domenica 29 settembre 2013

Perché ho chiesto ai ministri PDL le dimissioni. Silvio Berlusconi


Caro Mauro,

la stabilità di governo è un bene se si nutre di due cose: un governo capace di lavorare bene e una maggioranza unita sulle cose da fare e fondata sul rispetto reciproco.

Invece nelle ultime settimane abbiamo avuto un governo capace solo di rinviare, di proporre il blocco dell'Iva aumentando altre tasse, di tagliare l'Imu solo a metà per ricattare il Pdl e costringerlo a stare al governo, un governo prono rispetto ai diktat dei burocrati dell'Unione europea.

Abbiamo avuto il nostro maggior alleato, il PD, che si vergogna di stare in un governo "contro natura" e che per bocca di tutti i suoi esponenti di vertice annuncia l'intenzione di buttare fuori dal Parlamento il leader del partito alleato, violando la Costituzione. In questo modo assecondano gli istinti della loro base, nutrita da venti anni nell'odio contro di me e pensano di chiudere una partita che dura dal 1994.

Abbiamo pazientemente offerto soluzioni a ogni livello istituzionale per evitare di fare precipitare la situazione. Non ci hanno voluto ascoltare.

Per questo ho deciso di chiedere ai ministri PDL di dare le proprie dimissioni. So bene che è una scelta dura e impopolare. Ho previsto tutte le accuse che mi stanno rovesciando addosso in queste ore e anche lo sconcerto di parte del nostro elettorato, preoccupato giustamente della situazione economica e sociale.

A loro dico di non credere a coloro che da vent'anni hanno bloccato le nostre riforme per cercare di eliminarmi dalla scena politica. Sono gli stessi che oggi mi dicono di non anteporre me stesso al bene dell'Italia. Ciò non è mai stato in discussione per me e per la mia forza politica, in tutti questi anni.
Noi siamo quelli che negli anni Novanta hanno salvato i governi della sinistra quando non avevano maggioranza sulla politica estera. Noi siamo quelli che hanno voluto Monti, Bonino, Prodi in posizioni di vertice in Europa, perché italiani. Noi siamo quelli che non abbiamo mai lavorato all'estero contro il governo italiano quando eravamo all'opposizione. Noi siamo quelli che due anni fa hanno votato contro l'arresto di un senatore del PD, nello stesso giorno in cui loro votavano per far arrestare un nostro deputato, che fu peraltro scarcerato dopo alcune settimane. Noi siamo quelli che hanno voluto il governo Monti e il governo Letta, sperando potesse essere un governo di riforme e di pacificazione.

So e sappiamo distinguere il reale interesse dei cittadini. Per questo motivo, se il governo proporrà una legge di stabilità realmente utile all'Italia, noi la voteremo. Se bloccheranno l'aumento dell'Iva senza aumentare altre tasse noi lo voteremo. Se, come si sono impegnati a fare, taglieranno anche la seconda rata Imu, noi voteremo favorevolmente. Noi ci siamo e ci saremo su tutte le altre misure utili, come il rifinanziamento della cassa integrazione, delle missioni internazionali, il taglio del cuneo fiscale.

A chi mi chiede di farmi da parte e accettare con cristiana rassegnazione la mia sorte giudiziaria, presente e futura, dico con la mia consueta chiarezza che lo farei senza esitazione, se ciò fosse utile al Paese, se il mio sacrificio significasse una svolta positiva nei rapporti tra politica e "giustizia".

Invece per come si sono messe le cose darei semplicemente il mio avallo a una situazione di democrazia dimezzata, dove non il popolo ma i magistrati politicizzati decidono chi deve governare, dove i governi sono fatti dai giornali-partito e dalle gazzette delle procure e le leggi riscritte a colpi di sentenze.

Non sono sceso in campo per questo; non ho messo a repentaglio una vita di lavoro, di successi e di sacrifici per lasciare in queste condizioni il mio Paese.
Per questo ritengo mio dovere continuare a restare in campo, per offrire una alternativa ai poteri non democratici - perchè non eletti dal popolo - che loro sì irresponsabilmente vogliono mettere in ginocchio il nostro Paese.




Silvio Berlusconi

Il mistero Berlusconi. Franco Luceri




Se fra le cose che ho evitato di approfondire nella mia vita sentendomi incapace ci avessi infilato anche il rompicapo Berlusconi, mi sarei evitato di scrivere una cinquantina di fesserie, per concludere dopo venti anni che di lui non ci ho ancora capito niente. Ma giuro, questa è l’ultima.

Sarò sicuramente blasfemo; ma secondo me Berlusconi, come mistero impenetrabile, è secondo solo alla Santissima Trinità. Chi cercasse prove che B. è il diavolo, avrebbe l’imbarazzo della scelta. E chi lo volesse santo ne troverebbe altrettante. Insomma, Berlusconi non è un mistero, ma il mistero.

Cercare il bandolo della matassa nel groviglio delle opinioni pro e contro che lo riguardano è un lavoro per il quale oggi non mi sento più attrezzato, e venti anni fa credevo di aver capito tutto. Ma non si può capire niente, perché non c’è niente di vero e di logico nei fatti attribuiti a B. da inquisitori, sostenitori e detrattori.

Come fa un imprenditore ladro, che arricchisce cercando e pagando complicità e protezioni istituzionali a 360 gradi, a riciclarsi in politico filantropo, e a totalizzare un numero incalcolabile di nemici a livello nazionale e mondiale?

Ma se era un genio nell’associazionismo a delinquere, forse anche mafioso, (a sentire giudici e giornalisti) come ha fatto da politico a diventare una schiappa internazionale, un fabbricante di nemici che lo combattono e si augurano che tiri presto le cuoia o che lo accoppi qualcuno?

Perché i farabutti di cui è allagata l’Italia, dovrebbero temere e odiare di più il farabutto Berlusconi, portatore di affari sporchi, che i giudici guastatori? Ma Berlusconi è davvero un ladro, un evasore, un approfittatore? Oppure lo combattono perché non è abbastanza losco per i farabutti italiani, e più che portatore è guastatore di affari? Se nel suo ventennio da Premier ladro, gli illeciti si è dovuto cercarli spiando dal buco della serratura, nella sua stanza da letto, nelle sue mutande e in quelle improbabili delle sue escort, perché non vi erano conti bancari sporchi di soldi rubati, ma solo regalati, che marca di farabutto è mai questo Berlusconi?

Si fa una intera carriera di imprenditore che ruba e evade per arricchire, e poi va ad espiare i suoi peccati in politica per impoverire pagando un esercito di avvocati, di spese processuali e di escort per affogare i suoi guai giudiziari alla faccia dei suoi persecutori: B. è carnefice o vittima?

Tutto ciò che Berlusconi ha toccato come imprenditore è diventato oro; ma ciò che lo ha sfiorato da politico, anche solo per caso o per sbaglio è diventato escremento infetto del diavolo.

Qua cari italiani i conti non tornano: le prove del Berlusconi farabutto sono paraplegiche, e quelle del galantuomo sciancate. Io credo che come imprenditore abbia dovuto adeguarsi e rubare per non morire derubato. Poi stanco di farsi usare da burattino, si è illuso di avere talento come burattinaio politico, ma il lavoro gli è riuscito a metà: ha acquisito il potere, ma gli hanno impedito di governare il risanamento italiano. Così ha concluso la sua storia, passando da sfruttatore economico in costante arricchimento, in politico assediato e carcerato, per impedirgli di liberare e salvare il Paese dalla mafia delle caste, corporazioni, sindacati e banche strozzine.

Questa in sintesi mi sembra una storia passabile del Mistero Berlusconi; del don Chisciotte che non si è accorto di lottare contro poteri più forti di lui, che per combatterlo hanno ucciso l’Italia e gli italiani e sterminato peggio di ebrei, la razza operosa e onesta dei piccoli imprenditori, oltre a far scappare i grossi. (the FrontPage)

venerdì 27 settembre 2013

Ostellino, i liberal e gli intolleranti. Marcello Veneziani

Nessun intellettuale liberal ha raccolto l'appello sacrosanto che Piero Ostellino aveva rivolto loro contro l'intolleranza degli antiberlusconiani dopo che era stato linciato per presunto servilismo



Nessun intellettuale liberal ha raccolto l'appello sacrosanto che Piero Ostellino aveva rivolto loro contro l'intolleranza degli antiberlusconiani dopo che era stato linciato per presunto servilismo. Ostellino dovrà accontentarsi della solidarietà non di un intellettuale liberal ma più modestamente libero. Confermo, anche per esperienza personale recente, che se scrivi un articolo in dissenso rispetto agli antiberlù, vieni aggredito da una sequela incivile d'insulti e volgarità davvero «paranoidi» (Ostellino) e «rancorosi» (Renzi).

C'è una canea di esagitati sul web da antirabbica. Non sospettano che ci siano opinioni diverse dalle loro: no, lo dici perché sei un servo... Ai meno furiosi vorrei dire tre cose. Uno, non sostengo queste tesi perché scrivo sul Giornale di Berlusconi, ma scrivo sul Giornale perché sostengo queste tesi. Due, quelle tesi e molte altre idee che non riguardano Berlusconi ma il politically correct e altro, non trovano posto negli altri giornali, dunque non posso che scriverle qui. Tre, né Ostellino né io siamo berlusconiani, e a me spiace ammetterlo perché per sfregio alla canea vorrei dire il contrario.

Ero di destra prima che arrivasse B., sarò di destra dopo di lui. Così Ostellino, era liberale prima di B. e lo sarà anche dopo. Essere di destra è stato, e lo è ancora, un handicap da uomini liberi, altro che leccapiedi. I cani ti azzannano, le volpi ti cancellano. Ho una mia storia, le mie idee sono nei miei libri, e non sarà un branco con la bava alla bocca a rovesciarla. (il Giornale)

giovedì 26 settembre 2013

Telecommedianti. Davide Giacalone


La politica affronta il caso Telecom Italia come un formicaio cui è stato dato un calcio: corrono all’impazzata da tutte le parti. Con una differenza: le formiche sanno quel che stanno facendo, la politica teme che si sappia quel che hanno fatto. Ieri Franco Bernabè, amministratore delegato di TI, ha detto ai senatori che lo ascoltavano: ho saputo dalla stampa di essere diventato spagnolo. Non ci crede nessuno. In realtà sta dicendo: sono mesi che, anche solo leggendo la stampa, si sa come sarebbe andata a finire, visto che i soci italiani di Telco (la finanziaria che controlla TI) volevano andare via. Infatti ha aggiunto che se si voleva fare qualche cosa si doveva farlo prima. Vediamo, allora, cosa si deve fare. Poi passiamo alle castronerie che ci tocca leggere.

