martedì 31 marzo 2009

Il caimano e le oche. Davide Giacalone

Servono più poteri, per il governo e per chi lo presiede. E’ un’esigenza che hanno sentito e manifestato tutti, a turno. Compresa già nei lavori della commissione Bozzi, nel lontano 1983. Il guaio è che confligge con lo “spirito della Costituzione”, che molti evocano a sproposito e che volle, per l’Italia, un governo debolissimo.
I fronti sono due: a. i poteri del presidente dentro al governo, consentendogli di guidarlo effettivamente, e non solo a chiacchiere, di nominare i ministri, ma anche di revocarli; b. i poteri del governo in Parlamento, in modo da consentire all’esecutivo di imporre il calendario di lavoro, senza ricorrere patologicamente alla decretazione d’urgenza. I ragionanti condividono questi obiettivi, senza distinzione di schieramento. Da ultimo, infatti, erano ingredienti della commissione bicamerale presieduta da D’Alema. Il fatto è che si costituzionalizzò l’equilibrio dell’impotenza, nel presupposto che il governo fosse più il covo di possibili regimi che non la sede dove s’amministra l’Italia. Contò l’epoca, con l’esperienza fascista appena alle spalle, ma contò anche la forte presenza comunista, così come il non dominio degasperiano, in quel momento, sul partito dei cattolici. Non ci si fidava, insomma, ed era meglio non dar poteri.Negli anni della solidarietà nazionale, con la presidenza della Camera affidata al comunista Ingrao, la situazione s’aggravò, con fior di costituzionalisti che sbrodolavano sulla “centralità del Parlamento”, il cui reale significato era: si decide qui, in accordo con il Pci, e non a Palazzo Chigi. Ecco, quella roba è ancora in piedi, ma senza più né protagonisti né ragioni. Disfunzione allo stato puro.
Si potrebbe voltare pagina, sarebbe ora. Si dovrebbe farlo in Parlamento, senza preclusioni di schieramento. E qui casca l’asino. Ciascuno tende ad impedire che l’altro lo faccia, felice di vederlo annaspare nell’inconcludenza. Oggi tocca alla sinistra, che, evidentemente, non trova abbastanza convincente, o divertente, lo spettacolo di un Berlusconi che periodicamente si presenta nuovo e scalpitante, come se non avesse mai governato. Se fossero saggi, gli toglierebbero la possibilità di scaricare altrove il peso degli insuccessi, ma sono occupati a far credere che la libertà è in pericolo. Lui caimano, loro oche.

La Duna, la Punto e la Santa Marea. Vittorio Macioce

A Cassino ancora non lo sanno. Ma tocca a loro salvare l’America. Obama sta lì, lontano mille miglia, alto, bello, con le sorti del mondo sulle spalle e lo sguardo fisso a Detroit. Strizza un po’ gli occhi e guarda la capitale mondiale dell’auto, milioni e milioni di fabbriche, pistoni, bielle, gomme, gommisti, autoricambi. Ma quello che vede è solo fallimento e rovine. Allora va oltre, cerca più in là, e tutto un popolo osserva, con un’ansia tachicardica, il suo presidente. E si chiede: chissà cosa sta pensando? Chissà cosa ha in mente questo grande uomo, quello del destino, per tirarci fuori dalla crisi, per salvare la Chrysler e la General Motors, le nostre auto grosse, spaziose, ruggenti, con i parafangoni pensanti, le mustang e il fordismo e questa cavolo di città dove si sta talmente male che i giornali non li vendono più, ma li regalano? Risposta.
Silenzio. Brevi sussurri. Obama guarda negli occhi tutto il suo popolo e dice: «Cassino». Cassino? Eh sì, Cassino. What’s Cassino? Seconda guerra mondiale, paisà, la linea Gustav e l’abbazia, le bombe, l’amaro benedettino. E non solo Cassino, ma anche Pomigliano d’Arco, Mirafiori, Termoli, il Lingotto, Termini Imerese, l’Alfasud, la Bravo, la Brava, l’850 Special, il Fiorino, la Panda mille, quella quattro per quattro, Lama, Carniti, Benvenuto, la Palio, la Millecento, dribbla Causio e passa a Tardelli, la 600, la 600 multipla, la Multipla, l’avvocato Agnelli, la marcia dei quarantamila, Torino, i terroni, Romiti e i metalmezzadri. La Uno, la Cinquecento, la Topolino amaranto. Insomma, la Fiat. E Fiat lux.Sì, la Fiat, quella che doveva fallire, quella che chissà chi se la compra, quella che Torino ha perso l’anima da quando Agnelli se ne è andato via. La Fiat utilitaria, con il cambio che va a doppietta, con le portiere che fanno strack e la 127 che sarà pure un trattore ma non la fermi neppure con un Cruise terra aria nel radiatore. Obama dice che in questa America a stracci, dove i macchinoni non si vendono più, c’è bisogno di qualcuno che sappia farle piccole, belle e che consumino poco. Ecco, noi siamo perfetti. Ci siamo sorbiti l’austerity, il petrolio che scende e la benzina che sale, le città senza parcheggio, le autostrade a una corsia e mezzo, canotti, braccioli, remi, ombrelloni, fornelletti da spiaggia, dodici chili di amatriciana, quattro persone più la nonna oversize in una vecchia Cinquecento. Meglio di noi neppure i giapponesi. Obama dice che l’America ha bisogno di nuove tecnologie. Perfetto. Finestrini che si alzano tranquillamente con le mani senza bisogno della manopola stranamente rotta, secchi per raccogliere l’acqua che scende dall’antenna, autoradio che prendono in qualsiasi punto dell’universo, da Katmandu a Roncobilaccio, invariabilmente Radio Maria, portapacchi a prova di ippopotamo, catene da neve così sofisticate che per montarle serve un corso di ingegneria di bricolage (avanzato), gomme e ammortizzatori sopravvissuti a tutte le buche, buche con acqua, crateri e orme preistoriche di dinosauri a cingoli. Nessuno, davvero, come noi. E Obama, l’uomo del destino, tutto questo lo sa. Ha studiato. Si è informato e ha pensato: in fondo questi ci hanno scoperti, ci hanno spiegato come si fanno i western e prendono l’auto anche per andare al bar sotto casa. Ci salveranno. E, in fondo, come diceva il vecchio Henry Ford: giù il cappello, passa un’Alfa.
A Cassino ancora non lo sanno. Ma anche se questo è un mondo alla rovescia, quando quelli di Detroit gli chiederanno: ma voi potete fare macchine così piccole e salvarci dalla crisi? Ognuno di loro dirà, spolverando un dialetto ciociaro tutto a stelle e strisce: «Yes I Can». Bastano tre caravelle: la Duna, la Punto e la Santa Marea. (il Giornale)

lunedì 23 marzo 2009

"Italia paese a rischio", Almunia frena

La Commissione europea smentisce oggi nella maniera piu netta che il commissario agli affari monetari Joacquin Almunia abbia ieri affermato che l’Italia è tra «i Paesi a rischio » con la crisi economica, come scrivono oggi alcuni quotidiani italiani.

«Almunia non ha detto quello che leggo in particolare su Repubblica, e d’altra parte le parole che vedo nel titolo non appaiono nell’articolo», ha detto la portavoce Amelia Torres. Secondo la portavoce si tratta di una «estrapolazione fatta per articoli tendenziosi. La situazione è abbastanza grave e i mercati sono già abbastanza agitati, non è serio né responsabile comportarsi in questo modo».

Almunia non avrebbe detto ieri che «l’Italia è a rischio», ma secondo quanto riporta la portavoce il commissario avrebbe detto che «ci sono alcuni Paesi che in passato non hanno fatto gli sforzi necessari per le finanze pubbliche e che ora hanno ancora un debito elevato che permette pochi margini di manovra, ma in questo non c’è nulla di nuovo». Ripeto «dalla stampa trovo poca serietà e poca responsabilità». Torres ricorda poi che il consiglio Ecofin ha già preso una posizione sulla situazione italiana e sui provvedimenti presi esprimendo un giudizio favorevole. (la Stampa)

Da Violante a De Magistris. Davide Giacalone

La ragione di Violante è il suo torto. L’eclissi della critica la sua disonestà. Cerca ancora un ruolo per sé, convinto d’essere l’unico in grado di rimediare ai guasti provocati, invece è vivente testimonianza del vicolo cieco e reazionario in cui ha infilato la sinistra giustizialista. Oggi dice non che a De Magistris si dovrebbe proibire la candidatura, ma che l’etica civile e politica dovrebbe suggerire di non candidare magistrati troppo in vista. Come fu Violante, il quale crede di risolvere la questione dicendo: mi dimisi da magistrato ed accettai la candidatura tre anni dopo essere divenuto famoso (perseguitando un partigiano democratico ed innocente, Sogno, per la storia).
La scusa è ridicola, ma prima ancora irrilevante. Il guaio non è stato (solo) quello di avere portato in politica alcuni magistrati star, bensì quello di avere traslocato la politica nelle aule di tribunale ed avere trasformato il Parlamento in un tribunale illegittimo. E questa è opera di Violante. Il più bravo, la mente più acuta, nello sfasciare sia la politica che il diritto. Lo mosse una lucidissima premessa: era comunista, ed i comunisti potevano guadagnare voti, ma mai vincere le elezioni, così sostennero, cinicamente, prima l’illegittimità dei vincitori, poi, spietatamente, la loro criminalità. Per riuscirci, Violante utilizzò la debolezza della magistratura, che conosceva dall’interno, la sua connivenza con il potere governativo, le bassezze dei suoi uomini. Costruì una rete di missionari del bene, per ciò stesso pessimi magistrati. Usò sia le loro ambizioni che la loro ottusità ideologica. Diede agli altri protezione corporativa. Estese le maglie fino a settori dei servizi e della polizia, a loro volta bisognosi di protezione giudiziaria. Eccellente creatore d’inquisizioni, creò la teoria del doppio Stato e del terzo livello, per far valere la quale dovette far fuori il più solido sostenitore del contrario: Giovanni Falcone. A quel punto era pronto, ed il risultato s’è visto.Certo, come il gattopardiano principe di Salina, si sente un leone, mentre De Magistris deve sembrargli un sorcio. Capisco, ci mancherebbe. Ma il suo senile e tramontante tentativo di coprir le tracce, finisce con lo sminuire la grandezza del disegno perseguito. Costato all’Italia anni d’inciviltà.

