giovedì 31 maggio 2012

I fatti sono i netturbini delle chiacchiere. L'etruscobrusco

Noi ci scandalizziamo che la politica non riesce a governare l’Italia, ma non ci siamo mai chiesti quanto l’Italia mediatica sia la fedele rappresentazione di quella reale. Perché se si tratta di due Italie diverse, nemmeno quello del Padreterno riusciremo mai a percepire come buongoverno.

Se lo Stato che noi vorremmo ben governato, non è nemmeno parente lontano dello Stato reale fatto di debito pubblico, spread, macerie di terremoti, devastazioni di alluvioni, morti e sfollati, disoccupazione dilagante, 10-15 milioni di poveri, imprenditori alla canna del gas e imprese produttive che eludono o delocalizzano, quale buongoverno potrà mai piacerci: quello della “Fornero al cimitero”?

Quindi, il più grosso problema dell’Italia prima del governo Monti (peraltro già sgradito al 50% degli italiani), non è stato il governo Berlusconi, ma la politica e la stampa ideologizzata e faziosa, sinistra e destra, figlie degeneri di un bipolarismo feroce quanto una guerra civile.

Se c’è in giro tanta spazzatura mediatica da condizionare persino la giustizia, al fallimento socio economico non c’è alternativa. E’ come se gli economisti e gli imprenditori in Italia non fossero mai nati: la crescita del Pil (legale) possiamo solo sognarcela.

Se non arrivano i fatti, da bravi netturbini, a rimuovere la “monnezza” politico-mediatica che ammorba l’aria, e smentire e ridicolizzare l’esercito di pennivendoli che seppellisce di menzogna una intera nazione, come Pompei sotto l’eruzione vulcanica, non c’è scampo per nessuno.

E a dimostrazione di ciò, vi porto un’acuta analisi politica del 2010 che all’epoca circolava su Berlusconi e che ho scoperto per caso.

Un italiano bene informato diceva: “Credete che quello che sta succedendo in Italia sia una normale dialettica politica democratica? Io credo assolutamente che non lo sia. Credo che si possano trovare migliaia di ragioni per criticare il Pd e la sinistra, ma che la priorità del cittadino italiano dovrebbe essere quella di preservare la democrazia (?) o quello che resta della democrazia in questo Paese. Il rischio-dittatura è molto forte, quando il B. si impadronirà direttamente (o indirettamente) della presidenza della Repubblica, controllando così la magistratura, stravolgendo la Costituzione a proprio vantaggio ecc… allora l’ultimo barlume di libertà si spegnerà. Il modello Russia di Putin si avvicina e gli italiani dovrebbero meditare su questo… prima garantiamo la democrazia poi avremo tutto il tempo per criticare a destra e sinistra democraticamente”.

Per fortuna possiamo gridare allo scampato pericolo. Con l’aiuto delle castronerie medianiche di destra e sinistra, l’Italia s’è scrollata di dosso quel potenziale tiranno fascista di Berlusconi (finto amico di Fini e finto mangia comunisti) visto che stava per importare dalla Russia la dittatura comunista del suo amico Putin (dice l’illuminato analista in questione). E tutto l’armamentario di televisioni private e controllo di quelle pubbliche, in aggiunta ad un potere economico sconfinato e un conflitto d’interessi grande quanto un pianeta e lungo 17 anni se l’è fatto fritto.

Gli italiani “intelligenti” hanno “meditato” e costretto l’aspirante tiranno Berlusconi alle dimissioni, prima che come un asso piglia tutto si appropri della presidenza della Repubblica, della Magistratura e si riscriva una Costituzione ad personam. E ora ci godiamo tutti la democrazia compiuta con la possibilità di “criticare destra e sinistra liberamente” perchè sotto il tiranno era tutto proibito tranne che tirargli pietre in faccia.

Tanto per i 2000 miliardi di debito pubblico c’è sempre tempo, e poi quelli non sono mica un problema per tutti, ma per i quattro milioni di fessi di imprenditori chiamati a pagare o morire. Come nelle migliori rapine dove ti fanno scegliere liberamente: o la borsa o la vita.

Questo è il giudizio libero e illuminato che per 17 anni la sinistra ha avuto di Berlusconi e la destra non ha opposto resistenza. E se pure i fatti lo hanno ridicolizzato oltre che smentito, è pertinente domandarsi: il tiranno Berlusconi che ha levato il disturbo da solo senza spargimento di sangue, che marca di tiranno era?

E’ stato davvero così intelligente aver lavorato per liberare l’Italia dalla tirannia risibile del bunga bunga e conservare e migliorare quella del debito pubblico a 2000 miliardi, tanto caro agli speculatori dell’intero pianeta per finanziarci a strozzo?

Nessuno mette in dubbio che sia democratico impedire ad un avversario politico di arrivare nella stanza dei bottoni. Ma se gli elettori ve lo hanno mandato per governare, (come adesso il prof. Monti che ha un consenso bipolare) impedirglielo con i metodi usati contro Berlusconi, è politica o terrorismo mediatico? (the Front Page)

mercoledì 30 maggio 2012

Meno Stato più servizi. Davide Giacalone

Si può tagliare la spesa pubblica mirando al risparmio e si può farlo avendo in mente uno Stato che costi meno. Che lasci più ricchezza alla libertà di cittadini e sistema produttivo, abbassando le tasse e invadendo meno la vita collettiva. Tutte e due gli approcci vanno nella direzione giusta, ma il secondo conduce più lontano.

Enrico Bondi è una persona seria, sicché mi rifiuto di credere a quel che leggo, ovvero che le sue proposte dei tagli, ad esempio nel settore sanitario, s’incentrerebbero attorno all’opportunità di rendere omogenei i prezzi e le quantità degli acquisti fatti da diverse amministrazioni. Mi rifiuto perché questa è roba che abbiamo scritto qualche centinaio di volte, fra libri e articoli, aggiungendo soluzioni dettate dal più banale buon senso. Mi rifiuto perché per porre ordine nella spesa attuale, senza cambiare il sistema complessivo, non avrebbe sentito la sola persona davvero utile: Maurizio Bortoletti, colonnello dei Carabinieri e commissario dell’asl di Salerno. Se si vuol risparmiare, al tempo stesso moralizzando, non vedo come si possa far meglio di quanto Bortoletti ha già dimostrato: diminuendo la spesa, recuperando beni già acquistati e mai utilizzati e regolarizzando i pagamenti. Abbiamo raccontato questa storia, sebbene con la sintesi che un quotidiano richiede. Spero l’abbiano letta.

I tagli alla spesa pubblica possono e devono essere l’occasione non solo per risparmiare, ma anche per riformare. Il sistema sanitario regionalizzato è un fallimento. Si può risparmiare a legislazione vigente, ma si può anche prenderne atto e cambiare organizzazione. La sanità gratis per tutti, a prescindere dal fatto che molti sono assicurati e, quindi, pagano due o tre volte la stessa cosa, salvo che l’apparato pubblico paga per tutti, è una scemenza. Costosissima. La distruzione della libera professione medica, con la trasformazione di tutti in impiegati del sistema sanitario non-nazionale, ha inaridito la medicina di base e ingolfato i pronto soccorso di gente che chiede d’essere visitata. Questo capolavoro della riforma Bindi (Rosy) va cancellato. Insomma: anziché mettere i soldi al servizio della conservazione di quel che non funziona si mettano i tagli al servizio del cambiamento, indirizzando un pezzo di spesa pubblica verso la promozione di idee e tecnologie innovative made in Italy.

Discorso analogo vale per la scuola: la didattica digitalizzata diminuisce la spesa cumulata di Stato e famiglie, consentendo miglior controllo comparativo della qualità. Ciò comporta, però, la fine non solo dei libri di testo cartacei (i libri lo saranno sempre, ma non quelli con gli esercizi e le lezioni), ma anche dell’ipocrisia dilapidante che li vuole obbligatoriamente sia stampati che digitali. In quel modo la spesa aumenta, anziché diminuire. Avete mai sentito di un’azienda che digitalizza le procedure aumentandone i costi? E’ vero il contrario, e deve essere vero anche per la pubblica amministrazione. Così come può essere vero per la giustizia: tutti gli atti in digitale, fine delle tonnellate di faldoni che fanno avanti e indietro, fine della geremiade sui soldi che mancano per la carta della fotocopiatrice. Mi dispiace per i “camminatori”, ma neanche tanto, perché ci costa meno mandarli a passeggiare nei parchi.

Immagino Bondi si sia reso conto di quel che qui predichiamo inutilmente: è molto più difficile tagliare la spesa pubblica restando nella logica dell’attuale sistema che mettere i quattrini in investimenti che lo abbattano. Se la spending review non approda a questo sarà solo tempo perso. Così come lo è stata fin qui e nel corso degli anni, quando ancora non s’era diffuso il suo nome in inglese. La digitalizzazione consente quel che ieri era impossibile: meno Stato e più servizi. Ma presuppone cessione di competenze al mercato e snellimento brutale delle procedure.

