venerdì 28 settembre 2012

Note sulla Costituzione - XII. Conclusione. Gianni Pardo

Bisogna evitare la confusione tra diritto, religione ed etica.
Il diritto si occupa dei rapporti fra gli uomini. Ciò implica l’alterità (il diritto non dà norme per come un uomo deve comportarsi con sé stesso) e l’esteriorità (cioè il disinteresse per il pensiero e le convinzioni del singolo). All’ordinamento giuridico basta che il cittadino non danneggi gli altri, osservi le leggi e paghi le tasse.

Viceversa la religione cristiana si interessa più delle convinzioni del credente che dei suoi comportamenti. Come disse Lutero, «Pecca fortiter sed fortius fide et gaude in Christo», pecca fortemente ma più fortemente abbi fede e godi in Cristo. La dottrina bada più all’intimo che all’esterno, infatti tiene più conto delle intenzioni che dei risultati e condanna il filisteo che compie i riti richiesti senza che ad essi corrisponda il sentimento del vero devoto. Non chiede di violare le leggi – date a Cesare quel che è di Cesare – ma apprezza più chi ha l’intenzione di agir bene che chi rispetta la norma, perfino religiosa: «Il sabato è fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato», Marco 2, 27.
La morale in sé è laica: condivide tuttavia con la religione – che spesso ne sacralizza i principi – il fatto di indirizzarsi all’intimo, a partire dal quale impone regole comportamentali sia per la loro utilità sociale, sia perché sentite come imperative per loro natura (Kant). In Italia la confusione fra morale cristiana e morale tout court è pressoché totale.
Lo Stato dovrebbe occuparsi dei cittadini come un arbitro giuridico che non prende parte al gioco; purtroppo invece, con la Rivoluzione Francese, e in particolare con i giacobini, è nata l’idea che la Repubblica debba essere Garante del Bene. Non è più sembrato sufficiente che lo Stato garantisse un’ordinata e armonica vita sociale: si è voluto che guidasse la società nella “direzione giusta”; che fosse “la realtà dell’idea etica”, per dirla con Hegel: cioè un padre, un maestro, un educatore e all’occasione – se il cittadino è un po’ discolo – un carceriere.
Questa tendenza ha dato luogo al vano desiderio di cambiare la società con la legislazione. I rivoluzionari sovietici pensavano che la religione fosse una forma di superstizione che danneggiava la razionalità dell’uomo e per questo oppressero la Chiesa Ortodossa. Offesero la sensibilità dei credenti per oltre settant’anni e non conclusero nulla: dopo la caduta del regime, i loro nipoti hanno visto la religione tornare in auge esattamente come prima.
La morale e la religione guardano all’interiorità dell’uomo e proprio per questo non devono essere inglobate nello Stato. Mentre alla religione si aderisce volontariamente, nell’ambito civile si passa facilmente dall’invito all’imposizione: infatti nel mondo moderno la legge tende a regolare ogni aspetto della vita e a divenire la regola fondamentale della società. Nell’epoca arcaica si dava al pater familias il diritto di vita e di morte sui propri figli; in seguito – molto opportunamente – è nato il reato di maltrattamenti in famiglia (art. 570 C.p.), ma la tendenza ha proseguito ed è andata troppo oltre. Oggi non solo un padre non può più dare uno schiaffo al proprio figlio, ma un maestro rischia grosso se umilia uno scolaro chiamandolo asino. Col risultato che oggi i giovani sono contemporaneamente fragili e ignoranti.
Ma queste sono minuzie che riguardano i Paesi democratici. Per farsi un’idea dell’orrore cui può condurre l’oppressione totalitaria, cioè una legislazione straripante che riguarda sia l’esteriorità sia l’interiorità dell’uomo, bisogna riferirsi a quel Leviatano onnicomprensivo che è stato l’incubo staliniano. Lo Stato come “realtà dell’idea etica” mira infatti ad obbligare tutti ad adorare l’idea che esso ha di sé. Tende ad instaurare una sorta di teocrazia, la Statolatria: infatti non si limita ad imporre dei comportamenti, enuncia una fede cui è dovuta totale obbedienza. Nei Paesi musulmani integralisti la teocrazia condanna a morte chi abbandona l’Islàm, Stalin condannava a morte, o almeno al Gulag, chi abbandonava il comunismo. La Statolatria è una religione crudele.
Al riguardo Kant, per una volta, arriva ad una forma di estremismo: «Un governo che venisse costituito in base al principio della benevolenza verso il popolo [...] cioè un governo paternalistico (imperium paternale) [...] è il più grande dispotismo pensabile» (citato da Karl Popper in La lezione di questo secolo, pag. 70, Marsilio, 1992).
Ecco perché bisogna evitare di inserire enunciazioni morali nelle Costituzioni. Quelle enunciazioni i liberali le disprezzano come aria fritta se non applicate e le considerano attentati alla libertà se applicate. Oscar Wilde fu giudicato e messo in galera per motivi che oggi si reputerebbero assurdi.
Lo Stato liberale è quello che meglio garantisce la libertà. In esso i cittadini, se non danneggiano nessuno, hanno la facoltà di dire e fare tutto quello che vogliono. Le leggi non richiedono nessuna adesione morale e il loro principio essenziale è quello, romanistico, del “neminem laedere”: non far male agli altri. Anche se per questa sua estraneità alla morale la Chiesa gli è stata violentemente ostile.
Una Costituzione piena di buone intenzioni è pericolosa ed è meglio che lo Stato si occupi il meno possibile della felicità e della santità dei suoi cittadini. Per questo la Costituzione inglese è la migliore. Perché non esiste. (il Legno storto)

Note sulla Costituzione - X - Lo Sciopero. Gianni Pardo

StampaE-mail
              
  

Image
Il diritto di sciopero è fondamentale in un Paese libero. Il dogma secondo cui lo Stato è talmente saggio da non sbagliare in nessun caso le modalità del lavoro è stato concepibile solo nelle dittature comuniste: dove infatti lo sciopero era vietato. Se invece vige l’economia di mercato, come i datori di lavoro devono – anzi, dovrebbero - essere liberi di proporre una paga ai lavoratori, i lavoratori dovrebbero essere – anzi, sono – liberi di lottare per migliori condizioni di retribuzione o di lavoro. Con lo sciopero. E l’art.40 stabilisce: “Il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano”. La parola diritto per una volta è usata in senso proprio. Purtroppo per i sindacati, essa è seguita dall’accenno alle “leggi che lo regolano”: una limitazione cui l’intero sinistrismo italiano ha tanto vivacemente reagito da riuscire a vietare, per decenni, che a quella parte dell’articolo fosse data attuazione. Dal 1948 al 1990, per quarantadue anni, il diritto di sciopero è stato totale: anche quando ha avuto puri scopi politici, anche quando ha danneggiato l’economia della nazione, anche quando ha violato la libertà dei cittadini. Non è qualche antisindacalista viscerale che sostiene questa tesi: lo afferma la legge 12 giugno 1990, n.146. Se infatti, in occasione dello sciopero, essa ha sentito l’esigenza di garantire, con norme precise, “il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione ed alla libertà di comunicazione” dei cittadini, è segno che prima questi stessi diritti non erano garantiti. Anzi erano spesso violati. Purtroppo, quando gli serve gli italiani si dichiarano proni veneratori di una Costituzione più intangibile del Corano, quando essa gli dà fastidio impongono che sia dimenticata. Magari per più di quarant’anni.
Fra l’altro, che delle norme fossero necessarie è provato dal fatto che non solo si è votata la legge del 1990 ma se ne aggiunta una seconda (11 aprile 2000 n.83): tanto che il testo finale è un oceano di circa quattromila parola. Cinque volte un normale articolo di giornale.
Tutto ciò non ha tuttavia diminuito di molto il potere dei sindacati. Essi sono stati tanto potenti da contribuire a portarci alla situazione economica attuale: con i capitali italiani che fuggono (per non parlare della Fiat) gli stranieri che non investono da noi e con prospettive così negative da non escludere il fallimento del Paese. L’accusa ai sindacati sembra gravissima ma così non è: essi infatti non sono i primi colpevoli.
Un bambino fa i capricci perché l’esperienza gli ha insegnato che, in quel modo, ottiene quello che vuole. Se egli si intestardisce ad avere un cibo che gli fa male, e se i suoi genitori, malgrado le controindicazioni, glielo concedono, di chi sarà la colpa del malessere del bambino? Nello stesso modo, i sindacati abusarono spesso del loro potere ma dopo tutto essi erano emanazioni di una delle parti in conflitto. Che i loro associati avessero ragione o che avessero torto, essi li sostenevano. Stava alla magistratura e al Parlamento, realizzare l’equilibrio. E soprattutto stava allo Stato arbitrare in modo che nessuno prevaricasse. Se invece, per oltre quarant’anni, non si è avuto il coraggio di mettere in discussione un potere irresponsabile, il risultato non poteva che essere quello che ottengono i genitori coi figli viziati.
Alle leggi che regolano lo sciopero si è arrivati quando l’economia era stagnante, quando ci si avviava alla situazione attuale e quando il debito pubblico era già esploso: nel 1991-92 eravamo già al 100% del Pil e vent’anni dopo siamo solo al 120%. Per decenni si sono create aspettative irrealistiche, una sensazione di onnipotenza (lo sciopero risolve qualunque problema) e soprattutto l’idea che l’economia possa prescindere dal dare e dall’avere.
Ora non si sa più da che lato risparmiare. Non si sa da dove trarre risorse per pagare gli interessi sul debito pubblico. Non si sa come rilanciare l’economia. Non si sa come salvare l’Italia da una crisi che potrebbe farla sprofondare. Le conseguenze delle follie dei genitori, incoraggiati da Dc e Pci, ricadono si figli e nipoti, ormai intrappolati in una situazione senza uscita. Con un un modello sociale che promette solo disoccupazione e miseria. La Costituzione, col suo “diritto al lavoro”,0 sembra irridere i disoccupati.(il Legno storto)

