sabato 30 ottobre 2010

Nessuna pressione del Premier. Luca Fazzo

(...) L’altro ieri la questura aveva dato la sua versione: «In man­canza di posto in comunità di accoglienza, d’accordo col tri­bunale dei minori, venne affi­data ad una persona che si era occupata di prendersene cu­ra ». Il Cavaliere, nelle sue ester­nazioni di ieri, spiega di avere «mandato alla questura una persona per dare aiuto a una persona che poteva essere con­segnata alle comunità o alle carceri» e che si trovava in un «quadro di vita tragico». Ver­sioni che sembrano coincide­re, anche se in nessuna delle due si fa cenno alla telefonata. Ma una cosa è sicura: a pren­dere la decisione non fu da so­la la giovane e inesperta funzio­naria di questura capitata di turno, ma anche un magistra­to. Non il tribunale dei minori, come afferma il questore, ma più precisamente la Procura dei minori. E, ancora più preci­samente, il sostituto procura­tore che era di turno quella not­te e che venne contattato dalla polizia.

E che ha poi riferito, carte alla mano, al suo capo: il procuratore Monica Frediani. Una bella e gentile signora che spiega: «Questo caso è stato a lungo per noi un caso come un altro. Ecco, solo parecchio tempo dopo il fermo abbiamo intuito che c’era qualcosa di particolare intorno, perché ci siamo imbattuti in un nome da rotocalco». (Si riferisce, pro­babilmente, alla richiesta di af­fido temporaneo di Ruby avan­zata dalla figlia di Lele Mora). Intende dire che quella sera la questura non vi parlò di una te­lefonata dal governo? «Assolu­tamente no». E allora perché deste il via libera al suo rila­scio? «Rispondo in linea gene­rale: nel caso di minorenni sen­za famiglia, la prassi è l’invio in comunità. Ma se si tratta di mi­norenni di diciassette anni e mezzo, che magari dalle comu­ni­tà si sono allontanati più vol­te, e se aggiungiamo che può accadere che lì per lì non si tro­vi un posto libero, allora se c’è una persona adulta, già in rap­porti non occasionali con il mi­nore, che si offre di prenderse­ne cura, allora accade con una certa frequenza che si scelga questa strada».(...) (il Giornale)

La barzelletta del bunga-bunga

Due ministri del governo Prodi vanno in Africa, su un’isola deserta, e vengono catturati da una tribù di indigeni. II capo tribù interpella il prima ostaggio e gli propone: “Vuoi morire o bunga-bunga?”. II ministro sceglie: “Bunga-bunga”. E viene violentato. II secondo prigioniero, davanti alla scelta, non indugia: “Voglio morire!”. E il capo tribù: "Va bene, prima bunga-bunga, poi morire".

La Predellina risponde a Severgnini. Anna Adornato

Se mai dovesse accadermi di riprodurmi e avere una piccola stirpe di nipotini, a loro come ai posteri cui lascerò le mie memorie, narrerò di quanto grandioso e assolutamente fondamentale sia stato Berlusconi per le sorti dell’Italia.


1) E' come le cucine, il più amato dagli italiani: segretamente ognuno vorrebbe essere Silvio Berlusconi, e anche quelli che lo odiano, gli augurano ogni male o che “si arrabbiano“, nel tinello di casa loro sognano di essere come lui, che è l’epifania della Cenerentola dei giorni nostri. Di umili e modeste origini, ha reinventato se stesso e creato un impero dal niente, costruito case, città, televisioni, dato lavoro a centinaia di migliaia di famiglie, fermato gioiose macchine da guerra pericolosamente alla ribalta e tutto nell’arco di una sola vita. Berlusconi è un’eterna promessa di riscatto in formato uomo.

2) Lo sanno tutti che anche i santi peccavano sette volte al dì: a parte la difficile applicabilità pratica dei comandamenti evangelici, uno ha il dovere di condannare pubblicamente condotte palesemente ingiuste ed immorali anche se non sempre gli riesce di essere uno stinco di santo, il tutto nella serena consapevolezza di essere peccatore in attesa del perdono del buon Dio.

3) Per un gaio individualismo non statalmente vessato: contrariamente a quanto disse una volta uno, non è che le tasse siano una cosa bellissima, se poi le inasprisci non è che l’effetto sia assai dissimile dall'incoraggiare ancor più l’evasione fiscale; in generale poi, evitare di far percepire lo Stato come nemico (che resta convenzione e artificio esterno mica struttura naturale) è un piccolo miracolo a cui Berlusconi ha voluto lavorare negli anni.

4) Ora, a parte che Lunedì c’è Gad Lerner con l’Infedele, il Martedì Floris regala perle e amenità varie in un parzialissimo Ballarò, Mercoledì ci pensa la D’amico che proprio amica nostra non è, il Giovedì è tutto per sua maestà della libera partigianeria Sant’oro, - il Venerdì se Dio vuole almeno quello è libero (in compenso però c’è la copertura della Gruber spalmata per tutti i feriali) - e il fine settimana c’è il fazioso Fazio a completare l’assortimento, mi spiegherebbe Severgnini con parole semplici come avessi cinque anni cosa esattamente intendeva con “tutte le televisione sono le sue”? - questo è il momento in cui di solito rivaluto l’idea di usare la tv come poggiatoio per centrini, gondole veneziane e suppellettili varie.

5) Il modello (e il messaggio), socio-esteticamente parlando, contano: ora, arriva uno che ti mostra quanto si può essere, ricchi, enormemente ricchi, facoltosi, contornati da donne belle, bellissime, che poteva anche essere uno sfigato come tanti in mezzo a tanti, e invece no, ti ha dimostrato che uno come te, uno con un po’ di sale in zucca, se si rimbocca le maniche può evitare di finire in fila alla mensa della Caritas o fare la raccolta punti alla Coop, ma fare cose grandiose ed epocali, cambiare il mondo, ed essere molto, molto felice - e Severgnini vuol fare credere che il buon esempio e sua sana propaganda non generino esternalità positive?

6) Vedi alla voce empatia tra le umane genti: non c’è nulla di male a mettersi a cincischiare di vernici con l’ imbianchino, o discettare della qualità di legnami col falegname, solidarizzare col vicino per la tubatura che s’è rotta nella notte o ancora, voler essere “lavoratore tra gli operai, giovane tra i giovani”ecc. Calarsi tra la gente, creare vincolo affettivo con il proprio “popolo” che rompa l’asperità del potere e restituisca un volto umano alla politica austera, non è proprio una sciagura.

7) Il maschio che ogni femmina vorrebbe: non esistono più i maschi di una volta, quelli che una femmina la facevano sentire femmina corteggiandola come si conviene - rose, inviti a cena, asfissianti lusinghe, premurose attenzioni, disponibilità post-coito a dormire insieme in letti grandi e pure seguente colazione mattutina mano nella mano - e insomma, qui si tiene a precisare che ci fosse un aspirante fidanzato come Silvio (anche povero ma di pari galanteria) si è prontissime ad impalmarlo.

8) Dell’amore volontario: altro che Signoria, è come il patto narrativo che unisce lettore e narratore, nella personale narrazione di sé che Silvio effonde e regala al suo popolo, il popolo sa benissimo di trovarsi in un delizioso gioco delle parti dove l’una corteggia ed è corteggiato a sua volta; è amore sì, ma mica amore qualsiasi, è amore volontario e spontaneo come l’indulgenza che gli si accorda, è frutto di una scelta revocabile e razionale, mica di addomesticamento delle coscienze.

9) E niente, scusateci se fuori c’è il deserto dei tartari - per questa basta l’aggiunta del sottotitolo “avere uno straccio di proposta politica in mezzo al vuoto del manierismo anti-berlusconiano è un duro lavoro ma qualcuno deve pur farlo”

10) Il partito dell’amore mica per niente: siamo antropologicamente diversi perché mica ci rallegriamo “della sconfitta della contrada rivale“, o per dire, passiamo il tempo a picchiare portavoce o lanciare statuine del duomo in testa alla gente; l’invidia rancorosa o il godimento per le disgrazie del vicino non appartengono alla nostra cultura, che è all’insegna di un gaudente edonismo per i frutti del duro lavoro.

Piccola postilla a margine. Severgnini inserisca pure due o tre adagi partenopei, un signora-mia-una-volta-qui-era-tutta-campagna (sempre di sicuro effetto) e il catalogo del luogo comunismo sarà completo. (il Predellino)