Si dirà: in questo modo va a finire che i tagli alla spesa diventano la riforma dello Stato. Esattamente. E’ il solo modo per trasformare una tortura in un beneficio. Il commissario al taglio della spesa, l’ottimo Bondi, ci faccia il regalo di non concludere la sua attività dicendoci quello che abbiamo già scritto. Il moralismo della spesa è come il moralismo fiscale, serve solo a renderci, in un sol colpo, più poveri e più ingiusti.

domenica 27 maggio 2012

Manuale di conversazione. La Cina. Andrea Ballarini

- Dichiararsene affascinati perché "la sua cultura è così diversa dalla nostra".

- (Variante della precedente) Ha una cultura molto più antica della nostra, eppure noi conosciamo solo gli involtini primavera e Bruce Lee. Dolersene.

- Notare che i ristoranti cinesi sono stati soppiantati da quelli giapponesi. Replicare che per la maggior parte non si tratta di veri giapponesi, bensì di cinesi riconvertiti. Deprecarlo.

- Diffidare dei ristoranti cinesi. Temere la scarsa igiene e che servano cani spacciandoli per manzo. I ristoranti cinesi di Londra, sì che sono fighissimi.

- La mafia cinese è la più crudele e spietata di tutte. Dirlo anche di quella albanese, rumena, russa, polacca, thailandese, indiana, coreana e nigeriana.

- Rimpiangere i negozi milanesi sostituiti dalle botteghe cinesi.

- Le aziende italiane non possono competere con quelle cinesi, che non conoscono i sindacati e hanno un costo del lavoro quattro volte più basso del nostro. Per uscire dall'impasse, puntare sull'altissima qualità, da sempre caratteristica della nostra manifattura. Convenirne.

- Ricordarsi di dire che la Cina ha creato un nuovo modello capitalistico-comunista. Contestualmente citare Cindia e BRIC per suggerire dimestichezza con i temi dell'economia.

- Aveva ragione Tremonti: bisognava imporre degli sbarramenti commerciali alle merci cinesi. I liberisti obiettino che è velleitario tentare di bloccare un movimento storico con una legge.

- Sdegnarsi che la Cina calpesti i diritti del Tibet. Se qualcuno lo fa, relativizzare lo sdegno denunciando i soprusi compiuti dai lama nei confronti della popolazione tibetana: posizione dell'intellettuale alieno a tutti i conformismi.

- Proclamarsi laici cartesiani, tuttavia consultare l'I Ching per questioni che non si riesce a dirimere razionalmente. In ogni caso condannare qualunque deriva freakettona.

- Essere stati in Cina prima dei disordini di Tien An Men: socialmente molto apprezzato. Eventualmente dire di volerci tornare per misurare la distanza siderale tra il paese di allora e quello di oggi.

- Trovare formidabilmente soporiferi i film cinesi di guerre tra antichi regnanti con combattimenti e guerrieri volanti.

- Ricordare che da ragazzini adoravate i film di Kung fu. Rivederli e rompersi i coglioni a morte.

- Nutrire forti dubbi sulla tossicità delle scarpe cinesi, quindi estendere il ragionamento a tutte le merci di provenienza cinese.

- Il pianeta non ce la fa a sopportare che un miliardo e trecento milioni di cinesi diventino classe media. Concionare su ecosostenibilità e sviluppo incontrollato.

- Continuare a dire Mao Tze Tung, perché Zedong suona malissimo.

- I guerrieri di terracotta: straordinari.

- Scagliarsi contro "L'ultimo imperatore" di Bertolucci, divulgatore di una Cina da cartolina hollywoodiana. Non è necessario averlo visto per biasimarlo.

- Wallis Simpson aveva ridotto Edoardo VIII a uno schiavo sessuale grazie alle tecniche erotiche apprese nelle case dei piaceri mandarini. Raccontarne alcune, anche improvvisando al momento.

- Qualcuno era maoista. (il Foglio)

Così. Jena

Il dibattito in corso nella sinistra italiana è così appassionante che per poco non mi svegliavo. (la Stampa.it)

venerdì 25 maggio 2012

Idee, non facce o alleanze. Davide Giacalone

Non hanno capito, non ce la fanno. I gruppi dirigenti delle due forze politiche più grosse, dei pretesi protagonisti di un bipolarismo sommando i cui poli non si raggiunge la metà dell’elettorato, sono lì che s’interrogano su due questioni: a. le alleanze; b. il capo, la faccia da proporre agli italiani. Sono ancora affetti da berlusconismo, nel mentre il detentore del copyright già pensa a forme commerciali politicamente più aggiornate, come il franchising movimentista che a Parma ha umiliato gli uni e gli altri (nella stessa città, però, già s’è aperta la diatriba fra franchisor, l’affiliante, e franchisee, l’affiliato, circa la titolarità della vittoria). Non si rendono conto, quei gruppi dirigenti, che tali rovelli appassionano solo loro.

Coalizzarsi per vincere, senza far grande attenzione a chi si arruola, è la formula con cui, nel 1994, Silvio Berlusconi ribaltò l’annunciata vittoria della sinistra. Il suo merito innegabile. Da allora è divenuta dottrina, capace di gramsciano egemonismo. Ne è ancora esponente Pier Luigi Bersani, che senza il mitico ufficio elettorale del Pci s’è ridotto a utilizzare gli istogrammi prelevati dall’editoria borghese, commettendo l’aggiuntivo errore di crederci, o immolandosi nel far finta di crederci. Ciò lo porta a dire che la sinistra ha la vittoria in tasca, mancando d’osservare che quella vittoria passa per la sconfitta del suo partito. Vuol presentarsi alle elezioni con la devastante foto di Vasto? Faccia pure, confermi che il berlusconismo è entrato nelle ossa della sinistra, ma non dominerà né chi gli porta via i sindaci né chi trionfa sull’annientamento della sinistra.

Vale la stessa cosa per chi cerca un capo vincente, un leader attraente, una faccia spendibile. Se cerchi le facce trovi le ghigne. Se pensi sia un problema di faccia te ne ritrovi molteplici che dietro lo sguardo accattivante e il sorriso ammaliante non hanno altro che ambizione inquietante e vuoto dilagante. La sconfitta elettorale del centro destra, la brutale piallatura, deriva dall’incapacità politica, dal tradimento di quanto annunciato, dal naufragio nel grottesco, dall’avere esposto una classe dirigente che era una classe differenziale. Certo che devono dimettersi, ma devono anche capire. E sembra che la seconda cosa risulti loro più ostica della prima.

Se non vogliono tutti essere travolti da un grilliano “vaffa” dovranno far la fatica di cancellare lustri di tempo perso, tornando a piegare la testa sulle cose che contano. Destra e sinistra si chiedano: perché si coprì di ludibrio chi considerava l’Italia ben posizionata, dopo la crisi del 2009, dato che il bilancio pubblico era in avanzo primario (ovvero al netto degli interessi sul debito pubblico, che dipendono dalla congiuntura) e ci si complimenta oggi con chi annuncia, per il 2013, un avanzo strutturale (vale a dire depurato dagli interventi congiunturali) e la primazia italica? Sono vere entrambe le cose, ma riflettono un’idea tutta bilancistica e parametrale sia dell’economia che dell’Europa. In realtà l’Italia perde competitività da più di quindici anni e continuiamo a sguazzare nella recessione, questi sono i problemi. Chi, da destra, pensa che il riscatto passi per la cacciata di Monti, artefice di manovre a sfondo fiscale, ricordi che gli strumenti che il governo usa sono stati approntati dagli stessi che oggi se ne vergognano. Chi, da sinistra, inneggia al ritrovato rigore, ma chiede sviluppo e occupazione, sappia di star vaneggiando, perché le rigidità del mondo del lavoro vanno in direzione opposta. In queste condizioni possono allearsi a piacimento e farsi capeggiare da chi vince concorsi di bellezza, saranno comunque tritati. Le soluzioni sono: dismissione di patrimonio pubblico, abbattimento del debito, liberazione del mercato e diminuzione delle tasse. L’opposto di quel che praticano, separatamente assieme.

Occorre cambiare il sistema elettorale, adottando un maggioritario che non contenga l’obbrobrio del premio di maggioranza, e occorre cambiare la Costituzione, rendendo effettivo il potere del governo, frutto di libere elezioni, chiudendo l’interminabile stagione della Repubblica impotente. Se hanno la forza di proporlo gli alleati verranno, e chi non ci sta vada pure al suo destino. Se hanno paura, se temono più le spaccature delle sepolture, si passi per l’elezione di una Costituente, subito, designando, la prossima primavera, un capo dello Stato che abbia la dignità di dimettersi non appena quella (entro un anno) avrà terminato i lavori e la nuova Costituzione sarà entrata in vigore. Troppo? Facile, quasi certo, ma anche un solo dito in meno e le facce, vecchie e nuove, come le alleanze, passate e future, le troverete assieme. Nella palta.

mercoledì 23 maggio 2012

Metafora palermitana. Davide Giacalone

Tutti guardano Parma, ma è a Palermo che la crisi istituzionale e politica segna l’approssimarsi dell’epilogo. Qui il fallimento irrimediabile della seconda Repubblica batte le sue ultime ore. Una città pessimamente amministrata dal centro destra (incapace anche solo di trovare una faccia da candidare), nella quale il centro sinistra non riesce a rappresentare neanche la speranza di un’alternativa. Una città che torna nelle mani di chi cavalcò la peggiore antipolitica, opponendosi alla seria e vera antimafia di quanti si pretende pure di commemorare, nel ventennale della loro uccisione. Una città che, nell’orrore delle coscienze e nel disfacimento della cultura, ricorda la visione profetica di un grande siciliano, Leonardo Sciascia, che parlò della Sicilia come metafora dell’Italia che non crede di potere cambiare. Che non crede alle idee. Palermo come metafora.