Dicono dal governo (Letta, Catricalà, Lupi e compagnia lagnante): chiediamo garanzie sull’occupazione e la rete. Sbagliato. L’occupazione non è una variabile indipendente dal mercato, un’azienda che funziona ha i lavoratori che servono. Se ne ha uno in meno perde occasioni di mercato, se ne ha uno in più perde soldi. I signori che parlano di occupazione senza badare alla produttività, politici e sindacalisti in testa, sono i responsabili del continuo crollo italiano. Aumentando i disoccupati. Chi parla in questi termini ha in testa il modello delle partecipazioni statali, ditegli di smettere, perché impoverisce anche voi. In quanto alla rete, vorrei sapere: hanno in mente un esproprio proletario, contro tutte le norme europee, o pensano, come pare, di portare i soldi della Cassa depositi e prestiti, quindi dei cittadini italiani, alla Telefonica spagnola? La rete di Telecom è vecchia perché l’attuale management non ha investito, e non lo ha fatto perché non avevano i soldi, né alcuna autorità di garanzia o indirizzo governativo li spingeva in tal senso. Prendersela ora significa non solo pagarla, ma pagarne il ritardo tecnologico. Un affarone che dovrebbero fare con i soldi loro, non con i nostri. Chi piange sulla rete non distingue le telecomunicazioni dalla pesca.

C’è un solo lato positivo, in tutta questa faccenda, e sta nella possibilità che lo Stato torni a fare il suo mestiere, consistente nell’indirizzo e nel controllo. Gli strumenti ci sono. Se, invece, continuiamo ad avere controllori statali che operano su aziende statali va a finire che il controllato controlla il controllore. Ed è questa la grande piaga nostrana (Rai, Poste, Ferrovie etc.). Gli operatori di telecomunicazioni agiscono in regime di autorizzazione, che può essere legata a obiettivi d’investimento. Questa è la retta via. L’altra serve solo a comprare il silenzio dei sindacati e a mantenere un mercato per i fornitori amici. La via maestra verso la fame.

Ora cinque puntualizzazioni, perché a tutto c’è un limite. 1. Telecom non è svenduta oggi, ma quando si è consentito, nel 1999, di scalarla a spese di Telecom. In quel momento si è trasformata una grande multinazionale in un generatore di debiti per portare fuori ricchezza. 2. L’italianità di Telecom non si perde oggi, ma sempre nel 1999, quando a Roberto Colaninno si permise di usare una società lussemburghese, la Bell. Compiacente il governo, presieduto da Massimo D’Alema, il controllo andò all’estero. E anche i soldi, tanto che i capi delle cooperative rosse, Consorte e Sacchetti, poterono accumulare un tesoro personale, che poi fecero rientrare (in tutto o in parte, non so) con lo scudo fiscale. Ancora oggi non sappiamo chi altri portò via soldi della società. 3. Semmai tornò italiana quando (2001) il controllo fu acquistato da Olimpia, di Marco Tronchetti Provera. Che riprese a investire nella rete, salvo portare via gli immobili (destinati a Pirelli Real Estate). Lo stesso Tronchetti aumentò il debito, per portare Tim dentro la pancia di Telecom, in modo da avere denaro per tenersi in equilibrio. 4. Tutto questo si fece tradendo la Borsa e le norme, con la complicità della Consob, allora presieduta dal compianto Luigi Spaventa, poi parlamentare della sinistra. 5. Tale forma di capitalismo relazionale, che sarebbe meglio definire inciucismo miserabile, ha trionfato con l’arrivo di Banca Intesa, Mediobanca e Generali nella proprietà di Telco, dove Telefonica si trova, quale primo azionista e unico socio operativo, dal 2007. Un’operazione “di sistema” che oggi è una disfatta di sistema.

Un’operazione covata nel mondo della sinistra, che si riempie la bocca di mercato e le tasche di mercanteggiamenti. La destra non ha colpe? Enormi: Silvio Berlusconi ha pensato che fosse possibile lasciare che gli altri facessero gli affari loro, mentre lui faceva i propri. Il risultato lo vedete: lui si accinge alla galera, gli altri a farlo decadere dal seggio senatoriale.

Anche Enrico Letta dice: nessuno ci ha informati. Cerchino di non rendersi ridicoli: scriviamo dal 2007 che Telecom sarebbe finita agli spagnoli. Solo che al traguardo si arriva con le due società di telecomunicazioni più indebitate d’Europa, e con una soluzione che serve esclusivamente a tutelare le banche che hanno così malamente impiegato i soldi dei risparmiatori. Talché suppongo che la storia non finisca qui, e che se qualcuno vuol portare via la baracca, posseduta da poteri deboli e oberata da debito alto, non ha che da mettere i soldi sul tavolo. Quel giorno vedremo il formicaio agitarsi ancora, magari rimpiangendo il socio concittadino dell’Unione europea.

Pubblicato da Libero

martedì 24 settembre 2013

I troppi inganni dei guardiani della spesa. Federico Punzi

 


Il premier Letta avverte che non ci sta a farsi logorare. Purtroppo però il problema è che tra acconti di imposte, nuovi balzelli, rinvii, ripensamenti e gioco delle tre carte, è il suo governo che sta logorando gli italiani.

Il ministro dell'economia Saccomanni si sveglia rigoroso quando si tratta di tagliare tasse o evitare nuovi aumenti, mentre si mostra molto più morbido e accondiscendente sulla spesa pubblica. L'aumento dell'Iva sembra diventato inevitabile perché non si può certo mettere a rischio il bilancio per un miliardo, o quattro o cinque, ma la spending review può aspettare, bisogna prima nominare un nuovo commissario che se ne occupi. E i costi standard? Tutto pronto ma con calma, non c'è fretta. E le dismissioni? Prima il “road show” (per la promozione del Paese o di Letta junior?).

Intanto, nonostante non ci sarebbero soldi per bloccare l'aumento dell'Iva, ne sono stati trovati a sufficienza per ulteriore spesa pubblica, dalla stabilizzazione dei precari della pubblica amministrazione al decreto sulla scuola, passando per i fondi alla cultura e altre micro-spese che sommate non sono così trascurabili. Insomma, la spesa pubblica sembra ormai incomprimibile (come se venissimo da anni di pesanti tagli), ma le tasse sono sempre espandibili, e i cittadini sono ormai molto più che al servizio dello Stato: sono veri e propri bancomat. Il giochetto è chiarissimo: dietro l'alibi dei conti pubblici, della “responsabilità”, dei richiami pedanti al rispetto del vincolo europeo del 3% di deficit, c'è in realtà la difesa ostinata, ad oltranza della spesa pubblica.

Nessuno chiede di sforare quel tetto: tagliare le tasse, o per lo meno evitare di aumentarle, si può trovando le necessarie coperture, tagliando la spesa. Ma se un ministro dell'economia sostiene che è impossibile trovarne in un bilancio di oltre 800 miliardi l'anno, sta implicitamente dichiarando o la sua impotenza o la sua incapacità. Delle due l'una, non si scappa. Anche perché in questi anni, le famiglie e le imprese, per far fronte non solo alla crisi ma anche alle pretese debordanti del fisco, hanno tagliato ben più dello 0,5% (tanto vale scongiurare l'aumento dell'Iva) dai loro bilanci. Le fantastiche 7 proposte di Brunetta – tra anticipi, rinvii e una tantum – danno effettivamente il senso di qualcosa di molto precario e raccogliticcio, ma tra misure “spot” e vere riforme ci sono molteplici interventi possibili.

Un intervento sulle pensioni d'oro può valere da un miliardo, nell'ipotesi più minimale, fino a una dozzina, nell'ipotesi più ambiziosa e radicale (e si può fare in modo da non incorrere nella bocciatura della Consulta). Poi ci sono gli stipendi d'oro dei manager pubblici, i sussidi troppo generosi alle rinnovabili, le province e il finanziamento pubblico ai partiti che sono duri a morire.

Quindi le riforme di sistema, come la spending review “zero-based”, l'adozione dei costi standard, la revisione del Titolo V, il disboscamento della selva di contributi alle imprese e di agevolazioni fiscali. Su tutto questo il governo finora non ha ancora mosso un passo. I soldi, dunque, ci sono eccome, bisogna concludere che non tagliare, non evitare l'aumento dell'Iva, è una scelta politica, non un dato ineluttabile con cui fare i conti. Meglio aumentare l'Iva che ridurre la spesa pubblica? Lo si dica apertamente, mettendoci la faccia davanti all'opinione pubblica, ma basta con il giochetto dei soldi che non ci sono e con la retorica della “responsabilità”, della “stabilità” e dei vincoli europei. La “stabilità” dell'attuale livello di pressione fiscale pur di non toccare la spesa pubblica, questo sì è massimamente irresponsabile.

Invece chi vuole tagliare le tasse, anche se chiede di trovare adeguate coperture nei tagli alla spesa, viene accusato di populismo e demagogia, di propaganda, perché – si dice – non conosce davvero il bilancio e la macchina pubblica. Questa retorica, e l'indicare nell'evasione fiscale la causa prima del dissesto dei nostri conti pubblici, sono i peggiori inganni e le più efficaci strategie dei difensori della spesa pubblica. Come ampiamente previsto, anche la polemica contro i tagli lineari si è rivelata niente più che un alibi per non tagliare.

Bisogna agire selettivamente sulla spesa, ci viene spiegato, ma per farlo serve tempo, ci vuole un commissario, poi un altro; un rapporto, poi un altro, e così via. No, bisogna riabilitare i tagli lineari! Sia il governo a fissare obiettivi di risparmio ad ogni centro di spesa, in percentuali naturalmente diversificate, e siano gli enti stessi nella loro autonomia a decidere cosa tagliare. Per favorire una spending review “dal basso”, per esempio, si potrebbero fissare premi economici e di carriera ai dirigenti pubblici che riescono a risparmiare, a ridurre le loro voci di spesa a parità di produttività. Due strane coincidenze, poi, fanno dubitare dei veri motivi all'origine dell'improvviso irrigidimento sia del ministro Saccomanni, arrivato anche a minacciare le proprie dimissioni, che del premier Letta.

E' avvenuto subito dopo l'incontro con il commissario europeo Olli Rehn e subito dopo il videomessaggio in cui Berlusconi, lasciando intendere di non voler staccare la spina alle “larghe intese” sulla propria decadenza, ha chiesto con forza però di fermare il «bombardamento fiscale»: la spiacevole sensazione, insomma, è che non si voglia fare qualcosa di ragionevole come scongiurare l'aumento dell'Iva solo per non accontentare il Pdl, per non concedergli altri “punti” dopo l'Imu. Ma così, per meri calcoli politici, a rimetterci sarebbero tutti gli italiani. (l'Opinione)

La stanza dei bottoni e la malafede a sinistra. Alessandro Sallusti

Il centrodestra ha governato solo 83 giorni più della sinistra e molto meno (circa tre anni) di sinistra e tecnici messi insieme


Quante volte abbiamo sentito illustri commentatori pontificare che se l'Italia è allo sbando lo si deve ai governi di centrodestra che hanno governato il Paese negli ultimi 18 anni? Direi spesso, e a volte qualcuno di loro ha aggiunto «la maggior parte» degli ultimi 18 anni, ma così, tanto per non negare che anche alla sinistra, quasi incidentalmente, è capitato di stare nella stanza dei bottoni.