giovedì 20 settembre 2012

Questo Paese non legge la realtà. Mario Sechi

              
  

Image
Il Tempo- C’è un Paese disteso sul Mediterraneo che ha qualche problema a capire la realtà. Si chiama Italia, è popolato da «brava gente», in passato ha prodotto il meglio nell’arte e nella scienza e ora si dibatte nel dilemma su come confrontarsi con il presente. Vive, insomma, nel paradosso. Perché è un luogo ricco che si sta impoverendo, pieno di uomini e donne intelligenti che si stanno disperdendo. Fu meta del Grand Tour, cantata dai poeti, colorata dai pittori, immortalata dai narratori. È un pezzo di memoria dell’Occidente, ma dimentica i suoi tesori.
Ora questo Paese, l’Italia, è guidato da una classe dirigente poco colta, che viaggia ma non conosce, legge ma non apprende, vive ma non fa esperienza. È un caso unico. I suoi partiti politici sono un avanzo del Novecento e divorano tutto quello che incontrano, come una piaga biblica, le locuste. Hanno incassato in vent’anni oltre due miliardi di soldi pubblici, ne hanno speso un terzo, il resto è servito a finanziare «la politica», parola nobile dietro cui si sono nascosti miseri traffici privati.
Ogni vent’anni l’Italia viene scossa da una rivoluzione che poi, gattopardescamente, cambia tutto per non cambiare nulla. I vent’anni sono arrivati, ancora. Puntuali. E l’Italia strepita, mormora, promette la svolta. Ma i partiti non sentono questo rumore e gli italiani sono inaffidabili anche nell’ira. E così, soavemente, i politici non accettano controlli esterni sui loro conti, sui maneggi e sui magheggi.
Periodicamente, l’Italia inventa un eroe, un salvatore della Patria, che poi, vent’anni dopo, trasforma nel Nemico Pubblico. È una vecchia storia. E ci siamo di nuovo. Ora questo popolo straordinario promette di non affidarsi solo al genio e all’improvvisazione, ma anche al metodo, all’ordine e al rispetto della cosa pubblica, cioè del prossimo. Ma è solo una promessa.
Hanno chiamato un Professore per spegnere un incendio enorme che minacciava di bruciare i loro averi, ma ora sono pronti a dileggiarlo e a chiederne l’esecuzione sommaria. Un capro espiatorio, l’ennesimo, per stare in pace con la coscienza. Hanno visto una grande azienda, la Fiat, sull’orlo del fallimento e poi un italiano educato in Nord America risollevarla fino ad acquistare una leggenda dell’automobile mondiale, la Chrysler. E hanno applaudito. Solo per un minuto. Poi si sono accorti che questo voleva dire fare della Fiat un’azienda «normale», che guarda i conti, che chiede il rispetto dei contratti, che non fa da ammortizzatore sociale dello Stato. E allora tutti hanno cominciato a fischiare quell’uomo nato a Chieti e cresciuto a Toronto. L’Italia non accetta la realtà, ma ne sogna un’altra e guarda chi la fa.

mercoledì 19 settembre 2012

Renzi sarà bravo, ma è di sinistra. Gennaro Malgieri

 

Se Matteo Renzi ha le stesse idee di Silvio Berlusconi allora è indifferente votare per l’uno o per l’altro. A voler decifrare in maniera corretta l’endorsement del Cavaliere a favore del sindaco di Firenze, francamente non mi viene in mente altra conclusione. Il leader del Pdl, nel corso della sua traversata adriatica, infatti, ha detto proprio così: «Renzi? È bravo. Porta avanti le nostre idee sotto le insegne del Pd. Auguri». Il centrodestra lo adotti, verrebbe si potrebbe aggiungere. E Berlusconi sarebbe pure d’accordo, sempre che l’interessato fosse disponibile ad accettare l’offerta.

Ormai la confusione politica è alle stelle. Si scambiano lucciole per lanterne. Ed il Cavaliere, non sapendo che pesci pigliare, si attacca perfino ad un temibilissimo avversario (certo molto più agguerrito e pericoloso di Bersani in un confronto elettorale con lui) del quale, con tutta evidenza, ne apprezza il progetto di svecchiamento del Pd, ma non ne conosce il programma posto che non lo ha ancora reso noto se non in minima e perfino trascurabile parte.

Renzi, con tutto il rispetto e l’ammirazione che si può avere per lui, è e resta un uomo della sinistra. Di una sinistra moderata e dialogante, forse perfino un po’ troppo democristiano,ma comunque non inquadrabile, neppure alla lontana in un centrodestra caratterizzati da altri valori politici e da differenti riferimenti culturali.

Il fatto che Renzi intenda innovare il suo partito e, dunque, rottamare i mandarini che lo guidano, non deve indurre in errore proprio chi rifiuta, con il suo atteggiamento, di assecondare il ricambio nel centrodestra contraddicendo la dichiarazione di stima per il competitor di Bersani alla primarie. Renzi un merito certamente ce l’ha, ma Berlusconi probabilmente lo ignora: ha movimentato una forza politica addormentata restituendo entusiasmo ai militanti ed ai simpatizzanti, inducendo la classe dirigente del Pd a prendere atto che la stagnazione la sta consumando, che le lotte di potere al suo interno le stanno facendo perdere l’anima. Ma non è proprio ciò che accade anche nel Pdl di Berlusconi? E perché, se così è, il leader maximo non lo denuncia, non si fa promotore lui stesso dell’azzeramento e della ricostruzione del suo partito posto che un Renzi nel centrodestra non mi sembra che s’intraveda?

Altro che «porta avanti le nostre idee sotto le insegne del Pd». Il sindaco di Firenze sta tentando di fare quello che da tempo tanti elettori di centrodestra chiedono a gran voce a chi si è tappato le orecchie: pulizia, innanzitutto. E in questi giorni la scandalosa vicenda del gruppo consiliare alla Regione Lazio riassume in forme orribili il degrado di una forza politica che doveva essere diversa da come è andata sviluppandosi nei granai del potere. Personaggi privi di spessore politico (di quello morale non vale neppure la pena accennare), senza nessuna cultura, provenienti dal nulla, si sono mostrati famelici e imbecilli, oltre che delinquenti, al punto di infangare storie politiche specchiate, militanze generose, sacrifici appassionati. Imperdonabili non soltanto dal punto di vista giudiziario.

Resta una domanda a fronte di tanto lerciume che purtroppo va accumulandosi ovunque e nessuna forza sembra essere estranea al malaffare partitocratico: chi ha scelto, candidato, fatto eleggere e conferito ruoli di primo piano a coloro che oggi spalancano le porte degli inferi ad un partito che, per quanto criticabile strutturalmente e culturalmente, non meritava di fare la fine che sta facendo?