A Parma i cittadini sono andati a votare, scegliendo l’opposizione a ogni vicinanza verso i partiti. E’ stato eletto un sindaco, che ora sarà messo alla prova. A Parma le cose sono andate bene, perché la nuova giunta potrà tessere, se ne sarà capace, il filo della politica. A Palermo è escluso. Palermo è condannata. Dopo Palermo, se il centro destra pensa di affrontare il monumentale pernacchio elettorale cambiando nome somiglierà più a un delinquente che scappa e cerca di cambiarsi i connotati che non a un partito in cerca di nuova identità. Dopo Palermo se il centro sinistra si ripresenterà alleato degli stessi che hanno consumato con gusto la loro vendetta, descrivendone gli esponenti come il peggio in circolazione, confermerà quella diagnosi, darà ragione ai propri peggiori nemici (i peggiori, lo scriviamo da anni), dimostrerà la propria pochezza intellettuale e morale. Dopo Palermo non hanno senso né le trovate propagandistiche, né il cinismo delle alleanze spurie. Ancora un passo in quella direzione e saranno risucchiati dall’ignominia.

Il centro destra, in mano a un gruppo dirigente che ha visto arrivare la sconfitta, ma non ha saputo darle un significato politico, rassegnandosi alla disfatta, e il centro sinistra, in mano al medesimo gruppo dirigente che fu comunista, nel secolo scorso e un secolo fa, sono morti a Palermo. Il resto, dalla spocchia anti istituzionale del sindaco di Genova allo sberleffo parmigiano, sono solo dettagli. Morti, ma ancora al loro posto, quei gruppi dirigenti possono scegliere: restare inerti innanzi ad un destino ampiamente meritato, o provare a dare un futuro non immondo alla scena politica. Nel secondo caso abbandonino subito le parole false della contrapposizione comica, non credano di campare ancora con la rendita di posizione data dalla paura che l’altro possa vincere, perché nessuno crede più a nessuno dei due gruppi. Dopo Palermo la paura non ha più senso, dato che ci si vive dentro.

Allora: il governo commissariale ha perso la spinta propulsiva, ma è privo di alternative, in questa legislatura, che, del resto, se si chiudesse subito non darebbe luogo ad altro che alla certificazione nazionale di quel che s’è visto in sede locale. Molti elettori tornerebbero alle urne, certo, per paura e contrapposizione, ma non avrebbero nulla di buono da votare. Ci trascineremo avanti nel tempo. Tutto sta a vedere se nel vuoto o con qualche prospettiva. Quindi: quel che resta dei due gruppi dirigenti cessi la patetica pantomima e provi a rimettere terreno sotto i piedi della politica, impostando la riforma del sistema elettorale e istituzionale. Un lavoro che andrà avanti oltre i confini dell’immediato, che va fatto per dare stabilità e forza al governo e restituire rappresentanza alla stragrande maggioranza dell’elettorato, che è ragionevole e moderata sia nel collocarsi a sinistra che a destra. Le ricette si conoscono. Se in cucina non sono pronti e capaci è segno che quei cuochi, sciatti e tremebondi, buoni solo a esser tronfi, sono maturi per essere cacciati. Osservino Palermo, e ne comprendano la metafora.

martedì 22 maggio 2012

Bersani senza se e senza ma. Pietro Mancini

Bersani: "Senza se e senza ma, abbiamo vinto le elezioni amministrative".
Ennio Flaiano avrebbe commentato: "La situazione è grave, ma non è seria".
Pigi Bersani non è di Agrigento, come il suo collega del PDL, Alfano, ma di Piacenza, non molto distante da Parma, dove si è abbattuto il "ciclone Grillo". E Parma è una importante città di una regione, l'Emilia, con forti e antiche tradizione prima comuniste, poi diessine, infine piddine.

Bene, anzi male. Gli elettori parmigiani, dopo anni di malgoverno di una giunta a guida PDL, non hanno scelto il "rosso antico", cioè il grigio amministratore locale, proposto da Bersani. Ma lo hanno trombato, promuovendo, con una larga messe di consensi, un giovane carneade, esponente del "Movimento 5 stelle" di Grillo, sconosciuto nel teatrino politico e anche a molti suoi concittadini. Insomma, all'usato sicuro, gli elettori hanno preferito la svolta radicale, accettando i rischi connessi alla loro scelta, soprattutto l'inesperienza amministrativa del nuovo Sindaco.

Più o meno, stesso risultato, tutt'altro che trionfale, per il PD, a Genova: il nuovo primo cittadino è un nobil signore, Doria, appartiene al centro-sinistra, ma è stato designato dal partito di Nichi Vendola, che, come Matteo Renzi, aspira a contendere a Bersani la candidatura alla leadership dello schieramento progressista. Rispetto a Parma, il risultato per i democrat è ancora più negativo, in quanto i genovesi hanno sonoramente bocciato l'amministrazione uscente, che era guidata da una Sindaca del PD, donna Marta Vincenzi.

E a Palermo, dopo Napoli (che è guidata da Gigino de Magistris, IDV) la seconda città del nostro tormentato Sud, i tutt'altro che numerosi palermitani che si sono recati ai seggi hanno plebiscitato Orlando-Cascio, oggi anche lui esponente del partito di Di Pietro e non proprio un virgulto della politica. Leoluca ha travolto il giovane Ferrandelli, designato dai capataz, nazionali e locali, del centro-sinistra.

Certo, i numeri danno ragione a Bersani, quando sostiene che "su 177 comuni abbiamo vinto in 92, contro i 45 della precedente tornata". Ma un'analisi approfondita non può non soffermarsi, oltre che sul sempre più diffuso astensionismo, sul significato politico, tutt'altro che difficile da mettere a fuoco, del voto in grossi centri, come Parma, Genova e Palermo, più importanti – o no ? – di Tolentino e Ceccano.

Se non alla rottamazione del vecchio gruppo dirigente, sollecitata da Matteo Renzi, anche queste elezioni parziali portano una impetuosa ventata di rinnovamento, spazzano posizioni di rendita consolidate da 50 anni, come l'egemonia dei post-comunisti in Emilia. Qualora i partiti, non solo quello di Bersani, continuassero a ignorare che sta franando tutto, siamo certi che dovremmo continuare a considerare Beppe Grillo l'unico "comico" del teatrino politico ? (il Legno storto)

venerdì 18 maggio 2012

Agrippa e la Grecia. Davide Giacalone

Valutate due date e misurate l’assurdo: il 17 giugno i greci torneranno a votare, poi, entro il 30 giugno, quindi tredici giorni dopo, il nuovo governo dovrà realizzare tagli alla spesa pubblica per un valore pari al 5,5% del prodotto interno loro. Aspetta e spera.

Tornano a votare perché il governo che avevano eletto è stato detronizzato dal (falso) dio spread, perché quando proposero un referendum sulle misure imposte da Bruxelles furono subissati d’insulti (dacché la democrazia è divenuta eresia), e perché il governo tecnico non ha posto rimedio, sì che il voto del 6 maggio scorso ha dato luogo a un guazzabuglio ingovernabile. A ben vedere il prossimo 17 giugno i greci voteranno per il referendum che non si volle far fare a George Papandreou, pro o contro l’euro. Con la differenza che, nel frattempo, si sono massacrati loro e s’è massacrata l’Unione europea. Avevamo visto giusto, quando guardammo con simpatia a quel referendum.

Se scorrete i titoli dei giornali, in giro per l’Europa e per mesi, sembra che la Grecia sia il novello untore. La terminologia è quella epidemica, paventando il contagio. Ma chi ha contagiato chi? La crisi dei debiti arriva dagli Stati Uniti, dove sono più diffusi prodotti finanziari che favoriscono la speculazione, senza più alcun rapporto con il mercato reale. Lì l’hanno curata sommergendola di denaro, e sperando che non riparta al prosciugarsi dell’onda. Quando è arrivata in Europa s’è provato, su indicazione della clinica tedesca, coadiuvata dall’infermeria francese, a curarla con il rigore. Non solo il risultato è disastroso, ma si corre anche il rischio di considerare negativa l’attenzione ai bilanci pubblici e la tensione nel tagliarne le vaste spese inutili e improduttive. Due danni in un colpo solo.

L’errore fu commesso all’inizio, considerando il dramma greco un problema dei greci, da superarsi a loro spese. L’errore consisté nel credere che si potessero salvare le banche, specie tedesche e francesi, senza salvare la Grecia, e con quella l’Europa. Non fu un errore tecnico, perché tecnicamente era solo una micidiale castroneria, fu un errore politico, che reintroduceva l’egoismo nazionalista nella speranza europeista. Fu un errore riconoscibilissimo, tant’è che lo descrivemmo ed esecrammo. Eppure fu commesso.