sabato 21 marzo 2009

Preservativo culturale. Davide Giacalone

La presunta laicità ha recato una nuova offesa alla ragione. Da laico, me ne dolgo. Benedetto XIV ha sostenuto che i preservativi non sono indispensabili a combattere la diffusione dell’Aids. Sono controproducenti. La seconda cosa, ovviamente, allude alla promiscuità sessuale. Tutta roba detta e ridetta, né in Vaticano hanno mai sostenuto il contrario. Il sesso è lecito, per loro, solo come coronamento dell’amore, santificato dal matrimonio e destinato alla procreazione. Amen. Tale dottrina è legge solo nei Paesi islamici, ci pensino.

Dalle nostre parti vige la laicità: le leggi non considerano reato il peccato ed a ciascuno è consentito manifestare le proprie opinioni. Perché, allora, dei governi si sentono in dovere di criticare le parole, ovvie, del capo della cattolicità?Il giorno appresso Benedetto XVI ha detto che si devono rifiutare violenze e totalitarismi. Mi è sfuggito l’applauso di quei medesimi governi, spesso in affari con regimi violenti e totalitari. E sarebbe niente, perché solitamente tacciono davanti agli stupri della libertà e della dignità perpetrati nel mondo islamico. Non protestano quando s’impedisce alle donne di scoprirsi. Protestano una volta sì e dieci no quando degli omosessuali vengono impiccati o quando una moglie viene lapidata. Se vogliono radere al suolo Israele, si sollecita il dialogo. Il multiculturalismo è divenuto rincoglionimento dei valori, per cui devo rispettare l’inciviltà altrui, ma devo mostrarmi sensibilissimo se dal mondo cristiano arrivano proposte ed idee diverse dalle mie. Senza che, peraltro, l’avversione ai preservativi sia accompagnata da minacce fisiche contro chi persevera ad incappucciarsi.
Sono favorevole ai mezzi anticoncezionali e dei preservativi si suggerisce l’uso anche quando tale ipotesi è esclusa: fra maschi omosessuali. Vivo nel mondo civile, nel quale chi la pensa diversamente può sia esprimersi che far valere le proprie opinioni. Avverto, però, il disagio d’assistere ad uno smottamento culturale, con governanti pronti ad ascoltare un imam, sentendosi strafichi perché accolgono la sua diversità religiosa, e non meno pronti a scandalizzarsi se un prete ripete i precetti nei quali sono cresciuti. Sono gli stessi che si dicono fedeli, a patto di non dovere rispettare alcuno di quei precetti.

giovedì 19 marzo 2009

Quei vasi comunicanti. Piero Ostellino

Un altro magistrato, Luigi De Magistris, ha deciso di entrare in politica, presentandosi nelle liste di un altro magistrato entrato in politica, Antonio Di Pietro. De Magistris ha dichiarato che la sua scelta è «irreversibile ». Ma il vicepresidente del Csm Mancino aveva già esortato i magistrati che fanno il loro ingresso in politica a «non tornare alla toga». Negli ultimi anni ci sono stati infatti troppi episodi di andirivieni tra magistratura e politica: da Pierluigi Onorato, tornato in Cassazione dopo anni di vita parlamentare, a Giuseppe Ayala; da Salvatore Senese in lizza per il posto di Procuratore generale della Cassazione dopo un’intensa attività politica, ad Adriano Sansa, che ha ripreso la sua attività di magistrato a Genova dopo essere stato sindaco di questa città.

Un sistema di vasi comunicanti tra magistratura e politica che allarma Mancino, comprensibilmente preoccupato dell’immagine «di parte» che questo giro vorticoso di andata a ritorno produce. E avrebbe scandalizzato Montesquieu, per il quale il potere giudiziario doveva essere «invisibile e nullo», in quanto i giudici altro non avrebbero dovuto essere «se non la bocca che pronuncia le parole della legge». E avrebbe indotto Benjamin Constant a invocare un «potere neutro», che intervenisse per rimettere in riga i tre poteri dello Stato legislativo, esecutivo e giudiziario, entrati, da tempo, in conflitto fra loro. Ma questa commistione fra politica e magistratura — che ha trasformato la seconda in supplenza della prima, secondo il togliattiano «viaggio attraverso le istituzioni», versione repubblicana della gramsciana «conquista delle casematte» della società civile e dello Stato — viene da lontano. Sta in una rilettura deformata e illiberale del secondo comma dell'articolo 3 della Costituzione: «E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Da questo generico principio programmatico —che dice troppo o troppo poco, o forse non dice proprio nulla, secondo quanto don Sturzo aveva scritto, ai tempi della Costituente, di certi articoli della Costituzione—in alcuni settori della magistratura si è fatta largo la legittimazione di una «funzione creativa e progressista » del Diritto; che non si ripromette, come dovrebbe, di applicare la legge, ma di «fare giustizia »; di raddrizzare «il legno storto dell'umanità». Non deve essere il diritto — per dirla con Kant —che si piega alla politica, bensì la politica al diritto. Mentre i magistrati che scelgono un partito sembra che vogliano fare della politica una prosecuzione con altri mezzi del loro diritto «creativo e progressista». Ma ci sono «emeriti» costituzionalisti che hanno detto che, dal 1948—vittoria elettorale della Dc sul Fronte popolare — l'Italia ha smesso di essere quella scritta nella Costituzione. E ce ne sono altri che hanno sostenuto che il principio di legalità è espressione del dominio borghese. Italia, Patria del Rovescio; non del Diritto. (Corriere della Sera)

Il "poverinismo" che beffa gli onesti. Maria Giovanna Maglie

Niente regole, siamo italiani. A un governo che si provi a introdurne, ad attrezzarci finalmente contro i pericoli di qualsiasi emergenza sociale, dalla sicurezza nazionale alla lotta al randagismo, rispondiamo tirando fuori i sentimenti più deteriori di compassione, solidarietà, rinuncia. Almeno questo fanno i membri più esposti e appariscenti, che siano giornalisti lanciati in ruoli pedagogici non richiesti, che siano politici dimentichi del mandato ricevuto; gli altri, maggioranza onesta turbata, non sanno a che santo votarsi per sperare in una vita tranquilla.In tre episodi recenti emblematici dell’emergenza nazionale le polemiche ruotano tutte nella direzione infelice che si potrebbe definire come sindrome del «poverinismo», ovvero poverino lui, poverina lei, povero cane, ma mai una volta poveri noi che ci siamo capitati e siamo vivi per caso.
I cani randagi terrorizzano le regioni del sud, hanno ucciso un bambino e martoriato una turista solo in Sicilia negli ultimi giorni, ma guai a proporne l’abbattimento. Il fenomeno del randagismo è sicuramente frutto di incuria, abbandono, indifferenza degli Enti locali, ma al pericolo reagire si deve, anche a costo di eliminare animali che sono divenuti di fatto un pericolo.Stupratori e maniaci sono un problema serio e grave, ma guai a proporre la castrazione, chimica e reversibile, intendiamoci, come possibile strumento di difesa, peraltro a volte richiesto anche dai condannati che si sentono impotenti a cambiare comportamento. Immediatamente vengono giù tutte le sacre geremiadi sull’inciviltà e la disumanità, e mentre si difendono i criminali, le vittime scivolano nell’ombra, come se di qualcosa fossero colpevoli.
Ai medici che si trovino nelle condizioni di assistere e curare degli stranieri clandestini e dunque illegali nel nostro Paese, si chiede di segnalarne la presenza. Il giuramento di Ippocrate non impedisce di denunciare la presenza di un ferito da un colpo d’arma da fuoco, di un bambino con ferite sospette, di una donna picchiata, anzi questo dovere fa parte del giuramento. Si può legittimamente esigere dal governo rigore nei confronti di chi consente gli sbarchi dei clandestini, un esempio per tutti la Libia di Gheddafi, ma non ha senso gridare alla barbarie se lo stesso governo impone regole e controlli contro l’impunità di chi circola clandestino in Italia. A forza di gridare al razzismo per impedire che i cittadini vengano garantiti, finirà che il razzismo lo provocheranno sul serio. Non facciamoci intimidire. (il Giornale)

mercoledì 18 marzo 2009

Difesa del mercato e libertà sui valori: il nostro contributo al nuovo partito. Benedetto Della Vedova

“Libertiamo” non vuole dire nulla, ma rende l’idea. Il nostro obiettivo è di costituire una polarità liberista e libertaria all’interno del PDL. Nemmeno “polarità”, in questo caso, ha un significato preciso, ma, di nuovo, credo che renda l’idea del progetto.