venerdì 29 ottobre 2010

Guerra civile istituzionale, Davide Giacalone

Inviamo un messaggio chiaro ai giovani: se non sei un criminale, al Ros (Reparto operativo speciale) dei Carabinieri non ti pigliano, quindi è inutile fare domanda. L’ex comandante, Mario Mori, è accusato di concorso esterno con la mafia. L’attuale comandante, Giampaolo Ganzer, è stato condannato a quattordici anni di galera, in primo grado, quale trafficante di droga. Spero, con queste parole, di avere donato serenità ai tanti italiani che, poveri illusi, credono nello Stato e nella giustizia. Ora, invece, mi rivolgo agli italiani che cercano di capire quel che sta succedendo: è in corso, da anni, uno scontro durissimo fra apparati dello Stato. Una guerra civile interna alle istituzioni. La guerra non è segreta, né nascosta. Si svolge sotto gli occhi di tutti. Salvo che pochi sono in grado di capirla. Gli altri, la gente per bene che spera di potersi fidare, chiede solo di applaudire i veri combattenti contro la mafia. Ma non hanno ancora finito di battere le mani a uno che già arriva l’accusa del contrario. Allora applaudono chi li accusa, e poi vengono a sapere, con le mani ancora rosse, che le cose stanno diversamente. Io stesso ho tante volte scritto di queste cose, cercando d’essere il più lineare e semplice possibile. Poi ricevo messaggi dei lettori: in queste cose siciliane non ci si capisce un accidente. Lo ammetto, sono complicate. Ma non sono siciliane.
Mettiamo qualche fatto in fila, così cerchiamo d’intenderci. Una volta le indagini sulla mafia si facevano cercando di far parlare i picciotti e ricostruire gli alberi genealogici delle cosche. Tempo perso, roba buona per la letteratura. L’innovazione arriva con Giovanni Falcone, che trova in Rocco Chinnici (lo stesso che chiamo Paolo Borsellino a collaborare) un consigliere istruttore capace di capire e assecondare, la chiave è semplice: messe da parte tutte le minchionerie rituali e le fanfaluche sull’onore, la mafia è tale per avere potere e soldi, le indagini, quindi, vanno fatte sui soldi. Il che porta a rintracciare fili diversi, che collegano i mafiosi agli appalti truccati e questi alle aziende che partecipano e vincono, intente a riciclare i soldi provenienti da traffici illeciti. Fili che portano fuori dalla Sicilia.
Il primo a saltare in aria è Chinnici, il 29 luglio 1983, ucciso con tecnica definita “libanese”: una macchina imbottita d’esplosivo. Sistema che fece scuola. Falcone e Borsellino continuano a lavorare, non cambiando approccio. Incontrano mille difficoltà e, alla fine, sono entrambe dei perdenti. Mettetevelo in testa: prima ancora di morire avevano già perso, perché erano isolati e perché s’impediva loro di lavorare. La responsabilità di questo ricade, principalmente, sul Consiglio Superiore della Magistratura. Il teorizzatore politico della loro sconfitta ha nome e cognome: Luciano Violante.
Uno dei prodotti del loro metodo è il lavoro commissionato al Ros: il rapporto mafia-appalti. Prendete fiato, qui siamo al dunque. Falcone perde il posto e non riesce ad arrivare alla procura antimafia nel mentre sollecita questo rapporto. Borsellino incontra segretamente Mori per invitarlo ad andare avanti. Guardate le date: il 23 maggio 1992 Falcone viene ammazzato, il 19 luglio successivo tocca a Borsellino, il 20 luglio, il giorno appresso, la procura chiede l’archiviazione del rapporto, disposta il 14 agosto, in una Palermo assolata e vacanziera, in un’Italia che ancora non ha capito.
Mori punta il dito contro la procura di Palermo. La procura di Palermo accusa Mori e trascina i carabinieri del Ros sul banco degli imputati. Sergio Di Caprio, detto “Ultimo”, subisce il processo per non avere perquisito la casa di Riina. E’ assolto con formula piena. Poi dice: “in dibattimento non vedevo il pm, ma Riina”, erano i corleonesi che si stavano vendicando. Davanti a questa scena, ammesso che riesca a seguirla senza svenire, chi cavolo applaude il cittadino per bene, quello che ci vuole credere, quello che ha fiducia? Forse è meglio che si prenda a schiaffi, per svegliarsi.
Intanto la retorica un tanto al chilo celebra l’eroismo lungimirante delle due icone, che aveva provveduto a neutralizzare: Falcone e Borsellino. E mentre celebra e falsamente si commuove va sostenendo che tutti i loro collaboratori erano mafiosi. Se fossero vivi si potrebbe indagare anche loro, siccome sono morti ammazzati, si fa fare loro la parte degli scemi.
Queste non sono faccende sicule, questa è la merda calda della guerra civile interna alle istituzioni. Quelli che si dimenano per apparire e vivere la loro giornata da protagonisti, i procuratori che amano guardarsi allo specchio e riconoscersi eredi di coloro che non hanno manco capito, quelli che cercano la ragione politica che spieghi lo scontro ventennale, sono solo contorno. Folclore. Lo scontro di potere si svolge in un’altra stanza, più vicina ai soldi, alle società apparentemente pulite, magari quotate, al riciclaggio che viaggia intorno al mondo, con i canali della finanza. Nulla di occulto, ma molto forte e convincente, coinvolgente mondi e interessi diversi. Capace di comprare. Al pubblico s’ammollano le figurine Panini della raccolta retorica per allocchi.
Bene, ora possiamo tornare ad occuparci delle cose serie, dalle quali dipende il nostro avvenire collettivo: con chi s’è trastullato, ieri notte, il presidente del Consiglio? Ci avete fatto caso? tutte meridionali.

Gli uomini di Stato diventati martiri dello Stato. Vittorio Sgarbi

Invece di perseguitare i delinquenti, la magistratura mette sotto processo i servitori delle istituzioni. Da Lombardo a Contrada, da Ganzer a Mori. L'ultima vittima è Pollari, alla sbarra per il sequestro dell'imam Abu Omar, gli vogliono dare 12 anni.

È una storia lunga e vergognosa. Comincio con le accuse naturalmente da Santoro di Leoluca Orlando nei confronti del maresciallo Lombardo, accusato di essere colluso con la mafia. Il maresciallo Lombardo era il comandante dei Carabinieri di Terrasini. Infamato, senza fondamento e senza prove, si uccise. Analoghe accuse furono fatte dal procuratore Caselli al tenente dei Carabinieri Canale, uomo capace, che godeva l'assoluta fiducia di Borsellino. Ucciso Borsellino, anche Canale fu ritenuto colluso con la mafia. Forte e coraggioso, ha resistito, per anni, difendendosi nei tribunali. Qualche mese fa, dopo essere stato mortificato e umiliato per anni, è stato riconosciuto innocente. Destino diverso è toccato a Bruno Contrada, condannato senza prove e difeso strenuamente da un avvocato «coraggioso e radicale» come Pietro Millio. Non si è mai capito che cosa abbia fatto Contrada, in che modo abbia favorito la mafia. Si sa soltanto che investigava in epoche e con metodi in cui non c'erano pentiti à gogo e intercettazioni ambientali capillari; e occorreva utilizzare i confidenti, garantendo loro favori e parziali impunità. Per la stessa ragione fu arrestato l’allora colonnello (poi promosso generale) Conforti, comandante dei Carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio artistico. Cosa aveva fatto Conforti? Aveva, con grande abilità, ritrovato la reliquia della mandibola di Sant'Antonio da Padova sottratta al tesoro del santo dalla cosiddetta mafia del Brenta, per volontà di Felice Maniero detto «Faccia d'Angelo».

Naturalmente Conforti ottenne lo straordinario risultato attraverso confidenti avvicinati con l'abilità di non farsi riconoscere e con gli espedienti del mestiere di ogni buon investigatore. Operazione non corretta. Dopo averlo difeso in televisione con grande veemenza, lo andai a trovare nel carcere militare di Peschiera dove stava in una cella stretta e profonda, come Silvio Pellico. Lo vidi in maniche di camicia, desolato, ma non umiliato, sconcertato ma non pentito, e lontano dall'idea di avere compiuto un qualsivoglia delitto. Era in carcere per aver compiuto il suo dovere. Sull'aereo che mi portava a Verona, il destino mi fece sedere a fianco di un ragazzotto dall'aria furba e tranquilla: era lo stesso Felice Maniero, pentito e quindi libero, autore del furto per cui il colonnello era in galera. Un rovesciamento tipico della giustizia malata. Avendomi riconosciuto, e conoscendo il mio temperamento, Maniero cercò di farsi piccolo nel suo sedile, forse temendo che io lo aggredissi. Ero più che indignato. Andavo a trovare un uomo onesto in galera, mentre il delinquente era libero e impunito. Dopo qualche tempo, a forza di urlare, Conforti fu liberato. Inutile dire che l'accusa era senza fondamento e che dopo qualche tempo fu completamente prosciolto (e, appunto, promosso). Erano comunque tempi difficili. Un uomo da tutti riconosciuto onesto e capace, e un valoroso magistrato, Luigi Lombardini, si convinse, al di là delle sue competenze dirette, a occuparsi del rapimento di Silvia Melis. La situazione appariva drammatica, perché non c'erano precedenti di rapiti in Sardegna che fossero stati liberati senza pagare il riscatto. Ci fu dunque una trattativa e Lombardini fece la sua parte, trattando e forse incontrando i rapitori. Nichi Grauso, con la tipica valentia dei veri sardi, mise la somma necessaria e andò direttamente a consegnarla. La Melis fu così liberata trovando il modo di far credere che fosse scappata. Indagati tutti, per non aver lasciato morire l'ostaggio e, in particolare, incriminato Lombardini per essersi messo in mezzo e aver tentato una trattativa. Fu così messo sotto inchiesta dalla Procura di Palermo, ancora una volta Caselli con quattro sostituti procuratori. Appena usciti dalla sua stanza i «colleghi» di Palermo, che erano ancora vicini, e in attesa di essere perquisito e magari arrestato, prese una pistola dal cassetto della sua scrivania e si sparò.
La causa scatenante del gesto non mi pare dubbia; ma il Csm che si occupò della vicenda non osservò l’anomalia dell’irruzione e dello scioccante interrogatorio, ma concluse che tutto era stato regolare, che nessuno aveva commesso abusi, e che l'interrogatorio era stato formalmente corretto. Insomma, Lombardini si era ucciso perché era troppo sensibile. Cazzi suoi.

In tempi più recenti abbiamo assistito a l'incriminazione e alla condanna di un altro generale, il generale Ganzer, che io ho anche incontrato e che, essendo stato tutta la vita diligente corretto e operoso nel combattere i trafficanti di droga, improvvisamente ha deciso di farsi complice dei suoi nemici e collaborare con loro a spacciare la droga. Un esempio di pentitismo alla rovescia. Si è pentito di essere onesto, ottenendo grandi risultati, nella zona grigia delle inchieste tra collaboratori e confidenti creandosi con ciò non imprevedibili nemici, è stato condannato a 14 anni di carcere, dunque dire che ha scelto di fare il carabiniere non perché credeva nella giustizia e nell'onestà ma perché non vedeva l'ora di avere l'occasione di diventare un criminale. Non diversamente aveva lavorato nei servizi segreti (da noi sempre sospettati delle peggiori infamie e, per così dire, fisiologicamente deviati) il generale Pollari, cercando di contrastare il terrorismo, non potendo pensare di farlo convertendo fanatici kamikaze islamici. Anche lui un genio del male, per di più servile nei confronti del governo. Perché non chiedere, per Pollari, 12 anni di carcere? Insomma, i criminali vanno cercati tra le forze dell'ordine. L'esempio più luminoso è il generale Mori. Torturato per anni, trascinandolo sotto processo per favoreggiamento aggravato in relazione alla mancata cattura di Bernando Provenzano, oggi viene incriminato per concorso esterno in associazione mafiosa. Naturalmente, a concorrere a questa attività criminosa, non poteva mancare anche un altro carabiniere, il colonnello Giuseppe De Donno, e anche il capitano Antonello Angeli. Insomma, tre carabinieri che avendo il compito di combattere la mafia, hanno pensato di favorirla. Per favorirla meglio, il generale Mario Mori ha catturato Totò Riina. E per farsi perdonare non ha perquisito bene il suo covo, così come il capitano Angeli non ha aperto la cassaforte di Massimo Ciancimino dove era custodito il «papello» con le richieste di Totò Riina allo Stato. Gente strana questi carabinieri: mettono in galera i mafiosi e non aprono le casseforti. Insomma il figlio e collaboratore del padre Vito Ciancimino mafioso, e il generale Mori, in questa insalata russa hanno le stesse responsabilità nel concorrere a sostenere la mafia. Ma di Ciancimino si capiscono le ragioni. Di Mori, di De Donno, e di Angeli restano misteriose. Inutile pensare alla missione compiuta. Occorre sputtanarli confondendo le carte in una assoluta mancanza di rispetto e di rigore morale per chi ha deciso da che parte del campo stare. Ma, inseguendo i criminali, si è fatto loro simile. Continuo a guardare con indignazione i professionisti dell'Antimafia e credo che la verità l'abbia intuita il colonnello De Caprio, il capitano «Ultimo», che, riconoscendo «le più raffinate manovre Corleonesi» parla di «un attacco da parte di forze oscure che dall'interno di Cosa nostra vogliono distruggere il valoroso generale Mori». Non sarà che Riina si vendica del generale Mori attraverso i magistrati che lo hanno incriminato? (il Giornale)