Ai greci è stato applicato al contrario l’apologo di Menenio Agrippa, quello che puntava a spiegare al popolo perché fosse utile lavorare, raccontando che è vero tutto il cibo finiva nello stomaco, nonostante fosse procurato dalle braccia, ma senza nutrimento allo stomaco anche i muscoli avrebbero ceduto. Per Agrippa era chiaro che il corpo sociale, come quello umano, era un tutt’unico. S’era a cinquecento anni prima di Cristo. Duemilacinquecento anni dopo lo stomaco s’è rivolto al piede infetto, certo anche per sua trascuratezza, e gli ha detto: cavoli tuoi, curati e cammina, che ho fame. Siccome non era svelto lo si è preso a mazzate, gli si sono sequestrati i calzari, gli si è detto che faceva schifo. Poi la caviglia ha detto: cribbio, qui mi contagiano. Il polpaccio ha cominciato a sentir dolore. E il male sale, si diffonde, con il cervellino e la boccaccia che continuano ad inveire contro il piede. Il vecchio Agrippa è passato di moda, ma il suo apologo funziona alla perfezione: se ci si comporta così con la Grecia, con il piede, è segno che non la si considera parte del corpo (salvo averla accettata, sapendo bene quale era la realtà).

In queste condizioni non è la Grecia che uscirà dall’euro, è l’euro che è uscito dall’idea d’Europa, da quella cresciuta fin dal 1951, con la Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Incapaci di vedere questo dato i governi europei si sono gettati nella fornace, tant’è che 10 sui 17 dell’Unione monetaria e 16 sui 27 dell’Ue sono caduti (negli altri si deve ancora votare). E invece di pensare che la causa sta nel deficit istituzionale dell’euro e nel deficit democratico delle istituzioni europee, si tende a credere che la causa sia l’eccesso di democrazia che porta i popoli a votare contro questa follia tecnocratica e monetarista, condotta da falsi tecnici, in nome di una falsa moneta.

Chi è europeista, come me, chi crede che il destino dell’Italia sia migliore, se legato all’Europa, assiste a questa strage di politica e di cultura urlando almeno una cosa: la mano assassina è il nazionalismo, il contrario dell’europeismo. Se le nostre forze politiche non fossero le amebe suonate che sono, da ciò potrebbero partire per ritrovare iniziativa internazionale.

giovedì 17 maggio 2012

Al prossimo G8 l'Italia levi la sua voce a difesa dei cristiani. Firma anche tu

Non passa giorno senza che non ci pervengano notizie sulle persecuzioni contro i cristiani nel mondo. Barbari attentati durante celebrazioni rituali cristiane; legislazioni punitive nei confronti delle minoranze cristiane; persecuzioni indiscriminate e disumane. Non più tardi di due domeniche fa, tra il Kenya e la Nigeria, ventuno persone hanno pagato con la vita l’appartenenza alla fede in Cristo.

Crediamo sia urgente raccogliere l’invito che arriva ormai da molte parti a che l’Italia assuma un ruolo di primo piano nella denuncia, presso i maggiori organismi internazionali e intergovernativi - dalle Nazioni Unite, passando per il Consiglio Europeo, fino al G20 e al G8 -, dell’odio anticristiano.

Spesso il mondo musulmano, nella sua declinazione di ummah, di comunità islamica transfrontaliera, ha dato prova di sapere reagire, non sempre a ragione, a quelli che erano percepiti come attacchi verbali e fisici al proprio credo e ai propri fratelli, raccogliendo il sostegno dell’Onu. Ci pare urgente che l’Occidente ritrovi un forte senso della comune identità cristiana, anche attraverso un’azione di governo corale a livello internazionale già a partire del prossimo G8 di Camp David.

Siamo convinti che, in continuità con l’attenzione dimostrata su questo fronte dal precedente governo, tocchi all’attuale esecutivo italiano - anche alla luce dell’esistenza entro i confini naturali dell’Italia di Santa Romana Chiesa e del forte senso di adesione degli italiani ai valori cristiani - farsi portatore di un’iniziativa di politica estera che declini una strategia d’ampio respiro diplomatico, presso tutti i governi del mondo, soprattutto quelli dei paesi a maggioranza musulmana, laddove più frequentemente si manifesta l’arbitraria violenza anti-cristiana.

Crediamo infine che il valore della reciprocità in materia di trattamento delle minoranze religiose sia cemento indispensabile nelle relazioni tra le genti e i governi, soprattutto in un mondo destinato a essere sempre più interdipendente.

L’Occidente cristiano dà prova ogni giorno d’accettare la sfida politica del rispetto interreligioso nelle proprie società e nelle proprie terre. Lo fa talvolta anche pagando il costo di mutare in profondità e in poco tempo identità nazionali e religiose nate da esperienze storiche plurimillenarie. E’ giunto il tempo che il resto del mondo faccia la sua parte.

Chiunque voglia aderire a questo appello può lasciare un commento d'adesione a questo articolo o mandarci un'email a redazione@loccidentale.it indicando Nome, Cognome e Città.

Non esitate a far circolare questo appello su blog, social network, mailing list varie per ottenere il sostegno dei vostri parenti, amici e conoscenti. Ogni adesione in più può significare molto.

Grazie per il vostro sostegno.

La Redazione de l'Occidentale

Primi firmatari:

Anna Bono
Margherita Boniver
Lamberto Dini
Franco Frattini
Giancarlo Loquenzi
Alfredo Mantovano
Fiamma Nirenstein
Gaetano Quagliariello
Eugenia Roccella
Maurizio Sacconi

Hanno aderito inoltre:

Mariarosa Abbiati, Milano
Gian Paolo Babini, Lugo (Ra)
Maurizio Brunetti, Roma
Bruno Dore, Torino
Alfredo Errico
Celestina Lui
Marco Marcelli
Bartolomeo Pellegrino, Cuneo
Fernando Sannazzaro
Ritvan Shehi, Roma
Giovanni Stefanelli, Reggio Emilia

Non lamentatevi, lavorate di più. Marianna Rizzini

Metti un giorno un ministro che dice, con gran sprezzo d’ogni tetraggine autoconsolatoria: “Basta lamentele, lavorate sodo, lavorate di più, l’unica ricetta per la crescita è lavorare duro”. Metti un uomo politico che, col sorriso, in maniche di camicia, in un paese che pure ha varato misure da tempo d’austerità, una mattina, da un giornale autorevole, invita i giovani a fare “di più con meno risorse, ché questo è il ventunesimo secolo”, e a “saltare sull’aereo, fare impresa all’estero, studiare all’estero”, prendere “il jet” per fare un giro oltremare, e magari abbandonare l’idea di “vivere sul debito in eterna espansione piuttosto che dover guadagnare quello che spendiamo”. Succede a Londra, dove il ministro degli Esteri William Hague, ex capo dei Tory, rivisitando il “prendi la bicicletta e vai a cercare lavoro” di thatcheriana memoria, dice in un’intervista al Sunday Telegraph due o tre cose che non si sentono e forse non si pensano nell’Italia che parla volentieri di “quello che (non) ha”, per dirla con i cahiers de doléances televisivi di Roberto Saviano e Fabio Fazio, e meno volentieri di quello che (non) fa per uscire da una mentalità che spesso cozza contro i tempi, il “ventunesimo secolo” di cui parla Hague, quello dove si deve “fare di più” con risorse più scarse, concetto introiettato a suo tempo dal ministro, ex allievo dello Yorkshire con famiglia impegnanta nel business delle bevande analcoliche.

Difficile, difficilissimo immaginare un Hague a Roma. Nel ’49 Alcide De Gasperi aveva detto qualcosa di simile all’Italia malconcia del Dopoguerra, quella del Neorealismo, piena di energia ma non ancora giunta sulla via del boom: se non c’è lavoro “imparate una lingua e andate all’estero”, ma il concetto, che si scontrava con il solidarismo tipico dell’impostazione ideologica di area Pci, finì al tappeto, tra le idee furiosamente impopolari che periodicamente si affacciano. Lavorare sodo, coltivare lo spirito avventuriero del “più rischio più guadagno”: la linea immaginaria De Gasperi-Hague non è conciliabile con la lamentela declinata con tono da mortorio ineluttabile, col bestiario cupo dei nostri giorni, e rischia la scomunica riservata alle battute di Mario Monti, caduto improvvisamente negli inferi della generale riprovazione, di sinistra come di destra, per aver detto “che noia il posto fisso”, per giunta in tempi di crisi.

E però qualcuno accoglie le parole del ministro degli Esteri inglese con un “finalmente”. Angelo Panebianco, politologo ed editorialista del Corriere della Sera, “sottoscrive” tutto quello che ha detto Hague, ancora memore della volta in cui, a una trasmissione televisiva, si trovò a dibattere “con un ospite scandalizzato anche soltanto al pensiero di un giovane che si sposta da sud a nord, figurarsi dall’Italia all’estero”. “L’idea prevalente è che tutti debbano restare nel bozzolo, protetti non si sa da che cosa”, dice Panebianco. “E non importa far notare che magari a spostarsi sono i più svegli, gente che prima o poi tornerà e porterà idee nuove e ricchezza nuova. Niente: un ragazzo che va dove ci sono maggiori opportunità è quasi inconcepibile. Si rimane bloccati in una rete di protezione familiare che è contemporaneamente rete di servizi non visibili resi alla famiglia stessa. C’è una sorta di ideologia nazionale contraria alla mobilità geografica in un paese dove la situazione di bassa crescita, protraendosi per lungo tempo, ha fatto sì che si consolidassero fortissimi interessi al mantenimento dello status quo. E non importa se questo significa resistere alla crescita”.