Questa favola è stata ripetuta con fermezza anche da Epifani nei giorni scorsi durante l'assemblea del Pd. E nessuno ha obiettato. Un nostro lettore, Sauro Tosoni, ha voluto vederci chiaro e con pazienza certosina ha ricostruito vent'anni di vita politica, giorno per giorno. Ecco il risultato del suo lavoro. L'Italia è stata governata per 1.013 giorni da esecutivi tecnici (Dini, 486; Monti 527). Il centrosinistra ha guidato sette governi (Amato-uno, 304 giorni; Ciampi, 377; Prodi-uno 887; D'Alema-uno, 427; D'Alema-due, 125; Amato-due, 412; Prodi-due, 725) per un totale di 3.254 giorni. Praticamente lo stesso periodo di tempo, 3.337 giorni, nel quale ha governato il centrodestra con i suoi quattro esecutivi Berlusconi.

Ecco svelato, con la chiarezza e semplicità dei numeri, l'imbroglio mediatico del Paese mandato a catafascio da una dittatura, quella di Berlusconi, durata vent'anni consecutivi salvo brevi parentesi. Balle: il centrodestra ha governato solo 83 giorni più della sinistra, cioè un niente, e molto meno (circa tre anni) di sinistra e tecnici messi insieme. La favola ribadita da Epifani è solo propaganda, alla quale da tempo hanno abboccato, non per ingenuità ma per convenienza politica, anche i mass media stranieri, con un danno di immagine non irrilevante a tutta l'Italia, descritta più volte come un gregge di caproni che si sono fatti abbindolare da un pastore despota.

Se c'è una cosa che in questi vent'anni non è mancata è proprio l'alternanza politica alla guida del Paese: due governi tecnici, otto di sinistra, quattro di centrodestra ed uno, l'attuale, di larghe intese. Ma chissà perché, il cattivo deve essere solo e sempre uno. Distratti, ignoranti o in malafede? Propendo per la terza ipotesi. (il Giornale)

domenica 22 settembre 2013

Lettera aperta a Silvio Berlusconi. Ida Magli


Gentile Signor Berlusconi,
stiamo vivendo dei giorni decisivi, non per il Pdl o per il governo Letta, ma per l’Italia e, di conseguenza, come è sempre successo nella lunga storia che abbiamo alle spalle, anche per l’Europa. Mi sono decisa a scriverle questa lettera perché lei è l’unica persona che sia in grado oggi di prendere una decisione fortissima. Si tratta di una decisione indispensabile per non far sparire dalla storia l’Italia come nazione, e non uccidere gli italiani come popolo: abbandonare l’euro ritornando alla sovranità monetaria, uscire dall’Unione europea che è stata creata per eliminare gli Stati nazionali, e combattere, con la forza del Pdl, ma soprattutto con la forza di tutti quegli italiani che amano l’Italia, contro i governi euro-comunisti, a cominciare da quello Letta.

Credo di avere il diritto di rivolgerle questo appello in base al fatto che le mie previsioni, con venti anni di anticipo sulla situazione catastrofica attuale, si sono verificate alla lettera. Erano previsioni basate sul metodo scientifico, più certe di quelle statistiche e d’opinione sulle quali Lei è solito regolare le scelte, come i fatti hanno dimostrato. Il mio primo libro Contro l’Europa è stato pubblicato da Rizzoli nel 1997. Da allora ho scritto su questi argomenti centinaia di articoli, molti dei quali pubblicati da “Il Giornale”, e altri due libri, sempre pubblicati da Rizzoli: La dittatura europea e Dopo l’Occidente. C’era tutto: la crisi economica, la vittoria del comunismo, il dispotismo dei banchieri, l’invasione immigratoria, il fallimento del progetto europeo, la conquista africana e islamica dell’Italia e dell’Europa, la fine del cristianesimo, la psicosi ugualitaria.

Il Direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, mi ha chiamato al telefono immediatamente dopo l’annuncio delle dimissioni di Ratzinger, gridandomi: “Allora Ida, questo è “dopo l’Occidente?”. Sì, questo è dopo l’Occidente. Ossia la fine della civiltà europea e il mondialismo ugualitario al potere. Un Gesuita a capo dei cattolici né è la prova più sicura. Gesuitismo e “accomodamento” sono la stessa cosa (ha subito ricevuto sorridendo la signora Bonino: questo è l’accomodamento). Ma io ho il dovere, oltre che la passione per la verità e l’amore per gli italiani, proprio perché so che siamo quasi al momento dell’agonia, di chiedere con tutte le mie forze di salvarci a chi è in grado di farlo.

Lei ha soltanto questo modo per rimanere alla storia, come ritengo desideri e voglia, in quanto i passati vent’anni di berlusconismo hanno “accompagnato” l’unificazione europea, la moneta unica, la distruzione degli Stati, l’ugualitarismo comunista, la cancellazione della borghesia, come avrebbe fatto qualsiasi altro governo e quindi non hanno inciso nella storia. Non chieda la grazia; non costringa gli italiani, visto che lei è un italiano, a vergognarsi insieme a Lei. Galileo è stato condannato, dopo un terribile interrogatorio e la tortura, agli arresti domiciliari, non per due o tre anni, ma a vita, e l’Inquisitore, il gesuita Cardinal Bellarmino, ha intimato, come pena aggiuntiva, che fossero cercate e bruciate in un rogo pubblico tutte le copie del Dialogo dei Massimi Sistemi, causa prima del processo e della condanna. Eppure Galileo, prigioniero nella piccola stanza di Arcetri, ha continuato a corrispondere e discutere con tutti gli scienziati del mondo sul funzionamento dei Massimi Sistemi e gli italiani non hanno avuto paura di trascrivere il Dialogo e di nasconderne, pena la morte, decine di copie a un Tribunale che possedeva strumenti di ricerca molto più efficienti di quelli del Tribunale di Milano, e le hanno nascoste tanto bene che sono arrivate fino a noi. Questa è la storia vera degli italiani, non quella di vigliacchi e mafiosi, stereotipo costruito appositamente da coloro che ci governano per trattarci come un popolo indegno della libertà.

Lei, Signor Berlusconi, potrà continuare a dirigere il partito anche dagli arresti, eventualmente anche dal carcere, perché tornare alla sovranità, all’indipendenza, alla difesa del territorio e dell’identità italiana dall’annientamento europeo e immigratorio, significa ricominciare a credere di avere un futuro, per sé, per i propri figli, per l’Italia, e avrà tanti italiani a incoraggiarlo e ad esaltarlo quanti non ne ha ancora mai avuti. Crede, forse, che l’imposizione del pensiero politicamente corretto (strumento ben diverso dalla censura dell’espressione ) non abbia influito nel mettere a tacere i desideri più profondi e più veri della maggioranza degli italiani? Quale libertà è possibile a chi è costretto a “pensare” a “sentire”, quello che vogliono i governanti? Crede davvero che i problemi degli italiani siano l’Imu o l’aumento dell’Iva? Tacere, anzi essere “accoglienti”, davanti all’invasione della propria terra è talmente contro natura che il “Laboratorio per la distruzione”, quel potere che silenziosamente dirige i politici d’Occidente, ha programmato l’immigrazione come arma assoluta per indurre i popoli d’Europa, e prima di tutto gli italiani, al suicidio, all’estinzione volontaria. Per questo non si fanno più figli: non fa figli chi sta per uccidersi.

La nostra è ormai con tutta evidenza una società patologica; la psicosi dell’ugualitarismo ha raggiunto i centri del sistema logico e crea, come sempre nelle ossessioni fobiche, forme di realizzazione fuori dalla realtà, fuori dalla natura. Purtroppo le diagnosi di patologie psichiatriche di un gruppo non vengono quasi mai prese in considerazione per ovvi motivi: non c’è il corrispettivo sicuro della “normalità”. Tuttavia ci sono stati esempi recenti nella storia dai quali i nostri governanti potrebbero apprendere qualcosa: l’implosione della Russia sovietica, dopo i suoi “lavaggi del cervello”; gli stermini finali della Cambogia, lo stesso Libretto rosso e la sua smisurata esaltazione in Cina. Tutte patologie dovute all’ossessione dell’ugualitarismo. È indispensabile fermare questa ossessione. Lei può farlo, signor Berlusconi. La prego di farlo.

Grazie
Ida Magli

(ItalianiLiberi)

Indipendenza e irresponsabilità. Gianni Pardo


Si parla da decenni della riforma della magistratura e da decenni non si riforma niente. O almeno, qualche riforma si è fatta: ma a favore dei magistrati. Prima il Tribunale era composto di tre magistrati, poi è stato composto da uno solo. Con la scusa che non cambiava niente, gli altri due magistrati non leggevano le carte e si affidavano al relatore. Bel riconoscimento di grande scrupolo. Poi, dal momento che i magistrati erano infastiditi dalle cause di poca importanza, sono stati istituiti i giudici di pace. Nelle corti d’appello e di cassazione si è ridotto il numero dei componenti ogni collegio, ma forse anche qui le carte le legge solo il relatore.

Gli italiani hanno votato massicciamente un referendum per la responsabilità civile dei magistrati, ma dal momento che la norma non piaceva agli interessati ci si è limitati a non applicarla. E se proprio quel dolo o quella colpa sono marchiani, paga lo Stato. Cioè noi.

Inutile continuare. Lo stato pietoso della giustizia in Italia è certificato sia da autorità soprannazionali, sia da classifiche internazionali, e ciò benché i nostri magistrati non siano né meno numerosi né peggio pagati dei loro colleghi stranieri. Per esempio francesi. La spiegazione di questo disastro non è difficile: esso nasce dal fraintendimento fra indipendenza e irresponsabilità.

Nell’amministrazione della giustizia l’indipendenza consiste nel non essere sottoposti a direttive diverse dalla legge. L’irresponsabilità consiste invece nel non essere chiamati a rispondere dei propri errori. La differenza è fondamentale. Caligola non poteva essere chiamato a rispondere dei crimini cui l’induceva la sua follia criminale perché non era previsto nessun controllo del suo potere, salvo il tirannicidio. De Gasperi, invece, se non era riconfermato dagli elettori, doveva andarsene a casa. Caligola era irresponsabile, De Gasperi no.

