamo sotto gli occhi la prova.

Hamas fa piovere missili sulla testa dei cittadini di Israele e se costoro rispondono mirando a obiettivi militari, i terroristi obbligano i civili (anche i bambini) della Striscia a proteggerli a costo della vita. Dopo di che si grida allo scandalo perché gli israeliani uccidono i fanciulli. La mistificazione funziona a meraviglia. Tant'è che una parte cospicua dell'opinione pubblica è convinta che gli ebrei abbiano imparato da Hitler a essere crudeli, e massacrino i palestinesi per questioni di dominio territoriale. La disinformazione produce effetti impressionanti, e la propaganda più è sgangherata più viene bevuta dalle masse acritiche. Che ignorano perfino che Hamas è una banda di terroristi che fa del male soprattutto ai palestinesi.

(il Giornale)

 

lunedì 21 luglio 2014

Io, spazzino dell’informazione guardona, tra le bellurie di un talk show. Giuliano Ferrara


Il Foglio - Le domande che si fanno i vili e i cretini sono queste: è stato assolto, Berlusconi, in virtù del patto con Renzi?; è tutto dipeso dalla concussione per induzione varata dal Parlamento su iniziativa del governo Monti (Severino), una norma concepita per specificare ancora meglio che una raccomandazione con favori scambiati è una concussione anch’essa, sebbene non coattiva?; è merito della Severino di servizio al Cav., la Severino stessa una cui legge ha consentito di buttarlo fuori dal Senato o dell’avvocato Coppi?; Berlusconi è restituito alla sua agibilità politica o riabilitato, malgrado l’altra sentenza per frode fiscale, definitiva, e l’affidamento ai servizi sociali?; riprenderà in mano Forza Italia con tutta la fronda?; per la serie eufemistica dell’amico Mentana, non è un po’ “slittata la frizione” ai media e ai pm che hanno messo in scena tutto questo ambaradam sulle vite degli altri?

Poi ci sono le considerazioni: il paese è indifferente (Brambilla), quelli che adesso festeggiano in futuro si dovranno vergognare (Azucena Annunziata), ora tenteranno di mettere le loro manacce sulla giustizia italiana, per le scuse di pm e giornalisti e editori al paese e all’ex presidente del Consiglio c’è tempo. Poi ci sono i depistaggi pusilli tipo “a me del caso Ruby non frega poi così tanto, era chiaro che sarebbe andata a finire così, passiamo alla mafia”, gentucola moscia che non merita di essere invitata, per quanto lo desideri, alle cene eleganti. Fanno bene a fare le vacanze con i mafiosi, come capitò a Marco Dettaglio, così si fanno raccontare le gesta dell’antimafia di Ingroia dal suo attendente doppiogiochista, a loro insaputa, e si consolano.

Nella mia modestia di spazzino del giornalismo italiano, consegnato da vent’anni all’incombenza di sistemare nei cassonetti, senza differenziata (lo riconosco), tonnellate di carta stampata e di digital-tv del prime time, ho anch’io un paio di domande cretine. C’è stato un qualche rapporto tra la crisi di leadership che ha portato alla defenestrazione, lui consenziente e rassegnato e callido e responsabile, di Berlusconi eletto dal popolo e questa inchiesta che non si sarebbe mai dovuta fare, tutta gogna mediatica, intromissione guardona, e niente prove, niente reati? C’era un rapporto vent’anni prima tra gli avvisi di garanzia a mezzo stampa di Francesco Saverio Borrelli via Corriere della Sera (poi siamo arrivati ai Mattinali specializzati in Delazioni&Dettagli), “stiamo arrivando ai livelli alti di Telepiù”, oppure la propalazione a tradimento dell’informazione giudiziaria sulla Guardia di Finanza, seguita da processo e assoluzione, e il ribaltone del 1994-1995? Potrebbe lasciar affiorare qualche sospetto di combine tra media giustizia e politica il ripetersi di un accanimento che produce a vent’anni di distanza, con impressionante regolarità, cadute di governi eletti nell’applauso della gente che ama piacersi? Non sarebbe questo uno svuotamento della democrazia liberale e un insulto alla medesima? Che ne dicono i saggi osservatori che affermano di rifiutarsi di osservare dal buco della serratura per via della loro idiosincrasia liberale?

Altre domandine, questa volta sul costo nazionale delle fobie della Boccassini contro la “furbizia orientale” della signora El Mahroug. Ricordate quando Tremonti sequestrò per sé integralmente la politica economica, disse che non c’era una lira, rigettò ogni ipotesi di frustata all’economia e di riforme, attese la caduta di Milano, lo sputtanamento internazionale del capo del suo governo, pensando che sarebbe restato in piedi in mezzo alle macerie come profeta dell’antimercatismo? E’ così che ci preparammo alla grande crisi finanziaria? Ricordate quella povera anima di Fini, la sua baldanza ciarliera con il magistrato Trifuoggi in un memorabile fuorionda, la sua idea di ricostruire con la benedizione di Scalfari e Mauro e della sinistra gregaria una destra conservatrice di stampo europeo, fondata sulla caduta imminente dell’uomo degli scandali sessuali e circonvicini? Può una sequela di inchieste senza oggetto né prove condurre alla consumazione di una maggioranza di governo, alla sua estinzione in un susseguirsi di squallidi opportunismi, di piccole ambizioni senza senso destinate a finire nel dimenticatoio di quella grande discarica dei codardi che è la storia?