Ecco, già rispondere a questa domanda sarebbe un buon inizio. Renzi non c’entra nulla. Si parli del Pdl piuttosto, sia pure in crociera. (l'Opinione)

L'Occidente in ginocchio e in silenzio. Soud Sbai

 

Mai come oggi l’Occidente è sulle ginocchia. I fatti di questi giorni hanno reso ormai chiaro che l’estremismo ha in pugno l’Occidente e che il peggio deve ancora venire. Proseguono da giorni i moti di protesta contro il film giudicato blasfemo, una pellicola becera che sa di retrobottega dei sobborghi del cinema. Peraltro, mi piace far notare, la pellicola non è mai stata vista finora in versione integrale e probabilmente mai verrà vista. Qualcuno ne mette anche in dubbio l’esistenza se non in quegli spezzoni su Youtube. Ma la rivolta armata, che ha portato all’occupazione violenta delle ambasciate in tutto il mondo arabo e non, fa rabbrividire chi conosce le conseguenze di questi gesti.

La morte di Chris Stevens a Bengasi, la cui dinamica agghiacciante è stata chiarita nei giorni successivi, è stato solo l’inizio di un percorso di piegamento delle gambe dell’Occidente, giù fino a toccare con il mento a terra. Fino a quando non riesce a vedere che la punta dei piedi di chi oggi sta per sferrargli il colpo finale al volto. Cosa ci sia dietro a quelle manifestazioni, a quei tafferugli, a quella violenza cieca se lo sono chiesto in molti, perfino gli arabi moderati, ma la domanda ha in sé la risposta: l’Occidente e gli Usa hanno armato coloro che vogliono conquistarli. La Primavera araba è il più grande inganno che alcuni gruppi di potere abbiano mai ordito nei confronti dell’umanità. La vittoria, tranne alcune eccezioni, ha arriso all’estremismo che oggi si spinge verso l’ultimo obiettivo sensibile da abbattere: la Siria di Assad, che altro non ha fatto se non difendere il Paese da integralisti e terroristi i cui video di violenza e di odio hanno fatto il giro del mondo. Una riflessione: perché l’Europa ha interrotto i rapporti diplomatici con la Siria, non avendo con essa alcun motivo di contendere, mentre con la Libia, ad esempio, quando si è consumato l’omicidio dell’ambasciatore Stevens, ancora si va d’amore e d’accordo? Oppure con il Sudan, dove l’ambasciata tedesca è stata assaltata e incendiata? O con la Tunisia, dove l’attentato all’Ambasciata Usa è stato sventato all’ultimo istante? Perché a qualcuno si vuol far pagare la difesa del proprio suolo e a qualcun altro si perdona l’uccisione di un proprio diplomatico, peraltro in regime di extraterritorialità, in un assalto al proprio territorio? Questo credo basti a descrivere l’atteggiamento connivente e suicida dell’Occidente tutto di fronte alle sommosse, che non reagisce ma addirittura chiude le ambasciate e scappa in fretta e furia.

Il colpo finale, per ora, arriva dall’Egitto. Mentre sono domate le fiamme esteriori ma non quelle interiori del salafismo ormai dilagante e feroce che coglie ogni scusa per attaccare, il suo presidente Morsi incontra un ricercato dal Tribunale Penale Internazionale dell’Aja: ovvero quel Bashir accusato di crimini contro l’umanità in Darfur, che se ne sta bello incravattato e impomatato al Cairo, a colloquio con colui che mentre l’ambasciata Usa egiziana veniva messa a ferro e fuoco era in Italia a stringere mani e a siglare accordi.

Vergogna, solo questo mi sento di dire alle pseudo-organizzazioni per i diritti umani che da sempre boicottano la libertà dei popoli perché essa contrasterebbe con la loro esistenza. Vergogna per chi non va a prendere Bashir come vorrebbe fare per Assad o come voleva fare, prima che lo uccidessero, per Gheddafi. Il bottino che si stanno contendendo coloro che gestiscono i destini del mondo lo possiamo solo intuire, ma non quantificare né descrivere appieno; la sola cosa certa è che l’Occidente è all’angolo e continua ad indietreggiare, colpo dopo colpo. I salafiti sono solo l’immagine delle nostre paure e delle nostre debolezze proiettata su uno specchio, di modo che li possiamo guardare ed avere sempre più paura. Ma ancor più paura, mi permetto di dire, dovremmo averla di coloro che scientemente ci hanno messo dinnanzi al nemico armato di tutto punto, girandosi dall’altra parte, sentenziando politically correct e costruendo una società più simile ad una gabbia che ad una scuola per le nostre libertà. Ci è rimasto solo il silenzio.(l'Opinione)

martedì 18 settembre 2012

Fiat lacrime. Davide Giacalone

Lo psicodramma attorno a Fiat e alle promesse di Sergio Marchionne è grottesco, ma anche rivelatore. Forse al governo sono convinti che i posti di lavoro possono salvarsi facendo la voce grossa con un’impresa, salvo accorgersi che ne vien fuori un gridolino in falsetto, privo di strumenti per farsi valere. Semmai ci si dovrebbe accorgere, finalmente, che le attività produttive si aprono e si mantengono dove rendono, e se, per farle rendere, si corrompe il mercato mediante aiuti di Stato o agevolazioni tariffarie si ottiene il solo risultato di buttare i soldi e ingigantire il problema, fin quando quegli aiuti vengono interrotti e l’impresa saluta tutti e se ne va. Non vale mica solo per Fiat, vale per tutti. E chi facesse fatica a capire guardi a quel che succede con Alcoa (dove se gli aiuti fossero stati dati direttamente agli operai, con quel che sono costati, ciascuno di loro oggi vivrebbe di rendita, alloggiando in una villa).

E’ vero: Fiat ha lungamente e abbondantemente approfittato degli aiuti di Stato (diretti e indiretti, svelati e nascosti, inutile che stiano a cincischiare), sicché taluni possono guardare con dispetto all’imminente voltafaccia. Ma noi, che ragioniamo di cose concrete, guardando i dati reali, lo avevamo scritto già quando Marchionne ce la metteva tutta per perdere il referendum presso i lavoratori. Solo che quelli si sono rivelati più saggi sia dei governanti che dei sindacalisti. Purtroppo senza cambiare i dati del problema, che erano solo marginalmente influenzati dalla loro condotta. Avendo preso tanti soldi, dicevo, suona sgradevole che se ne vada, ma la colpa è di chi li stanziò senza prevedere il ritorno: nel paesi seriamente condotti non si esclude affatto di agevolare questo o quello, ma se poi se ne va gli fanno lasciare sul tavolo i quattrini presi. Da noi, invece, li trovate tutti all’estero: alcuni sotto forma d’investimenti, altri inguattati nei conti personali.

Talora le lezioni della vita sono dure e costose. Questa lo è. Il peggio, però, è non capirle e non imparare: la competitività è una caratteristica complessiva di un mercato, composta di diritto del lavoro, regolarità dei pagamenti, accesso al credito, accesso alla giustizia, fiscalità non dissennata e burocrazia non sanguinaria. Fra altre cose ancora. Se prendi dei campioni e li mantieni in vita artificialmente, lasciando gli altri alla disperazione o costringendoli a evadere e truccare, se non a espatriare, quel che ti ritrovi in mano è quel che si vede. A quel punto inutile frignare.

Passando dai lucciconi ai fatti: che fine ha fatto il piano Giavazzi per la cancellazione degli aiuti inutili (ma costosi) alle imprese? Sappiamo, dall’autore, che è stato consegnato. Da tempo. Ma non sappiamo altro. E allora? Il governo che non deve chiedere voti (o hanno cambiato idea? o confluiscono alla spicciolata nelle liste altrui?) dovrebbe avere meno vincoli nel tagliare. Si dirà: in piena recessione è rischioso. No, è rischioso pensare di uscirne in quel modo, invece si deve tagliare e restituire, nel senso che ogni fetta di spesa pubblica che si riduce (e se ne deve ridurre tanta) deve essere restituita sotto forma di minore pressione fiscale. Nel caso delle imprese, ad esempio, riducendo il cuneo, grazie al quale abbiamo i salari mediamente più bassi che nel resto d’Europa, ma un costo del lavoro, per unità di prodotto, più alto. In questo modo se ne giovano tutti e non solo gli amici degli amici, che, solitamente, sono anche i meno capaci di navigare nel mare aperto dei mercati.