Con i Riformatori Liberali, che confluiscono oggi nel PDL, abbiamo scommesso su un nuovo centrodestra a guida berlusconiana nel momento in cui la leadership del Cavaliere sembrava a molti esaurita, nel luglio del 2005. Noi pensavamo, invece, che la rottura politica operata nel 1994 non avesse perso la sua forza e soprattutto la sua modernità, e che di lì occorresse partire per costruire attorno ad una leadership forte e ad un programma di governo condiviso, un vasto schieramento moderato e liberale, che contribuisse anche a consolidare in chiave bipolare il sistema politico italiano.

Oggi, ad un anno da un risultato elettorale straordinario e dopo l’esperienza dei gruppi parlamentari unitari, bruciati i vascelli alle spalle, Forza Italia, AN e le altre forze del centrodestra costituiscono formalmente il nuovo partito.

La nostra idea è che il partito, per avere futuro e successo, dovrà assomigliare al suo elettorato. Cosa intendo dire? Che dovrà essere un partito post ideologico, cioè ricco di più riferimenti ideali, di più orizzonti valoriali, di più ispirazioni etico-politiche.

Uno statuto politico-culturale rigido, predefinito, o addirittura confessionale finirebbe per costituire una camicia di forza: per il partito, che ne finirebbe paralizzato, per gli elettori, che ne sarebbero respinti. La libertà dallo stato invadente, il mercato, il merito, il garantismo, la sicurezza, la sussidiarietà, il federalismo, il presidenzialismo: questi obiettivi politici sono “valori” che uniscono e rafforzano un partito che ha l’ambizione di rappresentare la maggioranza degli italiani.

Nelle società contemporanee, sarebbe un errore pensare che il bipolarismo politico rifletta un sostanziale “bipolarismo etico”, articolato attorno a schieramenti che si definiscono e si qualificano in ragione delle opzioni culturali o religiose di chi li vota.

Tutte le indagini, anche le più accurate, mostrano che sui temi eticamente “sensibili” gli orientamenti etico-culturali si distribuiscono all’interno di entrambi gli schieramenti secondo rapporti non troppo diversi da quelli che si registrano nella generalità dell’elettorato. Gli elettori contrari ad ogni forma di riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali, ad esempio, sono “un po’ di più” nel centrodestra e quelli favorevoli “un po’ di più” nel centrosinistra, ma nulla di più.

Le grandi forze del Partito Popolare Europeo con questa realtà hanno già fatto i conti da tempo. In Francia, ma anche in Germania e in Spagna, le posizioni sui temi eticamente sensibili del centrodestra sono improntate al pragmatismo e, casomai, si distinguono da un certo giacobinismo della sinistra che punta, con furore regolatorio, ad un appiattimento burocratico e ad un sistema onnicomprensivo di “diritti”. Ma né in Francia, né in Germania, né in Spagna, il centrodestra ritiene di rispondere alla demagogia dei diritti, con un’uguale e contraria ideologia dei divieti. Nessuna grande forza politica del PPE mostra un approccio pregiudizialmente progressista, ma neppure sposa un’impostazione ideologicamente tradizionalista, contraria ad ogni forma di innovazione civile e impegnata ad arginare la spontanea evoluzione del costume, delle opinioni correnti, dei valori prevalenti e dei comportamenti privati.

Libertiamo non è solo, né vuole esclusivamente apparire, il centro di resistenza ad una deriva ideologica di tipo valoriale. Vuole anche, come ha acutamente riconosciuto Gaetano Quagliariello, resistere a quella “criminalizzazione del mercato” che sembra essere diventato il rifugio ideologico delle vedove inconsolabili del socialismo e l’alibi “politicamente corretto” dei teorici del neo-statalismo. Da questo punto di vista, consideriamo un eccellente viatico per la nostre “provocazioni liberiste” le parole con cui Silvio Berlusconi, intervenendo telefonicamente alla presentazione di Libertiamo, ha individuato la ricetta per uscire dalla crisi: “Non ho dubbi che dall'attuale crisi di mercato si potrà uscire solo rafforzando e, in parte, bonificando il funzionamento del mercato che deve rimanere il solo strumento adeguato alla creazione e diffusione della ricchezza nonché uno strumento di promozione umana ed uguaglianza in campo economico”.

Libertiamo, dunque, non vuole aggregare “i laici”, ma rappresentare una voce laica (mi adeguo ad un linguaggio che non amo) del centrodestra. Non vuole costituire un nostalgico ridotto liberista, ma rifornire la discussione interna al Pdl con quelle buone ragioni del mercato e delle riforme sociali utili per affrontare la crisi e, ancor di più, per la fase successiva.

Arriviamo buoni ultimi e con pochi mezzi rispetto ai preziosi think tank che hanno avuto il merito di nutrire e orientare la crescita politica del centrodestra fino ad oggi – penso a Magna Carta, con L’Occidentale e a Farefuturo con Ffwebmagazine-, ma crediamo che la pluralità delle voci e una sana competizione nel mercato delle idee siano i presupposti migliori costruire un grande partito, capace di durare nel tempo. Tra queste voci, ci sarà la nostra, a partire da un magazine on line, Libertiamo.it, che speriamo possa servire, con contributi intelligenti e appassionati, ad avanzare proposte coraggiose, pragmatiche e responsabili. (l'Occidentale)

lunedì 16 marzo 2009

Lo scandalo del Premio Grinzane è una débacle culturale della sinistra. Carlo Panella

Dario Franceschini farebbe bene a occuparsi del destino infausto a Giuliano Soria e del Premio Grinzane Cavour e con lui non sarebbe male riflettessero sulla politica culturale della sinistra anche D’Alema, Veltroni, Rutelli e altri. Una riflessione –ma di segno ben diverso, dovrebbero fare anche i dirigenti del Pdl. Naturalmente, non lasceremo neanche per un istante una posizione fermamente garantista nei confronti di Giuliano Soria, dipinto oggi come un ladro e un mostro, con tali fosche tinte che il personaggio, così diabolicamente tratteggiato, ci ispira ormai un moto di umana simpatia. Altrettanto naturalmente, non possiamo non esprimere il nostro disagio per gli articoli che leggiamo su molte testate. In particolare, ci colpisce amaramente la Stampa che ieri ha scaricato su Soria e sul suo premio una serie di accuse e contestazioni di una gravità estrema, oltre lo sbeffeggio. Siamo lettori attenti del quotidiano di Torino e mai, ripetiamo, mai, abbiamo letto un rigo di critica, anche solo un appunto –forse siamo distratti- nei confronti di Soria e del suo Grinzane. Al contrario, abbiamo sempre letto puntuali cronache –senza ombra di contestazione- per tutti gli eventi organizzati dal Grinzane. Ma ora –solo ora- che Sorià è in galera, si aprono le cateratte dell’indignazione, delle critiche le più feroci, delle prese di distanza più ferme. Le avessimo lette mesi o anni fa, quando Soria era l’operatore culturale più potente del Piemonte, idolo dell’intelligentsja della gauche piemontese, le avremmo trovate più condivisibili.
Ma veniamo al punto: il centro più rilevante di questa vicenda non sono le malversazioni, ma il “modello culturale” del Grinzane, che è stato un classico evento “di sinistra” e che anzi, per due decenni, è stato proprio il simbolo della concezione della sinistra culturale piemontese “sul territorio”.
Il “modello” Soria era duplice: una premiopoli infinita, una dispensazione dissennata di premi, prebende, ospitalità lussuose, viaggi pagati, consulenze, cachet a intellettuali e giornalisti rigidamente del mondo del “politically correct” e una ferrea, voluta separazione dalla gente, dagli abitanti, dal territorio. Pochi lo sanno, ma gli abitanti di Alba (il castello di Grinzane dista 5 chilometri), così come quelli di Bra e Fossano, non potevano entrare nella sala del Grinzane, che celebrava peraltro spesso i suoi fasti a Torino, Parigi, New York o altrove. Gli autori premiati, le celebrità invitate, non partecipavano ad alcun incontro con i tanti lettori o amanti della cultura delle Langhe. Anzi, se ne stavano ben rinchiusi nella minuscola saletta del castello che fu di Cavour, con presenze rigidamente limitate ai pochi, pochissimi invitati. Un assurdo tale che Soria si è poi inventato il premio surrogato “Alba Pompeia”, di serie B o C, che assegnava in sale gremite peraltro per di più da studenti lì trasportati in pullman dalle scuole. Un vero e proprio “mordi e fuggi”, letteralmente privo di alcun senso culturale.
Soria, beninteso, non è di sinistra, ma ha sempre avuto un sesto senso straordinario per vellicare i più triti luoghi comuni della sinistra: i suoi premiati, i suoi invitati –tranne pochissime eccezioni- rappresentavano solo e unicamente la cultura di sinistra –spesso di estrema sinistra- italiana e mondiale. Una sinistra da passerella, la traduzione in ambito letterario delle famose Figurine Panini che Walter Veltroni aveva deciso di allegare all’Unità, una sinistra futile, autoreferenziale, chiusa in sé stessa, che celebra –e con che lussi- i suoi fasti, le sue superbie, le sue sicurezze.
Se malversazioni vi sono state –attenderemo l’esito del processo per indignarci- sono state il prodotto non della “disonestà” di Soria, ma proprio dall’essenza di questo modello culturale, dalla scandalosa massa di denaro che ogni evento muoveva e che versava nelle tasche degli “eletti”.Se denunce di queste malversazioni non vi sono mai state (e per più di vent’anni!), è perche tutti, ma proprio tutti i premiati, le loro corti e sovente anche i giornalisti, avevano da guadagnare –magari solo una cena a tartufi e Barbaresco- dal chiudere gli occhi, da non farsi domande.
Insomma, Soria rappresenta la fine ingloriosa, e anche il tradimento più spietato, del disegno togliattiano di politica culturale della sinistra. Di quel progetto è rimasto solo il tratto distintivo: l’egemonia, intesa non come capacità di persuasione e di produzione del meglio, ma come volontà di comando e di esclusione.
Infine, due parole sul centrodestra: questo fenomeno distorto ha anche un’altra causa: non solo la delega, ma l’abdicazione completa e totale del centrodestra dall’agone culturale, dalle battaglie e dall’impegno per fornire ai piemontesi –in questo caso- l’accesso alla produzione letteraria. Le giunte regionali di centrodestra hanno lasciato che Soria e il suo modello di sinistra della cultura si affermasse, straripasse, costituisse l’unica attività culturale sul territorio (ad eccezione dell’ottimo salone del Libro di Torino, naturalmente). Non ha da essere fiero di questo abbandono.