Dieci domande ai segugi di Repubblica. Filippo Facci

Le dieci domande di Repubblica sul caso Noemi segneranno lo scorso decennio come l’amaro Ramazzotti segnò i mitici Anni Ottanta, peraltro con il medesimo e collaterale effetto ubriacante. Forte dei devastanti risultati ottenuti (Berlusconi non fu neanche indagato e migliorò la sua popolarità, ma il Paese la peggiorò in tutto il mondo) ieri Repubblica ha infilato un’altra maxi-inchiesta stavolta sulla Noemi nera, cioè sul drammatico caso del bunga-bunga e della minorenne marocchina che ha raccontato di alcuni festini con ragazze & politici a casa di Berlusconi.
Libero, tra un dossier e l’altro e nella consapevolezza che non è mai tardi per imparare, ha deciso di rivolgere ai maestri di Repubblica altre dieci e fondamentali domande che permettano persino ai propri lettori, notoriamente duri di comprendonio, di capirci qualcosa.
1 - Avete scritto che «l’inchiesta giudiziaria è «forse già compromessa da un’accorta fuga di notizie». Vi brucia così tanto che Il Fatto vi abbia bruciato sul tempo?
2 - Premesso che appunto l’inchiesta è già «compromessa», avete scritto che «sembra più importante osservare ciò che si scorge di politicamente interessante». Morale, un buco nell’acqua anche ’stavolta?
3 - Nicole Minetti, la ragazza che ospitò la marocchina a casa sua, è un’ex igienista dentale di Berlusconi nonché ballerina di Colorado Cafè, in marzo paracadutata nel listino bloccato di Formigoni che la fece eleggere nel Consiglio regionale della Regione Lombardia. Non vi sembrava già questo, senza bisogno d’altro, già sufficiente?
4 - La marocchina - leggiamo sempre su Repubblica - ha sostenuto che durante l’ultimo incontro ad Arcore si è ritrovata a cena con George Clooney ed Elisabetta Canalis e Daniela Santanchè. Ora: vi sembra credibile che un personaggio conosciuto in tutto il mondo, inseguito dai paparazzi e insomma celeberrimo, possa essersi prestato a uno scenario del genere? Non credete che la Santanché avesse di meglio da fare?
5 - Clooney. What else?
6 - Andiamo al cuore del problema: il bunga bunga. La ragazza, secondo i verbali da voi riportati, racconta di un cerimoniale condiviso da «un lungo elenco di nomi celebrati e popolari, in televisione o in Parlamento... Io ero la sola vestita»; in precedenza la medesima aveva citato «conduttrici televisive celebri o meno note, star in ascesa, qualcuna celeberrima, starlet in declino, qualche velina, più di una escort, ragazze single e ragazze in apparenza fidanzatissime, due ministre». Due ministre. Due ministre nude, visto che, tra tutte, l’unica vestita era la marocchina, che si chiama Ruby. Ora: le ministre del governo sono Mara Carfagna, Giorgia Meloni, Vittoria Brambilla, Stefania Prestigiacomo e Mariastella Gelmini. È questo che dobbiamo credere o immaginare? La Meloni completamente nuda accanto alla Brambilla (o a un’altra) che fa il misterioso bunga bunga, waka waka, poti poti?
7 - La ragazza, Ruby, secondo la vostra inchiesta ha messo a verbale che Emilio Fede la passò a prendere con un’auto blu. Qui in Italia le era già capitato, che voi sappiate, di uscire con altri uomini di colore?
8 - Le indagini, scrivete, «hanno accertato anche quanto rasentava l’incredibile», e cioè che le giovani ospiti di Arcore, nei loro colloqui, hanno usato più volte l’espressione gergale del «bunga bunga». Sicuri che non abbiano intercettato due bergamasche?
9 - Ruby, che poi sarebbe la marocchina-falsa-egiziana, secondo la vostra inchiesta ha mostrato dei gioielli avuti in regalo da Berlusconi, un abito, croci d’oro, collane, orecchini, orologi, orologi con brillanti, haute couture (alta moda) e ancora: una Mercedes, 150mila euro in contanti e la promessa che il premier le avrebbe comprato un centro benessere. Ora: nonostante sia arcinota la prodigalità di Berlusconi, non avrebbe fatto prima a comprarsi un tir di bielorusse dal suo amico Putin o direttamente un harem da Tarak Ben Hammar? In subordine, e scusandoci per la tonalità politically uncorrect - ma la giustizia, si sa, non guarda in faccia nessuno - osiamo insistere: Ruby ha mostrato ai magistrati dei gioielli avuti in regalo da Berlusconi, cioè un abito bianco e nero di Valentino con cristalli Swarovski, croci d’oro, collane, orecchini, orologi, orologi con brillanti marca Rolex, Bulgari, Dolce&Gabbana, Milan Club e «Meno male che Silvio c’è», oltre a capi o accessori di alta moda. Siete proprio sicuri che la marocchina, la merce, non la stesse vendendo?
10 - In definitiva: Ruby rubava e avrebbe detto a Berlusconi di avere 24 anni quando invece ne aveva 17, inoltre - scrivete - «esclude di aver fatto sesso col capo del governo», inoltre - scrivete - Berlusconi non è indagato e anzi, potrebbe uscirne come parte lesa. Di che stiamo parlando? (Libero)

giovedì 28 ottobre 2010

Giustizia agghiacciante. Davide Giacalone

In un Paese in cui una procura suppone che il capo del Ros dei Carabinieri sia complice della mafia ha un senso parlare di giustizia? La procura che ha già accusato altri collaboratori di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino di avere favorito i mafiosi ed essersene serviti, salvo poi vederli assolvere “perché il fatto non sussiste”. E’ lo stesso Paese in cui ogni riforma della giustizia passa nel tritatutto dello scontro fra potere legislativo e ordine giudiziario, sicché chiunque ci metta mano finisce sul banco degli accusati o degli appestati, magari con il signor procuratore che va a fare il parlamentare. Ed è lo stesso Paese in cui il Parlamento lavora ad una riforma dell’ordinamento forense, la legge che regola la professione degli avvocati, riuscendo a fare dei passi indietro rispetto alle timide innovazioni introdotte. E’ il Paese delle corporazioni e delle trame, degli interessi minuscoli che campano all’ombra di guasti maiuscoli. Un Paese culla del diritto, ma con una tendenza impressionante all’infanticidio.


E’ il Paese in cui guardi il telegiornale e quelli trasmettono l’audio degli interrogatori relativi ad un omicidio, con le indagini ancora in corso. Il presunto omicida racconta come ha strangolato la vittima, come si dibatteva, quanto tempo ha impiegato a soffocarla. Fai fatica a crederci, cerchi nei siti dei giornali più autorevoli (si dice così? diciamo quelli che se la tirano per l’essere seri e ponderati, naturalmente al di sopra delle parti) e puoi risentire tutto. Poi leggi che si dovrebbe avere pietà per la vittima. Si dovrebbe avere pietà, semmai, per il processo, per una giustizia degradata a reality show. E’ il Paese in cui si cominciò pubblicando gli avvisi di garanzia e le accuse ancor prima che il cittadino accusato le conoscesse, anni prima che divenisse imputato, un decennio prima che se ne accertasse l’innocenza, e che ora entra direttamente nella sala dei primi interrogatori, con un disprezzo assoluto di ogni e qualsiasi cosa si voglia chiamare “giustizia”.

Il Paese in cui si discute da quindici anni su come difendere l’autonomia del potere legislativo, dopo che un Parlamento braccato e tremebondo cancellò l’istituto dell’immunità parlamentare, nato dalla cultura democratica e dalla volontà di sbarrare la strada alle dittature. Il tutto senza che si abbia il coraggio di ripristinare quel che i Costituenti vollero. Non sarebbe popolare, dicono. Perché, è popolare continuare a supporre che il capo del governo, liberamente votato dalla maggioranza degli elettori, sia un mafioso, un corruttore, un intrallazzatore e un violentatore di minorenni, senza che le accuse trovino il blocco della difesa istituzionale o lo sbocco delle sentenze? E’ il Paese in cui la maggioranza politica s’impicca a lodi mal pensati, incalzata da una magistratura che allestisce la forca e insapona la corda, nel mentre l’informazione piazza le telecamere. Un Paese d’incoscienti che danzano assieme agli incompetenti, su un palcoscenico in cui la coreografia giudiziaria è di cartapesta e la giustizia è negata al resto della cittadinanza. Lo stesso da cui i capitali stranieri si tengono alla larga, perché non vai ad investire in un posto dove ci mettono un secolo a giudicare bagatelle come un assegno scoperto o una bancarotta provocata dal fatto che l’imprenditore ha usato i quattrini per i propri vizi. Così diventa il Paese in cui si racconta la storia alla luce delle “rivelazioni” fatte da malacarne criminale, manovalanza di macelleria, o figli di mafiosi che fanno parlare il babbo morto.

La scena politica è occupata da un gran dilemma: se si toglie la reiterabilità, ovvero l’uso ripetuto, i finiani sono pronti a votare il lodo Alfano. E sai che emozione! Se passa il principio che l’istituzione si difende una volta sola, allora facciamo la legge. Così mettono in gazzetta ufficiale l’ennesima pezza già bucata, senza neanche considerarne l’irrilevanza, la ridicola insufficienza e limitatezza rispetto ai guasti profondissimi della giustizia. Lo voglio io lo scudo, in quanto cittadino, e credo consista in una giustizia funzionante, che può anche accusarmi ingiustamente, ma velocemente mi toglie le mani di dosso e non mi devasta la vita. Ma di questo, non frega niente a nessuno.

Ed è il disgraziato Paese in cui la cultura e le cattedre sono pronte a firmare appelli se al boia mediatico è sottratta qualche testa, ma non si scandalizzano se le toghe di magistratura mirano solo alla carriera (e alla sede vicino casa) e le toghe d’avvocatura al quattrino, pretendendo le tariffe minime e la propria parcella anche quando le parti mediano fra di loro.