Ecco. Ho partecipato a un talk show, su gentile richiesta di Chicco, la sera dell’assoluzione di Berlusconi, la sera in cui anche la sentenza per evasione fiscale ai danni del maggior contribuente italiano ha preso la sua nuova e vera luce da queste domande su un accanimento ventennale ormai straprovato, e queste domande non sono venute alla luce, ho potuto solo accennarle tra grida da trivio, vanità da camerino per sociologhe di serie C e giornalisti garantisti che intitolano “Piazza pulita” le loro trasmissioni di fini giuristi liberali, e ho visto, mentre mi abbassavano l’audio e si prendevano un sonoro vaffanculo, la grande fuga dei topi mentre la loro barcaccia affondava: nessuno che attaccasse il verdetto e rivendicasse fino in fondo il proprio comportamento, nessuno che si scusasse per il malfatto, nessuno che si facesse domande politiche che in qualunque paese sarebbero state poste ai magistrati, alle loro associazioni, a gente di cultura giuridica e politica e non a un circolo di scemi del giornalismo chiacchierone (me compreso). In compenso culi, tette e testimonianze di pentite al processo finito in pornoprocesso e farsa grottesca. Eravamo tutti giornalisti, mica male il giornalismo italiano. Merita i premi che si conferisce autorevolmente per aver detto che Rostagno è stato ucciso dalla moglie, che l’uranio del Niger è stato nascosto dal controspionaggio italiano, che Ruby era la chiave di volta di palpeggiamenti criminali da Cassazione.

Una sentenza piena di conferme. Arturo Diaconale



L’inattesa sentenza di assoluzione per Silvio Berlusconi nel processo Ruby costituisce la rassicurante conferma dell’esistenza di un giudice a Berlino anche nel sistema giudiziario italiano. Non si tratta di una conferma da poco. Perché rappresenta la dimostrazione più clamorosa e tangibile che, a dispetto di tutte le anomalie, di tutte le degenerazioni e di ogni genere di difficoltà e carenze, la giustizia italiana non è in coma irreversibile ma è ancora in grado di rigenerare se stessa. Il dato incoraggiante di sapere che il sistema giudiziario nazionale è capace di produrre giustizia giusta, non può cancellare la seconda conferma che viene dalla sentenza di assoluzione per il Cavaliere emessa dalla Corte di Appello di Milano.

Il ribaltamento totale della durissima sentenza di condanna a sette anni del primo grado sulla base delle considerazioni tecniche esposte dalla difesa del professor Coppi, rappresenta l’implicita e clamorosa dimostrazione della motivazione esclusivamente politica del giudizio di partenza. L’assoluzione per le ragioni tecniche che hanno smontato l’impianto dell’accusa costituisce la prova provata della persecuzione giudiziaria di cui è stato oggetto Berlusconi per il caso Ruby. Una persecuzione che è durata anni e che ha prodotto non solo una gogna mediatica infinita ai danni dell’immagine di un personaggio di rilievo pubblico nazionale e internazionale, ma anche una serie di pesanti conseguenze per l’area politica di cui il Cavaliere è stato – e rimane – leader e per il Paese di cui è stato per anni rappresentante.

La persecuzione testimoniata dall’assoluzione ha toccato sia Berlusconi che l’intera società italiana. Quest’ultima ha subito – e continua a subire – le ripercussioni devastanti dei pregiudizi ideologici di alcuni magistrati e le irresponsabili speculazioni politiche dei nemici viscerali dell’ex presidente del Consiglio. La giustizia italiana, dunque, per un verso esce rinfrancata dalla sentenza milanese ma per l’altro risulta colpita da un male, quello non solo della politicizzazione che ha colpito Berlusconi ma soprattutto della totale inaffidabilità che colpisce l’intera società nazionale, da estirpare al più presto e a ogni costo se si vuole salvare il Paese dalla rovina definitiva. Per ridare ai cittadini la fiducia in una giustizia che al momento risulta quasi sempre incerta e quindi quasi sempre ingiusta, non c’è altra strada che insistere nella battaglia per una riforma integrale del sistema giudiziario nazionale. Una riforma che non può essere quella evanescente e indeterminata indicata da Matteo Renzi. Ma che deve essere quella per una vera giustizia giusta che da anni viene sostenuta dai radicali, dai liberali e da tutti quelli che credono nello Stato di diritto fondato sulle garanzie e sui diritti inalienabili dei cittadini.