Calce e martello. Davide Giacalone

Basta dire “palazzinari”, o “piano regolatore”, magari “cementificatori del paesaggio” e la mente, allenata al luogo comune, corre ai concetti gemelli: abusivismo, intrallazzi, sfregio ambientale. Il tutto ad opera, naturalmente, degli amici e sodali del potere, contro cui la sinistra ha condotto dure e coraggiose battaglie. Bene, ora usciamo dalle filastrocche e veniamo alla realtà, nella quale gli uomini di Calce e Martello hanno lasciato tracce profonde, che ancora attendono d’essere raccontate ed entrare nella mente di molti. In quanto a cemento, i compagni non si sono fatti mancare nulla, compresi architetti pazzoidi, osannati come artisti e pagati come star. Una storia talmente taciuta da consentire, ancora nei giorni scorsi, di far finta che l’intero capitolo dell’edilizia debba considerarsi una nefandezza, naturalmente ascrivibile agli altri.
L’archetipo è un film: Le mani sulla città. Correva l’anno 1963 e Rosi scelse Rod Steiger, fresco d’avere interpretato Al Capone, per mettergli addosso i panni di uno speculatore edilizio, naturalmente del sud, naturalmente democristiano. Gli fece fare sia il costruttore che il consigliere comunale. Per essere più convincente, ad incarnare l’opposizione allo scempio chiamò, naturalmente, un comunista. Ma uno reale, l’onorevole Carlo Fermariello. Eroe positivo, amico del popolo, oratore infuocato. Il realismo aiuta, perché essendo veramente comunista e veramente parlamentare, il nostro personaggio militava davvero nel partito la cui sede centrale, le Botteghe Oscure, era stata regalata dai Marchini. Costruttori partecipanti al “sacco di Roma”, acquirenti e speculatori sui terreni vaticani, lottizzatori di quartieri come Prati e realizzatori delle palazzine della Magliana, allocate sotto il livello del Tevere.
Quando uno dei fratelli Marchini finì in carcere, coinvolto nello scandalo Italcasse e dei suoi fondi neri, l’allora Presidente della Camera dei Deputati, Nilde Jotti, gli spedì un telegramma di solidarietà. Allora sull’Unità non scrivevano persone pronte a lanciare l’accusa di volere “delegittimare la magistratura”. Il palazzo, poi, fu venduto dai liquidatori della storia comunista, in modo da finanziare l’attività dei comunisti sopravvissuti.Quando i partiti democratici furono spazzati via dalle inchieste giudiziarie, interessate a sapere come si finanziavano, nessuno volle indagare troppo su un curioso particolare: nel mondo Italstat, il cuore della cementificazione statale, il motore appaltante la ricchezza investita per realizzare edifici pubblici, il 25% dei lavori era riservato alle cooperative, per la gran parte aderenti alla Lega, quindi organiche al Partito Comunista. Considerate in termini aggregati, quelle erano il principale appaltante. Hanno indagato tutti gli altri.
Due sarebbero state le cose da chiedere: a. perché c’era quella percentuale riservata? b. che fine facevano i soldi incassati? Risposte: era il modo per dare la quota di spettanza ai comunisti, secondo una regola consociativa e spartitoria di cui erano parte costituente, ed i soldi finivano nella casse del partito. Gianni Donegaglia, presidente della fallita Cooperativa Costruttori di Argenta lo ha raccontato con dovizia di particolari, ove mai ci sia bisogno che qualcuno lo racconti.
A questo punto, il luogocomunismo vuole che si dicano due cose. La prima: i dirigenti comunisti non si arricchirono personalmente. Ah no? Abitavano le case elargite dai compagni costruttori, spesso figurando come soci fasulli delle cooperative. La seconda: gli uomini di calce e martello non hanno scempiato le città ed influito sui piani regolatori, per speculare sui terreni. Che gli rispondiamo? Non ci sono più le mezze stagioni, la roba non ha la qualità di una volta, c’è un crollo dei valori. E del senso del ridicolo.

venerdì 13 marzo 2009

Perché copiare la sinistra che ha perso? Michele Brambilla

In un’intervista che potete trovare oggi nelle nostre pagine di cultura, il politologo Gianfranco Pasquino ha ammesso, anzi denunciato, la bancarotta intellettuale dell’Associazione Il Mulino, prestigioso pensatoio del mondo progressista italiano. Particolare non irrilevante, Pasquino della rivista del Mulino è stato anche direttore: parla, quindi, di qualcosa che ben conosce.

Fin qui non ci sarebbe nulla di sorprendente. Che gli intellettuali «non capiscano la società che dovrebbero interpretare e migliorare» (parole di Pasquino) non è una novità. L’intellettuale cade spesso nella tentazione di commentare e ridisegnare il mondo a tavolino, restando curvo sui libri anziché mettere il naso fuori dalla biblioteca per osservare e ascoltare quel che realmente avviene. La teoria - la propria teoria, naturalmente - è considerata più importante della realtà. E «se la realtà non coincide con la teoria, tanto peggio per la realtà», diceva Hegel.

Pasquino ha esteso il fallimento del Mulino a tutto il milieu intellettuale della sinistra, espressione tautologica perché in Italia, come sappiamo, non può esserci «intellettuale» se non «di sinistra». Dice testualmente il politologo ex direttore del Mulino: «L’elaborazione teorica della sinistra avviene a livello di idee e non di confronto con quello che succede, col Paese reale». A questo punto la vera novità potrebbe essere questo onesto mea culpa. Ma in fondo, a ben pensarci, non è nemmeno la prima volta che da sinistra filtrano voci autocritiche, ammissioni di un distacco dalla realtà, autodenunce di una po’ grottesca spocchia intellettuale.

L’ha fatto coraggiosamente anche Edmondo Berselli, pure lui ex direttore del Mulino, nei suoi libri Venerati maestri e Sinistrati. E poi, benemeriti furono già certi film di Nanni Moretti, a partire da Ecce Bombo, per mettere alla berlina un mondo che si ritiene «antropologicamente superiore», come da definizione, sommamente modesta, di Eugenio Scalfari. E allora, quel che ci pare veramente sorprendente è altro. È che proprio mentre il mito progressista vacilla e si autoflagella, proprio mentre un ex direttore del Mulino dice «non abbiamo capito niente» e il Pd annaspa in una crisi più di identità che di risultati elettorali, una strana sindrome sembra colpire coloro che avrebbero pieno titolo, oggi, per alzare la mano e dire: dunque avevamo anche noi le nostre ragioni. Lo vediamo in tanti uomini politici che proprio da una certa intellighenzia di sinistra sono stati, per decenni, emarginati, considerati carcasse del passato. Ieri, tanto per fare uno solo dei possibili esempi, Gianfranco Fini ha detto a Porta a porta di non trovarci «nulla di male» se a volte viene «etichettato come uno di sinistra».

E non l’ha detto per caso. L’ha detto perché ormai è qualche anno che Fini sorprende per affermazioni in piena sintonia con quel mondo politically correct da cui era lontanissimo negli anni in cui esserne lontanissimi era tutt’altro che facile. È vero che non c’è nulla di male, per un uomo di destra, nell’avere anche pensieri di sinistra: solo gli ottusi non sanno riconoscere, di volta in volta, le ragioni degli altri. Sono però il numero e la frequenza di certe uscite - quasi sempre in contraddizione con i propri convincimenti passati - a stupire. La battuta di un «Fini candidato ideale per la guida del Pd» l’ha lanciata il nostro Solinas su queste colonne, ma non è nata dal nulla. Anche nella Chiesa - che pure avrebbe molti motivi per avvertire una sorta di rivincita - si sprecano le sortite di vescovi e teologi che sembrano più preoccupati di avere il plauso di Repubblica che non quello del proprio gregge. Ecco: il plauso di Repubblica; l’imprimatur di un certo «giro» progressista nei confronti del quale si continua ad avvertire un complesso di inferiorità. Sembra questa la sindrome di cui parlavamo.

È qualcosa di molto simile alla «sindrome di Stoccolma», che porta gli ostaggi, una volta liberati, a prendere le difese dei propri rapitori. Per decenni, chi non stava a sinistra si è sentito ostaggio di un’egemonia culturale che non gli concedeva lo status di essere pensante. E ora che potrebbero sentirsi «liberati», molti paiono ossessionati dal bisogno di una legittimazione da parte degli ex «nemici». È comprensibile, perché la sindrome di Stoccolma esiste ed è stata ampiamente studiata. Come patologia, però. (il Giornale)

Crisi economica: Sacconi, giovani siano pronti anche a fare lavori manuali.