Uno spettacolo agghiacciante e sconfortante. Noi, abitanti dell’altro Paese, dell’altra Italia, sappiamo con certezza una cosa: questa compagnia di giro deve sbaraccare. E sparire, se possibile.

mercoledì 27 ottobre 2010

Feltri-Belpietro: "Giornalisti di destra disprezzati. E il Pdl ci ha lasciato soli".

Due pesi e due misure. E’ il metronomo che dà il tempo al refrain da trent’anni in voga: i giornalisti di centrosinistra sono intelligenti, politicamente corretti e per questo coccolati dalla parte politica di riferimento con promozioni e carriere di vertice, mentre quelli vicini al centrodestra sono cattivi, puzzano anche un po’ e stanno nella “trincea” dell’informazione “controllata dalla cultura egemone” in perfetta solitudine, snobbati e quasi bistrattati da quel centrodestra che, invece, li dovrebbe sostenere nelle loro battaglie. Scorre su questo clichè il dibattito promosso dalla “Scuola di Gubbio” sulla libertà di stampa, voluto dal ministro Sandro Bondi con l’obiettivo di manifestare solidarietà ai giornalisti cosiddetti di area.


Lo si capisce subito dalle parole di Vittorio Feltri, direttore de Il Giornale che va dritto al punto: intorno ai giornalisti di centrodestra “c’è il deserto", c’è disprezzo, e “se non ci aiutate voi non ce la faremo. Per favore dateci una mano...”. Un appello-denuncia, raccolto e rilanciato dai direttori di Libero, Maurizio Belpietro e del Tg1 Augusto Minzolini, davanti ai ministri Bondi, Brunetta, La Russa, al sottosegretario Santanchè e al parterre di politici tra i quali i presidenti dei deputati e dei senatori Pdl, Cicchitto e Gasparri, il coordinatore nazionale del Pdl Denis Verdini. Un vero e proprio grido d’allarme sulla libertà di stampa in Italia, minacciata da potentati e associazioni di categoria e non difesa adeguatamente dalla maggioranza.

“Nei nostri confronti c’è diffidenza anche nel centrodestra. Gli esponenti di governo – è il j’accuse di Feltri - preferiscono rilasciare interviste al Corriere della Sera, più che al Giornale o a Libero, perchè è più chic. E’ il risultato di oltre trent’anno di disprezzo per i giornalisti non di sinistra”. L’esempio pratico che usa per evidenziare il suo chaier des doleances è l’inchiesta sulla casa di Montecarlo che secondo il direttore de Il Giornale “ha creato fastidio nel centrodestra, che dopo due mesi di inchieste e raccolta di testimonianze non ha neanche presentato un’interrogazione parlamentare per fare luce sulla vicenda”. La conseguenza, afferma, è che “siamo abbandonati dal Pdl, ma è anche vero che non riusciamo ad organizzarci. Noi non vogliamo avvicinarci al sindacato, composto evidentemente da molte persone che non hanno voglia di lavorare; eppure loro ci giudicano e comandano”.

Concetto ribadito con una punta di ironia quando rivolto alla platea che gremisce la sala della Chiesa di Santa Maria non esita a dire, tra gli applausi: “Non vorrei deludervi, ma io ho grande ammirazione per i giornalisti di sinistra. Loro hanno i posti migliori, sono protetti dalle associazioni di categoria e i partiti di riferimento li coccolano. Sono eleganti, chic. Noi poveri giornalisti di destra siamo abbandonati a noi stessi, alcuni dicono che puzziamo. Se i politici di centrodestra non ci aiutano, non riusciremo mai a conquistare la nostra libertà”. Opinioni condivise da Belpietro che a sua volta rilancia: “'Ha ragione Feltri. Veniamo da una cultura liberale e per questo siamo individualisti, non amiamo unirci. Non facciamo parte di quel sistema che ti fa far carriera, che ti protegge dai magistrati. Noi invece siamo inseguiti dall’Ordine e ci sono colleghi che si incaricano di chiuderci la bocca. Non mancano accenti critici ai politici di centrodestra nel ragionamento del direttore di Libero che rivolgendosi a Gasparri, Cicchitto e Verdini aggiunge: “Anche voi avete accettato questo sistema. Preferite rivolgervi ai giornali di centrosinistra, perchè volete la loro legittimazione. Ma se riescono a chiudere la bocca a noi, la chiuderanno anche a voi. Se volete la cricca dell'informazione, tenetevela. E’ un problema vostro”.

La differenza sostanziale con la cultura dell’informazione predominante, secondo il direttore di Libero sta nel fatto che “ognuno di noi non si fa proteggere, va da solo, cerca le notizie. Non facciamo parte di quel sistema che ti fa fare carriera e avanzare, sistema che ti difende dai magistrati, dalla politica quando questa ti attacca”. Il punto è che esiste “una 'cupola' che impedisce di essere informati e di avere una descrizione di cio' che accade in questo paese. Anche di fronte all'evidenza questa 'cupola' riesce a smontare tutto. Sono perfino riusciti a scrivere il falso sulla mia vicenda, sul trasferimento dell'agente, sulla scorta. Sono riusciti a trasformare il tentato omicidio in una sorta di fenomeno paranormale...Mi basterebbe poco per diventare un ‘martire’ anche io, mi basterebbe cominciare a parlare male di Berlusconi…”.

E sulla vicenda della casa di Montecarlo ripete che “ci sono stati giornali e trasmissioni il cui unico impegno è stato quello di dimostrare che era falso il nostro indagare”. Sulla stessa lunghezza d’onda l’analisi di Minzolini per il quale in Italia c’è una cultura, diffusa e ormai sedimentata che penalizza i giornalisti non di sinistra: “E’ un problema antico, che nasce dalla Prima Repubblica. La Dc governava e la cultura apparteneva alla sinistra. Ora, con il bipolarismo, il centrodestra se vuole governare deve produrre una cultura alternativa alla sinistra che non c’è mai stata. Tra me, Santoro e Travaglio c’è una differenza di fondo, perchè loro criminalizzano l'avversario. C’è un clima pericoloso, anche io ho avuto problemi, e non si può rimanere inermi davanti a questo clima”.

Un clima simile a quello del ’94 e del ’96, preceduto “da quello che accadeva in certe trasmission”. Di qui l’invito a “non restare inermi di fronte a questa atmosfera” e l’esempio del suo ultimo editoriale, quando ha parlato di elezioni ed usato la parola 'ribaltone': “Ho avuto problemi per quell'editoriale che di per se' era del tutto banale – spiega il direttore del Tg1 -. L’espressione 'ribaltone' li ha fatti andare fuori giri...". E a dibattito concluso, quando un giovane con la videocamera lo affronta chiedendogli con insistenza come mai l'Italia a proposito di libertà di stampa sia stata collocata dalla Freedom House (organizzazione che cura il rapporto sui media nel mondo) in una posizione lontana da quella dei Paesi considerati virtuosi, Minzolini replica secco: “Come vede invece qui c’è libertà di dire quello che si vuole. In questo Paese chiunque è libero di parlare".

Aprendo i lavori, il ministro Bondi elogia “l’idea alta di informazione, la vera libertà di stampa che caratterizza” i giornalisti di centrodestra, sottolineando che “libertà e autonomia sono cose ancora più importanti per i giornalisti della nostra area”, nel momento in cui “il nostro Paese è malato di faziosità, intolleranza, pregiudizi, preconcetti''. Tutti elementi che “prendono il sopravvento quando si deve prendere una decisione”; insomma un atteggiamento indica non solo l’egemonia della sinistra “che in tutti questi anni ha amplificato il sentimento di odio nei confronti degli avversari politici e in primi di Berlusconi” ma anche “una sorta di incultura e di abbandono della conoscenza della realtà. Noi invece rappresentiamo il contrario, siamo i portatori di un'idea alta dell'informazione, della libertà di stampa, siamo i testimoni di una diversa idea di informazione”.

Daniela Santanchè non si sottrae all’autocritica ricordando come la maggioranza di centrodestra non abbia tutelato fino in fondo i giornalisti di area: “Fino alla caduta del muro di Berlino, fino a tangentopoli, l’informazione è sempre stata con il potere. Ma dopo questi avvenimenti la sinistra ha lanciato le sue truppe, la parte politicizzata dei magistrati e quella molto politicizzata dei giornalisti, creando un asse pm-giornalisti” contro un certo tipo di informazione. E di fronte a questa offensiva “noi non eravamo pronti. Abbiamo lasciato troppo tempo solo Silvio Berlusconi e poi troppe volte abbiamo lasciato soli giornalisti coraggiosi, da Oriana Fallaci a Feltri, da Ostellino a Ferrara a Belpietro”.

Come se ne esce? Per il sottosegretario è arrivato il momento di dire “stop, noi finora non abbiamo reagito''. Ora, ha aggiunto la Santanche', ''siamo qui per dire basta. Il tempo passa e non possiamo aspettare per agire che la sinistra faccia altre vittime. E’ ora di reagire, che non significa passare al contrattacco ma difendere i giornalisti che non hanno paura di svolgere la loro professione in assoluta autonomia battendosi per far cadere il muro dell’egemonia e del politicamente corretto che la sinistra ha eretto in tutti questi anni, facendo terra bruciata attorno a chi la pensava diversamente”.

Va bene la solidarietà, è il commento a lavori chiusi di molti giornalisti di area centrodestra, ma forse alle parole adesso dovrebbero seguire i fatti se è vero come è vero che la “libertà non te la regala nessuno, te la devi conquistare ogni giorno”. Parola di Vittorio Feltri. (l'Occidentale)

Il Cavaliere spiegato ai posteri. Dieci motivi per venti anni di "regno". Beppe Severgnini

«Berlusconi, perché?». Racconta Beppe Severgnini che nel suo girovagare per il mondo infinite volte si è sentito rivolgere quella domanda da colleghi giornalisti, amici, scrittori di diverso orientamento politico, animati da curiosità più che da preconcetti. E così, cercando una risposta per loro, ha cominciato a elencare i fattori del successo del Cavaliere. Umanità, astuzia, camaleontica capacità di immedesimarsi negli interlocutori. Virtù (o vizi?) di Berlusconi, ma anche del Paese che ha deciso di farsi rappresentare da lui. Disse una volta Giorgio Gaber: «Non ho paura di Berlusconi in sé. Ho paura di Berlusconi in me». Quella frase fa da epigrafe a «La pancia degli italiani. Berlusconi spiegato ai posteri», il libro di Beppe Severgnini in vendita da oggi, del quale pubblichiamo l'introduzione.