Il paragonare tra Caligola e De Gasperi non è assurdo quanto potrebbe sembrare. La differenza fra i due infatti non dipende soltanto dalle qualità personali – un pazzo criminale e un grande statista – ma dalle condizioni in cui governarono. Come ha scritto Lord Acton: “Power tends to corrupt, and absolute power corrupts absolutely”. Il potere tende a corrompere e il potere assoluto corrompe assolutamente”. Ciò significa che il dittatore non si comporta male perché è un uomo cattivo, ma diviene pressoché inevitabilmente un uomo cattivo perché è un dittatore. Infatti la frase di Lord Acton continua così: “Great men are almost always bad men", gli uomini di potere sono quasi sempre uomini cattivi.

Il potere assoluto - o la certezza dell’impunità anche dopo aver commesso un grave arbitrio - possono rendere criminale anche un uomo normale; viceversa la coscienza della possibile sanzione può limitare i peggiori istinti di un criminale. Infatti la carcerazione non ha soltanto una funzione di prevenzione generale (togliendo il colpevole dalla circolazione per qualche tempo) ma anche di prevenzione speciale: cioè la speranza che la pena, oltre ad essere retributiva, induca il reo a non commettere altri reati.

Il fatto che i giudici italiani abbiano interpretato l’indipendenza del loro ordine come una totale irresponsabilità è all’origine della pessima qualità della nostra amministrazione della giustizia. I singoli magistrati sono spesso persone di buon livello che ottengono la toga dopo avere a lungo studiato e dopo avere superato difficili esami. Ma questi esami vertono sulle conoscenze giuridiche: non garantiscono certo l’equilibrio, l’imparzialità, la resistenza morale e al limite la sanità mentale dei candidati. Soprattutto nel momento in cui sono chiamati ad esercitare un potere privo di limiti e sanzioni.

Attualmente la situazione è di totale impunità. Nessuno controlla se un magistrato perde la salute sul lavoro (e ce n’è, di questi eroi ignorati) o se batte fiacca; se continua a coltivarsi o è sicuro della sua scienza infusa; se scrive sentenze a caso, magari senza leggere tutte le carte e non tenendo conto di alcune prove, o se si macera nel dubbio. Il magistrato dispone di un’infallibilità quotidiana di cui non dispone nemmeno il Papa. Del resto, va sul sicuro. Fa carriera per semplice anzianità e, se è deferito al Csm per gravi irregolarità, può star sicuro che quell’organo di autodisciplina (che non autodisciplina niente) lo assolverà. In queste condizioni il togato che opera male dimostra soltanto di essere umano.

Purtroppo gli italiani sono abbastanza ignoranti per credere che l’indipendenza della magistratura debba consistere nell’impossibilità di sindacare il suo comportamento. E la sinistra, per interesse politico, fa di tutto per farglielo credere. Dunque non abbiamo speranze. O forse solo quella di non essere mai oggetto dell’attenzione di un pubblico ministero. Nel dubbio, proclamatevi maoisti.

pardonuovo.myblog.it

Gli emeriti. Davide Giacalone

 Non è bello vedere la corte Costituzionale sbeffeggiare la Costituzione. Che pena chi commenta la nomina del nuovo presidente, Gaetano Silvestri, ponendo l’accento sulla spaccatura di quel consesso, senza capire (o dire) il perché. La previdi alla fine del gennaio scorso. Sono anni che non sbaglio previsione, basandomi su un criterio certo: i giudici costituzionali violano sistematicamente la Costituzione. A gennaio mi trovai in dubbio, perché avevano due modi per violarla: eleggere Gaetano Silvestri o eleggere Luigi Mazzella. Il fatto che il secondo sia stato indicato dal centro destra ha forse avuto un peso, ma nessuno dei due rispetta la Carta. Il successore di Silvestri sarà Sabino Cassese o Giuseppe Tesauro. Dopo sarà la volta di Paolo Maria Napolitano. E potrei andare avanti, salvo che non vorrei portare sfortuna, data l’età media. Adesso vi svelo il trucco, come anche la ragione del dilemma.


L’alto consesso ha il ruolo di uniformare alla Costituzione le leggi d’Italia. Se una legge non fa scopa con il dettato costituzionale va abrogata. Ma mentre richiama gli altri al rispetto della Costituzione, la corte ne fa coriandoli, pur di eleggere il più alto numero possibile di presidenti e mettere al mondo, dopo la fine del mandato e salute aiutando, il più alto numero possibile di presidenti emeriti.

Leggiamo l’articolo 135 della Costituzione, quinto comma: “La Corte elegge tra i suoi componenti (…) il presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile (…)”. Non c’è scritto che rimane in carica “un massimo di” o “fino a” tre anni, ma che presiede per un triennio, rinnovabile. Quindi si deve eleggere chi ha quel tempo a disposizione. E così è stato, fino alla seconda metà degli anni ottanta. Poi s’avviò il disfacimento. Azzecco le previsioni perché mi limito a guardare la data in cui sono stati nominati, calcolo chi è il più vicino alla scadenza e non sbaglio mai. Io non sbaglio mai perché loro sbagliano sempre. Perché questa volta si sono divisi? Qual è stato il tema dibattuto? E perché sono indeciso fra due, per la prossima volta? Ecco la spiegazione: perché Silvestri e Mazzella, come Cassese e Tesauro, sono stati nominati lo stesso giorno. Gli illustrissimi giudici hanno applicato sempre lo stesso criterio incostituzionale, ma non hanno potuto farlo come fin qui solo perché c’era stato un parto gemellare. Direi che: tanto più alto il consesso tanta più alta la vergogna.

Siccome ho scoperto di non sbagliare mai, ogni volta, come anche questa, anticipo i risultati, proiettandomi anche nel futuro non prossimo. E ogni volta aggiungo che è una vergogna. L’unico che ebbe l’ardire di rispondere fu Giovanni Maria Flick: è vero, scrisse, la Carta prevede tre anni, ma la prassi è diversa. La prassi? Ma allora smettiamola di pagare il costo del sinedrio, se anche quello si regola affidandosi alla prassi! Il che, poi, non è neanche vero. Questi signori credono che si sia tutti ignoranti, invece c’è anche qualche matto che studia. Si deve sapere che nel testo originario della Costituzione, entrato in vigore il primo gennaio 1948, c’era scritto solo: “La Corte elegge il presidente fra i suoi membri”. Quell’articolo fu modificato con una legge costituzionale del 22 novembre 1967, introducendo la durata di tre anni e la possibile rieleggibilità, salva la scadenza del mandato. Tradotto: il presidente dura tre anni, può essere rieletto, ma, in questo caso, non prolunga la durata del suo mandato di giudice (originariamente di dodici anni, poi portati a nove). Sfido chiunque a sostenere il contrario. Con o senza cattedra.

Ogni volta che queste sveltine presidenziali iniziano, inoltre, viene immediatamente diffuso il sermone contenete le idee nel nuovo presidente, che sarà emerito assai presto. Ma non idee sui lavori della corte, organizzare nel tempo i quali è materia che lo interessa poco, visto che si trova lì già da otto anni e s’appresta a salutare i colleghi per ricongiungersi all’emerita pensione, bensì sulle cose del mondo e della politica. E sono pensieri pensosi, perché può sempre scapparci un posto da ministro. Quanto meno da saggio, che è abito assai alla moda nella stagione di questo autunno della Repubblica. L’eccezione, ancora una volta, è stato l’ottimo Flick, che fece il candidato al Parlamento. Gli elettori non gli fecero torto e non lo elessero, lasciandolo emerito.

La corte Costituzionale, purtroppo, è lo specchio di un Paese senza certezza del diritto, le cui regole sono sottoposte alla continua triturazione dell’interpretazione. Con in più l’arrogante spocchia di voler sostenere che il senso non è quel che si legge, ma quel che si deve intendere.

Pubblicato da Il Tempo

giovedì 19 settembre 2013

Berlusconi è di gran lunga migliore di tutti i suoi sicari. Marcello Veneziani

Da troppo tempo assistiamo inermi e disgustati a un'atroce, infinita corrida con una curva che esulta a ogni spada che lo trafigge, a ogni banderilla conficcata sul suo dorso ferito. Una mattanza che non ha proporzioni con la realtà

Io sono tra quelli che dicono basta. Basta parlare sempre e solo di Berlusconi, basta dividere il mondo tra berlusconiani e antiberlusconiani.
 
Vorrei voltare pagina, dichiarare conclusa un'epoca, un ciclo.

Ho nausea, vorrei occuparmi d'altro e di altro mi occupo.

Ci sono molte più cose in cielo e in terra, in patria e nell'anima nostra, che sono più urgenti, più alte, più divertenti. Né falchi né colombe, preferisco le aquile e le farfalle. Vorrei che di decadenza si occupassero gli storici e i filosofi per quel che riguarda la civiltà e i gerontologi per quel che concerne le singole persone. Ma non passa giorno che non si accaniscano la puntigliosa ferocia, il bestiale livore, per massacrare e smontare a pezzi Berlusconi e tutto quel che attiene a lui.

Accerchiato e bastonato come mai era accaduto, con una quantità di sentenze, indagini, perquisizioni senza precedenti e una convergenza precisa, meticolosa, di processi e condanne, una cronologia da ordigno di alta precisione, trattato come il peggiore criminale della storia, io mi chiedo come faccia Berlusconi a non esplodere, dare in escandescenza, compiere un atto clamoroso o definitivo. Mettetevi nei suoi panni, comunque la pensiate e qualunque giudizio abbiate su di lui. Sarebbe più onesta una sventagliata di mitra o un esproprio proletario che uno scempio del genere. Ad asfaltarlo ci pensano loro, non il para-cool Matteo Renzi.
Da troppo tempo assistiamo inermi e disgustati a un'atroce, infinita corrida con una curva che esulta a ogni spada che lo trafigge, a ogni banderilla conficcata sul suo dorso ferito. Una mattanza che non ha proporzioni con la realtà, un'ordalia barbarica dove il giudizio di Dio è sostituito dal giudizio dei magistrati. È un linciaggio che grida vendetta e ho orrore a dirlo, perché detesto le vendette, le grida e le guerre civili, preferirei battermi per difendere interessi generali e principi condivisi. È un'istigazione allo scontro finale e a me non piacerebbe né scendere in guerra per questa causa né restare neutrale. Non vorrei scegliere tra il vile e il servile.
Una cosa però sento di dire: sul piano umano quel Berlusconi, con tutti i suoi errori e difetti, è di gran lunga migliore dei suoi sicari, avvoltoi e profittatori a norma di legge. (il Giornale)

Il testo integrale del videomessaggio di Silvio Berlusconi


Voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore.

Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro.
Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici.

I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese.
Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia.

E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo.

Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra.
Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo.
Ero io.

Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo.
Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche.
Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti.

Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa.

Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”.

Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato.
Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo.
Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo.
Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza,
“io non ho commesso alcun reato,
io non sono colpevole di alcunché,
io sono innocente,
io sono assolutamente innocente”.
Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune.

E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato.
Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio.
Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato.
Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia.

Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica.

Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire.
Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati.

So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale.
Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro.

È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire.
È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente.

Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia.
Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.
Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi.
Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio.
Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari.
Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato.
Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe.

È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno.
Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista.

Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.
Per questo vi dico: scendete in campo anche voi.
Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia.

Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto.

Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino.
Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti.

Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia.
E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.



Silvio Berlusconi

mercoledì 18 settembre 2013

Gli spacconi democratici che si attirano la sconfitta. Fabrizio Rondolino


«Se andiamo alle elezioni adesso li asfaltiamo», ha annunciato Matteo Renzi dal palco della Festa democratica di Milano fra gli applausi scroscianti di una folla che, in gran parte, alle primarie dell'anno scorso aveva convintamente votato per Bersani.
E certo in questa sfrontata esibizione di ottimismo pesa la volontà del sindaco di Firenze di accreditarsi presso quel «popolo della sinistra» che fino a ieri lo considerava un incrocio malefico fra Craxi e Berlusconi.

Ma Matteo - come ormai tutti lo chiamano con orgoglio e tenerezza - dovrebbe guardarsi dalla troppa sicumera, dall'arroganza preventiva del vincitore annunciato, dalla propaganda spaccona. Quantomeno perché porta male, visto che arriva nel giorno in cui l'ex governatrice dell'Umbria Maria Rita Lorenzetti è ai domiciliari con accuse pesantissime di corruzione. Un colpo durissimo alla presunta superiorità morale della sinistra, altro che proclami di vittoria annunciata. La cui serie storica si apre idealmente a piazza San Giovanni, a Roma, alla vigilia delle elezioni del 18 aprile 1948. Togliatti, nel comizio conclusivo, annuncia di fronte a una folla immensa l'intenzione di acquistare «un paio di scarponi chiodati per dare un calcio nel sedere a De Gasperi». Le cronache riferiscono di un applauso lungo dieci minuti. Ma tre giorni dopo la Dc sfiorò la maggioranza assoluta e raggiunse il suo massimo storico (va detto a onore di Togliatti che il suo Fronte popolare fece comunque meglio, con il 31% dei voti, della sgangherata macchina da guerra bersaniana, che a febbraio s'è fermata al 29%).

La certezza della vittoria, al netto del pur necessario ottimismo che ogni generale deve ostentare per invogliare le truppe alla battaglia, è frutto, a sinistra, del suo vizio capitale: cioè della convinzione di essere migliori, culturalmente e antropologicamente, e dunque di meritare, o addirittura di esigere come un riconoscimento dovuto, la sconfitta dell'avversario. E se i «migliori» non vincono, allora la colpa è del popolo, che si è fatto di volta in volta corrompere, infinocchiare o illudere dal primo venuto.

La storia delle sconfitte della sinistra è anche la storia delle sue vittorie annunciate. Il caso certamente più clamoroso riguarda Bersani, lo smacchiatore, che pochi mesi fa è riuscito a perdere - a «non vincere», come disse pudicamente dopo quarantott'ore di imbarazzato silenzio - una tornata elettorale il cui esito appariva a tutti scontato. Renzi, che non è uno sciocco, dopo essersi autoproclamato asfaltatore proprio a Milano ha preferito rifiutare un giaguaro di pezza che i giovani democratici gli volevano a tutti i costi regalare. Il giaguaro da smacchiare, già protagonista di un indimenticabile videoclip girato sul tetto della sede del Pd, è infatti diventato il simbolo della sconfitta, la metafora del naufragio, l'immagine di un'impotenza che sfiora il ridicolo.

Soltanto la «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto è in grado di gareggiare con il giaguaro di Bersani in forza evocativa. L'allora segretario del Pds e leader del Progressisti si trovò ad affrontare per primo Berlusconi - e questo, in effetti, deve valergli come attenuante generica - e ne uscì letteralmente a pezzi. Occhetto commise nel lontano 1994 l'errore che tutti i leader di centrosinistra dopo di lui (con l'eccezione di Veltroni) hanno continuato testardamente a commettere: sottovalutare l'avversario. E, nel caso specifico, considerare il Cavaliere per metà un bandito e per metà un dilettante, dunque inesorabilmente destinato alla sconfitta nello scontro diretto con i professionisti della politica e della morale.

Anche D'Alema, che pure del berlusconismo sembrava aver capito molto, commise da palazzo Chigi l'errore fatale di prevedere una netta vittoria dell'Ulivo alle elezioni regionali del 2000. Fu invece una disfatta: il centrodestra conquistò la Liguria, il Lazio, l'Abruzzo e la Calabria, e D'Alema scelse la strada delle dimissioni per lasciar posto a Giuliano Amato. L'anno dopo Berlusconi vinse le elezioni alla grande.

Se questi sono i precedenti, la cautela non dovrebbe mai mancare quando ci si propone di «asfaltare» il centrodestra. È dall'autunno del '94, quando Bossi lo disarcionò dal governo, che si parla della «fine di Berlusconi»: le virgolette sono d'obbligo, perché si tratta ormai di un vero e proprio genere letterario, periodicamente riproposto con leggere varianti e sistematicamente smentito dai fatti. Che il Cavaliere non sia nel momento più brillante della sua lunga carriera è chiaro a tutti, e a lui per primo. Ma un po' di prudenza è d'obbligo. Insomma, caro Matteo: non dire gatto se non l'hai nel sacco. (il Giornale)

Botte da Olli. Davide Giacalone


La ripresa è troppo debole, torna a ripetere Mario Draghi. Qui neanche s’è vista. Dalla Commissione europea giungono intimazioni sul nostro deficit, ma siamo fra quanti finanziano di più l’Europa che sembra trattarci come appestati. Ma se guardate la scena politica sembra che di tutto ciò non vi sia consapevolezza.

Se l’Italia fosse una vettura e disponesse di un cruscotto, tanto il pilota quanto i passeggeri (noi tutti) assisterebbero a uno spettacolo singolare: da una parte c’è una spia accesa, che segnala il pericolo di sforamento del 3% di deficit sul prodotto interno lordo, spia resa lampeggiante dalla mancata chiarezza nella copertura di mancate entrate (Imu e Iva) e maggiori spese (rifinanziamento cassa integrazione in deroga), per un totale che si aggira sui 4 miliardi di euro; dall’altra, mentre ci dicono che la nostra dissennatezza mette a rischio l’Unione europea e ci spediscono il commissario Olli Rehn a ricordarci gli impegni presi, una lancetta indica il totale dei contributi dati dall’Italia al sostegno dei paesi in difficoltà, nell’area dell’euro: ad oggi fanno 51.3 miliardi (8.7 dall’inizio dell’anno, quindi il doppio di quel che manca per onorare le promesse del governo). Ma, allora, noi siamo il pericolo o il sostegno? Siamo un pericolo per 4 e il sostegno per 51? E perché questa epocale tragedia per l’eventuale sfondamento del deficit, posto che molti altri lo sforano, bruciano e raddoppiano, senza che succeda nulla? A Enrico Letta, che sostiene essere pericolosa la crisi di governo, nel qual caso la legge di stabilità italiana verrebbe scritta a Bruxelles, si vorrebbe fare una domanda: perché, crede di averla scritta o di scriverla lui? Portategli un caffè forte, così si sveglia.

Nel corso del 2013, dati della Banca d’Italia, il nostro debito pubblico è cresciuto di 83 miliardi. Tale dato dimostra che la cura del rigore e delle tasse non funziona. Come sostenuto per tempo. Ma se si calcola la crescita complessiva del debito europeo dal 2008 a oggi, vale a dire dall’inizio della crisi finanziaria, il contributo dell’Italia è minimo, mentre quello di altri grandi paesi, come Francia e Germania, massimo. Detto il modo diverso: il nostro debito è cresciuto assai meno di altri. Allora, perché siamo sempre sul banco degli accusati? La risposta si articola in due parti: 1. perché abbiamo una classe dirigente inadeguata e incapace di far valere le nostre ragioni, che ci sono; 2. perché abbiamo sprecato il tempo garantito dalla Banca centrale europea limitandoci a tassare e dimostrandoci del tutto incapaci di riformare (con la sola e unica eccezione delle pensioni).

Chiudendo la procedura d’infrazione (per eccesso di deficit) il governo Monti fece una gran piacere ai tedeschi e ai francesi, nonché alla burocrazia della Commissione, ma ci tolse la possibilità di fare quel che tedeschi e francesi continuano a fare. Qui avvertimmo: quella chiusura, se non accompagnata da politiche di abbattimento del debito, mediante dismissioni (vere, non a chiacchiere), sarebbe divenuta un cappio. Che ora stringe. Oggi sbarca a Roma il commissario Rehn, che ha già mandato a dire che i conti non tornano. E non tornano. Dirà che la stabilità è un bene, che il governo è sovrano, che le scelte spettano agli italiani, ma dopo avere esaurito le frasi dell’inutile rito si verrà al dunque: servono soldi. Noi potremo pure rispondergli di leggere le dichiarazioni di Brunetta e Fassina, concordi nello scongiurare l’aumento dell’Iva, ma lui replicherà: me ne compiaccio, dove prendete i soldi? Non dagli aiuti europei, perché quelli li diamo e non ne prendiamo.

A ottobre le leggi di stabilità europee saranno trasmesse alla Commissione. Se Letta e Saccomanni saranno stati bravini nell’eseguire il dettato, noi ci troveremo con più tasse e qualche taglio farlocco alla spesa (più probabili rinvii). Se non saranno stati diligenti ce la riscrivono, così sarà fatta a Bruxelles anche con Letta a Palazzo Chigi (Jeroen Dijsselbloem, capo dell’Eurogruppo, ha già annunciato una riunione straordinaria sul tema). Non se ne esce, se non scolpendoci in testa che il debito pubblico va abbattuto e non mantenuto, né può essere sostenuto se non facendo crescere la ricchezza nazionale. La seconda cosa chiede l’opposto dei rinvii, ovvero l’anticipazione di riforme che devono essere vissute come liberazioni, non come imposizioni. Servono per tagliare la spesa e abbassare le tasse. L’alternativa al progressivo scivolamento nel sopore mortifero c’è, è a portata di mano, ma ci vuole politica. Tanta buona politica. Qui, invece, fanno tutti finta di credere che esista un governo e ci sia una maggioranza, dentro la quale il principale scopo di ciascuno non è quello di governare, ma di porre fine allo strazio dandone la colpa agli altri (e, da questo punto di vista, il “caso Berlusconi” è un alibi perfetto). Come nei matrimoni o nelle società fallite: non conta salvarsi, ma chiarire che la colpa è dell’altro. Con una differenza: i responsabili della guida sono anche gli unici garantiti di potere continuare a campare alle spalle degli altri, né hanno spessore intellettuale sufficiente a capire che tale condizione non promette nulla di buono.