Dall’area “Noise from Amerika”, collettivo di economisti italiani giunti oltreoceano come “cervelli in fuga”, dove pure il professor Sandro Brusco dice “non mi piacciono le prediche morali, prima le riforme”, giunge un “sì senza dubbio” allo “stop ai lamenti e lavorate” pronunciato da Hague: “Ha ragione da vendere”, dice Michele Boldrin, docente alla Washington University in Saint Louis, “si cresce solo producendo di più e produrre di più richiede che si lavori di più e meglio, la domanda viene da lì”.

Poi c’è chi l’aereo l’ha già preso, come il ventinovenne calabrese Emiliano Ferragina, ricercatore ad Oxford, convinto che in Italia “la generazione dei venti-trentenni non sia ancora entrata nell’ottica giusta: molti sono ancora convinti che vivranno e lavoreranno nelle condizioni usate – e sfruttate – dai propri genitori. Noi abbiamo avuto un’ottima adolescenza pagata da genitori che hanno avuto un’ottima età lavorativa, ma dobbiamo capire che ora è diverso, e che un’età lavorativa più tribolata, meno sicura, non significa necessariamente un dramma. Scontiamo una cultura poco dinamica, ma è vero anche che cerchiamo lavoro in un quadro vecchio, con un sistema educativo inadeguato ai tempi. Risultato: molti giovani si sono incartati, ma non serve, ora, piangersi addosso”. “Rimboccarsi le maniche”, dice il giovane direttore dell’Istituto Bruno Leoni Alberto Mingardi, “e rendersi conto che impegnadosi a raggiungere qualcosa magari lo si raggiunge è concetto che fa fatica ad affermarsi in una società che da vent’anni è stata assillata dall’idea del ‘prendersi la vita più comoda’, del non dare troppa importanza ai soldi. Ora però ci si accorge che la decrescita non è un fenomeno felice”. La visuale è un’altra, dice Mingardi, si comincia ad avvicinarsi alla constatazione che “gli uomini fanno quel che fanno perché gli manca qualcosa. Tuttavia in Italia, per un uomo politico che viene vissuto come persona ‘sottratta alla tempesta del mercato’, è difficile parlare come Hague senza incontrare resistenza”. Per esempio le parole del ministro degli Esteri inglese non piacciono a Lucia Annunziata: “Prima si trovino i soldi per far ripartire l’Europa, il problema non è lo stile di vita”, dice respingendo le esortazioni di Hague con un “no, grazie, è solo retorica speculare a quella sui bamboccioni e sui fannulloni, e lo dico non per difesa dei giovani. Mi verrebbe da dire: ora sono i politici che devono andare e fare, invece di scaricare il barile sul lifestyle”. Dal think tank Italia Futura, invece, lo storico Andrea Romano, convinto che “il jet vada preso, sì, ma tra i 18 ei 24 anni, sapendo di avere la possibilità di tornare indietro”, invita a riflettere sul fatto che “in questo decennio depressivo, permeato di pessimismo rinunciatario così diverso dall’ottimismo un po’ ideologico degli anni Ottanta e Novanta” si siano diffuse “ricette difensivistiche da clima declinista, come se fossimo condannati a crescere poco, come se il declino fosse una condizione strutturale, come se la crescita fosse negativa di per sé, come se si fossero irrimediabilmente ridimensionate le nostre aspettative”.
William Hague può suonare cinico, di sicuro non è iperprotettivo (ma anche l’iperprotezione può uccidere).
© - FOGLIO QUOTIDIANO

mercoledì 16 maggio 2012

Vorrei

Vorrei leggere un libro non sponsorizzato da "Repubblica", vorrei vedere un film che non piace agli intellettuali di sinistra, vorrei andare in vacanza dave non vanno i radical chic, vorrei mangiare cibi non biologici, vorrei non avere il fotovoltaico, vorrei non versare il 5 per mille ai soliti noti, vorrei andare a piedi o in bicicletta quando lo decido io, vorrei dare ai miei figli l'educazione che ritengo più consona, vorrei parlare bene di Berlusconi e male di Monti, vorrei dire che sono di centrodestra ... senza che ci sia qualcuno che alza il ditino e mi rimprovera di non essere politicamente corretto.

venerdì 11 maggio 2012

Gambizzato e isolato. Davide Giacalone

Più passano le ore, e oramai i giorni, più fa impressione il vuoto istituzionale, politico e culturale creatosi attorno a Roberto Adinolfi, amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, gambizzato lunedì mattina. Sembra che il delinquente sia la vittima, o, quanto meno, che una volta prese adeguate informazioni queste suggeriscano l’opportunità di non esporsi. Eppure, nel gennaio scorso, quando due cittadini cinesi, Zhou Zenge e la figlia Joy, furono ammazzati, a Roma, il presidente della Repubblica si precipitò in ospedale per visitare la moglie e madre delle vittime, portare la solidarietà degli italiani e assicurare che le autorità competenti avrebbero fatto di tutto per assicurare alla giustizia i colpevoli. Lo fece sebbene il commerciante cinese fosse stato rapinato di una notevole somma di denaro, frutto della raccolta che faceva quotidianamente, presso i colleghi, i quali non versavano i guadagni in banca, ma a lui. Quindi non è che fosse poi tutto così limpido, ma ciò non toglie che era stato ammazzato e che il presidente volle testimoniare l’assenza, in Italia, di odiosa xenofobia. Giustissimo, bravo. Ora, però, non vorrei si fosse razzisti contro gli italiani.

Al Quirinale s’è celebrata anche la giornata dedicata alle vittime del terrorismo, ma a nessuno è venuto in mente che ce n’è una ancora con la gamba fracassata da una pallottola, sicché, forse, si poteva celebrarla a Genova, quella giornata o, comunque, dire da Roma che ci si sentiva tutti gambizzati. Una parola, un gesto, un pensiero. Nulla.

Napolitano sta alla larga, ma in quell’ospedale non si sono visti membri del governo o capi partito. Nessuno. E siccome tutto questo è pazzesco, abbiamo il dovere di chiedercene il perché. Dato che le risposte possono essere diverse, ma nessuna bella, desidero prima di tutto manifestare la mia personale solidarietà a chi è stato vilmente colpito, esprimendo anche la speranza che sia arrestato non solo il gruppo di fuoco, ma tutta intera l’organizzazione di cui fa parte, che siano condannati e che nessuno li scarceri perché magari si diranno pentiti, come spero che esista, da qualche parte, un’intercettazione telefonica dedicata alla prevenzione del terrorismo, oltre alle quintalate impiegate per scandagliare il pericolosissimo meretricio.

E veniamo agli errori di Adinolfi. Primo: si è fatto sparare da gente che suscita gli entusiasmi sbagliati. Avesse avuto cura di farsi gambizzare da quelli che prendono gli applausi fra le svastiche e le croci celtiche, oggi potrebbe contare su una corale solidarietà, invece l’ambientino che festeggia è quello del terrorismo comunista che, come si sa, non può e non deve esistere, e se si firma in quel modo vuol dire che è “sedicente”, o frutto delle macchinazione dei “servizi deviati”. Non so chi abbia sparato, ma so che la rete frizza di comunisti assassini e compagni d’assassini, che parteggiano per gli sparatori. Indagando seriamente si potrebbe individuarli e arrestarli tutti. Secondo errore: lavorare per Finmeccanica. Non sta bene, il nome di quell’azienda deve essere accoppiato a due concetti: armi e tangenti. E che vuole, la solidarietà? Terzo errore, aggravante del secondo: per giunta dirige un’azienda impegnata nel nucleare. Che sarebbe la dimostrazione della nostra eccellenza tecnologica, nonostante il masochismo che ci tiene fuori dal nucleare civile, ma, invece, lascia lo spazio a sospetti: lavora quasi solo all’estero, si muove nei paesi dell’est, ha commesse milionarie, chissà che ha combinato. Insomma, non si arriva a dire che hanno fatto bene a sparargli, ma ci manca un pelo.

Gli uomini dello Stato italiano, conoscendo bene sé stessi, si vergognano dello Stato italiano, e delle sue aziende. Quindi corrono a solidarizzare con le vittime cinesi, ma risparmiano sul telegramma ad un italiano, sospettando che, un giorno, potrebbe essere loro rimproverato. Come quando non si seppe vedere il sorgere del terrorismo, negli anni settanta del secolo scorso. Sono fatti di pasta tremula, che s’irrigidisce solo nell’arroganza di voler conservare il posto. Sul Colle più alto si regolino come credono, ma avrei un consiglio per il trio schiaffeggiato nelle urne, Alfano, Bersani e Casini: partano da Roma in ginocchio e si rechino a Genova, chiedendo scusa per il ritardo. Lo facciano per rispetto di sé stessi. Se poi si dimostrerà che il colpevole è lo sparato, anziché lo sparatore, si ricordino che in quelle aziende le nomine le fa la politica, cioè loro.

giovedì 10 maggio 2012

Per la sinistra c'è Première dame e Première dame...