Spiegare Silvio Berlusconi agli italiani è una perdita di tempo. Ciascuno di noi ha un'idea, raffinata in anni di indulgenza o idiosincrasia, e non la cambierà. Ogni italiano si ritiene depositario dell'interpretazione autentica: discuterla è inutile. Utile è invece provare a spiegare il personaggio ai posteri e, perché no?, agli stranieri. I primi non ci sono ancora, ma si chiederanno cos'è successo in Italia. I secondi non capiscono, e vorrebbero. Qualcosa del genere, infatti, potrebbe accadere anche a loro. Com'è possibile che Berlusconi - d'ora in poi, per brevità, B. - sia stato votato (1994), rivotato (2001), votato ancora (2008) e rischi di vincere anche le prossime elezioni? Qual è il segreto della sua longevità politica? Perché la maggioranza degli italiani lo ha appoggiato e/o sopportato per tanti anni? Non ne vede gli appetiti, i limiti e i metodi? Risposta: li vede eccome. Se B. ha dominato la vita pubblica italiana per quasi vent'anni, c'è un motivo. Anzi, ce ne sono dieci.

1) Fattore umano
Cosa pensa la maggioranza degli italiani? «Ci somiglia, è uno di noi». E chi non lo pensa, lo teme. B. vuole bene ai figli, parla della mamma, capisce di calcio, sa fare i soldi, ama le case nuove, detesta le regole, racconta le barzellette, dice le parolacce, adora le donne, le feste e la buona compagnia. È un uomo dalla memoria lunga capace di amnesie tattiche. È arrivato lontano alternando autostrade e scorciatoie. È un anticonformista consapevole dell'importanza del conformismo. Loda la Chiesa al mattino, i valori della famiglia al pomeriggio e la sera si porta a casa le ragazze. L'uomo è spettacolare, e riesce a farsi perdonare molto. Tanti italiani non si curano dei conflitti d'interesse (chi non ne ha?), dei guai giudiziari (meglio gli imputati dei magistrati), delle battute inopportune (è così spontaneo!). Promesse mancate, mezze verità, confusione tra ruolo pubblico e faccende private? C'è chi s'arrabbia e chi fa finta di niente. I secondi, apparentemente, sono più dei primi.

2) Fattore divino
B. ha capito che molti italiani applaudono la Chiesa per sentirsi meno colpevoli quando non vanno in chiesa, ignorano regolarmente sette comandamenti su dieci. La coerenza tra dichiarazioni e comportamenti non è una qualità che pretendiamo dai nostri leader. L'indignazione privata davanti all'incoerenza pubblica è il movente del voto in molte democrazie. Non in Italia. B. ha capito con chi ha a che fare: una nazione che, per evitare delusioni, non si fa illusioni. In Vaticano - non nelle parrocchie - si accontentano di una legislazione favorevole, e non si preoccupano dei cattivi esempi. Movimenti di ispirazione religiosa come Comunione e Liberazione preferiscono concentrarsi sui fini - futuri, quindi mutevoli e opinabili - invece che sui metodi utilizzati da amici e alleati. Per B. quest'impostazione escatologica è musica. Significa spostare il discorso dai comportamenti alle intenzioni.

3) Fattore Robinson
Ogni italiano si sente solo contro il mondo. Be', se non proprio contro il mondo, contro i vicini di casa. La sopravvivenza - personale, familiare, sociale, economica - è motivo di orgoglio e prova d'ingegno. Molto è stato scritto sull'individualismo nazionale, le sue risorse, i suoi limiti e le sue conseguenze. B. è partito da qui: prima ha costruito la sua fortuna, accreditandosi come un uomo che s'è fatto da sé; poi ha costruito sulla sfiducia verso ciò che è condiviso, sull'insofferenza verso le regole, sulla soddisfazione intima nel trovare una soluzione privata a un problema pubblico. In Italia non si chiede - insieme e con forza - un nuovo sistema fiscale, più giusto e più equo. Si aggira quello esistente. Ognuno di noi si sente un Robinson Crusoe, naufrago in una penisola affollata.

4) Fattore Truman
Quanti quotidiani si vendono ogni giorno in Italia, se escludiamo quelli sportivi? Cinque milioni. Quanti italiani entrano regolarmente in libreria? Cinque milioni. Quanti sono i visitatori dei siti d'informazione? Cinque milioni. Quanti seguono Sky Tg24 e Tg La7? Cinque milioni. Quanti guardano i programmi televisivi d'approfondimento in seconda serata? Cinque milioni, di ogni opinione politica. Il sospetto è che siano sempre gli stessi. Chiamiamolo Five Million Club. È importante? Certo, ma non decide le elezioni. La televisione - tutta, non solo i notiziari - resta fondamentale per i personaggi che crea, per i messaggi che lancia, per le suggestioni che lascia, per le cose che dice e soprattutto per quelle che tace. E chi possiede la Tv privata e controlla la Tv pubblica, in Italia? Come nel Truman Show, il capolavoro di Peter Weir, qualcuno ci ha aiutato a pensare.

5) Fattore Hoover
La Hoover, fondata nel 1908 a New Berlin, oggi Canton, Ohio (Usa), è la marca d'aspirapolveri per antonomasia, al punto da essere diventata un nome comune: in inglese, «passare l'aspirapolvere» si dice to hoover. I suoi rappresentanti (door-to-door salesmen) erano leggendari: tenaci, esperti, abili psicologi, collocatori implacabili della propria merce. B. possiede una capacità di seduzione commerciale che ha ereditato dalle precedenti professioni - edilizia, pubblicità, televisione - e ha applicato alla politica. La consapevolezza che il messaggio dev'essere semplice, gradevole e rassicurante. La convinzione che la ripetitività paga. La certezza che l'aspetto esteriore, in un Paese ossessionato dall'estetica, resta fondamentale (tra una bella figura e un buon comportamento, in Italia non c'è partita).

6) Fattore Zelig
Immedesimarsi negli interlocutori: una qualità necessaria a ogni politico. La capacità di trasformarsi in loro è più rara. Il desiderio di essere gradito ha insegnato a B. tecniche degne di Zelig, camaleontico protagonista del film di Woody Allen. Padre di famiglia coi figli (e le due mogli, finché è durata). Donnaiolo con le donne. Giovane tra i giovani. Saggio con gli anziani. Nottambulo tra i nottambuli. Lavoratore tra gli operai. Imprenditore tra gli imprenditori. Tifoso tra i tifosi. Milanista tra i milanisti. Milanese con i milanesi. Lombardo tra i lombardi. Italiano tra i meridionali. Napoletano tra i napoletani (con musica). Andasse a una partita di basket, potrebbe uscirne più alto.

7) Fattore harem
L'ossessione femminile, ben nota in azienda e poi nel mondo politico romano, è diventata di pubblico dominio nel 2009, dopo l'apparizione al compleanno della diciottenne Noemi Letizia e le testimonianze sulle feste a Villa Certosa e a Palazzo Grazioli. B. dapprima ha negato, poi ha abbozzato («Sono fedele? Frequentemente»), alla fine ha accettato la reputazione («Non sono un santo»). Le rivelazioni non l'hanno danneggiato: ha perso la moglie, ma non i voti. Molti italiani preferiscono l'autoindulgenza all'autodisciplina; e non negano che lui, in fondo, fa ciò che loro sognano. Non c'è solo l'aspetto erotico: la gioventù è contagiosa, lo sapevano anche nell'antica Grecia (dove veline e velini, però, ne approfittavano per imparare). Un collaboratore sessantenne, fedele della prima ora, descrive l'insofferenza di B. durante le lunghe riunioni: «È chiaro: teme che gli attacchiamo la vecchiaia».

8) Fattore Medici
La Signoria - insieme al Comune - è l'unica creazione politica originale degli italiani. Tutte le altre - dal feudalesimo alla monarchia, dal totalitarismo al federalismo fino alla democrazia parlamentare - sono importate (dalla Francia, dall'Inghilterra, dalla Germania, dalla Spagna o dagli Stati Uniti). In Italia mostrano sempre qualcosa di artificiale: dalla goffaggine del fascismo alla rassegnazione del Parlamento attuale. La Signoria risveglia, invece, automatismi antichi. L'atteggiamento di tanti italiani di oggi verso B. ricorda quello degli italiani di ieri verso il Signore: sappiamo che pensa alla sua gloria, alla sua famiglia e ai suoi interessi; speriamo pensi un po' anche a noi. «Dall'essere costretti a condurre vita tanto difficile», scriveva Giuseppe Prezzolini, «i Signori impararono a essere profondi osservatori degli uomini». Si dice che Cosimo de' Medici, fondatore della dinastia fiorentina, fosse circospetto e riuscisse a leggere il carattere di uno sconosciuto con uno sguardo. Anche B. è considerato un formidabile studioso degli uomini. Ai quali chiede di ammirarlo e non criticarlo; adularlo e non tradirlo; amarlo e non giudicarlo.

9) Fattore T.I.N.A.
T.I.N.A., There Is No Alternative. L'acronimo, coniato da Margaret Thatcher, spiega la condizione di molti elettori. L'alternativa di centrosinistra s'è rivelata poco appetitosa: coalizioni rissose, proposte vaghe, comportamenti ipocriti. L'ascendenza comunista del Partito democratico è indiscutibile, e B. non manca di farla presente. Il doppio, sospetto e simmetrico fallimento di Romano Prodi - eletto nel 1996 e 2006, silurato nel 1998 e 2008 - ha un suo garbo estetico, ma si è rivelato un'eredità pesante. Gli italiani sono realisti. Prima di scegliere ciò che ritengono giusto, prendono quello che sembra utile. Alcune iniziative di B. piacciono (o almeno dispiacciono meno dell'alternativa): abolizione dell'Ici sulla prima casa, contrasto all'immigrazione clandestina, lotta alla criminalità organizzata, riforma del codice della strada. Se queste iniziative si dimostrano un successo, molti media provvedono a ricordarlo. Se si rivelano un fallimento, c'è chi s'incarica di farlo dimenticare. Non solo: il centrodestra unito rassicura, almeno quanto il centrosinistra diviso irrita. Se l'unico modo per tenere insieme un'alleanza politica è possederla, B. ne ha presto calcolato il costo (economico, politico, nervoso). Senza conoscerlo, ha seguito il consiglio del presidente Lyndon B. Johnson il quale, parlando del direttore dell'Fbi J. Edgar Hoover, sbottò: «It's probably better to have him inside the tent pissing out, than outside the tent pissing in», probabilmente è meglio averlo dentro la tenda che piscia fuori, piuttosto di averlo fuori che piscia dentro. Così si spiega l'espulsione e il disprezzo verso Gianfranco Fini, cofondatore del Popolo della libertà. Nel 2010, dopo sedici anni, l'alleato ha osato uscire dalla tenda: e non è ben chiaro quali intenzioni abbia.