L’equivoco Fiat può essere strascicato nel tempo, magari chiedendo a Marchionne di rinnovare parole mendaci, in pratica supplicandolo di prenderci ancora in giro, ma non può essere risolto. Alla fine l’impresa va dove le conviene. Il nostro problema non è tenerci (tutti) gli stabilimenti Fiat, ma rendere conveniente produrre in Italia.

lunedì 17 settembre 2012

Note sulla Costituzione - IX - Lavoro e sindacati. Gianni Pardo

  
Image
L’art. 37 comincia con lo stabilire che, a parità di lavoro, la donna deve essere retribuita come l’uomo. Cosa giustissima. Ma non era già stata detta con l’art. 3? A quanto pare i costituenti non avevano grande stima della nostra memoria.
Più interessante è il capoverso: «Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione». Anche questa è una norma giustissima, ma soltanto se ci si mette d’accordo sul destinatario di essa. Se infatti la legge richiede che l’imprenditore, per esempio, permetta alla donna di rimanere a casa perché deve allattare, e nel frattempo lo obbliga a retribuirla come se lavorasse, il risultato sarà che chiunque cercherà di non assumere le donne che potrebbero avere figli.
Qualcuno a questo punto griderà alla discriminazione. Con ragione. Infatti è discriminato il datore di lavoro: se è vero che la funzione della donna-madre è a favore dell’intera collettività, non si vede perché poi il peso economico di quella funzione debba ricadere sul cittadino colpevole soltanto di avere offerto un’occasione di guadagno a quella donna.
Le speciali compensazioni per le donne, a parziale compenso dei loro sacrifici, devono essere a spese dello Stato. Diversamente lo speciale “vantaggio” che si voleva assicurare, si tradurrà in concreto in uno svantaggio chiamato disoccupazione.
__________

I sindacati, di cui parla l’art. 39, sono trattati dalla Costituzione con particolare amorevolezza. Dopo avere stabilito che la loro organizzazione è libera (e perché non dovrebbe esserlo?) stabilisce che ad essi «non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge». Di fatto, per quanto ne sappiamo, essi hanno approfittato di questa speciale posizione al di sopra delle leggi per non depositare bilanci, non pagare tasse, a volte perfino per violare i diritti sindacali dei loro dipendenti. Sarebbe stato necessario essere più precisi. Forse bastava scrivere «non può essere imposto altro obbligo, per la loro costituzione, se non la registrazione...” L’attuale, vaga formulazione va infatti oltre il ragionevole.
Inoltre – ma su questo punto si sarebbe lieti di lasciare la parola ai competenti – leggiamo: “Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce». Che significa “unitariamente”? Se si costituisse un sindacato nazista gli sarebbe consentito di essere incluso in quella “unità”? Da decenni ci rintronano le orecchie con le imprese della Trimurti, Cgil, Cisl e Uil: e gli altri dove sono? Non sono unitari? Hanno o non hanno voce in capitolo, se pure in proporzione al numero dei loro iscritti di categoria?
E poi, quella “efficacia obbligatoria” come mai si estende ai lavoratori non iscritti a nessun sindacato? Sembra – ma, si ripete, si sarebbe lieti di saperne di più dai competenti – che i sindacati debbano essere del tutto liberi, anche dagli obblighi di legge, mentre i lavoratori non sono liberi di stipulare direttamente – a gruppi o singolarmente – i contratti che sembrano loro convenienti. Il contratto collettivo, alle condizioni determinate esclusivamente dall’accordo fra datori di lavoro e rappresentanti dei sindacati ufficiali, rischia di essere in conflitto con la libertà.
Tutto ciò è quanto meno strano. Non si poteva scrivere che i sindacati possono stipulare «contratti collettivi dei cui vantaggi tutti i lavoratori, anche non iscritti ai sindacati, devono essere liberi di approfittare»? Con ciò stesso escludendo sia l’automatica estensione a tutti del contratto, sia l’automatica imposizione, al singolo, degli eventuali svantaggi, e perfino vantaggi, di quel contratto.
Ma ci si riserva di correggere questa pagina sulla base di ciò che sapranno dire i lettori più informati della materia. (il Legno storto)

Quelli che...


Noi siamo quelli che il prezzo della benzina è un optional e dipende da tutto tranne che dal petrolio e dal dollaro: in compenso nessuno ha il coraggio di ammettere che la benzina è la tassa di circolazione che si somma alla tassa di possesso dell’auto.

Noi siamo quelli che una giustizia così non c’è da nessuna parte al mondo, con processi eterni e qualche processo molto rapido (quando fa comodo a certa magistratura), con più della metà dei detenuti in attesa di giudizio, il 30% di detenuti extracomunitari ( ma se sono meno del 10% della popolazione forse delinquono di più?).

Noi siamo quelli della carta libera e della carta bollata, della fotocopia e della duplice copia.

Quelli che devono andare dal notaio, devono ripassare tra una settimana oppure pagare l’urgenza, andare al quinto piano sportello in fondo al corridoio a sinistra, prendere il numero e mettersi in fila, tornare domani perché oggi è sciopero, l’impiegato è in ferie, l’ufficio è aperto solo il giovedì mattina dalle 10 alle 12, non funziona la fotocopiatrice, il computer è guasto e siamo in pausa.

Noi siamo quelli che la visita medica tra un anno perché l’agenda è completa, se vuole c’è un “buco” tra quattro mesi nell’ospedale a cinquanta chilometri, privatamente? domattina alle otto.

Noi siamo quelli che istituiamo una commissione di inchiesta per quantificare gli emolumenti dei parlamentari: si è dimessa per l’impossibilità di arrivare ad un risultato!

Noi siamo quelli che facciamo la riforma delle pensioni e ci dimentichiamo degli “esodati”.

Noi siamo quelli che con i lavoratori abbiamo due pesi e due misure: anni di cassa integrazione per alcuni, disoccupazione immediata per altri; tutele sindacali scandalose per alcuni, assenza di diritti per altri.

Noi siamo quelli che ci lamentiamo del governo, ma mandiamo in Parlamento sempre gli stessi da decenni.
 
Noi siamo quelli che qualsiasi cosa faccia Berlusconi è per interesse, per salvare le sue aziende, per sfuggire ai processi, per farsi rieleggere, per favorire i ricchi ....
 
Noi siamo quelli che due marinai aspettano, incolpevoli, di uscire di prigione in India mentre il governo non muove un dito.
 
Noi siamo quelli che sono costretti da evadere le tasse per non soccombere e nel frattempo lo Stato non paga i propri debiti ai contribuenti.
 
Noi siamo quelli che se non ci svegliamo e diamo una mossa, anche alle prossime elezioni ci ritroviamo gli stessi.

 