La sentenza di Milano indica che questa battaglia è sacrosanta e alimenta la speranza di poterla portare avanti con successo, perché consente al simbolo della persecuzione giudiziaria di tornare a battersi da protagonista sulla scena politica italiana. Chi auspicava una seconda condanna di Berlusconi per trasformarla nella lapide sotto cui seppellire definitivamente il leader del centrodestra scopre oggi che aveva fatto male i propri calcoli. Non c’è lapide e non c’è tomba. C’è un Cav. rigenerato e rilanciato. Che può giocare ancora una grande partita per le riforme e per la ricomposizione del centrodestra alternativo alla sinistra.

(l'Opinione)

 

giovedì 3 luglio 2014

Tagli, ritagli e frattaglie. Davide Giacalone


Da una parte il governo nega, su questo formalmente unanime, la necessità di una correzione dei conti 2014, dall’altra si ricorda di Carlo Cottarelli e gli chiede di predisporre tagli per 17 miliardi (già inseriti nei conti del Documento di economia e finanza, ma ancora non realizzati). A quelli se ne dovrebbero aggiungere altri 10, se si vogliono stabilizzare maggiori spese e minori entrate già decisi e propagandati (mitici 80 euro compresi). Ciò fornisce un punto di riferimento circa lo spessore non della manovra da farsi, ma di quella già in corso: 27 miliardi. Siccome i tagli, per giunta in questa quantità, stanno passando da favola a leggenda, il pericolo concreto è che scattino le clausole di salvaguardia. Che, tradotto in linguaggio prosaico significa: tasse.

Se il governo riuscirà a evitarlo, se, cioè, l’aggiustamento avverrà con tagli e non con ulteriore fisco, sarà un bene. Andrà riconosciuto, con piacere. Dovrà accadere, però, al netto dei trucchi. Prendiamo, per esempio, il pagamento dei debiti pubblici verso fornitori privati: spostarli al 2015 è, al tempo stesso, una sconfitta e un trucco. Sconfitta perché il governo viene meno a quanto garantito. Trucco perché si sposta contabilmente una partita e non si risolve alcun problema. Un tempo la chiamavano “finanza creativa”, ora è solo cosmesi tardiva.

I tagli, per avere una caratteristica positiva, non recessiva e risolutiva devono essere stabili nel tempo e relativi a funzioni pubbliche che si cancellano. Occorre distinguere, quindi, fra i risparmi e i tagli. I primi si possono ottenere, anche in misura assai significativa, ottimizzando le procedure e rendendo trasparente la spesa. I secondi, invece, richiedono non una momentanea apnea, ma il soffocamento di interi comparti dello Stato apparato, nelle sue varie articolazioni societarie e locali. Quando la Corte dei conti (che già di suo è un organismo in gran parte disfunzionale) certifica la perdita annua di 26 miliardi nella gestione di 7500 aziende partecipate dal pubblico, occorre stabilire a quale numero guardare con maggiore preoccupazione: gli sciocchi guardano il 26, i saggi il 7500. Non solo quelle società sono troppe, non solo perdono, ma il loro costo reale non è dato dal saldo finale, negativo, bensì dal trombo crescente che rende difficile la circolazione produttiva. Limitarsi a risparmiare 26 miliardi significa adottare una terapia che porta alla trombosi. Più che di un medico sarebbe opera di una chiromante. Lavorare nello sfoltimento delle società e delle funzioni significa praticare tagli promettenti. Concentrarsi sul mero sbilancio significa accontentarsi dei ritagli, lasciando al loro posto le frattaglie.

Ma si può fare di peggio: lasciare lo Stato a occupare grassamente e inefficientemente il mercato, salvo portare in quotazione alcune sue società. In qualche caso delle perle, che vanno liberate dal guscio, in altri dei gusci che contengono roba incompatibile con il mercato, ovvero economia sussidiata. Non contenti di questo si completa l’opera prendendo quei soldi e mettendoli al servizio della spesa pubblica, magari mascherata da “investimenti”. Una delle cose che dovrebbero essere chiare, un punto sul quale varrebbe la pena di misurare la trasparente convergenza di ciascuna forza politica, è: quando si vende patrimonio si deve far scendere il debito. Altrimenti ci si ritrova con meno patrimonio, un debito crescente e una spesa fuori controllo.

Quindi: se la richiesta di tagliare 17+10 miliardi, entro la fine dell’anno, è da considerarsi totalmente alternativa all’imporre nuove tasse e imposte, che la si saluti con soddisfazione; se è un modo per coprire altra spesa corrente, in un gioco dilapidante delle tre carte, che la si avversi con determinazione, perché porta dritto a più alta pressione fiscale. Posto che, come mettevamo in evidenza giusto ieri, dall’interno del governo si manifestano linee diverse e incompatibili fra loro, forse varrebbe la pena di farne oggetto di un dibattito parlamentare. Perché si può anche conservare l’immunità dalle inchieste giudiziarie (e si dovrebbe farlo senza ipocrisie), ma nessuno sarà immune dall’avere taciuto il rischio che corrono i conti di un Paese in cui la spesa è variabile indipendente dalla (de)crescita.

Pubblicato da Libero