Pubblicato da Libero

lunedì 16 settembre 2013

Il paese dove anche l'insalata è politica. Alberto Mingardi

 
 
Perché l'Italia non cresce, o peggio "cresce" a tassi negativi? Le ragioni sono tante, ma una pesa più di ogni altra. L'ha spiegato molto meglio di economisti e politologi un imprenditore, il patron di Esselunga Bernardo Caprotti in una lettera al Corriere . Caprotti ha affermato che il mestiere del retailer, cioè portare insalata, colluttorio, carta assorbente e patatine fritte prima sui banchi dei supermercati e poi nelle case degli italiani, "nel nostro stranissimo paese è politico. Perché? Perché sono «politici» i due più grandi operatori nazionali". Il riferimento è al mondo della cooperazione, che ha con alcuni partiti (o quel che ne resta) un antico legame.
 
Il problema però non risiede nella forma giuridica della cooperativa (di per sé, legittima come qualsiasi altra) quanto nell'estensione degli ambiti oggetto di decisione pubblica, oggetto diretto dell'influenza di taluni attori "vicini" a quelle aziende.
 
Dall'antica Roma ci è giunto una celebre formula (corruptissima re publica plurimae leges), a indicare che dove c'è corruzione si è costretti a fare tantissime leggi. Oggi abbiamo però compreso che è vero anche l'inverso e cioè che che più sono le leggi, più ingarbugliato è il sistema giuridico, e più è probabile che alcuni operatori si "specializzino" nell'oliare gli ingranaggi opportuni.
 
La differenza fra chi sa oliare e chi non sa farlo si riflette nella facilità di rapporto con le pubbliche amministrazioni, e quindi nella possibilità di varare o meno nuovi progetti. Caprotti, che ci ha messo 43 anni per riuscire ad aprire a Firenze, ha sospeso in Italia ogni nuova iniziativa.
 
Questa "giungla di norme, regole, controlli, ingiunzioni, termini, divieti che cambiano continuamente col cambiare delle leggi, dei funzionari, dei potenti" rende "politica" anche l'insalata. Come ogni tanto scopriamo che sono "politici" anche degli apparentemente banali lavori di ristrutturazione, come è sempre "politica" l'apertura di nuovi esercizi, che devono inserirsi in quella pianificazione urbanistica che è sempre anche pianificazione "economica", come talora è "politica" la commercializzazione di nuovi prodotti, il cui destino viene deciso non dal mercato ma dai legislatori. Pensate soltanto al drammatico aumento, nel giro di una notte, della tassazione indiretta delle sigarette elettroniche, qualche mese fa.
 
È questo il brodo di coltura della corruzione. La corruzione, infatti, consiste nell'acquisizione di favori politici con mezzi leciti: essa avrà benefici attesi tanto più grandi, quanto maggiore è il raggio d'azione dello Stato.
 
Per tornare a crescere, avremmo bisogno di meno politica. Di un'Italia in cui l'insalata sia insalata, una ristrutturazione una ristrutturazione, un nuovo prodotto un nuovo prodotto: e non materia inerte, cui solo la bacchetta magica del legislatore può dare vita.
 
Istituto Bruno Leoni

domenica 15 settembre 2013

Cari neosenatori, non fate i furbetti.... Generale Desaix



Avviso importante per il Quartetto Cetra, Piano-Abbado-Rubbia-Cattaneo: può essere che fra un pochino veniate coinvolti in un discreto casino. Può essere anche di no ma, ci dispiace per voi, è un’ipotesi concreta.

Ora, noi non sappiamo se sia poi così vero che voialtri siate questi scodinzolanti galoppini del centrosinistra di cui tanto si parla, oppure se questo sia soltanto un auspicio/timore della stampa cingolata contrapposta, gli uni perché sono convinti che ci sia tanto tanto da vantarsi ad avere con sé le belle facce della cultura, gli altri convinti che ci sia più da vantarsi ad averle contro.

E, nel caso siate davvero per così dire un po’ comunisti, non sappiamo se lo siate perché ci credete o se si tratti del solito rifugiarsi in quel rassicurante conformismo ambientale che fa sentire a proprio agio alla pausa caffè coi colleghi del centro di ricerca. E oltre a non saperlo, a dirla tutta, manco ce ne frega granché. Pensiamo, infatti, che le tristi immagini di Rita Levi Montalcini ricoperta di elogi per la sua statura morale e, nel frattempo, condotta a braccia nel cuore della notte a votare qualche emendamento alla finanziaria sul gasolio degli autotrasportatori bastino ed avanzino per convincervi a tenervi alla larga dalla rogne (a proposito, altro avviso importante, stavolta per l’amico contribuente: amico contribuente, presto, corri a guardare la busta paga, troverai una riga con su scritto “Tratt. Irpef”. Lo sai che quell’aliquota l’hanno decisa in una fredda notte d’inverno del 2006 al Senato con un voto che fra gli eletti era finito 157 pari, cioè respinto? E tu, invece, la paghi lo stesso, grazie ai senatori a vita, e alla faccia del principio di “no taxation without representation”. Pensare che a Carlo I d’Inghilterra, per molto meno, gli hanno staccato la testa).

Insomma, caro Quartetto, presto ti diranno che senatore a vita o non a vita è uguale, sempre un voto è. E tu, allora, ricordati che non è vero nemmeno un pò: ad esempio, degli imbecilli come Depretis, Cairoli, Giolitti o Crispi, una volta che formavano il governo, di andare a chiedere la fiducia al Senato non ci pensavano neanche. E sai perché? Perché sotto la Statuto Albertino il Senato era di nomina regia ed i senatori a vita non erano cinque ma tutti. E per questo sui libri di diritto costituzionale c’era scritto grosso così che “il Senato non fa crisi”. Chiaro? Non la faceva, la crisi, perché i suoi membri non erano eletti e si guardavano bene dall’interferire con la volontà del corpo elettorale espressa dalla Camera.

Lo vedi, Quartetto, che non è la stessa cosa? Anche se ci sarà Massimo Giannini, a rassicurarti, e tanti costituzionalisti pret a porter a dirti che la Costituzione in nessun punto allude ad una difformità funzionale o distingue fra le rispettive prerogative, e che il costituente ubi voluit dixit, ubi non voluit non dixit e tantum ergo sacramentum.

Non è vero lo stesso, Quartetto, sono balle, non te la bere. E quando ti diranno che non c’è scritto da nessuna parte che un senatore a vita non può votare la fiducia sappi che nemmeno nello Statuto Albertino c’era scritto da nessuna parte. Anzi, della fiducia non si parlava proprio, si è affermata nella pratica e solo nei confronti della Camera, non del Senato. Così, perché la Camera riteneva che il governo dovesse avere la sua fiducia e il Senato non lo riteneva, sempre per la stessa ragione, e non per un obbligo giuridico che non c’era ma per semplice decenza. Ma non è mica sterile erudizione storica, Quartetto, che ti credi? E’ prassi costituzionale, non giuggiole. Pensa che, dopo la crisi del 1879 sulla tassa sul macinato, il Senato ha perfino smesso di modificare i disegni di legge approvati dalla Camera che avevano un impatto sul bilancio, altro che Irpef 157 pari.

Statti accorto, Quartetto, che ci provano di sicuro. Arriverà, arriverà qualche capogruppo Zanda a dire, quando gli chiedono se tu puoi votare la fiducia, che lui ritiene di sì. E allora tu, Quartetto, se non ti vuoi sputtanare di brutto che poi il governicchio di scopo finisce ma la tua faccia rimane, ricordati che Alessandro Manzoni, Benedetto Croce, Giuseppe Verdi (Abbado, c’hai presente?), Giosuè Carducci, Giovanni Verga, Guglielmo Marconi (Rubbia, c’hai presente?), Nino Bixio, Pasquale Villari, Urbano Rattazzi, Terenzio Mamiani, Giustino Fortunato, Armando Diaz e parecchi altri senatori del Regno, ecco, loro invece ritenevano di no. Tant’è vero che, pur potendo, non lo hanno fatto mai.

Tutti coglioni? (the Front Page)

Nessuno s'indigna per il regolamento "contra personam". Salvatore Tramontano

 

La balla della trasparenza: contro Berlusconi tutto è possibile. Ma il voto segreto è un modo per difendere il parlamentare dalle pressioni della folla, delle lobby, dei ricatti del potere, da chi lo minaccia

Non c'è nulla di più fastidioso di certi fasulli paladini della legge. Contro Berlusconi tutto è possibile. Giochi sporchi, palesi o occulti.
C'è chi, come rivela Calderoli, tenta di accalappiare i voti leghisti in Parlamento per una nuova maggioranza senza Pdl. Ovviamente non è compravendita, ma come ha spiegato lo smacchiatore di giaguari, Bersani, il mercato di voti della sinistra è solo scouting. Poi c'è chi punta a cambiare in corsa le regole del gioco, con arroganza e ipocrisia, senza che nessuno si indigni. I grillini, che si sentono sempre dalla parte dei giusti, stanno facendo una campagna contro il voto segreto al Senato per cacciare Berlusconi dal Parlamento.

In questa battaglia trovano l'appoggio degli anti Cav più incalliti, il sostegno di un Pd sempre pronto a calpestare qualsiasi regola pur di eliminare l'uomo che non ha saputo sconfiggere con il voto. L'obiettivo è una legge fotografia, con il solo scopo di danneggiare Berlusconi. Non importa che il voto segreto non serva a tutelare i vigliacchi, ma qualcosa di molto più importante: la libertà del senatore. È una consuetudine antica. È un modo per difendere il parlamentare dalle pressioni della folla, delle lobby, dei ricatti del potere, da chi lo minaccia. È un freno al conformismo. Un parlamentare deve scegliere secondo coscienza, non perché ricattato dalla minoranza rumorosa. Tutto questo, naturalmente, è lontano dalla cultura grillina e dal giustizialismo della sinistra frustrata che si esalta nella piazza sovrana, con gli occhi euforici appena sente l'odore della ghigliottina virtuale.

I cinque stelle non riconoscono al singolo parlamentare nessuna autonomia, come vanno ripetendo in modo ossessivo: senatori e deputati sono i loro dipendenti. Ossia, i loro servi. Non pensano, eseguono. E non importa che il partito del comico genovese sia una minoranza degli italiani, loro sono convinti di essere il tutto. Quindi ogni loro opinione è legge. Difendono la Costituzione, ma continuano ad avere problemi con la democrazia. Questi qui comunque li conosciamo. Non sorprendono.