10) Fattore Palio
Conoscete il Palio di Siena? Vincerlo, per una contrada, è una gioia immensa. Ma esiste una gioia altrettanto grande: assistere alla sconfitta della contrada rivale. Funzionano così molte cose, in Italia: dalla geografia all'industria, dalla cultura all'amministrazione, dalle professioni allo sport (i tifosi della Lazio felici di perdere con l'Inter pur di evitare lo scudetto alla Roma). La politica non poteva fare eccezione: il tribalismo non è una tattica, è un istinto. Pur di tener fuori la sinistra, giudicata inaffidabile, molti italiani avrebbero votato il demonio. E B. sa essere diabolico. Ma il diavolo, diciamolo, ha un altro stile. (Corriere della Sera)

lunedì 25 ottobre 2010

Cavillo pazzo. Davide Giacalone

Il Presidente della Repubblica può tornarci e precisare quanto crede, può anche prendersela con noi che raccontiamo quel che vediamo, avvertendo che nella Costituzione non c’è scritto da nessuna parte che la più alta carica dello Stato possa intervenire nel processo legislativo, addirittura indirizzando le sue “profonde perplessità” (diciamo pure “veti”, se la lingua italiana non fa troppa paura) al presidente di una commissione parlamentare, tanto una cosa è certa: dopo il suo intervento, la legge nota come “scudo” viaggia su un binario morto. Questo prima ancora che le Aule abbiano potuto esaminarla, prima che i legislatori abbiano discusso, e senza alcun messaggio formale al Parlamento. Con tanti saluti alla Costituzione.

Il siluro quirinalizio, sparato con non troppa precisione ma dotato di devastante potenza, non deve indurre, però, a celare o attenuare i macroscopici difetti dell’iniziativa legislativa di maggioranza e governo, in tema di giustizia. A far finta di niente, o a dar spago alle tifoserie, si otterrà solo l’ennesima legislatura passata inutilmente. Insomma, guardate il bilancio: scudo da ritirare, intercettazioni al palo e processo breve in sonno. Un motore totalmente grippato. Certo, per le difficoltà che trova e per i bastoni che gli vengono lanciati fra le ruote, ma anche per l’incapacità di chi è addetto agli ingranaggi.

Che lo scudo avesse difetti strutturali lo avevamo scritto anche noi. Tra l’altro: se la norma è a difesa dell’istituzione e non della persona, come vi viene in mente di subordinarne l’efficacia ad un voto parlamentare? Se un presidente del Consiglio non ha la maggioranza per difendersi dalle accuse penali non è che viene processato, è che perde direttamente il suo posto. Se vogliono, i signori della maggioranza, possiamo mandare dei bambini a spiegarlo loro.

Sulle intercettazioni hanno pasticciato in maniera imbarazzante. Avevano una via maestra, che abbiamo ripetutamente indicato: intercettazioni libere, come nel sistema inglese o (in parte) statunitense, ma divieto d’uso come prove, non depositabilità fra le carte processuali e, quindi, divieto assoluto e perenne di pubblicazione. Invece si sono imbarcati in una dissennata avventura, con il risultato che l’ultimo testo non rimediava a nessuno dei guasti, addirittura peggiorava la situazione, aggravando le accuse iniziali che agli intercettati sarebbero state rivolte, propiziando solo l’indebolimento dello strumento d’indagine. E voglio vedere come avrebbero fatto a spiegarlo agli elettori che reclamano maggiore sicurezza. Peggio che dilettanti allo sbaraglio: incapaci a briglia sciolta.

Con il processo breve sono riusciti a usare male un argomento potente: le intollerabili e numerose condanne dell’Italia per violazione dei diritti umani. Solo che il tema è: accorciare la durata dei processi, non decapitarli. Se si pongono limiti temporali rigidi e li si applica retroattivamente si affogano camionate di processi. A quel punto è assai più onesta e lineare l’amnistia.

Tutte cose, queste, che abbiamo detto, ridetto, spiegato e dettagliato. Prima che gli errori divenissero irreparabili. Ma niente, troppo intenti a guidare come pazzi e contro ai muri. Spero che una cosa l’abbiano imparata: le riforme le fanno i politici, non i maghi del cavillo. Occorre che siano strutturate, non furbette. Occorre che la guida sia in mani politiche, che il ministro competente sia lo stratega, non il portavoce (con tutto il rispetto per un politico attrezzato, quindi consapevole del danno che ne ricava). Altrimenti si crede di avanzare al galoppo, ma si gira attorno essendo in groppa a cavillo pazzo.

venerdì 22 ottobre 2010

I niet della Fiom e l'Italia dei contratti firmati. Giuliano Cazzola

È la regola di un giornalismo un po’ cialtrone: per “fare notizia” bisogna raccontare che a mordere il cane è stato un uomo. Così, da mesi gli italiani sono ossessionati dalle prodezze della Fiom e del suo leader, Maurizio Landini. Si direbbe quasi che la federazione dei metalmeccanici della Cgil sia ormai il solo sindacato esistente in Italia, al punto da scalzare, nell’attenzione dei media e nell’iniziativa politica, persino la confederazione di Corso d’Italia. Durante l’ultima manifestazione a San Giovanni (non deve stupire la presenza di qualche decina di migliaia di persone, dal momento che la Fiom è divenuta il punto di riferimento della sinistra radicale e “reazionaria” in Italia) il segretario Guglielmo Epifani, sul palco in mezzo a Giorgio Cremaschi e allo stesso Landini, si è fatto addirittura strappare dalla piazza la promessa di uno sciopero generale.
Quello dello sciopero generale è un impegno temerario e opportunista lasciato in eredità da Epifani a Susanna Camusso.
Agli italiani raccontano che è in atto un disegno perverso - di cui sono protagonisti il governo, la Cisl e la Uil, Sergio Marchionne - per cancellare il contratto nazionale di lavoro e violare i diritti fondamentali dei lavoratori. Quanti non condividono questa analisi sono servi dei padroni, pronti a discriminare la Fiom, che da sola si erge a paladina della purezza della linea. Fior di intellettuali, già “cattivi maestri”, si precipitano a sottoscrivere appelli e a marciare con le valorose “tute blu”, a prova del fatto che la madre dei “pifferai della rivoluzione” è sempre incinta.
Ma è davvero questa la realtà sindacale del nostro Paese? Nessuno racconta agli italiani che, dopo l’accordo quadro del 22 gennaio 2009 (sottoscritto, come in tutte le altre occasioni, da dozzine di parti sociali, ma non dalla Cgil) sono stati stipulati - praticamente senza scioperi - ben 29 contratti nazionali che hanno coperto una platea di 4 milioni di lavoratori, soltanto nei settori confindustriali. In tutto i contratti rinnovati sono stati una sessantina. Questi accordi sono stati sottoscritti da tutti i sindacati, incluse le federazioni della Cgil. Eppure, a monte, stava un sistema di regole non condiviso. Ciò significa che i gruppi dirigenti delle categorie sindacali e quelli delle controparti datoriali si sono ingegnati a trovare delle soluzioni diplomatiche in grado di fare salve le rispettive posizioni di principio e di accontentare i lavoratori. Esiste forse un altro paese in Europa che - in un periodo di crisi economica violenta, mentre veniva autorizzato poco meno di un miliardo di ore di cassa integrazione - possa vantare un clima di “collaborazione di classe” come quello che si è realizzato da noi? Se nel 2010 il Pil tedesco crescerà in misura pari a tre volte il nostro, lo si deve anche a una disponibilità della DGB a far lavorare di più a parità di retribuzione. E il tormentone di Pomigliano? Quante sono in Italia - dove sulla vicenda dello stabilimento campano si è detto di tutto (persino del ritorno allo schiavismo, della violazione della Costituzione e altre tragiche amenità) e per lunghi mesi - le persone informate che dall’applicazione dell’accordo tanto vituperato perverranno ai lavoratori incrementi retributivi di circa 250 euro mensili, tassati con una aliquota del 10% (perché questo è il trattamento fiscale riservato al salario collegato a una migliore produttività)?
Proprio così: esiste un’Italia migliore di quella minoritaria degli “sfasciacarrozze”. Un’Italia, fatta di padroni e di operai, che ha ripreso a lavorare; un tessuto produttivo composto di tante piccole imprese capaci di esportare gran parte dei loro prodotti e di delocalizzare pezzi di lavorazione nei paesi in via di sviluppo. Imprese che hanno un solo cruccio: non intendono crescere al punto da mettersi in casa il sindacato, lo Statuto dei lavoratori e quant’altro. Se più del 90% della nostra struttura produttiva è costituita da micro e piccole imprese non è colpa di un’epidemia di nanismo. Sono gli handicap connessi al regime burocratico-sindacale che inducono le aziende a mantenere organici al di sotto dei limiti numerici oltre i quali scattano particolari vincoli legislativi (a partire dai 16 dipendenti di cui all’articolo 18 dello Statuto). Eppure, quando un sindacalista coraggioso, come Raffaele Bonanni, grida dal palco «Uno, cento, mille Pomigliano» la polizia è costretta a mandare i blindati in via Po, davanti alla sede della Cisl e tante “anime belle” rifanno la solita tiritera dei diritti violati.
Strano paese il nostro! La Fiat investe e consolida la sua presenza in Italia. Chiede solo, negoziando con i sindacati, che si lavori, non come in Polonia, ma come negli Usa. E viene subissata di improperi. Mentre tutto questo accade, prima Telecom, poi Unicredit compiono - tutti d’accordo - alcune operazioni di ristrutturazione, da cui deriveranno, nel giro di qualche anno, 10mila esuberi (ovviamente coperti da forme di assistenza e dal ricorso a prepensionamenti). Vi risulta che ne abbiano parlato a Ballarò? (il Riformista)

Schermo fossile. Davide Giacalone

Un tempo la televisione era il futuro che entrava nelle case degli italiani. Poi è divenuta una finestra sul presente. Ora è un viaggio nel passato. Le polemiche sulla Rai, come sul duopolio, sono retrodatate, ignare della realtà presente. Anche la diffida dell’Autorità delle comunicazioni, impancata a giudice dei contenuti editoriali dei telegiornali, è un residuato del passato. Considerato che i network statunitensi hanno da tempo scoperto che è lo schierarsi dei commentatori a portare audience, visto che all’imparzialità e all’obiettività credono solo gli allocchi.