giovedì 6 settembre 2012

Note sulla Costituzione - III - Il lavoro. Gianni Pardo

Image
La prima seduta dell'Assemblea Costituente (25 giu 1946)
Art. 4: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società».
Anche in questo articolo si ritrova l’uso mitologico del verbo riconoscere e un illiberale dovere di solidarietà fra i cittadini. Ma la norma è sopratutto importante perché caratteristica dell’utopismo socialistoide dei costituenti. Inoltre è una di quelle che più si prestano a fraintendimenti. 
Essenziale al riguardo è l’esame del concetto di “diritto”. Esso può essere oggettivo, nel senso di “insieme di norme”, oppure soggettivo: un potere che la legge dà al singolo per chiedere allo Stato di fare qualcosa in suo favore. Per esempio obbligare il debitore a pagarlo, il ladro a restituirgli ciò che gli ha sottratto, e via dicendo. In tutti i casi è necessario che qualcosa si possa imporre con la forza: un ordinamento giuridico senza uno Stato che sia in grado di dargli concreta applicazione sarebbe solo un libro dei sogni.
Interessante è pure il concetto di interesse legittimo. Mentre il diritto soggettivo è dato al singolo nell’interesse del singolo, l’interesse legittimo è quello che il cittadino può avere a che lo Stato applichi le proprie leggi. Per esempio, se in un concorso si è stati scavalcati da qualcuno che aveva minori titoli, si può ricorrere non perché si abbia un diritto soggettivo alla vittoria, ma perché lo Stato ha leggi e regolamenti riguardanti i concorsi e la loro corretta applicazione può essere utile al concorrente ingiustamente escluso. Lo Stato interverrà nel proprio interesse (la correttezza dei concorsi) ma il cittadino - portatore dell’interesse legittimo - ne beneficerà.
In quale categoria può rientrare il “diritto al lavoro”? Ad escludere che si tratti di un diritto soggettivo basta il fatto che il disoccupato non può rivolgersi al giudice per ottenere un posto di lavoro. Né può ricorrere al Tribunale Amministrativo per obbligare lo Stato a dargli un posto di lavoro, come se disponesse di un interesse legittimo. E allora, in che senso la Costituzione parla di “diritto al lavoro”?
L’inevitabile, sconsolata constatazione è che la nostra Costituzione usa alcune parole con un senso puramente politico, per non dire demagogico. L’affermazione per cui: “una madre ha diritto all’affetto dei figli” ha un senso umano ma non giuridico. Ella non può rivolgersi al giudice per obbligare i suoi figli ad essere affettuosi con lei. E nello stesso modo il lavoro è qualcosa che “sarebbe giusto avere”, non qualcosa che si ha il diritto giuridico di avere. Purtroppo, questo equivoco ha alimentato infinite rabbie e infinite frustrazioni, per esempio – comprensibilmente – nel disoccupato ignorante di diritto. Se si voleva solo dire che lo Stato farà, giustamente, il possibile per eliminare la disoccupazione, questo bisognava scrivere. E anzi, non bisognava scriverlo: chi mai farebbe il possibile per aumentarla?
Fra l’altro questa esagerazione letteraria si pone in contraddizione col secondo comma. Se il diritto al lavoro effettivamente esistesse (tanto che basterebbe riconoscerlo) non ci sarebbe nessuna necessità di “promuoverne le condizioni”. Lo Stato infatti non promuove il diritto alla libertà di parola, quella libertà la assicura. Se invece si limita soltanto a “promuovere le condizioni” del “diritto al lavoro”, con ciò stesso riconosce che esso non è né concreto né effettivo. Dunque non esiste. Se poi si intende parlare di un “diritto teorico”, i lavoratori saranno felici di sapere che, a fronte di un diritto teorico avranno diritto a un salario altrettanto teorico.
È anche vero che non si tratta dell’unico caso di stravolgimento della parola “diritto”: c’è tutta una  “letteratura” che, seguendo una sciocca tendenza sociologica, ama decorare con al parola “diritto” le esigenze che reputa particolarmente meritevoli di tutela. Gli incompetenti e i sentimentali parlano di diritti degli animali, diritti del malato, diritti dei bambini. In realtà, gli animali non possono essere portatori di diritti perché non hanno personalità giuridica. I malati non hanno diritti e interessi legittimi in quanto tali ma in quanto cittadini. I bambini infine sono cittadini come gli altri, già favoriti da speciali tutele in quanto minorenni. Basta applicarle.
In conclusione, il famoso “diritto al lavoro” è soltanto un’espressione da comizio, se si è ragionevolmente convinti che fra gli ascoltatori non ci siano laureati in giurisprudenza. (il Legno storto)

Note sulla Costituzione - IV, Religione e Dir.Int. Gianni Pardo


Image
Firma della Costituzione
Art. 8 – Art. 10: «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.
Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano».
Finalmente un articolo sacrosanto. Soprattutto se si ha cura di porre l’accento sulla necessità che nessuna fede contrasti col diritto italiano. Infatti a suo tempo i costituenti pensavano, votando questo testo, alle religioni “diverse dalla cattolica”. Invece oltre sessant’anni dopo bisognerebbe forse riscriverlo non a favore delle altre religioni, ma proprio a favore di quella da noi prevalente. Infatti la tendenza buonista, terzomondista, o forse semplicemente stupida di tanta parte della nostra società si preoccupa molto più dei principi religiosi delle altre religioni che dei principi della religione cristiana.

E ancor meno si preoccupa della sensibilità dei nostri credenti. A nessuno verrebbe in mente di imporre che nelle mense aziendali il venerdì non ci sia carne nelle pietanze: sicché gli eventuali cattolici integralisti sono obbligati o a peccare o a rimanere a digiuno; mentre molti, con preoccupato scrupolo, tengono conto delle norme alimentari dei musulmani. Anche per i bambini dell’asilo.
Si sta veramente esagerando. È sostanzialmente lecito criticare la Chiesa, bestemmiare con accanimento e dire male del Papa, ma molti si acciglierebbero se sentissero insultare Maometto ed esprimerebbero una dolente, compunta comprensione per la reazione, anche violenta, degli islamici. Alcuni arrivano al punto da trovare scuse per i mariti e i padri islamici violenti, osservando che essi seguono i principi morali del loro Paese. Cosa magari vera, ma che in Italia non deve costituire una giustificazione. Se dei musulmani vogliono avere il diritto di uccidere la figlia che si vesta all’occidentale, o si converta al Cristianesimo, non hanno che da andare a vivere in Arabia Saudita. Lì anche noi rispetteremmo le leggi più lontane dalle nostre. Ma qui un omicidio è un omicidio e vale l’art.575 del Codice Penale. Fra l’altro escludendo in casi del genere l’attenuante n.1 dell’art.62 del Codice penale, cioè “l'avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale”. Perché da noi non ha particolare valore morale o sociale impedire alla figlia di avere un fidanzato di sua scelta, magari cristiano.
Un esempio meno drammatico ma grottesco è il problema del hijab, del chador, o comunque di quell’abito che lascia liberi solo gli occhi.  Non solo molti sostengono il diritto delle musulmane di andare in giro così vestite (mentre la legge di Pubblica Sicurezza vieta che si vada in giro “travisati”, cioè irriconoscibili), ma qualcuno dava ragione a quelle che chiedevano di essere ritratte così nelle carte d’identità. Sicché in tutto e per tutto si poteva poi stabilire che quelle (probabilmente) erano donne.
Per una volta la Costituzione è innocente: è invece colpevole un’intera nazione così ubriaca di umiltà e di comprensione per gli altri, da rinnegare i propri principi, le proprie leggi e se stessa. Quando si arriva a questo punto, si è pronti per il servaggio.
__________

Mentre l’art.8 sarebbe utilissimo - sempre che ci si ricordasse del proverbio inglese per cui “When in Rome do like the Romans do”, quando sei a Roma comportati come i romani - l’art. 10 brilla per la sua inutilità: “L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”.
Innanzi tutto ci si riferisce a un mito, ad un’araba fenice. Infatti non esiste un “codice del diritto internazionale”. Per giunta, se esistesse, manca comunque il “Super-Stato” capace di applicarlo con la forza. Dunque non servirebbe a niente.
In realtà esistono solo i trattati fra due o più Stati e le norme valgono – anzi, dovrebbero valere – fra loro soltanto. Non per caso il principio fondamentale di questo diritto è: “pacta sunt servanda”: si ha il dovere di rispettare i patti. Come si vede, si parla di un dovere morale, di lealtà e di correttezza: perché nulla, salvo la reazione della controparte, impedisce ad uno Stato di violare i trattati firmati. E se effettivamente quella reazione si ha, e porta allo scontro, non è che si discuta di diritto internazionale: ci si misura esclusivamente sul terreno della nuda forza.
L’articolo, che sembra scritto da gente che viene dalla Luna,  non solo parla di diritto internazionale come se avesse un suo contenuto, ma accenna a “norme generalmente riconosciute”. Generalmente riconosciute da chi? Perché se l’incaricato della bisogna è lo Stato Italiano, in definitiva l’osservanza della norma è demandata allo stesso Stato Italiano. Ritorno alla casella di partenza.
Dell’articolo 10 si poteva fare tranquillamente a meno. (il Legno storto)