È più preoccupante l'atteggiamento dei senatori del Pd. Nessuno di loro crede a questa storia di abolire il voto segreto. Ma ormai hanno così paura di passare per democratici che abbassano la testa davanti a qualsiasi richiesta che arriva dagli antiberlusconiani più esagitati. Hanno paura di perdere voti e ancora di più temono di finire alla gogna su internet o su alcuni quotidiani. E questa paura gli fa ripudiare le ultime tracce di garantismo. Il volto più triste in questo caso è quello di Corradino Mineo che va a ingraziarsi i colleghi grillini, quasi umiliandosi: «Fate casino voi perché noi siamo sprovvisti di linea politica». E quello, il grillino, il senatore Nicola Morra, lo mette subito alla berlina, spifferando tutto. Qui anche la dignità si è persa. (il Giornale)

sabato 14 settembre 2013

Pm e anti Cav la verità della Fallaci: "Toghe serve della sinistra". Oriana Fallaci

 

Che cosa pensava Oriana Fallaci della giustizia italiana? Lo scrisse in un suo libro e lo disse al Foglio: "Leggi manipolate con interpretazioni di parte

«Gronda sangue da tutte le parti, il sansebastianizzato Berlusconi. I nemici lo hanno morso con tutti i denti che avevano in bocca.
I magistrati che sappiamo. I sindacati che da sessant'anni sono un feudo personale di Karl Marx. I banchieri che in barba al Popolo custodiscono i miliardi dell'ex Pci. I giornali che sognano di vederlo penzolare a capo in giù da un gancio di piazzale Loreto. Le televisioni che egli possiede invano.
(...)
L'Olimpo Costituzionale che, non avendo con lui debiti di gratitudine, ha sempre fatto di tutto per dimostrare che non lo può soffrire. E la stessa Confindustria che al solito va dove la porta il vento dei suoi calcoli finanziari, sicché non meravigliarti se il suo presidente si presenta come un Agnelli alla festa che la Cgil ha organizzato a Serravalle Pistoiese e gli operai lo applaudono nel modo in cui applaudivano Togliatti o Berlinguer. Ferito, infine, dal fatto di non appartenere alla mafia politica e d'essere in quel senso un parvenu. I parvenus, cioè i new-comers, i self-made men, piacciono in America dove la moderna democrazia è stata inventata. Non in Europa dove neanche la Rivoluzione Francese servì a spengere l'asservimento psicologico al concetto di aristocrazia. D'accordo, la storia d'Europa è colma di parvenus e new-comers e self-made men giunti al potere.
***
Ha ragione Bill Kristol quando sul suo Weekly Standard chiede al Congresso di condurre un serio dibattito per distinguere l'indipendenza dei giudici dall'arroganza del potere giudiziario.
(...)
Pensi all'Italia dove, come ha ben capito la sinistra che se ne serve senza pudore, lo strapotere dei magistrati ha raggiunto vette inaccettabili. Impuniti e impunibili, sono i magistrati che oggi comandano. Manipolando la legge con interpretazioni di parte cioè dettate dalla loro militanza politica e dalle loro antipatie personali, approfittandosi della loro immeritata autorità e quindi comportandosi da padroni come i Padreterni della Corte Suprema statunitense... Chi osa biasimare o censurare o denunciare un magistrato, in Italia? Chi osa dire che per diventar magistrato bisognerebbe essere un santo o almeno un campione di onestà e di intelligenza, non un uomo di parte e di conseguenza indegno d'indossare la toga? Nessuno. Hanno tutti paura di loro. Anche quando subiscono un torto palese, una carognata evidente, si profondono in inchini di deferenza reverenza ossequio. «Io-ho-fiducia-nella-Legge. Io-ho-fiducia-nella-Magistratura...». (il Giornale)
 

venerdì 13 settembre 2013

Caro compagno ti scrivo...

Caro compagno,
posso chiederti perché odi tanto Berlusconi?
Mi pare che il tuo disprezzo sia partito da lontano, quando ancora non era "sceso" in politica: ti ricordi il "Bo.Bi."(boicotta il biscione)?
Ti sei chiesto perché hai cominciato ad odiarlo, prima ancora che mettesse piede a Palazzo Chigi?
Hai provato a domandarti come mai De Benedetti ti è tanto simpatico mentre Berlusconi lo strangoleresti con le tue mani?
Quale sarà il motivo per cui una persona esposta politicamente suscita tanto odio in una parte della popolazione e tanto amore in un'altra?

Provo, caro compagno, a spiegarti perché sei diventato un cane pavloviano al suono della parola Berlusconi.
Devi sapere che il Pci, appena finita la seconda guerra mondiale, non essendo riuscito a prendere il potere assoluto come sperava, decise di trovare un antagonista da demonizzare per mascherare la mancanza di un'ideologia, se non quella della rivoluzione bolscevica.
Il fascismo, anche se sconfitto e finito, divenne il credo da demonizzare: nacque l'antifascismo militante.
Il Pci, per intuizione di Gramsci, cominciò a entrare nella scuola, nella cultura, nei giornali, nel cinema, nello spettacolo ed arruolò tutti gli intellettuali che desideravano visibilità.
Te la faccio breve, caro compagno, dal dopoguerra ci siamo dovuti sorbire tutto quello che la sinistra ci ha propinato: la sua superiorità morale, il suo antifascismo di convenienza, il suo radicalismo chic, il disprezzo per chi non è politicamente allineato, il falso buonismo verso gli emarginati, le vuote parole come pace, solidarietà, integrazione, la Costituzione più bella del mondo e antifascismo.
Poi arriva nuovo di zecca Silvio Berlusconi che rompe le uova nel paniere della sinistra e diventa immediatamente il nemico numero 1, inaugurando la ventennale stagione dell'antiberlusconismo.
A questo punto c'è chi ha capito di essere stato "plagiato" per anni ed ha cominciato a ragionare con la propria testa, altri, come te caro compagno, avendo il cervello "fuori servizio", hanno mantenuto la loro incrollabile fede nella parola della sinistra.

Caro compagno, non ti sei accorto che in tutti questi anni ti sei bevuto il cervello!

Guareschi aveva ragione a chiamarti trinariciuto: la terza narice serve per asportarti il cervello.
Il fatto che anche in questi giorni in cui si decide la galera per Berlusconi da parte tua non venga nemmeno una flebile parola di umana comprensione, non gli sia reso l'onore delle armi e lo si voglia mandare in galera subito a tutti i costi, significa che ti hanno tolto la coscienza oltre al cervello.
Se continui a non voler capire, a non aprire gli occhi e a comportarti come una scimmia ammaestrata, sono preoccupato per te, ma soprattutto per l'Italia.

Svegliati, forse sei ancora in tempo.

mercoledì 11 settembre 2013

L'ora dei maramaldi

                                   

L'Elefantino intervistato oggi sulla Stampa: "E' chiaro a tutti che non c’è in Italia un centrodestra senza Berlusconi"

Pubblichiamo stralci dell'intervista di Michele Brambilla al direttore Giuliano Ferrara apparsa oggi sulla Stampa

Direttore, forse non è un caso se siamo nel settantesimo del 25 luglio. Berlusconi sarà tradito da alcuni dei suoi?
«No. È il momento dei maramaldi, di quelli che vanno in televisione a dire io l’avevo sempre detto che Berlusconi è un mascalzone, ma non è il momento dei traditori. La prova generale di fuga è già stata fatta prima delle elezioni di febbraio. C’erano tendenze varie alla disgregazione, e c’erano state un paio di riunioni. Ma appena Berlusconi ha cominciato una campagna elettorale aggressiva e ha dimostrato di saper fare una rimonta clamorosa, è diventato chiaro a tutti che non c’è in Italia un centrodestra senza di lui. Solo Scalfari vorrebbe un centro destra senza Berlusconi. Lo faccia lui. Scenda in campo lui».

Sono passati però ormai sette mesi dalla «clamorosa rimonta». E alcune condanne. Non pensa che adesso il Cavaliere sia davvero ai titoli di coda?
«E chi lo sa. L’età avanza, l’assedio è finalmente riuscito a sfondare le mura, la condanna definitiva avrà effetti per anni. Può essere che Berlusconi sia alla fine della sua avventura, non solo di quella politica ma anche di quella romanzesca. Però la sua Italia è ancora viva. Lavora. C’è».
Di che Italia parla?
«Ma quell’Italia lì, l’Italia che ha avuto fiducia in Berlusconi, nel suo stile, nella sua sfrontatezza se vuoi... L’Italia che non si riconosce nei valori di Rai Radio Tre o nella prima pagina di Repubblica. Un’Italia che non ci sta a essere normalizzata».

Davvero non esiste un nuovo leader del centrodestra all’orizzonte?
«Un Kohl lo puoi rimpiazzare, perché è espressione di un partito che aveva già una sua storia. Berlusconi no».

Ma se oggi la giunta...
«Guarda, questi discorsi sulla decadenza mi annoiano a morte. Sono cose da azzeccagarbugli. Sono anni che c’è un piazzale Loreto strisciante. Il problema vero non è se la giunta decide per la decadenza o no, tanto poi c’è la Corte d’appello, ci sono altri processi... Il problema vero è che l’Italia non è un Paese normale. In Italia un magistrato di Santa Maria Capua Vetere può arrestare la moglie del ministro della Giustizia e far cadere il governo Prodi, e un giudice Esposito può decretare la fine politica di Berlusconi. In Italia, per Costituzione, dovrebbero esserci guarentigie storiche per deputati e senatori e ancor più per il presidente della Repubblica, ma queste guarentigie sono state fatte cadere vent’anni fa dalla litania ipocrita della “legge uguale per tutti”. In Italia uno come me può dire sui giudici cose terribili, cose che se le dicessi a Londra o a Berlino mi metterebbero in manicomio. E sai perché?».

Perché?
«Perché a Londra o a Berlino i giudici sono persone stimate e riverite. Ma in Italia no. E perché? Ah... Secondo te come mai uno come Calamandrei diceva che se l’avessero accusato di aver rubato la torre di Pisa sarebbe scappato all’estero? E Salvemini che sarebbe scappato se l’avessero accusato di aver stuprato la Madonnina? Ecco perché Berlusconi non va a casa. Perché mezza Italia crede troppo ai giudici ma l’altra metà non ci crede per niente. Si passa da “Borrelli facci sognare” a “i giudici sono tutti rossi”. Ti sembra un Paese normale?».

Prendiamo fiato. E diamo un consiglio a Berlusconi. Nel caso che lo facciano decadere da senatore.
«Io, fossi in lui, una volta cacciato dal Senato farei un discorso al Paese dicendo questo: sono stato eletto da dieci milioni di italiani; ho contribuito a far rieleggere Napolitano; ho contribuito a dare all’Italia un governo; adesso vado agli arresti domiciliari: non perché accetti la sentenza che mi condanna, anzi la disprezzo quella sentenza, ma sono realista e non posso fare altrimenti; però questo governo non lo faccio cadere; cari italiani, ci vediamo in primavera al referendum sulla giustizia; voglio vedere se qualche Cassazione impedisce a me e Pannella di chiedere agli italiani un chiaro pronunciamento sulla magistratura».