Roma, 13 mar. (Adnkronos) - In tempo di crisi e' importante che giovani siano pronti a fare lavori anche lontani dal percorso di studi scelto. Lavori umili. La pensa cosi' il titolare del Lavoro, Maurizio Sacconi, che nel corso della conferenza stampa a palazzo Chigi dice: "Nel curriculum di una persona, di un giovane in particolare, pesera' nel dopo crisi anche la sua capacita' di essersi messo in gioco, di aver accettato anche un lavoro manuale, umile. Contera' nel suo curriculum se e' stato disponibile a svolgere un lavoro anche semplice con il quale ha imparato ad essere responsabile di una mansione, a raggiungere un risultato. Certo se e' laureato in scienza della comunicazione non e' che abbia molto appeal". "L'appello che facciamo ai piu giovani in questa stagione - spiega il ministro - e' di accettare non solo lavori coerenti con il percorso di studio fatto".

giovedì 12 marzo 2009

Sinistra piagnona e allarmista: una pena...Carlo Panella

Com'era prevedibile, il coro delle prefiche, da Franceschini, a Soro, Finocchiaro & C: si è messo a gridare all'emergenza democratica e alle pulsioni autoritarie a fronte dellam proposta democraticissima e di puro buon senso di Berlusconi di fare votare solo i capigruppo a nome di tutti gli iscritti, salvo naturalmente -questo è il punto che la sinistra omette- il diritto di ogni parlamentare di esprimere il proprio voto in dissenso dal gruppo.
Al solito, la sinistra ostacola tutte le proposte che permettono ad un esecutivo di governare con efficacia e rapidità e difende ad oltranza tutte le meline parlamentari che hanno un solo scopo: impedire decisioni rapide. In Francia nel 1958, De Gaulle affrontò la crisi della quarta repubblica -malata di eccesso di parlamentarismo- con una Costituzione -approvata dal popolo- che addirittura stabiliva che -una volta ottenuta la fiducia- tutte le leggi varate dal governo si davano automatiucamente per approvate, salvo il diritto di una piccola parte del Parlamento (mi pare il 20%) di chiedere il dibattito e il voto in aula. Così la Francia uscì dalla sua paralizzante crisi politica.In Italia assistiamo a lavori parlamentari semplicemente dementi, con decine di migliaia -ripeto: decine di migliaia- di voti per ogni legislatura di cui il 90% non ha nessun senso.
Ma la sinistra difende questo andazzo, preferisce i 20-30.000 voti inutili in aula, rispetto a i 1000-2000 che caratterizzerebbero una legislatura in cui si producono leggi e decisioni, non carta straccia.
E' qui il suo senso di inutilità.
E' qui la ragione della sua sconfitta del suo misero 20-25%.

Segreto di Stato e sicurezza. Davide Giacalone

E’ successo quel che scrivemmo all’epoca dei fatti, la Corte Costituzionale ha confermato che in un Paese appena appena normale la magistratura non può farsi beffe del segreto di Stato ed inquisire, rendendone oltre tutto nota l’identità, una comitiva di agenti segreti, italiani e statunitensi, nel mentre quelli agiscono e fanno il loro mestiere. Abu Omar, che si considerava imam di Milano, era ritenuto un personaggio pericoloso, uno dei terminali del terrorismo. C’era un interesse degli americani ad impedirgli di agire ed uno di noi italiani a non aprire, con il suo arresto, una questione che sarebbe potuta costare la sicurezza di cittadini che prendono la metropolitana. Quindi due Stati sovrani, nei quali vigono le regole del diritto, ma non per questo della stupidità, decisero di prelevarlo senza il suo consenso e spedirlo altrove. Si può discutere all’infinito sull’opportunità dell’azione, sulla precisione del bersaglio e sulla destinazione del volo che ce lo portò via (grazie al cielo), ma parlare di rapimento era e resta una scempiaggine allo stato puro.
La procura di Milano la pensò diversamente, aprì un’indagine e non solo perquisì i servizi segreti, ma dispose l’intercettazione telefonica degli agenti. Il materiale raccolto era considerato segreto di Stato da due governi, quello presieduto da Prodi e quello che gli è successo, l’attuale Berlusconi. Tirarono dritto. Ma non basta, perché l’allora capo dei servizi, il generale Pollari, pose un problema che qui ritenemmo assai ben fondato e formulato: mi accusano di un reato grave, che faccio, mi difendo venendo meno alla mia lealtà verso lo Stato, quindi violando il segreto, rispondendo e raccontando come stanno le cose, o me ne sto zitto, e questi mi condannano? Per ben tre volte il governo italiano coprì il silenzio dei propri agenti, affermando che facevano bene a tacere perché era segreto quel che sapevano, e per altrettante tre volte la procura sollevò un conflitto fra poteri dello Stato, affermando che alle proprie domande si doveva rispondere. Ora la Corte Costituzionale chiarisce la questione: avete torto.Attenzione, perché non c’è in ballo solo a procura, che esercitando l’accusa si può comprendere non sia propensa all’equanimità (anche se le leggi italiane stabiliscono il contrario, e loro si ribellano sempre all’evidenza, ovvia in tutto il mondo civile, secondo cui rappresentano una parte e non possono essere colleghi di chi giudica), ma ci sono ben due giudici, cioè due presunti terzi ed indipendenti, che hanno sposato quella tesi. Che, in punto di diritto, si conferma sbagliata. Sono il giudice che ha stilato e firmato il decreto di rinvio a giudizio, e quello monocratico che il giudizio voleva portare avanti utilizzando carte di cui non poteva disporre. La sentenza di ieri, come vedete, chiude una questione specifica e ne apre una generale, decisamente più rilevante.
A noi, allora, sembrò chiaro quel che i magistrati della procura ed i giudici coinvolti ora imparano: la sicurezza nazionale non può essere subordinata al desiderio di ribalta di certi inquirenti ed alla miopia (nel migliore di casi) togocentrica circa la competenza. Questo, naturalmente, non significa che possano esistere, in uno Stato di diritto, dei poteri che non rispondono alla legge, ma ragionevolezza e diritto impongono che a rispondere di fatti simili sia chiamato il governo, in sede politica, non i singoli che agiscono, da subordinati, nel suo interesse, in sede giudiziaria. Se salta questo elementare principio allora chiudiamo i servizi segreti e rinunciamo alla sicurezza nazionale. Anche se, temo, gli stessi magistrati sarebbero capaci d’inquisire i responsabili per non avere adempiuto al loro dovere.
Infine, anche a causa di quella vicenda, e delle relative indagini giudiziarie, i vertici dei servizi saltarono e molti agenti furono bruciati. La sentenza costituzionale rimedia al tema del segreto,ma certo non al danno che ne è seguito. E’ grave il fatto che nessuno ne risponderà.

martedì 10 marzo 2009

" Il global warming è lo strumento del potere". il Foglio

“Global warming: è mai stata una vera crisi?” non è il titolo di uno sproloquio negazionista a proposito del riscaldamento globale ma la domanda seria che si stanno ponendo a New York i partecipanti alla conferenza sul clima organizzata dall’Heartland Institute. In settecento hanno assistito all’incontro di apertura di ieri sera, presieduto dal presidente della Repubblica Ceca, Vaclav Klaus, che ha arringato la folla con argomenti che svelano il fenomeno del global warming nella sua natura profonda di strumento di potere. Klaus ha parlato a lungo degli scienziati benpensanti che praticano l’arte dell’allarmismo: “Non sono interessati alla temperatura – ha spiegato il presidente ceco – all’anidride carbonica, a mettere in concorrenza ipotesi scientifiche e a tentare di testarle, nemmeno interessa loro della libertà o del mercato. Sono interessati solo agli affari, al profitto ottenuto con l’aiuto dei politici”.

Il presidente di turno dell’Unione Europea ha messo sotto torchio la retorica algorizzante che vende apocalissi climatiche un tanto al chilo e ha criticato l’impostazione creativa e antiscientifica del problema climatico. Gli allarmisti “non sono in grado di spiegare perché la temperature globale è cresciuta fra il 1918 e il 1940, è decresciuta fra il 1940 e il 1976, è cresciuta di nuovo fra il 1976 e il 1998 ed è scesa dal 1998 ad oggi; tutto questo indipendentemente dalle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera”. E ha concluso con logica ferrea: “E’ evidente che gli ambientalisti non vogliono cambiare il clima. Vogliono cambiare il nostro comportamento, vogliono controllarci e manipolarci”. Per via della sua posizione di guardiano solitario contro gli attacchi del climatologo collettivo, Klaus ha paragonato, con punte d’amarezza e compiacimento, la battaglia per la verità sul clima alla “frustrazione che sentivo nell’era comunista”.

I lavori del convegno sul riscaldamento globale proseguiranno fino a martedì 10 marzo e fra gli ottanta relatori spiccano il fisico ed ex astronauta Jack Schmitt; il meteorologo di fama mondiale William Gray e Fred Singer, fisico dell’atmosfera. Tutti scienziati che per una elementare questione di metodo non se la sentono di accettare senza filtro i postulati della corrente di maggioranza. Niente a che vedere con la schiera di lobbisti prezzolati e volgari adoratori del dio petrolio di cui parlano molti giornali perbene, primo fra tutti l’inglese The Guardian.