Perché una piccola impresa non vale un Sulcis. Nicola Porro

Ci sono delle emergenze che sono riconosciute tali dall’universo mondo. E altre, più gravi, che restano invisibili. Il mondo del lavoro in Italia gira esattamente così. I 500 minatori del Sulcis sono, anche per la spettacolarità della loro protesta, gli «angeli neri» da mantenere a tutti i costi (beninteso della collettività) esattamente nel loro improduttivo posto di lavoro. Artigiani, commercianti, agricoltori che chiudono battenti restano degli invisibili (a cui si dovrebbero aggiungere anche partite Iva e 50enni senza più lavoro). Eppure i loro casi sono numericamente e socialmente molto più pesanti.
Nell’ultimo anno sono morte 14mila imprese artigiane. Ovviamente esse sono fatte dall’artigiano, spesso dalla sua famiglia, e dai collaboratori. Converrebbe moltiplicare il numero delle chiusure almeno per tre, per dare una dimensione occupazionale. Nel primo trimestre sempre del 2012 hanno chiuso più o meno lo stesso numero (13.300) di imprese agricole. L’anno scorso il saldo tra nuove imprese e cessazioni di vecchie nel mondo del commercio (come notava sempre bene Dario Di Vico ieri sul Corriere della Sera) è stato negativo: 30.000 esercizi commerciali hanno tirato giù la saracinesca. Si noti bene, i numeri che abbiamo fornito sono quelli ufficiali e rappresentano il saldo netto (chiusure meno aperture di nuove imprese) e per di più soltanto di comparti ben censiti dalle nostre Camere di commercio.
Si tratta di un fenomeno impressionante. Ma per pochi. In realtà la politica (e non solo da oggi) si impressiona poco per emergenze invisibili come queste.
Perché i minatori del Sulcis (non ce ne vogliano, ma è l’ultimo caso di industria assistita e improduttiva che viene salvata pro-tempore dai governi) vale più di bar, falegnami o contadini che saltano?
1. La piccola impresa in Italia, sarebbe meglio dire quella micro, è stata bombardata negli ultimi trent’anni da cattiva fama. Un commerciante che chiude (si perdoni la rozzezza dell’analisi, ma si capirà solo tra poco il senso) è un evasore in meno. Un artigiano che fallisce è un vecchio mestiere che non ha saputo innovarsi. E l’agricoltura poi? Con quella tassazione forfettaria che ha come pretende una sia pur minima compassione? Dunque il primo aspetto dell’invisibilità nasce dalla scarsa considerazione etica (verrebbe da dire) che la cultura dominante ha avuto nei confronti della piccola impresa.
2. Un interesse piccolo ma concentrato (i minatori, gli operai della fabbrica tal dei tali) ha più capacità di influenza sulla politica e sull’opinione pubblica di quanta ne eserciti un interesse molto più vasto (migliaia di commercianti che chiudono bottega) ma diffuso sul territorio e parcellizzato.
3. È di tutta evidenza che per la politica sia molto più interessante soddisfare la richiesta relativamente piccola di un gruppo ben identificato di persone che le micro richieste diffuse in una categoria. Alle elezioni si va sostenendo di aver salvato una fabbrica, non di aver messo nelle condizioni gli artigiani di non fallire. Per un politico, di qualsiasi gruppo esso sia, è più spendibile aver salvato 500 posti di lavoro che aver fatto riforme che hanno permesso la sopravvivenza di 50mila piccole imprese.
4. La piccola impresa paga il conto di questo paradosso. Citiamo appunto il caso del Sulcis. L’ipotesi di spalmare i 250 milioni di euro di costo annui per la sopravvivenza della miniera sulla bolletta elettrica è la lampante dimostrazione di quanto detto prima. Ogni artigiano, diciamo a caso, pagherà un centesimo in più l’elettricità necessaria per la sua attività. Grazie a quel centesimo i 500 del Sulcis potranno continuare a scendere in miniera. A forza di operazioni simili a questa l’artigiano paga una bolletta elettrica che lo mette fuori mercato e crepa. Il caso degli incentivi al fotovoltaico e all’eolico (ben superiori a quelli del Sulcis) porteranno esattamente a tutto ciò. Soddisfo un’esigenza ben circoscritta ora e distruggo il futuro di molti domani.
5. La classe dirigente non conosce la piccola impresa: si è formata sulla Luna, rispetto alla bottega. Quando una bomba scoppia senza fare una strage, la si definisce artigianale. Se davvero lo fosse sarebbe stata perfetta nel suo potenziale omicida. La classe dirigente ha un’idea nel contempo romantica e arcaica della piccola impresa. Pensa che le grandi città si possano nutrire a chilometri zero, e non capisce che la fatica di un piccolo proprietario terriero non ha nulla a che vedere (sempre con tutto il rispetto) con gli orti maneggiati dai pensionati alla periferia delle città.
6. La microimpresa si ritiene che possa comunque farcela. Insomma è vittima della sua presunta forza. È condannata dalla sua flessibilità e dalla sua capacità di attutire i colpi. Un quarto dei dipendenti italiani (parliamo di tre milioni di persone) lavorano per imprese con meno di nove addetti. Ebbene, sapete quali sono le imprese che nell’ultimo anno hanno licenziato di meno? Proprio queste ultime. Sono il vero ammortizzatore sociale dell’Italia: pur di non licenziare in una congiuntura come questa stringono la cinghia. (il Giornale)
VN:F [1.9.3_1094]

lunedì 3 settembre 2012

Se vi fosse una corretta informazione, l'Italia sarebbe molto meno allo sfascio. Giuliano Cazzola

Che in Italia si stia giocando da tempo allo sfascio (nell’interesse di chi non è dato comprendere) sembra evidente. L’offensiva delle si è spinta fino ad assediare il Colle, l’ultima Cittadella della tenuta del sistema politico-istituzionale, che, se dovesse cadere, lascerebbe il Paese in mano al caos.

C’è molta differenza tra l’attuale situazione e quella che, una ventina di anni fa, caratterizzò la vicenda di Mani Pulite. Allora il disegno politico sottostante a quell’operazione (vi fu davvero una regia dei servizi segreti?) tendeva a colpire una parte del mondo politico e a salvarne un’altra (la cosa divenne più volte esplicita), a cui sarebbe stato consegnato su di un piatto d’argento il potere e il compito di governare il Paese. I registi seppero persino distinguere tra le correnti e le diverse tendenze interne ai partiti: della Dc salvarono le componenti di sinistra, dell’ex Pci colpirono settori dei c.d. miglioristi. Ma non applicarono mai, visibilmente, l’assunto ai vertici di quel partito. Per loro disgrazia (e per nostra fortuna) i loro calcoli andarono in fumo perché un versatile imprenditore (che Achille Occhetto minacciava di mandare ) si accorse che e sfidò la dei Progressisti, raccogliendo, intorno ad una classe dirigente improvvisata, la gran parte dell’elettorato dei partiti spazzati via dalla offensiva giudiziaria.

Sono note le vicende che seguirono quell’evento: da allora a Silvio Berlusconi venne dichiarata una guerra implacabile che è ancora in atto, le cui conseguenze furono di volta in volta contraddistinte da sconfitte, risalite, vittorie e di nuovo sconfitte, in un braccio di ferro, senza risparmio di colpi, che ha dato avvio ad una lotta politica priva di principi, che ha asservito ed abusato dei più delicati meccanismi istituzionali e logorato il tessuto democratico del Paese. Ma in tutti questi anni, alcuni settori politici, economici ed istituzionali, furono risparmiati. E ad essi si poteva fare ricorso nei momenti difficili. Si pensi al ruolo svolto dalla Banca d’Italia. Ma anche a quello degli stessi governi di centro sinistra che, con Romano Prodi, furono protagonisti delle scelte fondamentali compiute dal Paese per l’Unione europea, il suo allargamento e la moneta unica.

Questo tessuto connettivo oggi è messo in discussione: il vento e le forze dell’antipolitica – alimentati con impegno e meticolosità – non salvano nessuno e soprattutto – questo è il guaio – non sono in grado di rappresentare un’alternativa. Non sono capaci di nessuna proposta politica idonea a gestire una società complessa e in grave difficoltà; sanno solo fomentare un odio fine a se stesso, andare alla ricerca di , fare promesse irrealizzabili, indicare scenari che porterebbero al disastro. Questa offensiva delle forze del caos non risparmia nessuno, neppure il tentativo – rappresentato dal governo Monti – di mettere in campo la longa manus dei poteri forti e delle grandi lobby europee ed internazionali.