Guai (seri) a chi tocca Valérie. Non ha ancora messo ufficialmente piede all’Eliseo ma la nuova Première dame di Francia già punisce chi osa “offende” il suo ruolo. La prima vittima della signora Trierweiler in Hollande è stato il giornalista sportivo della stazione radiofonica RTL, Pierre Salviac, che all'indomani della vittoria elettorale del suo compagno François ha ‘cinguettato’ qualcosa che ha dato tremendamente fastidio alle orecchie di Valérie: “A tutte le mie colleghe dico: ‘fate sesso utile, avrete una chance di ritrovarvi première dame di Francia’”.

Un tweet che per essere stato considerato sessista e volgare è costato addirittura la carriera al cronista. Il post condannato senza riserve dalla rete ha scatenato le ire della direzione dell'emittente radiofonica che prima ha emesso un comunicato in cui si condannano “senza alcuna riserva” le parole “intollerabili e totalmente inaccettabili” del giornalista e poi ha annunciato l'interruzione del rapporto di collaborazione. E non sono bastate le scuse di Salviac per quel cinguettio un po’ infelice. La blogosfera lo ha messo al rogo senza ripensamenti.

Quella stessa blogosfera che fino a due giorni fa non si è fatta problemi a sbeffeggiare anche con toni non troppo sobri chi ha preceduto Valérie, Carla Bruni, coprendola di sfottò e battutine d’ogni genere. Come volevasi dimostrare, l’opinione pubblica in soli due giorni di distanza ha dimostrato riguardo alle due signore di usare due pesi e due misure. E per un solo tweet! Della serie, perché una Première dame di sinistra non è uguale a una Première dame di destra…(l'Occidentale)

Campane. Jena

Fossi un leader politico rifletterei su queste parole citate da Hemingway: «Non chiedere mai per chi suona la campana. Essa suona per te». (la Stampa)

mercoledì 9 maggio 2012

Movimento 5 stelle


Significato delle 5 stelle:

1)Energia pulita

2)Acqua pubblica

3)Internet libero

4)Rifiuti zero e riciclaggio spinto

5)Piste ciclabili

http://www.beppegrillo.it/iniziative/movimentocinquestelle/Programma-Movimento-5-Stelle.pdf

Da Hollande all'Ue. Davide Giacalone

Chi pensa la Francia sia andata a sinistra ha perso l’orientamento. Chi pensa sia ora aperta la via per il ritorno alla spesa pubblica allegra ha perso anche tutto il resto. La costante elettorale europea, in questa stagione, è una sola: chi governa perde le elezioni. E le perde non solo a causa della crisi, ma perché dimostra di non sapere come uscirne. Vale per ogni dove, Germania compresa (la signora Merkel perde le elezioni amministrative una appresso all’altra, mentre i suoi alleati, liberali, sono evaporati). Gli elettori europei hanno voglia di punire chi li governa, e se potessero votare sull’Europa e sull’euro farebbero sentire la loro rabbia. I francesi, poi, non hanno affatto smesso di votare: al primo turno presidenziale la maggioranza era di destra; al secondo hanno mandato a casa Sarkozy; a giugno voteranno per il Parlamento, facendoci entrare trionfalmente la pattuglia della Le Pen. Alla faccia della svolta a sinistra. Il risultato finale potrebbe essere la coabitazione, fra un presidente socialista e una maggioranza parlamentare diversa. Verso la stessa sorte viaggiano i tedeschi. In Gran Bretagna già c’è un governo di coalizione (cosa rarissima, da quelle parti). Quella è la formula prevalente, resta da stabilirsi la cosa più interessante: per fare cosa?

La vittoria di François Hollande è un bene, ma solo perché è la sconfitta del predecessore e del suo avere incarnato l’arroganza cieca dell’Europa parametrale, asservendosi al governo tedesco. Il programma di Hollande è un’illusione, consistente nel credere che si possa viaggiare a ritroso nel tempo, riconquistando il passato. E’ l’eterno equivoco che ottenebra la sinistra, non appena s’abbandona ai propri incubi: credere che la ricchezza si possa prenderla ad altri, anziché produrla. Resto dell’opinione qui argomentata: facendo vincere Hollande i francesi hanno fatto un piacere a noi e all’Europa, meno a sé stessi.

Il problema vero, adesso, non è stabilire come reagiscono i mercati, perché lì siamo, oramai, nel campo della superstizione. La relazione fra le cose che accadono realmente e i drizzoni di borse e valute è in gran parte immaginifica, sicché fanno ridere tanti titoli di giornali. Fin qui l’unica cosa che ha somministrato bromuro agli speculatori è stata la decisione della Bce di dare liquidità alle banche, affinché la riversassero nei debiti pubblici. Il sintomatico ha funzionato, ma scemano gli effetti. Occorre dedicarsi alla sostanza.

Così vedo le cose: a. per far funzionare l’Europa parametrale c’è solo la ricetta tedesca, difatti ci siamo dotati di un governo presieduto da chi si definisce “il più tedesco degli economisti italiani” e ci siamo dedicati ai “compiti a casa”, tale ricetta ha un difettuccio, dato che porta gli elettori europei a desiderare la fine dell’Unione e dell’euro, né si può sostenere abbiano torto, perché gli effetti recessivi di tale ricetta sono evidenti; b. pensare di mollarla per adottare eurobond e altri strumenti destinati a stare nel solco delle scelte Bce significa non avere capito un accidente di come la crisi è nata e ci ha sventrati; c. la vera strada alternativa consiste nel rimediare all’errore originario, vale a dire aver fatto nascere l’euro prima dell’Europa, il che vuol dire maggiore integrazione istituzionale, maggiore omogeneità politica (elettori europei che votano per l’Europa), maggiore devoluzione dagli stati nazionali alle istituzioni federali. La classe dirigente europea dimostrerà d’esistere quando si cimenterà con questo problema, altrimenti ci sarà un portentoso rinculo.

Francesi, tedeschi, spagnoli, greci, italiani e tutti noi europei votiamo in dialetto. Usando il vernacolo vediamo crescere contradaioli assatanati, che schiumano rabbia in lotte di quartiere. Intanto il mondo viaggia su rotte globali, assistendo esterrefatto e divertito (fregandosi le mani) a quei quattro pirla viziati d’europei che sono fra i più ricchi e potenti al mondo, ma non contano nulla, si fanno la guerra fra di loro (in Libia la si è fatta con le armi, mica a chiacchiere, e anche per questo è una gioia vedere Sarkozy imboccare l’uscita), nel mentre i loro cittadini non sanno più chi far vincere pur di far perdere chi governa.

Qui non tira vento di sinistra, né di destra. Qui si deve cambiare aria e riprendere a pensare con la mente rivolta al futuro, senza la paura di mollare la gran parte di quel welfare state che nei miti collettivi sarebbe lo stato capace di favorire il benessere, ma nei conti effettivi è lo stato che brucia ricchezza producendo tassazione & lottizzazione.

venerdì 4 maggio 2012

La missione di Bondi. Davide Giacalone

La sorte del governo, quindi anche di questa anomala stagione istituzionale, è nelle mani di Enrico Bondi. Il commissario con cui il governo commissariale ha deciso di commissariarsi. La scommessa è quella di effettuare tagli della spesa pubblica in tempi e misura tali da potere evitare, il prossimo settembre, di far crescere di altri due punti l’iva, bastevoli per aggravare la recessione e far salire esponenzialmente la pressione sociale. Temo che tale scommessa sarà fallita, ma credo anche che sarebbe meglio fosse vinta. Quindi va preso sul serio, il lavoro assegnato a Bondi.

I trascorsi professionali di Bondi sono eccellenti, ma incongruenti: lo Stato non è un’azienda e la spesa pubblica non ha nulla a che vedere con il bilancio societario. La continuità che si chiede a Bondi, quindi, consiste non tanto nell’esperienza già fatta, ma nell’autonomia e non condizionabilità già dimostrate. Sono sicuro che tali qualità resisteranno alla prova, lo sono meno che portino al risultato auspicato. Ma lo spero. Teniamo i piedi per terra e cerchiamo di capire cosa e come si può fare, valutandone anche le conseguenze politiche.

La spesa pubblica ammonta (dati 2011) a 820 miliardi. 87 se ne vanno per pagare gli interessi sul debito pubblico. Tale cifra è destinata a crescere, sia perché il debito non si comprime, sia perché i mercati continuano a penalizzarci e la camicia di forza di un euro non governato c’impedisce la difesa, quindi paghiamo tassi d’interesse alti. Per tagliare questa spesa c’è un solo modo: abbattere il debito pubblico. Farlo aumentando la pressione fiscale è suicida, ma anche inutile. La fiscalità forsennata fa scendere produzione e consumi, deprime il prodotto interno lordo e, quindi, fa crescere il peso percentuale del debito. La via sana è quella di vendere il patrimonio pubblico non adeguatamente valorizzato e non essenziale. E’ enorme, il che ci permetterebbe non solo di sdebitarci, rientrando nella media europea, ma di accumulare risorse per investimenti pubblici in infrastrutture, con il doppio beneficio di modernizzare il Paese e far crescere il pil. Fin qui non s’è visto nulla, sicché restiamo in pochi a parlarne.