Piano casa: una rivoluzione edilizia.

Cinquecentocinquanta milioni di euro da spendere subito; almeno cinquemila nuovi alloggi da costruire e destinare a chi ne ha bisogno; la possibilità, per gli edifici esistenti, di ampliare fino al 20% le cubature per migliorare la qualità abitativa e destinare una stanza a figli e familiari; e per gli edifici più vecchi di 20 anni la ricostruzione con volumi più ampi del 30% se si adottano criteri di edilizia ecologica e di risparmio energetico.

È una rivoluzione edilizia quella contenuta nel piano casa annunciato dal governo dopo un accordo siglato venerdì 6 marzo con le regioni, assieme al rilancio delle grandi infrastrutture; e che verrà definitivamente varato dal consiglio del ministri di venerdì 13. Un beneficio innanzi tutto per le categorie più popolari di beneficiari, ma anche per l'industria edile e per l'economia in generale, visto che l'edilizia è un settore trainante. Un progetto che avrebbe dovuto realizzare due anni fa la sinistra, ma che poi è rimasto al solito nel cassetto. Oggi lo fa il centrodestra in accordo con le regioni; e la sinistra di Dario Franeschini, presa in contropiede, grida alla "cementificazione": smentita dagli stessi ambientalisti e da molti suoi amministratori.

Vediamo punto per punto.

Cinquecentocinquanta milioni di euro

Sono le risorse complessive; 200 milioni da dirottare sulle regioni a cui spettano i piani particolareggiati di intervento, e 350 di contributi diretti. Il governo recupera in gran parte un progetto del governo Prodi, ma che i contrasti in seno all'esecutivo della sinistra avevano bloccato. Cinquemila alloggi. Sono quelli da realizzare con il piano, ma potrebbero salire a 6.000. Abitazioni da ristrutturare, migliorare, ampliare, oppure da edificare ex novo. Si tratta in tutti i casi di edilizia popolare da destinare ai cittadini meno abbienti attraverso il meccanismo del riscatto a prezzi scontati.

Un milione di nuovi proprietari

Sono quanti oggi vivono in case popolari che potrebbero beneficiare del piano, investendo nei miglioramenti e negli ampliamenti e usufruendo del riscatto.

Una casa più comoda e più risparmiosa

Il meccanismo di aumento delle cubature sarà subordinato a vincoli ambientali precisi, stabiliti dalle regioni e dai piani regolatori comunali, e non potranno prestarsi a speculazioni. L'aumento del 30% verrà riservato agli edifici più anziani a condizioni che si ricostruisca con tecnologie di basso impatto ambientale ed energetico.

Sconti fiscali

Il contributo in imposte da versare sarà ridotto del 20% in generale, e del 60% se la casa è destinata a prima abitazione del richiedente o di parenti fino al terzo grado.

Aumenta il patrimonio delle famiglie, un paracadute per i figli

I giovani alle prese con il precariato possono permettersi a stento una nuova abitazione. Un vano in più nella casa dei genitori, o comunque un aumento di valore della proprietà immobiliare della famiglia, costituisce un paracadute anche per loro. Tanto più considerando quanto in questi anni la casa abbia costituito la vera tutela sociale delle nuove generazioni.

Meno carte bollate

Nel progetto c'è una semplificazione che ridimensiona il potere eccessivo degli uffici tecnici comunali – vero imbuto burocratico, e spesso clientelare - , un contropotere che addirittura fa da ostacolo ai sindaci. Le numerose carte bollate richieste ai cittadini potrebbero essere sostituite da perizie giurate.

Circuito virtuoso nei comuni

Le opere di urbanizzazione porteranno nuovi soldi nelle casse comunali, oltre a migliorare la qualità di vita ed il patrimonio delle famiglie. Un circuito virtuoso che consentirà, a regime, al piano di procedere ed auto-alimentarsi.

Un salto di qualità ambientale

Abbattere e ricostruire edifici obsoleti o fuori norma dal punto di vista igienico ed ecologico è esattamente il contrario della "cementificazione" paventata dal segretario Pd Franceschini. (GovernoBerlusconi.it)

lunedì 9 marzo 2009

Il cemento del no. Mario Giordano

Non vogliono le case, non vogliono il ponte, non vogliono le strade. Temono la «cementificazione», come dice il leader del Pd Franceschini, sguardo da iena dentro occhi da boyscout, che adesso ha scoperto il nuovo look del maglioncino. La cementificazione? Ma quale cementificazione? Da anni l’unico cemento che soffoca questo Paese è quello dei no: no alla Tav, no alle discariche, no alle centrali, no ai rigassificatori. No ai cantieri. No alle riforme. No al cambiamento. La cementificazione che fa davvero paura è quella delle idee, sono gli encefali a presa lenta, le meningi asfaltate. È questo il cemento che ha bloccato l’Italia. È questo il cemento da cui ci dobbiamo salvare.
Avete notato? Il governo non ha fatto in tempo ad annunciare l’esistenza di un piano per la casa e, ancor prima di conoscerlo nei dettagli, è partita la guerra del no. Alte grida. Lamenti. «Una sciagura che impoverisce il Paese», dice l’urbanista di sinistra. «Un delirio», dice l’architetto di sinistra. «Torna la speculazione anni ’60», sbraitano gli ambientalisti. E poi avanti: «deregulation selvaggia» (la deregulation si sa, è sempre selvaggia. O non è); «proposta indecente»; «casa delle libertà abusive»; «affari per i furbetti»; «condono mascherato»; «scempio», «messaggio devastante per il futuro». Naturalmente, per condire l’orrore, si scomodano Francesco Rosi, «Mani sulla città», Alberto Sordi palazzinaro con annessa locandina di film. Manca solo la copertina del manifesto con un grattacielo che spunta dentro il Colosseo, poi il quadro sarebbe completo. E, intanto, benvenuti nella nuova mansarda costruita al posto della Madonnina...

Assurdo? Macché. Le regioni rosse, tanto per dire, hanno già annunciato che non collaboreranno al rilancio dell’edilizia. Lo boicotteranno. E siccome il piano avrà bisogno, per una parte, dell’appoggio delle regioni, significherà che lo bloccheranno. La lezione di Soru in Sardegna, mandato a casa dagli elettori perché, fermando cantieri e turismo, aveva sclerotizzato l’isola e l’aveva condannata alla povertà, evidentemente non è servita. Così è, anche se non vi pare: c’è un’idea per dare lavoro ai disoccupati e slancio all’economia a costo zero. Ma sembra che non importi a nessuno. Perché non si discute nel merito? Perché non si cerca di migliorarla? Perché si cerca di stroncarla? Perché si parte subito lancia in resta parlando di «interessi illegali» e «scena del delitto», come fa il responsabile Ambiente del Pd Ermete Realacci? Siamo d’accordo o no che questo Paese è bloccato da troppi anni di «non fare»? Siamo d’accordo o no che farlo ripartire ora significa anche rispondere alla crisi? E dare lavoro a imprese e operai? Allora perché questa corsa al no per il no, questi toni apocalittici, questa cementificazione del parencefalo? E quanto dobbiamo aspettare perché Franceschini e Realacci si accorgano che queste posizioni assurde e conservatrici ci fanno perdere contatto con il mondo? Vent’anni, come per il nucleare?
Il Paese oggi si sta dividendo in due. Ma la vera divisione non è fra destra e sinistra, popolari o socialisti, laici o cattolici. La vera divisione è fra chi cerca di disegnare il futuro e, dentro la crisi, cerca soluzioni nuove. E chi rimane ancorato a un passato vecchio e indifendibile, e che mai come oggi appare letale. E per dimostrare che quest’ottusità è un cancro devastante che va oltre il limite dell’antiberlusconismo, basta guardare quello che sta succedendo alla Tod's. Il titolare, Diego Della Valle, che è sempre stato coccolato e riverito nei salotti della sinistra, ha deciso per il secondo anno consecutivo di concedere ai dipendenti un bonus di 1400 euro l’anno, 116 euro mensili. Voi capite: in un momento di crisi, mentre tutti pensano a tagliare e magari a mettere in cassa integrazione, c’è un’azienda che non solo non taglia e non mette in cassa integrazione, ma regala 116 euro mensili a ogni dipendente. Risultato? La Cgil protesta. Si oppone. S’indigna. Motivo: «Non siamo stati consultati». Ma vi sembra possibile? Vi sembra possibile che ci sia qualcuno che antepone, così sfacciatamente, l’antica ideologia all’interesse presente degli operai, le stanche liturgie sindacali agli effetti concreti di una buona decisione?
Dalle regioni rosse alla Cgil, da Epifani a Franceschini: quello che si sta rinsaldando è un nuovo e ottuso asse del no. Ma non dovevano essere riformisti? E che cosa si può riformare riducendosi a spuntoni archeologici, a reperti del mesozoico, a distributori di paure e pasdaran del rifiuto assoluto? Per andare verso il futuro l’Italia ha bisogno di fantasia, coraggio, soluzioni innovative. Ha bisogno di liberarsi dei più oscuri retaggi del passato. La gran parte del Paese è pronta. È pronta a lanciarsi. È pronta a trasformarsi. Che non si faccia sviare da quelli che la vogliono cementificare nell’immobilismo: sono i rappresentanti di un mondo destinato a scomparire. L’unica cosa che riescono a cambiare, in effetti, è il look: si mettono il maglioncino. Ma solo per non far vedere che sono rimasti in mutande. (il Giornale)

sabato 7 marzo 2009

Non abbiamo paura d'essere ottimisti. Vittorio Macioce

L’unica cosa certa è che i corvi, qui, non ci sono. Si discute su questo 2009 dall’orizzonte oscuro. Il ministro Tremonti giura di non aver mai parlato di anno orribile o tremendo. E rispedisce a giornali e tv la patente di iettatori. Anzi, di sabotatori. «Questa è una politica di disinformazione che fa male agli italiani. È come se venisse segato il ramo sul quale si è seduti». Tremonti si arrabbia, ma un’ombra di nero futuro c’era nelle sue parole. Non è facile fare i conti con la crisi. C’è. Nessuno vuole nasconderla o raccontare favole. Ne senti l’odore. Ti pesa, ti circonda, qualche volta cammina accanto a te. Magari fa paura ed è normale. Il rischio è che si trasformi in panico, un’ombra enorme, che si alimenta giorno dopo giorno, con il pessimismo, con la litania dei bollettini economici, con l’etica della malasorte.