Queste analisi, tuttavia, sono ormai tanto palesi da divenire inutili sottolineature di quanto accade, tutti i giorni, sotto i nostri occhi. Chi scrive – che ha una visione oltremodo pessimistica del futuro – non riesce, però, a capacitarsi del ruolo che, in una fase delicata come l’attuale, svolge l’informazione. Capisco che si tratta di un discorso delicato che rischia di essere mal interpretato, anche garantendo di non avere alcuna nostalgia per la censura (e l’autocensura) e le (di carta e non in carne ed ossa). Senza dover ricorrere ad iniziative legislative, sarebbe sufficiente che gli organi di informazione adottassero un codice deontologico. Perché prestarsi allo delle persone tramite la pubblicazione di intercettazioni telefoniche prive di qualunque rilievo penale?

Ma ciò che trovo ancor più inaccettabile è il modo con cui i media presentano la vita economica e sociale del Paese. Il motivo comune di tutti i talk show televisivi è quello dello sfascio senza speranza, della rabbia priva di sbocchi. Anche i casi delle grandi vertenze del lavoro vengono presentati in modo esasperato come se si dovesse parlare alla pancia e non alla testa dei cittadini. Consideriamo per un momento le vicende della CarboSulcis e dell’Alcoa, in Sardegna. Quei lavoratori in lotta vanno sicuramente tutelati anche sul piano dell’informazione. Ma perché nessuno si sforza di spiegare che quella miniera e quella fabbrica chiudono non perché i padroni sono cattivi e i governi inefficienti, ma perché vi sono regole di mercato e condizioni produttive che non consentono di mantenere in vita, in modo proficuo, quelle attività? E che non ha senso impiegare risorse importanti per sostenere posti di lavoro divenuti improduttivi, ma che, anzi, questo è il modo per remare contro lo sviluppo?

I sindacati ne sono consapevoli, ma anche loro vengono travolti dall’impatto sull’opinione pubblica, che ad un certo punto – si veda l’atto di quell’operaio che si è tagliato un braccio – induce a gesti clamorosi sul piano mediatico, come se fossero i soli a contare. Certo, non bastano le promesse, servono i fatti. Ma è un conto condurre campagne orientate a cercare delle alternative, un altro difendere accanitamente la realtà esistente se è ormai insostenibile. Io poi continuo a non capire perché i sardi, che vivono in un’isola tra le più belle del mondo, non riescano ad apprezzare e a valorizzare l’industria del turismo (che per esempio ha fatto la fortuna della riviera romagnola), mentre continuino a coltivare alcuni dei mestieri – quali la pastorizia e il lavoro in miniera – tra i peggiori come condizioni di lavoro e di vita. Le culture, le tradizioni sono importanti, ma possono e devono poter cambiare. (l'Occidentale)

La disoccupazione e i lavori rifiutati. Michele Marsonet

Chissà perché i discorsi di buon senso, in Italia, risultano sempre difficili da fare. Dovrebbe essere il contrario, se fossimo un Paese normale. E invece non lo siamo, ci piaccia o no. Voglio inoltre chiarire sin dall’inizio che non intendo utilizzare argomentazioni astratte. Non parlo del “common sense” tanto caro alla scuola filosofica scozzese – purtroppo poco conosciuta in ambito italiano – ma del termine quasi banale “buon senso”, quello che adoperiamo a piene mani nelle nostre conversazioni quotidiane.

Il tema è il mercato del lavoro. Giorni addietro ho scritto un articolo, pubblicato su L’Occidentale, in cui parlavo della cosiddetta “generazione perduta”, quella formata da persone che si collocano fra i 30 e i 40 anni, sottolineando come le generazioni anziane siano responsabili della situazione in cui i più giovani si trovano per aver fatto loro trovare un mercato del lavoro asfittico – e a volte inesistente – che li rende vittime di un precariato permanente (quando va bene!).

Resto in sostanza della mia idea. Abbiamo sperperato risorse che, letteralmente, non c’erano, garantendoci uno stile di vita che non potevamo permetterci. La classe politica ha colpe enormi, ma non si venga a dire che tutto, ma proprio tutto, è imputabile ai politici. Siamo, in realtà, complici di una mentalità diffusa, che ha indotto a ritenere per anni che lo Stato avesse risorse infinite. Valeva il famoso detto “Tanto paga Pantalone!”.

E invece le risorse infinite non c’erano affatto, tanto che siamo sommersi da un debito che è quasi interamente nelle mani dei mercati internazionali i quali, si sa, non sono teneri. Pretendono giustamente la restituzione delle somme investite, ragion per cui ogni asta dei nostri buoni del tesoro diventa un thriller. Se l’asta fallisse si manifesterebbe concretamente il rischio di non poter pagare stipendi e pensioni, con tutto ciò che ne consegue. Per ora non è accaduto, domani potrebbe verificarsi.

E’ vero quindi, come ho scritto nell’articolo dianzi citato, che stiamo uccidendo la speranza dei giovani nel futuro. E questa è una colpa gravissima, per non dire imperdonabile. Tuttavia alcuni lettori, nei loro commenti “a caldo”, mi fanno notare che, forse, varrebbe la pena di piantarla con i piagnistei. Poiché – argomentano – pure i giovani hanno le loro colpe. Si tratta probabilmente di colpe “riflesse”, dal momento che noi li abbiamo educati e hanno assorbito il nostro modo di rapportarsi al mondo circostante.

I nostri nonni – e anche i padri – nei due dopoguerra emigravano in massa per trovare lavoro all’estero. La cosa destava sconforto ma la vita continuava, magari fondando comunità italiane ai quattro angoli del mondo. Poi è iniziato il flusso contrario. L’Italia, da terra di emigranti, è diventata un Paese che “importa” lavoratori stranieri in grandi quantità. Importante è capirne i motivi.

Non sono poi così misteriosi come sembra. E’ accaduto che, a un certo punto, gli italiani hanno iniziato a rifiutare molti tipi di impiego. Talora perché pagati poco, più spesso poiché vengono ritenuti “degradanti” o poco soddisfacenti dal punto di vista del prestigio sociale. Si è diffuso il mito della laurea a tutti i costi, anche quando è chiaro che serve a poco o niente, e sono stati lasciati agli immigrati stranieri interi settori economici che avevano – e ancora hanno – un grande bisogno di addetti.

Gli esempi si sprecano. Gli artigiani, in tutti i sensi della parola, sono diventati merce rara. Più difficile reperire l’idraulico e l’elettricista del medico. I restauratori di mobili, pur ben pagati, sono anch’essi pochi e hanno liste d’attesa degne di un illustre primario.

Ma c’è un caso ancora più eclatante e ben noto. L’età media della popolazione italiana negli ultimi decenni è aumentata in modo prima impensabile. Ne è derivata la necessità di trovare persone che assistano gli anziani in modo continuo, per l’intera giornata e spesso anche di notte. Gli anziani sono tantissimi e, di conseguenza, anche il numero di chi presta assistenza domiciliare è destinato a crescere sempre più. Si tratta di un lavoro difficile e delicato che, tra l’altro, garantisce pure una remunerazione dignitosa.

Si trovano italiani/e disposti a operare in questo settore così in crescita? Casi rarissimi. Siamo stati invasi – nel senso buono della parola, per carità – da “badanti” che provengono per lo più dal Sud America o dai Paesi dell’Est che una volta appartenevano al blocco sovietico. Svolgono, di solito, un ottimo lavoro, ma non si capisce il motivo che spinge quasi tutti i nostri connazionali a rifiutarsi di fornire prestazioni di quel tipo, tra l’altro così importanti. O, meglio, lo si capisce benissimo: il nome “badante” viene considerato una sorta di offesa alla propria dignità sociale e, allora, si volta la testa dall’altra parte.

Non voglio farla troppo lunga dal momento che si possono facilmente trovare decine di esempi altrettanto calzanti. A questo punto, però, urge chiedersi se il mercato del lavoro nostrano sia davvero così asfittico come si vuole far credere. Dipende. Se tutti aspirano a una professione che implichi la laurea e fornisca subito alti guadagni, allora lo è. Se invece viene considerato nel suo complesso lo diventa assai meno, con interi comparti che assorbirebbero notevoli quantità di mano d’opera in un periodo di crisi economica tanto grave.

Sarebbe necessario un radicale cambiamento di mentalità, che può solo essere indotto da un’educazione – familiare e scolastica – destinata a non svilire, per esempio, le professioni manuali esaltando quelle di tipo intellettuale. Una sorta di “rivoluzione educativa” assai difficile da realizzare visti i modelli culturali dominanti, dei quali noi stessi siamo portatori e abbiamo in seguito trasmesso ai nostri figli.