I guasti del format commerciale, della televisione generalista e sorretta dalla pubblicità, erano già stati visti da Woody Allen e Federico Fellini. Il nostro mondo televisivo è andato oltre. Un tempo i “mostri” popolari erano descritti da registi ironici, ora vanno in onda al naturale, senza orrore per se stessi. Un tempo i bambini cantavano da bambini, con canzoni da bambini, presentati dal mago Zurlì, ora s’esibiscono scimmiottando gli adulti, con mamme commosse nel vedere la figlioletta che ha l’aria lasciva nel mentre suggerisce all’immaginario partner di prenderla per ogni dove. Un tempo la tv indagava la realtà, ora è la realtà ad esibirsi. Compreso il grottesco delirio d’onnipotenza di conduttori strapagati per far finta d’essere “contro”, che se ti permetti di dire che sono trasformisti, voltagabbana, imbroglioni e profittatori ti senti dire che sei nemico del pluralismo. Se, invece, parla un direttore di telegiornale, che, per mestiere, dovrebbe produrre chiavi di lettura e opinioni, allora interviene il garante e gli dice di smetterla. Almeno in questo, la televisione fa veramente ridere.

Che la Rai vada privatizzata lo dico da troppi anni. Che non sia più un servizio pubblico, se ne sono accorti tutti. E’ un servizio a chi ci si arricchisce, compresi parenti, amanti e sodali. Il pluralismo c’era, una volta, ma si chiamava lottizzazione. Poi la si descrisse come una porcheria, invece funzionava. Ricordate un giornalista come Andrea Barbato: di sinistra, garbato, efficace, piacevole. Lo pagavano il giusto e diceva quel che riteneva giusto. Ecco, quella era la Rai lottizzata. Venderla, dunque, sarebbe stato l’unico serio rimedio alla spartizione, restituendo libertà al mercato e soldi del canone agli italiani. Si opponevano tutti: la sinistra, perché aveva trovato il suo strumento di comunicazione, il centro democristiano, perché aveva creato quel mondo (Ettore Bernabei e Biagio Agnes ne erano i sacerdoti), gli altri perché inzuppavano il pane. Si opponevano anche i concorrenti privati, che apprezzavano il fatto di avere un competitore finanziato con le tasse.

Poi fu il governo di centro destra a varare una legge che prevedeva la privatizzazione. Ma solo a pezzi e nella misura massima dell’1% per ciascun investitore. Una barzelletta. Non se ne fece nulla, ovviamente. Sicché siamo alla commedia di sempre: vertici aziendali nominati dalla politica, ma sempre meno autorevoli e capaci, impossibilitati a governare un’azienda in cui ciascuno fa quello che gli pare, compreso l’insultarli in diretta. Tutto questo, però, è solo una radiazione fossile. Guardate come si comportano i più giovani: il tempo che passano davanti a uno schermo è solo in piccola parte dedicato alla televisione. Al piccolo schermo restano ancorate le povertà, mentre chi ha a disposizione strumenti diversi già gioca con partner che si trovano dall’altra parte del mondo, già costruisce non solo palinsesti, ma contenuti propri, che poi offre in rete. La televisione generalista campa d’analfabetismo digitale, di arretratezza. Sicché, in queste condizioni, anche parlare di privatizzazione rischia d’essere un residuato del passato.

Intendiamoci, la comunicazione digitale porta con sé non pochi problemi, a cominciare dalla necessità di non potere considerare il mondo come un sommarsi di tanti frammenti, con il rischio di perdere un filo conduttore comune. Ma è, comunque, un altro mondo. Migliore.

giovedì 21 ottobre 2010

Musulmani d'Europa. Angelo Panebianco

La dichiarazione del cancelliere Angela Merkel («il multiculturalismo è fallito») è stata interpretata da tutti come una constatazione di fatto sugli errori della politica dell'immigrazione tedesca degli ultimi decenni ma anche come il segnale di una svolta imminente. Anche in Germania, come in tutto il resto dell'Europa, la questione degli immigrati è ora un problema politico di prima grandezza: dare risposte incoerenti con le domande dell'opinione pubblica può significare perdere le elezioni. È la nuova grande questione che divide, e dividerà a lungo, le democrazie europee e che va ad aggiungersi alle più tradizionali divisioni sui temi economici.

Partiti anti-immigrati sorgono come funghi e fanno pienoni elettorali in tanti Paesi europei. Dove questo non accade è solo perché i partiti più tradizionali, già insediati, hanno indurito per tempo il loro approccio all'immigrazione. Due giorni fa, il Sole 24 Ore ha pubblicato un'utile inchiesta sulle politiche europee dell'immigrazione mostrando un quadro assai differenziato. Si va dai Paesi fino ad oggi più accoglienti, come la Svezia o l'Olanda (che però stanno sperimentando forti rivolte anti-immigrati) a quelli più chiusi come la Grecia. Ma non è difficile immaginare che le varie democrazie europee, adattandosi alle domande delle loro opinioni pubbliche, col tempo finiscano tutte per convergere su politiche selettive, che mettano più filtri, e più rigorosi, di quelli utilizzati nel recente passato.

C'è la reazione delle opinioni pubbliche ma c'è anche un'incertezza obiettiva su come fronteggiare il problema. Nessuna delle due strade fin qui adottate, quella originariamente francese dell'assimilazionismo (chi arriva deve spogliarsi della precedente identità per abbracciare identità e cultura del Paese ospitante) e quella, originariamente anglosassone, del multiculturalismo, sembra funzionare. Il multiculturalismo, soprattutto, ben prima che lo riconoscesse la Merkel, appariva più un sogno da idealisti che una politica realisticamente praticabile. Il multiculturalismo prevede infatti che le varie culture presenti sul territorio vengano preservate, anche con leggi apposite, e che le diverse comunità culturali si autogovernino per tutti gli aspetti che riguardano la tutela della propria identità. Una società multiculturale è una società segmentata, divisa in tante comunità culturali che, si suppone, non sentendosi minacciate nelle proprie tradizioni, siano in grado di coesistere pacificamente. Ma il punto è che una società siffatta è difficilmente compatibile con la democrazia. Salvo specialissime eccezioni, può essere tenuta insieme solo con un alto grado di coercizione, in modo non democratico. Per questo, il multiculturalismo non è una politica adatta per le democrazie europee. Gran Bretagna, Olanda, Germania avevano scelto quella strada e ne hanno verificato l'impraticabilità.

Ma se la via francese (l'assimilazionismo) è difficilissima e quella multiculturale impraticabile, che fare allora? Assistere passivamente al montare dei conflitti?

Il problema della maggiore o minore capacità di convivenza con la nuova immigrazione dipende non da uno ma da un insieme di fattori: la qualità e il rigore dei filtri predisposti (le politiche dell'immigrazione in senso stretto), i cicli economici, la capacità di offrire servizi agli immigrati che lavorano, la capacità di reprimere i comportamenti illegali, eccetera. Ma dipende anche dalle tradizioni di provenienza e appartenenza degli immigrati. È inutile girarci intorno. Ci sono immigrati che, per la tradizione di provenienza, possono trovare un loro ruolo nei Paesi ospitanti (e col tempo, potranno forse anche essere assimilati nel senso francese del termine. E, se non loro, i loro figli) con relativa facilità. Episodi di intolleranza, anche gravi, ci sono e ci saranno. Ma nel complesso, molti immigrati, soprattutto dell'Est europeo, riusciranno ad inserirsi con successo nelle società europeo-occidentali.

C'è però il caso dell'islam. Non è casuale che proprio ai musulmani (e non agli altri immigrati) si faccia sempre riferimento quando si constata il fallimento del multiculturalismo. Ciò che ovunque in Europa si teme è che una crescita eccessiva delle comunità musulmane, grazie anche al differenziale demografico, finisca per imporre le trasformazioni più forti nelle regole di convivenza delle società europee. La domanda di cui nessuno conosce la risposta è la seguente: cosa può succedere quando due grandi civiltà, altrettanto forti e orgogliose, come quella europea-cristiana (oggi anche liberale e democratica) e quella islamica, che si ispirano a principi e norme antitetiche, e che, anche per questo, si sono aspramente combattute attraverso i secoli, si trovano a condividere lo stesso territorio e lo stesso spazio politico? La risposta dipenderà in parte da noi europei, dagli atteggiamenti che assumeremo e dalle politiche che adotteremo. Ma, in larga parte dipenderà anche dalla evoluzione del mondo islamico. Se il ciclo fondamentalista (connesso al cosiddetto «risveglio islamico») che ha investito l'islam mondiale negli ultimi decenni non si esaurirà presto, dovremo attenderci aspri conflitti e fortissime tensioni anche in Europa (altro che pacifica convivenza multiculturale). Se invece quel ciclo, raggiunto un picco e punte di massima espansione, andrà ad esaurirsi, come è possibile che prima o poi accada, allora nasceranno forse esperimenti inediti e interessanti: la democrazia potrà misurare il proprio successo anche sulla sua capacità di favorire la piena adesione dei musulmani immigrati alle regole della società aperta e libera. Oggi ciò non appare probabile. Ma è lecito, per lo meno, sperarlo. (Corriere della Sera)

mercoledì 20 ottobre 2010

D'Alema, icona della sinistra che ha divorziato dalla realtà. Gianteo Bordero

Possibile che la sinistra non impari mai dai suoi errori? Possibile, anzi certificato dai fatti. L'ultimo esempio, in ordine di tempo, lo ha fornito lunedì sera a Otto e Mezzo Massimo D'Alema. Non un esponente qualsiasi della gauche nostrana, dunque, bensì colui che più di chiunque altro ne rappresenta oggi, in qualche modo, l'icona, avendo vissuto da protagonista la storia del passaggio dal Pci al Pds, poi ai Ds e infine al Pd, ed essendo diventato, nei modi che tutti conosciamo, il primo presidente del Consiglio proveniente dal Partito Comunista italiano.

Interrogato da Lilli Gruber a proposito della situazione politica del Paese, D'Alema ha ancora una volta fatto venire a galla, con le sue analisi che si pretendono argute e raffinate, il vero vizio capitale che caratterizza l'attuale sinistra. Un vizio che essa ha ereditato, senza alcun significativo mutamento di rotta, dal Pci: quel senso di superiorità culturale, politica e morale che l'ha condannata in passato, la condanna oggi e la condannerà in futuro, se le cose non cambieranno, a non saper entrare in connessione profonda con il popolo italiano, da essa ritenuto perennemente immaturo, bue, facile a lasciarsi incantare dalle sirene dell'uomo della provvidenza di turno. Ascoltare per credere. Ha affermato D'Alema: «Purtroppo un certo numero di italiani sembra disposto ad accettare l'anomalia» rappresentata da Berlusconi. Già, purtroppo - per l'illuminato leader Massimo e per i suoi colleghi di partito e di schieramento - tanti nostri connazionali, nel momento in cui sono chiamati a entrare in cabina elettorale per affidare a qualcuno le chiavi del governo del Paese, mettono la loro croce sul nome dell'impresentabile uomo di Arcore e non sui gloriosi simboli della gloriosa sinistra italiana.