Ormai lo dicono anche gli economisti. Lo scrivono un po’ tutti. Lo leggi sul Corsera e sul Sole 24 ore. Bisogna reagire, il pessimismo è una brutta bestia, genera paura su paura. Le famiglie non spendono, i commercianti non vendono, le imprese non producono, e licenziano. I soldi in giro diventano sempre meno. E si ricomincia. L’unica via d’uscita è rompere il cerchio, ribellarsi all’assedio. Serve il coraggio. Qualcuno dice che la crisi va aggredita, con un grande balzo che ti porta avanti, lasciandosi alle spalle quell’ombra di nero futuro. È chiaro che poi ci sono i conti, quelli pubblici e quelli privati. Il governo deve fare la sua parte. E non solo. Qui siamo tutti in ballo. L’aspetto psicologico è una variabile fondamentale. Nel ’29 c’è stato il New Deal, ma anche i film di Frank Capra, l’ottimismo di un’America che non voleva arrendersi, sono stati utili alla causa. L’errore più grande, quando c’è la crisi, è trasformare il realismo in un maledetto pessimismo. I Savonarola e i Nostradamus non servono e non hanno fama di grandi economisti.

Questo giornale, da mesi e mesi, ha scelto il «non arrendersi» come parola d’ordine. Non ha paura dell’ottimismo. Parla di fiducia e racconta l’«Italia che ci crede». Questo giornale sta con chi, ogni mattina, cerca di non lasciarsi abbattere, quelli che vanno ad aprire il negozio, l’azienda, qualsiasi bottega artigiana con la grinta e la voglia di spaccare il mondo. Lo fanno ogni maledetta mattina. Poi magari tornano a casa disillusi, stanchi, delusi, ma con la convinzione che domani andrà meglio, deve andare meglio. È il senso del dovere di chi si suda un salario e si aggrappa a quello, più reale di tante chiacchiere. Quelli che lavorano, anche sotto un cielo scuro. Questo giornale non crede, invece, a chi non dà fiducia. A chi non fa credito. A chi spera nel peggio. Non crede ai monatti della paura.

Tremonti, ieri, ha ricordato le parole di Roosevelt, quelle che il presidente della grande depressione disse agli americani: «Adesso uscite di casa. Andate a mangiare hamburger, verniciate i garage, vivete come prima». E il 2009 sarà duro. Non orribile. (il Giornale)

venerdì 6 marzo 2009

Englaro da Rotterdam. Filippo Facci

Solo per dire che Giuseppe Englaro io spero straparli sinché gli pare, perché ne abbiamo tutti un dannato bisogno. Piacerebbe a troppi che non fosse mai esistito, che questo Paese tornasse a quella cappa narcotica che ha sempre circondato le cose che si fanno ma non si dicono: se gli italiani ora hanno consapevolezza di un problema, ditemi, a chi lo dobbiamo? E se la vostra opinione fosse anche diametralmente opposta a quella di Englaro, suvvia, a chi dovete la vostra presa di coscienza? A Englaro o a una classe politica che pochi mesi fa non voleva neppure sentir parlare di una legge?

Sempre avanti, loro: nel Natale 2006 la Commissione affari sociali respinse la proposta d’istituire un’indagine conoscitiva sui decessi preceduti da una decisione medica, ipotesi balenata solo perché intanto c’era stato quell’altro pazzo di un Giorgio Welby: niente, non se ne doveva parlare, si trattava solo di aspettare che morisse. Di pazzi, abbiamo bisogno: di un Pannella per togliere il divorzio e l’aborto dalla clandestinità, di un Tortora per accorgerci che la giustizia fa schifo, di un Berlusconi per portare la tv privata in Italia, di un Craxi per modernizzare il Paese, uno sbirro molisano per fermare un finanziamento illecito che rasentava il racket. Pazzi: per compensare il perenne ritardo della politica nei confronti di quella società che siamo noi. (il Giornale)

giovedì 5 marzo 2009

Il canale più volgare del mondo. il Foglio

Sbagliare si può, ma poi si deve chiedere scusa. “Tu sais que j’ai etudié à la Sorbonne”, “Sai che ho studiato alla Sorbona”, ha sussurrato confidenzialmente Berlusconi all’orecchio del presidente francese Sarkozy nel corso della conferenza stampa congiunta della settimana scorsa. “C’est moi qui t’ai donné ta femme”, “Sono io che ti ho dato la tua donna”, legge sul labiale l’emittente francese Canal Plus, che in diretta gli assegna il titolo di “uomo più volgare dell’anno”. Da ogni parte piovono le accuse di machismo al premier. Una nota di Palazzo Chigi ha subito smentito la battutaccia. Anche il corrispondente a Parigi del Corriere della Sera, Massimo Nava, chiamato a dire la sua sull’audio della conferenza, ha confermato senza dubbi la versione di Berlusconi. Ma Canal Plus non intende mollare, nemmeno davanti all’evidenza: “Stiamo continuando a lavorare sulla registrazione”, fanno sapere. Sbagliare si può, per carità, ma almeno la decenza di chiedere scusa.

martedì 3 marzo 2009

Disoccupati e sussidi. Davide Giacalone

Di aiuti ai disoccupati vale la pena parlare. Anzi, credo sia il terreno giusto per porre, alla sinistra ed ai sindacati, problemi ineludibili. Franceschini non ne ha il copyright, qui ne parliamo da tempo, sostenendo che gli aiuti pubblici devono difendere i lavoratori non i posti di lavoro, chi vuol produrre non chi se n’è dimostrato incapace. Abbiamo argomentato che la durezza della crisi è l’occasione per impostare questa rivoluzione sociale e culturale, perché gli ammortizzatori sociali, così come sono, risolvono poco e coprono le inefficienze, prolungando le difficoltà.
Dire che si vogliono dare soldi ai disoccupati, però, è e resta una scemenza, una frase da comizio, se non s’imposta una politica coerente. Primo, perché non possiamo permetterci di spendere in deficit, dato che abbiamo già un debito mostruoso. Secondo, perché chi governa deve scegliere, non lanciare quattrini a casaccio. Un dato aiuta a capire molto: la gestione Inps relativa ai lavoratori a tempo determinato, come ricorda Giuliano Cazzola, è in attivo per sei miliardi l’anno. I soldi avanzano, ma li si prende per metterli nelle tasche dei pensionati. Togliamo ai non garantiti per dare ai garantiti. Tanto è vero che Enrico Letta si sente in dovere di dire: siamo disponibili ad una riforma del sistema pensionistico. Bene, ma sono proprio loro ad averlo voluto così, ingiusto. Il centro destra fece troppo poco, varando la riforma Maroni, ma il centro sinistra cancellò pure quella, mangiando i soldi dei precari. Il sindacato applaudì, tanto i lavoratori non li conosce, e protestammo solo noi.
Se si vuole, finalmente, dare una mano ai non tutelati, si deve alzare l’età pensionabile e far cadere qualche privilegio. Se non si vuole che il sussidio diventi una pensione anticipata, si deve mettere mano alla riforma del lavoro. Se si vuole discutere con sindacati seri, che difendano i lavoratori e non se stessi, si deve dare applicazione all’articolo 39 della Costituzione. La sinistra è disposta a discutere di queste cose, relegando nel museo degli orrori le cose che ha detto e fatto fino a ieri mattina? Benissimo, sarà diventata di sinistra. Ma se Franceschini vuole un decreto, per foraggiare i presenti a spese dei posteri, allora sono quelli di sempre: democristiani fuori e comunisti dentro.

Allarmare non paga. Francesco Giavazzi

Dalla crisi non usciamo finché il prezzo delle azioni negli Stati Uniti non risale. Quasi la metà della ricchezza delle famiglie americane è investita in Borsa: direttamente, o attraverso un fondo di investimento, e soprattutto tramite i 401(k), un sistema molto conveniente perché consente di risparmiare differendo alla vecchiaia la tassazione del reddito. Solo il 10 per cento dei lavoratori americani possiede (oltre alla pensione sociale) una pensione a «benefici definiti», cioè il cui valore dipende soltanto dagli anni di lavoro, non dai rendimenti di mercato. La maggioranza appartiene al sistema «contributivo»: la loro pensione è investita in un 401(k), e quanto ricevono, o riceveranno, dipende da come va la Borsa. La scorsa è stata un’altra settimana negativa per la Borsa; le perdite complessive del solo mese di febbraio sono il 17%. La discesa è continuata ieri. In dodici mesi il valore delle azioni si è dimezzato.