Tolti gli oneri del debito, meno della metà della spesa rimanente se ne va in pensioni e sussidi ai bisognosi. Si può pensare di togliere qualche sussidio mal indirizzato, si può cancellare qualche invalidità inesistente, si può fare pulizia (che è un bene), ma gran risparmi non se ne fanno. Resta l’altra parte, più della metà, all’incirca il 24% del pil, che è composto da spese fisse: stipendi e acquisti. Posto che la spesa per investimenti è ridotta al lumicino, dato che quando i governi devono tagliare non fanno che accanirsi su quella voce (oramai sono rimasti 36 miliardi), il grosso del lavoro si deve fare sui costi fissi. E qui sono dolori.

Da tempo vado sostenendo che si devono cambiare regole del gioco, lasciando al mercato il compito d’amministrare convenientemente anche risorse dirette a scuola, sanità, giustizia, ecc.. Temi sui quali torneremo, perché da lì, dal bisogno di far dimagrire il ciccione statale, anche ridiscutendo il welfare, non si scappa. Ma restando nello schema attuale, né è credibile che Bondi possa cambiarlo da qui a settembre (gli hanno dato poteri commissariali, mica imperiali e globali), tagliare significa mettere lì le mani. Tenuto presente che le due componenti si reggono a vicenda: più hai dipendenti, più paghi in stipendi, più paghi in strutture e acquisti con i quali occuparli. E’ il mostro statale: più è grosso, più ti costa, più accrescere funzioni, soffocando quelli che producono ricchezza, siano essi imprenditori o lavoratori.

Il Pdl non è stato capace di tagliare questa spesa, riformando la macchina statale. E’ una responsabilità politica, per niente attenuata dall’avere avuto in seno componenti schiettamente stataliste o scioccamente federaliste. Però, almeno, quella parte politica si diceva teoricamente favorevole a un simile indirizzo. Il Pd, invece, non solo non è mai stato favorevole, ma quando un suo esponente, Nicola Rossi, si spinse a ragionare di questi temi lo misero alla porta. Ora, voi volete dirmi che, da qui a settembre, il Pd è pronto a favorire una politica di tagli nel settore stipendi e acquisti, così invertendo la propria posizione e dando torto ai sindacati, in primis alla Cgil? Non è che non mi piacciano i miracoli, è che faccio fatica a crederci.

Tutto ciò senza dimenticare che i tagli devono servire a diminuire la pressione fiscale, altrimenti il loro effetto è recessivo. Meno delle tasse, ma comunque recessivo.

mercoledì 2 maggio 2012

Il pareggio di bilancio? Frena la crescita. Antonio Martino

Il 16 marzo 1876 Marco Minghetti annunziò trionfante il raggiungimento dell'obiettivo perseguito con tenacia per anni: il pareggio del bilancio pubblico. Gli uomini della Destra storica consideravano quell'obiettivo condizione ineliminabile di correttezza nella gestione della cosa pubblica: come le famiglie e le imprese, anche lo stato non doveva fare il passo più lungo della gamba, spendere soldi che non aveva, indebitandosi. Erano perfettamente consapevoli del fatto che tale politica era contraria al loro interesse di parte (la "tassa sul macinato" era molto impopolare) ma ciononostante la proseguirono perché credevano che realizzasse l'interesse nazionale.

Il 18 marzo la "rivoluzione parlamentare" fece cadere il governo e, dalle successive elezioni, la Destra storica scomparve. E' stata la classe politica di gran lunga migliore che l'Italia unita abbia avuto e il suo suicidio politico a occhi aperti lo conferma. Il 24 ottobre 1946, alle ore 17, si riunì la Sottocommissione all'Assemblea costituente. La riunione fu molto breve il che può essere spiegato in un solo modo: erano tutti d'accordo sul significato di quello che stavano facendo, specie per l'ultimo comma dell'articolo 81 che, come voi sapete, recita «ogni altra legge che imponga nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte». A quella riunione partecipavano due personaggi fra loro molto diversi, uno piemontese e l'altro lombardo, uno liberale e l'altro democristiano, uno liberista e l'altro fautore della programmazione, ma che avevano in comune la stessa tradizione culturale incorporata negli studi italiani di scienza delle finanze e che concordavano assolutamente su questo punto. I due personaggi si chiamavano Luigi Einaudi ed Ezio Vanoni.

Luigi Einaudi in quella riunione disse che l'ultimo comma dell'articolo 81 costituisce «il baluardo rigoroso ed efficace voluto dal legislatore allo scopo d'impedire che si facciano nuove o maggiori spese alla leggera senza avere prima provveduto alle relative entrate». Questa tesi fu appoggiata dall'onorevole Ezio Vanoni, il quale precisò che «la norma è una garanzia della tendenza al pareggio del bilancio e che è opportuno che, anche dal punto di vista giuridico, il principio sia presente sempre alla mente di coloro che propongono spese nuove». «Il governo deve avere la preoccupazione che il bilancio sia in pareggio e la stessa esigenza non può essere trascurata da una qualsiasi forza che si agiti nel paese e che avanzi proposte che comportino maggiori oneri finanziari». Come noto, a partire dai primi anni Sessanta quella regola venne abbandonata: il governatore della Banca d'Italia la definì (1963) «principio arcaico», un famigerato giurista di sinistra ha costruito la sua formidabile carriera sostenendo in un ponderoso volume che l'articolo 81 non poteva imporre il pareggio del bilancio… perché ciò sarebbe stato contrario alla teoria keynesiana! Il risultato fu che quella regola fu ignorata finché non è stata riscoperta per "salvare" l'Europa (sic).

In realtà il principio del pareggio è regola sacrosanta quando le pubbliche spese non superano il 10% del reddito nazionale (come al tempo di Minghetti) o si aggirano sul 30% (come all'epoca di Einaudi e Vanoni) ma, quando il rapporto della spesa pubblica sul reddito nazionale supera il 52% come adesso, il perseguimento del pareggio realizzato tentando di fare aumentare le entrate è semplicemente demenziale e ha conseguenze potenzialmente disastrose. A questi livelli di spesa la forma di finanziamento - imposte o indebitamento - è del tutto irrilevante: si tratta di un livello insostenibile e incompatibile con lo sviluppo e l'occupazione. Pareggiare il bilancio significa pretendere di prelevare con i tributi il 52% del reddito al contribuente medio; quanto dovrebbero sborsare coloro che hanno redditi superiori alla media, il 60 o 70 per cento, e le imprese il 90 o più percento? Solo un folle può credere che la crescita sia possibile in queste condizioni.

L'Italia non era a rischio di default: è il paese più solido della zona dell'euro; il governo "tecnico" non l'ha salvata da un bel niente, non ha "messo in sicurezza i conti", né tanto meno creato le condizioni della crescita. Si è limitato a piegarsi supinamente di fronte all'idiotismo del diktat tedesco sintetizzato nello sciagurato fiscal compact, impegnando di pareggiare il bilancio entro il 2013 (ora slittato al 2014), dimostrando che l'economia non è pane per i denti di tecnici arroganti e ignoranti. Come avrebbe detto il maestro di Milton Friedman (Frank Knight): "Il guaio non è che sanno così poco di economia, il vero guaio è che sanno tante cose sbagliate"! (Notapolitica)

Gli errori della lotta all'evasione. Gianni Pardo

La lotta all’evasione fiscale viene vista da molti come uno dei rimedi ai problemi finanziari del Paese. Il ragionamento è semplice: ammesso che ci sia un’evasione del trenta per cento, se lo Stato fosse in grado di scovare i cattivi contribuenti e di costringerli a pagare il dovuto, il gettito fiscale aumenterebbe del trenta per cento, con grande sollievo delle finanze pubbliche.

Sembra ovvio e non è. Dalla indubbia plausibilità morale ed istituzionale di queste iniziative non deriva necessariamente la loro opportunità economica.

Il punto di vista morale è semplice. Dei servizi dello Stato beneficiamo tutti e questi servizi sono pagati con le tasse e le imposte: dunque chi ne approfitta ma poi non paga la sua parte somiglia a qualcuno che va al ristorante con gli amici ma al momento di pagare si rifiuta di contribuire. E questa è cosa eticamente ed economicamente inammissibile. Gli evasori, come ha ripetuto uno spot televisivo del Ministero, sono simili ai parassiti delle piante e degli animali. Costringerli a fare il loro dovere è cosa giustissima.

Questa attività di repressione non dovrebbe però tendere a ricuperare gettito per l’erario: infatti l’aumento di tale gettito non sempre è una cosa positiva.

Questo concetto è meglio chiarito con un esempio. Immaginiamo che il gettito fiscale dello Stato sia del quarantacinque per cento del prodotto interno lordo e che l’evasione sia al 30%. Se si eliminasse in un solo colpo l’evasione, il gettito aumenterebbe di quel 30% e la pressione fiscale andrebbe all’incirca al 58,5%. Trionfo? No: disastro. Infatti una pressione del 58,5% strangolerebbe il Paese.