E se invece scegliesse la via delle elezioni anticipate?
«Non lo capirei. Con quale candidato premier ? Lui non potrebbe. Marina andrebbe bene, perché la figlia che vendica il padre sarebbe un bellissimo capitolo nel romanzo berlusconiano, ma dicono che non ne voglia sapere».

Insomma Berlusconi è in vicolo cieco.
«Non sono preoccupato per lui. Alla fine se la caverà. E poi gli italiani i leader prima li abbattono, ma poi li rimpiangono. Piuttosto, il vero romanzo su cui stiamo lavorando è la scomparsa dei comunisti. Letta, Renzi, Zanda... i democristiani si sono mangiati prima D’Alema, poi Veltroni, poi Bersani. E pensa - è fantastico! - nel Pd ormai ha vinto il concetto berlusconiano che gli elettori contano più degli iscritti. Altro che il Cavaliere, insomma: è il vecchio Pci che si sta estinguendo».

Ferrara Ah, i comunisti di una volta - Cerasa Il vero Pd da rottamare - Merlo Il Cav. nell’angolo, tra cupio dissolvi e lotteria dei referendum - L'editoriale Perché Napolitano non accetterà un’altra maggioranza rappattumata

sabato 7 settembre 2013

Eterna guerra civile e stalinisti di ritorno. Arturo Diaconale

 


In uno stato di diritto tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge. Ma non è uno stato di diritto quello in cui la legge si applica in maniera persecutoria per vent'anni di seguito nei confronti di un cittadino che ha come colpa principale quella di essere il leader carismatico dello schieramento politico che per due decenni di seguito ha impedito alla sinistra di conquistare stabilmente il potere. Il buon senso, a dispetto di quanto vanno sostenendo i commentatori dei media politicamente corretti, si applica solo partendo da questa considerazione. Chi pretende che scatti sulla base della sentenza della Cassazione e della interpretazione da plotone d'esecuzione della legge Severino, ragiona con la stessa logica di chi negli anni trenta non aveva nulla da ridire nei confronti dei processi di Mosca contro i nemici di Stalin perché in quei procedimenti penali venivano rigorosamente applicate le leggi dello stato sovietico.

Naturalmente i sostenitori della necessità di ghigliottinare al più presto il Cavaliere in nome del rispetto delle leggi dell'Italia repubblicana non prendono neppure in considerazione il paragone della persecuzione giudiziaria con i processi stalinisti. Anzi, a stare a come nei giorni scorsi l'esponente del Pd Puppato ha reagito al ricordo fatto da Marco Taradash delle amnistie volute dal Pci negli anni della Prima Repubblica per cancellare i finanziamenti illeciti ricevuti dall'Unione Sovietica, il paragone sarebbe “farneticante”. Ma sono proprio queste affermazioni sdegnate ed insultanti che dimostrano come una sinistra allevata per anni a considerarsi superiore culturalmente, politicamente e razzialmente nei confronti non solo dei dirigenti del centro destra ma dell'intero popolo dei votanti per l'area moderata non sia in grado di usare nessuna forma di buon senso in un quadro di convivenza civile.

Ma sappia solo perpetuare all'infinito quel clima da guerra civile (alle volte fredda ma in qualche caso anche bollente) che è stato e continua ad essere l'unico fattore di sopravvivenza di un'area politica incapace di rinnovarsi ed accettare sul serio le regole dello stato di diritto e della democrazia liberale. Chi ha pensato di poter dialogare con questo tipo di sinistra fino ad arrivare addirittura alla cosiddetta “pacificazione” si è tragicamente illuso. Ora le Puppato, ma anche i Renzi, i Bersani e gli Epifani, prenderebbero che il Pdl accettasse supinamente l'eliminazione del proprio leader per via giudiziaria e, dopo aver assistito all'atto formale della propria dissoluzione, continuasse imperterrito a sostenere un governo composto dai fedelissimi eredi dei boia dei processi staliniani. Il tutto in nome di un interesse superiore. Che in realtà non sarebbe del paese ma solo ed esclusivamente della parte politica che si considera superiore per volere divino e per volontà rigorosamente propria. Ancora guerra civile, allora, ovviamente in versione elezione anticipate? Chi la cerca alla fine se la trova. E ne paga anche le conseguenze. (l'Opinione)

venerdì 6 settembre 2013

Gli italiani e il vizio conformista di sfuggire il “controcorrente”. Vittorio Feltri

 


Il nostro grande Mario Cervi, commentando ieri l’iniziativa del Giornale, cioè una serie di incontri fra personaggi che hanno qualcosa da dire, in programma a Sanremo da domani (durata sei giorni) su temi di attualità, ha già spiegato da par suo il significato di «controcorrente», termine ispiratore del lungo convegno.

Pertanto non è il caso che io faccia altrettanto, sicuro che esprimerei maluccio gli stessi concetti esposti da lui benissimo.

Mi limiterò ad alcune considerazioni sul vizio degli italiani, specialmente quelli che desiderano essere alla moda, non solo di trovare un posticino sul carro del vincitore, ma anche di entrare – gratis – nell’élite degli intelligenti o, meglio ancora, degli intellettuali.

La prima regola cui si attengono coloro i quali seguono la corrente di successo è fare di tutto per apparire colti. Nell’intento adottano la tecnica dei cani. I quali, quando vogliono attirare l’attenzione, agitano la coda. Poiché i conformisti sono privi di coda, e non possono quindi agitarla, per mettersi in mostra agitano qualcosa d’altro: per esempio la lingua. Parlano, parlano di cultura scimmiottando i soloni schierati a sinistra, di cui ripetono a memoria tutto l’armamentario di sciocchezze (spacciate per verità indiscutibili), banalità, luoghi comuni e tic verbali.

La fesseria più ricorrente nei salotti è questa: «La destra è ignorante, evade le tasse, è fissata col sesso, odia gli omosessuali, è razzista, disprezza la letteratura, la filosofia, la magistratura, il cinema e la satira». Recentemente il Quirinale ha nominato quattro senatori a vita: Cattaneo, Piano, Rubbia e Abbado. E qualche conservatore ha osservato come non uno di costoro sia politicamente asettico. Immediata la risposta dei progressisti: «Per forza, i cervelli sono dalla nostra parte; dalla vostra non c’è nessuno degno di sedere “ad honorem” a Palazzo Madama». Falso. Falsissimo. Albertazzi non è stato preso sul serio pur essendo un fuoriclasse; Muti, scartato; Morricone, ignorato; la ricercatrice Benigni (Istituto Negri), snobbata; Pannella, idem. Il problema è che se sei di sinistra hai la patente di illuminato; se non lo sei, hai quella di indegno.

Alcuni anni orsono organizzai una raccolta di firme in favore di Oriana Fallaci senatrice a vita; se ne raccolsero 100mila in una settimana, ma l’allora presidente della Repubblica, Ciampi, fece spallucce, incurante del fatto acclarato che la scrittrice, indubitabilmente, fosse (lo è anche da morta) la donna italiana più famosa e apprezzata nel mondo.

Perché fu scartata? Oriana era anticonformista per definizione. Una penna solitaria. Un talento puro. Motivo per cui era detestata dai compagni, tra l’altro invidiosi dei suoi trionfi in libreria. Fu lei a sdoganare le donne nel giornalismo patrio. Questo è un dato. Ma non importava. Ciampi preferì nominare Emilio Colombo, per citarne uno inossidabile.

Non c’è nulla da fare. Flaubert, oltre un secolo fa, pubblicò il Dizionario dei luoghi comuni. Un capolavoro ancora valido: segno che l’umanità (e le sue debolezze) è immutata; per sopravvivere è sempre pronta a rendersi ridicola, accodandosi a presunti maestri di pensiero che, in realtà, sono maestri sì, ma di opportunismo. La gente ha istinti animaleschi, si unisce al branco per esserne protetta.

Vent’anni fa, quando la Lega stava prendendo piede, i borghesucci lombardi non osavano manifestare simpatia per Bossi. Anzi, lo criticavano aspramente con le solite frasi liquidatorie: è un buzzurro, volgare, maleducato; e poi come si fa a votare un tipaccio del genere? Una sera fui invitato a cena da un gruppo di professionisti e imprenditori del Nord. Quando constatai che le bottiglie di vino erano ormai semivuote, introdussi a bella posta l’argomento Carroccio. Sulle prime sollevai un’ondata di indignazione. I giudizi negativi sul movimento politico bossiano si sprecarono. Con cautela, dissi qualche parola in difesa dei padani: «Però, in fondo, questi nordisti qualche ragione ce l’hanno. Non condivido il loro modo di fare, tuttavia riconosco di essere d’accordo su alcuni punti del programma leghista».

Alcuni commensali annuirono. Altri ammisero di essere interessati al nuovo fenomeno politico. L’ambiente si caricò. E dopo dieci minuti la tavolata era talmente riscaldata che mi aspettavo soltanto spuntassero le bandiere di Alberto da Giussano. L’ipocrisia è sorella gemella del conformismo. All’epoca della Dc non c’era anima che confessasse di votare scudocrociato, ma 35-36 connazionali su 100 – e mi baso sui risultati elettorali dell’epoca – non appena entrati in cabina si guardavano intorno e, sicuri di non essere notati, tracciavano la croce sul simbolo democratico cristiano. Probabilmente, facendo il gesto dell’ombrello.

Lo stesso è accaduto e accade per Berlusconi. Raro incontrare chi riveli di avergli dato la preferenza, ma a spoglio avvenuto scopri che il Pdl se non è il primo è il secondo partito.

Ancora a proposito di luoghi comuni e ignoranza camuffata da cultura. Negli anni Settanta chi dissentiva dalla sinistra imperante si sentiva dare del fascista. Negli anni Ottanta e Novanta, del qualunquista e ora del populista. Tre insulti che hanno assunto il medesimo valore semantico. Quando un progressista non sa come ribattere a un avversario, lo zittisce appiccicandogli l’etichetta di populista; in passato avrebbe scelto quella di fascista o qualunquista. Cambiano i vocaboli, ma il senso è sempre lo stesso: l’interlocutore non va ascoltato, ma delegittimato.

Da notare che il populismo non ha nulla da spartire col centrodestra, visto che fu un movimento nato in Russia nel diciannovesimo secolo, anticipatore del socialismo e del comunismo, e adesso espropriato dei suoi valori originari dalla sinistra che – incolta qual è – li affibbia a chi non li ha mai condivisi. (il Giornale)