Più facile a dirsi che a farsi, naturalmente, anche perché la crisi incalza e il sistema Italia continua a perdere colpi nello scenario mondiale. Il mio è un discorso terra terra, di “buon senso” come dicevo all’inizio. Però forse aiuta a capire che il mito del mercato del lavoro italiano asfittico o inesistente è, per l’appunto, solo un mito. Esistono vasti settori del mercato in cui i nostri connazionali neppure si curano di mettere il naso, per paura di una presunta degradazione sociale. E tale situazione non può durare a lungo, se si vuole che il Paese torni finalmente a crescere sviluppando le sue indubbie potenzialità. (il Legno storto)

domenica 2 settembre 2012

La brillante Operazione Interceptor. Mario Sechi

Image
Il Tempo - La ricostruzione delle telefonate di Giorgio Napolitano sul settimanale Panorama? Un complotto di Berlusconi. Rieccolo, il Cavaliere nero, per la sottile goduria degli avversari che se ne sentivano orfani. Davvero quelli del laghetto di Segrate hanno ordito una perfida trama contro il Quirinale, in piena sintonia con il di Silvio sulfureo spirito? Ezio Mauro lo pensa e lo scrive, altri lo strillano, altri sussuranno poco convinti, molti altri sotto sotto ci sperano. Mettiamo che abbia ragione il direttore di Repubblica. Bene, quali strabilianti risultati sono stati ottenuti dal Pdl con l’Operazione Interceptor? Eccoli: 1. Il pm Ingroia ha potuto dire che si tratta di un «ricatto» e ha assunto il ruolo di paladino e difensore di Napolitano; 2. La Procura di Palermo, un colabrodo, piena di toghe litiganti, ha ritrovato la voce e dopo aver combinato il pasticcio delle intercettazioni, ora recita la parte della signora sdegnata per l’assalto al Colle; 3. Una storia tutta interna alla sinistra, che stava lacerando il Pd e i suoi intellò di complemento, separando le truppe parlamentari e i descamisados, i sinceri democratici e gli ipocriti torquemadisti, i giornaloni e i fogli da sbarco, si è autoribaltata al punto che quel mondo ora ha ritrovato l’unità contro Berlusconi; 4. Giorgio Napolitano esce dalla vicenda rafforzato, un gigante in mezzo ai nani, un presidente che prende carta e penna e scartavetra in faccia a tutti di «non essere ricattabile» e tanti saluti a chi ci prova; 5. Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio e Antonio Padellaro ha colto la palla al balzo per alzare l’indice e «l’avevamo detto», cribbio, che tutto nasce ad Arcore, e il Quirinale non deve temere Noi ma Lui; 6. Dulcis in fundo, Lui, Berlusconi, il grande burattinaio, di fronte al brillante successo raccolto dall’Operazione Interceptor, sente l’impellente bisogno di festeggiarne l’esito con un’intervista al Foglio per spiegare che ha stima di Napolitano, quant’è bravo Napolitano, ineccepibile Napolitano, evviva Napolitano e che lui in questa storia non c’entra un fico secco. Dice un parlamentare che di legislature ne ha viste un bel po’: «Nella Prima Repubblica i partiti giocavano per vincere. Nella Seconda giocano a chi fa più autogol». Nel Pdl (e prima in Forza Italia) questa tattica di gioco kamikaze è ben collaudata. Se fosse vera la teoria del complotto, Berlusconi e i suoi consiglieri di guerra avrebbero messo a segno un blitz da guinness dei fiaschi politici. Nessun partitante con un po’ di esperienza mette in piedi un così sgangherato teatrino dei pupi senza avere la sapienza di un puparo. Ecco perché non ci credo. Se questo è un complotto, gli sceneggiatori del Pdl che lavorano agli action movie di Silvio hanno un grande futuro. Nel cinema comico.

Fisco, ozio e negozio. Davide Giacalone

Quando si regredisce occorre rimboccarsi le maniche e, fra le altre cose, lavorare più numerosi e per più tempo. Meno ozio e più negozio. L’Italia reagisce alla recessione portando al lavoro meno persone, che lavorano per meno ore. Inutile chiedersi come andrà a finire. L’Istat ha aggiornato i dati sulla disoccupazione e qualcuno s’è messo le mani nei capelli per quel durissimo 10,5%. Tranquilli, è un dato tarocco. La media della disoccupazione, in Europa, e dell’11,3. Cercavamo di spiegare, anche al precedente governo, vaneggiante, che quella italiana è assai più alta, perché ai disoccupati ufficiali si devono sommare quelli che non lavorano ma prendono i soldi (cassa integrazione) e quelli che non risultano nelle statistiche perché il lavoro non lo cercano o non lo cercano con i canali ufficiali. Inutile, allora, allarmarsi per un dato che rimpicciolisce il problema. Un dato che piace a tutti i governi, per fare confronti fasulli.

La crisi brucia posti di lavoro, non andando a lavorare i cittadini non producono e non ottengono reddito, non avendolo non spendono e non spendendo accrescono la crisi. E’ un cane che non solo si morde la coda, ma si mangia direttamente le chiappe. Rompere il maleficio si può, a patto di attenersi alla realtà, incenerire gli ideologismi fessi, bandire il moralismo e smontare il satanismo fiscale. Ecco due dati che devono far riflettere: a. l’Eurispes osserva la distanza fra i redditi dichiarati e i consumi reali, segnalando una differenza originata da mercato sommerso, che si allarga mano a mano che si va verso sud; b. non solo tale differenza si vede ad occhio nudo, ma se si gira per le zone a più alta disoccupazione, cominciando dalla Sicilia, si trovano numerosi punti (ad esempio MoneyGram) utili per trasferire denaro all’estero. Ma se non c’è lavoro e si diffonde la povertà, cosa diavolo si trasferisce? Sono sportelli usati dagli immigrati, che se non sono clandestini comunque lavorano in nero o in grigio (parte regolarizzati e parte no), producendo ricchezza, vivendone e spedendone parte alle loro famiglie. A questo punto il moralismo imporrebbe d’insorgere e proclamare la guerra santa contro l’evasione fiscale e restituire il maltolto al saggio esattore. Tutti fingono di applaudire, in un tripudio d’ottusa ipocrisia, ma questa è la ricetta perfetta per distruggere ricchezza e consegnarne quel che avanza a chi non la farà fruttare.

Invece abbiamo bisogno di creare lavoro, quindi dobbiamo smetterla di pensare che le garanzie stiano tutte nella legge e nei limiti che si pongono all’imprenditore, perché le opportunità stanno nel mercato, nella sua crescita e capacità di dare lavoro. Fin quando penseremo che le imprese sono un succedaneo dello stato sociale, incaricate non di produrre ricchezza, ma di assicurare sicurezza ai propri lavoratori, produrremo solo miseria, fallimenti e licenziamenti. Questo i lavoratori lo sanno meglio delle loro rappresentanze sindacali e politiche (ammesso che esistano), e lo hanno dimostrato. Fin quando prenderemo i percettori di reddito e ne faremo dei produttori di gettito fiscale, anziché dei consumatori liberi e dei risparmiatori responsabili, otterremo solo il diffondersi della paura e della sfiducia.

Se a queste pratiche lungimiranti associamo anche una riforma del lavoro che rende più difficile l’ingresso di nuovi assunti, nel mentre il medesimo governo scambia la sopravvivenza di una miniera improduttiva con la tutela degli interessi di chi ci lavora, prolungando l’allucinazione secondo cui i soldi che servono a perdere soldi possano assicurare benessere a chicchessia, oppure s’inventa le società con capitale sociale di un solo euro, salvo imporre oneri trecento volte superiori e, naturalmente, senza che vi sia una sola possibilità al mondo che quelle false imprese trovino credito, il tutto fissando in legge che si è giovani fino a 35 anni, mancando solo che si mandi alla scuola dell’obbligo fino a 30 (così si creano altri posti improduttivi per analfabeti cattedratici), se facciamo cose di questo tipo allora sì che il futuro si presenta rosero. Ma solo per quelli che sono così sciocchi da crederci, o hanno la faccia così tosta da sostenere roba di questo tipo.