Pensate ad un lavoratore della classe media, andato in pensione un anno fa a 65 anni. Supponiamo che un anno fa la sua ricchezza, tra titoli e 401(k), valesse 700 mila dollari. Anche essendo cauto e ipotizzando un rendimento reale del 3%, egli avrebbe potuto spendere 50 mila dollari l’anno e non esaurire la sua ricchezza prima degli 85 anni, la sua speranza di vita. Oggi, per mantenersi fino a 85 anni, deve affidarsi alla pensione sociale: ai prezzi di oggi quanto ha risparmiato gli renderà poco più di 2 mila dollari al mese. Non è sorprendente che i consumi stiano crollando. Due anni fa le azioni erano probabilmente sopravvalutate, ma, come scrivevo la scorsa settimana, gli Stati Uniti non sono stati distrutti da una guerra, né da una bomba atomica: le case valgono certamente di meno, ma sono ancora tutte lì, e così anche gli aeroporti, le aziende e il capitale umano: quanto accade in Borsa si spiega solo con il panico e con l’incertezza.

L’incertezza riguarda il valore dei titoli: sui mercati finanziari è scomparsa la liquidità e quindi sono scomparsi i prezzi. Chi vuole vendere deve accettare prezzi che non hanno più alcuna relazione con il valore, per quanto basso, dei titoli che vengono scambiati. E poiché le banche devono valutare i titoli che possiedono ai prezzi di queste transazioni, sono contabilmente fallite. Certo, vi sono casi di vera insolvenza, ma il problema maggiore è l’assenza di liquidità. In agosto, quando già era trascorso oltre un anno dall’inizio della crisi, e l’esposizione a subprime e derivati non era più una sorpresa, ma i mercati ancora erano liquidi, le banche valevano poco, ma non erano fallite. In agosto, quando i suoi guai erano già tutti noti, un’azione di Citigroup valeva 20 dollari: non i 55 di un anno prima, ma nemmeno il dollaro e mezzo che vale oggi. Per riportare liquidità sui mercati e far sì che si rivedano prezzi non «da panico » è necessario che tornino gli investitori.

Da questo punto di vista quelle trascorse sono state due pessime settimane per l’amministrazione Obama. Il piano Paulson — che prevedeva una garanzia pubblica sui titoli detenuti dalle banche, o addirittura in alcuni casi il loro acquisto, e che rimane l’unico piano che avrebbe potuto funzionare—è stato di fatto abbandonato. A un certo punto il team economico di Obama si è lasciato sedurre dall’idea di nazionalizzare le banche, senza capire che questo è il modo infallibile per allontanare ancor più gli investitori dalla Borsa. E infatti, due venerdì fa, quando molti parlavano di nazionalizzazione, Citigroup è crollata del 22 per cento trascinando con sé tutta la Borsa. La nazionalizzazione spaventa, ma non per i motivi per cui spaventerebbe in Europa, cioè per il rischio che la politica influisca sulla gestione del credito: difficilmente negli Stati Uniti accadrebbe ciò che è accaduto qualche giorno fa in Francia, dove il presidente Sarkozy ha nominato un suo collaboratore a capo di una grande banca. Spaventa perché l’intervento dello Stato nel capitale delle banche potrebbe diluire i vecchi azionisti, e quindi ridurre il valore delle loro azioni. Resisi conto di questo errore, i ministri di Obama hanno escluso di voler nazionalizzare le banche, ma poi lo hanno sostanzialmente fatto.

Le modalità con cui giovedì il ministro Tim Geitner ha offerto a Citigroup di convertire in ordinarie le azioni privilegiate che il Tesoro aveva sottoscritto alcuni mesi fa comportano una forte diluizione dei vecchi azionisti. Come spiega Ricardo Caballero sul Washington Post, affinché i vecchi azionisti non venissero diluiti la conversione sarebbe dovuta avvenire ad un prezzo intorno ai 6-7 dollari (un terzo del valore di agosto): invece avverrà a 3,25 dollari. Non sorprendentemente la Borsa è di nuovo caduta. Sembra quasi che il team di Obama non riesca a capire che l’obiettivo primario di queste operazioni non è finanziario: non si tratta—o almeno non in primo luogo—di sistemare i bilanci delle banche, ma di mettere fine al panico. Perché se il panico finisce e torna un po’ di liquidità, i bilanci delle banche, o almeno della maggior parte, si aggiustano da soli. Certo, esiste un mondo diverso, nel quale, scomparsa la liquidità, le Borse vengono chiuse, le banche nazionalizzate e la ricchezza delle famiglie è amministrata direttamente dallo Stato.

Nel secolo scorso, come spiegava domenica Angelo Panebianco su queste colonne, quel modello non ha dato gran prova di sé (sebbene alcuni ritengano che la colpa non fu dell’Unione Sovietica ma di chi la accerchiò). Se non vogliamo ripetere quell’esperimento — e gli Stati Uniti certo non sono pronti a ripeterlo — occorre capire che il punto di partenza per risolvere la crisi sta nel riportare gli investitori in Borsa. A questo scopo spaventarli minacciando nazionalizzazioni è la ricetta più sbagliata. Come già ho ricordato, secondo alcuni storici dell’economia la depressione degli anni Trenta durò così a lungo anche perché il New Deal di Franklin D. Roosevelt diffuse dubbi sul futuro dell’economia di mercato e soffocò gli investimenti privati. (Corriere della Sera)

lunedì 2 marzo 2009

Qualche dubbio sui Tremonti bond. Geronimo

Premesso che riteniamo molto utile l’intervento dello Stato sulla capitalizzazione delle Banche e sulla loro fame di liquidità, confessiamo di non aver capito bene, nel suo significato economico, i cosiddetti Tremonti-bond.
Tanto per spiegarci, le banche che hanno necessità di avere un indice di patrimonializzazione superiore al 7% (il cosiddetto cor tier 1) emetterebbero delle obbligazioni speciali (i bond) che verrebbero sottoscritte dallo Stato. Le banche emittenti pagheranno una cedola annua inizialmente del 7,5%-8,5% che può arrivare sino al 15% in 30 anni. Queste obbligazioni, chiamate per l’appunto Tremonti-bond, non sono obbligazioni vere e proprie perché ai fini della vigilanza costituiscono patrimonio come se fossero cioè emissioni di nuove azioni. Non sono però neanche azioni perché non danno diritti di gestione della banca perché un’eventuale presenza pubblica del 4-5% nelle banche farebbe gridare allo scandalo a quei benpensanti che hanno combinato in questi anni i guai che sono sotto gli occhi di tutti. E tanto per chiudere su questo argomento, la stranezza sta nel fatto che il governo libico può sottoscrivere il 4,5% di Unicredit partecipando alla sua gestione con un vice presidente, mentre un ingresso nel capitale delle banche del Tesoro italiano o della Cassa depositi e prestiti sarebbe un attentato all’indipendenza del sistema.
Mistero della fede. Ma andiamo avanti. Ciò che non capiamo è perché queste obbligazioni con una così alta cedola non possono essere sottoscritte dai privati mettendoci sopra una garanzia dello Stato per i primi 4-5 anni. Sappiamo che la garanzia dello Stato non può essere gratuita, ma forse, con una giusta remunerazione, la cedola sarebbe pur sempre estremamente appetibile. Lo Stato risparmierebbe 12 miliardi di euro e i risparmiatori, dopo tante batoste, avrebbero un po’ di respiro finanziario.
Ma non è finita. Per sottoscrivere questi bond lo Stato richiede che le banche continuino a finanziare le piccole e medie imprese. Obbligo nobile e utile ma, di grazia, quale tasso verrà applicato dalle banche se per patrimonializzarsi e avere nuova liquidità pagano cedole che vanno nel tempo da 7,5% al 15%? E se negli impieghi le banche dovranno, come è giusto che sia, far riferimento al tasso di sconto della Bce e quindi praticare tassi del 4-5% o, nei mutui, fermarsi al 4% come è statuito da una delle ultime leggi, non è che stiamo inavvertitamente mettendo una mina esplosiva sotto la struttura economica delle banche per cui alla fine della giostra verranno patrimonializzate con questi Tremonti bond ma andranno a carte e quarantotto i rispettivi conti economici?
Ci spiegano che questi Tremonti bond sono degli ibridi e cioè a metà strada tra azioni e obbligazioni ma confessiamo di non aver capito la ratio di questo provvedimento potendo fare cose diverse e più semplici come entrare nel capitale delle banche per un periodo di 3-5 anni o garantire la sottoscrizione dei privati aiutando così l'economia reale meglio e più di quanto sarà possibile con questo meccanismo. Non vorremmo insomma (e questa è una nostra malizia) che lo Stato avesse scoperto un nuovo meccanismo per far soldi per cui quando chiede prestiti (titoli di Stato) offre rendimenti dall’1,5% al 3-3,5% e quando è lui a far prestiti chiede dal 7,5 al 15%.
Molto probabilmente siamo noi a non capire queste sofisticherie finanziarie, ma la nostra diffidenza è grande come grande è stata in tutti questi anni quella verso la finanza creativa che ci ha ridotto sul lastrico. In attesa di ulteriori spiegazioni vorremmo lanciare un appello al governo. Se si vuol dare una mano all’economia reale, lo Stato paghi i suoi fornitori che attendono da tempo decine e decine di miliardi di euro per beni e servizi già venduti alla Pubblica Amministrazione. Mettere la polvere (cioè i debiti) sotto il tappeto non è mai una cosa saggia. (il Giornale)