Il ragionamento può essere ulteriormente semplificato così. Si immagini un Paese con una pressione fiscale del 50% e una evasione fiscale del 50%. Qui, se tutti pagassero il dovuto, il gettito raddoppierebbe e si arriverebbe ad una pressione fiscale del 100%: cioè lo Stato sequestrerebbe tutta la ricchezza prodotta e non si capisce di che cosa vivrebbero i cittadini.

Chi vuole avere la lana deve tosare la pecora, non ammazzarla. La pressione tributaria non può andare oltre un certo limite, sia perché sarebbe una rapina nei confronti dei cittadini, sia perché, se si esagera con tasse e imposte, l’economia langue e il gettito fiscale diminuisce invece di aumentare.

C’è un detto, giustissimo, che si ripete spesso: “Se tutti pagassimo le tasse tutti ne pagheremmo meno”. O almeno, sarebbe giustissimo se lo Stato, una volta che avesse successo nella lotta all’evasione fiscale, poi si ricordasse della seconda parte del detto. Se invece con quella lotta vuole far cassa sbaglia obiettivo e può danneggiare la nazione.

Anche qui soccorre un esempio elementare. Immaginiamo che ci siano settanta imprenditori che pagano il dovuto, poniamo dieci a testa, e trenta imprenditori che evadono tasse e imposte e non pagano niente. Lo Stato incassa settanta. Poi con la lotta all’evasione identifica i trenta infedeli, li costringe a pagare ma quelli, che erano marginali, falliscono, non pagano niente e mettono sul lastrico i loro impiegati e i loro salariati. Se invece lo Stato identificasse i trenta evasori e li costringesse a pagare sette a testa, e sette a testa pagassero anche i contribuenti fedeli, lo Stato incasserebbe gli stessi settanta dell’inizio: la pressione fiscale non aumenterebbe e ci sarebbe un rilancio dell’economia. I trenta imprenditori meno efficienti riuscirebbero infatti a sopravvivere, i settanta più efficienti, versando meno allo Stato, potrebbero investire di più, potrebbero modernizzare le loro aziende ed essere più competitivi in campo internazionale.

La lotta all’evasione deve avere come scopo l’equa suddivisione del carico fiscale, non il suo aumento. Fra l’altro un abbassamento della pressione fiscale disincentiva la tentazione dell’evasione e può far aumentare il gettito. I cittadini che con entusiasmo vindice sono felici di vedere colpiti gli evasori hanno sentimenti condivisibili dal punto di vista morale ma non condivisibili dal punto di vista economico. Lo Stato dovrebbe mettersi a dieta e frenare la sua ingordigia. Non dovrebbe avere più soldi, ne succhia già abbastanza. Dovrebbe divenire più bravo nell’esazione per riscuotere da tutti, ma meno da ognuno.

È stato ripetutamente mostrato uno spot televisivo che denuncia gli evasori fiscali come parassiti della società, in quanto consumano beni e servizi che non hanno contribuito a finanziare. L’immagine è corretta. Ma non si dovrebbe dimenticare che anche la pubblica amministrazione vive della ricchezza che i cittadini producono. La lezione sui parassiti va fatta sia agli evasori fiscali sia allo stesso Stato, che ogni tanto farebbe bene a guardarsi allo specchio. (il Legno storto)

1 maggio 2012. Andrea Marcenaro

Pare che ce l’abbia fatta, Cheng Guangcheng. Che sia riuscito a fuggire tra mille pericoli dalla sua abitazione nel nordest della Cina, dove lo tenevano in arresto illegalmente, e che abbia raggiunto Pechino per rifugiarsi nell’ambasciata americana. Tra l’altro è cieco, il dissidente Cheng, e raccontano che sia caduto più volte nel corso della fuga, dovendo perfino scavalcare un muro. Ce l’ha fatta, comunque, e questo rende felici. E un po’ felici rende anche la notizia che le organizzazioni pacifiste italiane, per una volta senza riserve e pregiudizi, stiano applaudendo gli americani per aver accolto Cheng a casa loro, subito e senza tentennamenti, affrontando tensioni col regime e seccature che molti altri paesi si sono e si sarebbero risparmiati. Insomma, fa piacere vedere gli Agnoletto, i popoli viola, quelli arcobaleno e le solite meritorie onlus, manifestare finalmente sotto l’ambasciata a stelle e strisce lanciando fiori invece che invettive. Poi, certo, che discorsi, farebbe ancora più piacere se fosse vero. © - FOGLIO QUOTIDIANO

martedì 1 maggio 2012

Rivoluzione non tagli. Davide Giacalone

Mi fa paura leggere che il governo è alla caccia di quattro miliardi. Non perché siano tanti o perché va a finire che li cercheranno nelle mie tasche, ma perché sono pochi e inutili. Mi fa rabbia leggere Giulio Tremonti, che racconta oggi quel che si deve fare e annette alla cattiveria del mondo quel che non hanno fatto, stando al governo. Sono facce del medesimo dado disgraziato, quello che comunque lo butti porta alla disfatta. I cittadini guardano disincantati i politici e i tecnici, non riuscendo a credere che qualche cosa possa cambiare. Non ci credono neanche quelli che siedono al governo, e lo dimostrano giorno dopo giorno.

L’Italia ha un sistema produttivo forte, capace di sopravvivere tenacemente alla guerra mossagli da un sistema pubblico, statale e territoriale, demenziale e distruttore di ricchezza. Nel mentre si piange il lutto della grande crisi ci sono aziende che portano a casa risultati esaltanti e la nostra capacità d’esportare cresce, nonostante una valuta sopravvalutata e non governata. Siamo degli strafichi, destinatari di ammirazione quando ci muoviamo per il mondo. Poi, però, torniamo a casa e troviamo una rappresentazione straziante della vita pubblica, ciascuno impegnato a spiegare quanto facciamo schifo. Abbiamo imprenditori che trottano per il globo cercando di vendere eccellenze, seguiti a ruota da governanti che ripassano negli stessi posti cercando di vendere insuccessi e debiti. Basterebbe dare una mano ai primi per avere meno miseria da piazzare.

Il fatto realmente drammatico è che l’Italia che lavora è produce è finita in minoranza, laddove il potere è nelle mani di burocrazie voraci e improduttive, che s’impancano anche a giudici morali di quelli che le mantengono. Spezzate questo maleficio e l’Italia schizza in alto. Ecco perché mi fa paura un governo che cerca quattro miliardi: è inutile, si deve puntare a quattrocento di dismissioni, per abbattere il debito pubblico, e quaranta di tagli alla spesa pubblica, ripromettendosi di andare oltre. Né l’una né l’altra cosa sono possibili se non cambiando schema di gioco. Non si tratta d’aggiustare il presente, ma di cambiarlo profondamente, altrimenti si finisce come Tremonti: prima a dire cosa si deve fare, poi a spiegare perché non lo si fa. Ed ecco perché quella della spending review sta diventando un’insopportabile gnagnera, giacché se hai una gamba in cancrena la tagli, mica fai le analisi accurate per sapere in quanto tempo la puzza di morto ti mangerà il cervello.

La spesa pubblica si rivoluziona in due modi: a. ridescrivendo le competenze e le responsabilità; b. restituendo al mercato tutto quello che non è ragionevole faccia lo Stato. Le province non vanno accorpate, come sostengono i ripetitori a vanvera della Bce. Andavano chiuse negli anni settanta, un secolo fa, oggi vanno accorpate le regioni e va smantellata la rete disfunzionale delle autonomie locali, dove la frammentazione di competenze e responsabilità crea una confusione amministrativa che umilia i cittadini e danna le imprese. I governi centrali favoleggiano di delegificazioni e semplificazioni, ma parlano al nulla mentale di chi fa finta di non sapere che le fonti degli obblighi e delle burocrazie sono divenute innumerevoli. Vanno chiuse. Chi crede nelle autonomie locali deve volere la fine di questi enti locali, ricordando che l’unica entità appartenente alla nostra storia è il comune. Dalla sanità alla scuola, dalla giustizia al turismo, il decentramento italiano è un fallimento costosissimo. Finché non lo si ammette si proverà a tagliuzzare la spesa, che è come potare i rovi: più accorci e più infestano.

Restituire al mercato è più facile di quel che si crede: milioni d’italiani hanno forme assicurative private relative alla sanità, a quegli stessi paghiamo le cure mediche. Si può essere più scemi? Se avessimo un vero mercato della salute, anziché i privati che prendono soldi dal pubblico, scopriremmo quel che si sa altrove, ovvero che questo è un settore che crea benessere e ricchezza, mentre da noi è noto per i disagi e i debiti. Se si taglia in modo tradizionale si finisce con il colpire i malati, se si cambia mentalità si aggredisce la malattia, consistente in sistemi amministrati a cavolo, oscillando fra l’ignoranza e la criminalità, con costi mostruosi annidati laddove non si soccorre e cura nessuno.

Per farlo abbiamo bisogno di gente che ci creda. E che sia credibile. Abbiamo bisogno di una classe dirigente che non è quella sulla scena.