Ora, se fossimo all'anno zero dell'avventura politica di Berlusconi, le affermazioni di D'Alema si potrebbero comprendere. Invece sono sedici anni - sedici - che la storia va avanti così, e che ad ogni vittoria del Cavaliere e ad ogni sua esperienza a Palazzo Chigi i suoi avversari non sanno fare altro che ripetere senza posa la solita teoria del popolo incapace di intendere e di volere, di distinguere tra il Bene (la sinistra) e il Male (la destra berlusconiana). Pensando di mettersi la coscienza a posto sol scaricando ogni colpa sui cittadini elettori, i post-comunisti hanno così evitato, ed evitano tuttora, di fare i conti con i propri errori, con la propria miopia politica, con la propria siderale distanza dal sentire della gente comune. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti: antiberlusconismo monomaniacale, assenza di una seria e credibile proposta programmatica di governo, astrattismo assoluto riguardo alle soluzioni con cui affrontare i problemi del Paese.

Però - potrebbe obiettare qualcuno - è stato lo stesso D'Alema, sempre a Otto e Mezzo, ad annunciare che il nuovo numero della sua rivista, Italianieuropei, ha messo al centro il tema del lavoro e del conflitto sociale come punto di ripartenza della sinistra. Ecco, appunto: non si ascolta in presa diretta il popolo, i bisogni dei cittadini in carne ed ossa, dei povericristi che ogni mattina si spezzano la schiena in fabbrica per sbarcare il lunario e mandare avanti la famiglia; si pontifica invece dall'alto, ex cathedra, tra un convegno e l'altro, dalle patinate pagine di una rivista che tutt'al più finisce in mano agli intellettuali dei salotti buoni, alla gente che piace all'establishment culturale più o meno radical-chic. Non certo agli operai, alle manovalanze, a quello che un tempo era chiamato, non senza enfasi, il «popolo della sinistra». Un popolo a cui oggi dà invece risposte concrete, come ha documentato su La Stampa del 10 ottobre Luca Ricolfi, il governo di centrodestra, il governo del tanto odiato Silvio Berlusconi: «Cassa integrazione in deroga, estensione degli assegni di disoccupazione, social card, sussidi alle famiglie e ai non autosufficienti - ha scritto tra le altre cose Ricolfi - sono misure che hanno attenuato sensibilmente l'impatto della crisi, come mostra piuttosto inequivocabilmente la serie storica Isae delle famiglie in difficoltà, calate proprio nel momento più basso della congiuntura (fra la metà del 2008 e la metà del 2009)». D'Alema e i dotti analisti e politologi vicini alla sinistra possono ironizzare quanto vogliono sulla «politica del fare» di cui mena vanto il presidente del Consiglio, ma a dare ragione a Berlusconi sono, appunto, i fatti, come quelli riportati dall'editorialista del quotidiano torinese.

E se spostiamo la nostra attenzione sul prediletto di Baffino, Pier Luigi Bersani, le cose non cambiano. Ospite dieci giorni fa di Annozero, il segretario del Pd, dopo una lunga intervista a una cassaintegrata della Omsa che raccontava le sue tante difficoltà in questo periodo di crisi e chiedeva risposte ai politici presenti in studio, non ha saputo fare di meglio che spostare sùbito il discorso su Santoro e sul contenzioso col direttore generale della Rai. Altro che lavoro! Altro che disagio sociale! Meglio occuparsi delle grane del milionario conduttore tv. E poi si chiedono perché il Partito Democratico sia in crisi di consensi e gli italiani abbiano voltato le spalle alla sinistra: perché è la sinistra, e in particolare il Pd, ad aver voltato le spalle agli italiani. (Ragionpolitica)

Aforismi fiorentini

Gianfranco Fini ha avuto bisogno di ventidue anni per capire di non essere almirantiano, e di sedici anni per capire di non essere berlusconiano.

Quanti ne serviranno per capire di non essere nemmeno finiano? (il Predellino)

martedì 19 ottobre 2010

Piemonte, Italia. Davide Giacalone

Quel che accade in Piemonte, con il serio rischio d’invalidare le elezioni regionali, raffigura bene il caos nel quale vive l’intero Paese. Il rapporto fra giustizia e politica è una maionese impazzita, non solo per i procedimenti che riguardano Silvio Berlusconi. Quella maionese, grumosa e immangiabile, c’inzacchera tutti, anche se a molti sfugge il nesso fra le grandi e le piccole cose.
La nostra vita civile, il nostro lavoro e la nostra politica sono guastati da leggi illeggibili, incomprensibili, inapplicabili, cui si aggiunge una giustizia che sentenzia una cosa e il suo contrario, facendo divenire aleatorio il diritto e inafferrabili i diritti. Anziché porre rimedio si continua a dar la colpa agli altri: per la magistratura la colpa ricade sul legislatore, per la politica sono i giudici a volere far di testa loro, applicando la legge ciascuno a modo proprio. Hanno ragione entrambe.
Prendete le elezioni piemontesi. Se si fossero contestati e accertati dei brogli elettorali, non ci sarebbe dubbio: gli autori materiali dovrebbero pagare con la galera e l’eletto sarebbe il loro mandante. Facile. Ma non è questo il caso. In realtà la Regione Piemonte (quando la maggioranza era di sinistra) s’è data una legge elettorale in base alla quale le firme in calce alle liste non devono essere raccolte se un capogruppo uscente garantisce la regolarità e fondatezza del tutto. E’ ragionevole. Lo è meno che egli possa fare la stessa operazione anche per liste in cui non figura e non si candida. Questa, comunque, è la legge. Dei giudici affermano che è stata rispettata, mentre altri la pensano diversamente, individuando una via d’uscita apparentemente equanime, in realtà folle: siccome due liste hanno caratteristiche (in questo senso) dubbie, e dato che una era apparentata con la sinistra mentre l’altra con la destra, le facciamo fuori in coppia. Giusto? No, in quanto gli elettori hanno votato esprimendo la loro volontà, che è chiarissima e segue l’ammissione di quelle stesse liste, sicché non si vede perché debbano essere buttati via, come fossero avariati e, inoltre, il peso percentuale delle due liste è diverso, per cui il risultato non è quello di una decurtazione equivalente, ma di una sottrazione maggiore per lo schieramento che ha vinto (di poco) le elezioni. Risultato: il vincitore diventa perdente e la volontà popolare annientata.
Al caso specifico si dovrà rimediare, e non è escluso che lo si faccia nel meno razionale dei modi, tornando a votare. Siccome, però, l’ultima tornata amministrativa è colma di casi simili, con alcuni procedimenti ancora pendenti, si deve pensare ad un rimedio complessivo. Altrimenti, la prossima volta, andiamo a votare direttamente in tribunale.
La questione non è affatto limitata alla politica e alle verifiche elettorali, perché questo schema d’incertezza e di rimedi che non rimediano si riproduce ovunque, ogni giorno, anche se nessuno se ne cura, nessuno ritiene che sia inaccettabile, proponendosi d’intervenire con urgenza. Le sentenze che si contraddicono sono la normalità, dalle liti condominiali ai più clamorosi casi che si trovano sulle prime pagine dei giornali. C’è chi dice che ciò dimostra il sano funzionamento della giustizia e l’indipendente agire dei giudici, che non sono una falange omogenea. Bubbole, si dimostra solo che nessuno ci capisce più niente.
I nostri tribunali sono infognati in arretrati non smaltibili, e gli italiani si dimostrano litigiosissimi, per tre banali ragioni: 1. le leggi sono cabale (vogliamo parlare di quelle fiscali?!); 2. tutti fanno ricorso contro la prima sentenza perché non solo può darsi, ma è ampiamente probabile che sia ribaltata; 3. i colpevoli e quelli che hanno torto ne godono, perché l’allungarsi spropositato e incivile dei tempi è un premio alla loro cattiva condotta.
Passiamo ai rimedi. Eccone alcuni: a. le sentenze penali d’assoluzione non devono potere essere appellate dall’accusa, perché sarà impossibile condannare al di là di ogni ragionevole dubbio (anche la sentenza della Corte Costituzionale lo consente, ma chiedendo una riforma complessiva dell’appellabilità); b. devono essere redatti tanti testi unici quante sono le materie specificamente regolate, il cittadino deve trovare un articolato in cui leggere tutto, senza essere rinviato ad un pazzotico gioco di citazioni e soppressioni; c. la Cassazione deve realmente tutelare l’uniformità della giurisprudenza, cui ciascun giudice è tenuto ad attenersi; d. i giudici le cui sentenze vengono costantemente riformate devono cambiare mestiere; e. i pubblici ministeri le cui richieste di condanna vengono regolarmente disattese devono essere allontanati da quella funzione; f. i cittadini che scelgono riti alternativi, ammettendo colpe o torti, devono essere premiati, ferma restando, naturalmente, la punizione o sanzione; h. quelli che fanno ricorso devono essere ragionevolmente fiduciosi di avere ragione, perché l’impegnare ulteriormente la macchina giudiziaria deve essere costoso (in quattrini o pena); i. i tempi previsti dalle leggi devono sempre essere inderogabili, per i cittadini come per i magistrati.Non è tutto, ma basterebbe per rientrare nella civiltà. Giuridica, politica e umana. Grande riforma? Più che altro: minima ragionevolezza.

venerdì 15 ottobre 2010

Zona franca per le tue opinioni

Questo post è volutamente lasciato in bianco per consentire - nel settore dei commenti - agli amici e simpatizzanti del centrodestra, di scrivere le loro opinioni senza limiti di spazio.






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martedì 12 ottobre 2010

Tutta la verità del generale Mori. Lino Jannuzzi

Il generale Mario Mori mi ha regalato un dvd. L’ho messo nel computer, ma non ci ho capito niente, ballano lettere come serpenti, pizzini e papelli e contropapelli, ma non riesco a fermarli e ad afferrarli. Allora è venuto ad aiutarmi il generale in persona e mi ha ripetuto in privato la lezione che ha tenuto due settimane fa, il 19 settembre, nell’aula bunker di Palermo, con tanto di maxischermo e di proiettori, ai magistrati che lo stanno processando per mafia. Alla fine gli ho chiesto, stupito: ma come ha fatto a scoprire tutto questo, a riuscire a falsificare lei stesso i pizzini di Bernardo Provenzano e le lettere di Vito Ciancimino, per provare così che le poteva falsificare e le ha falsificate Massimo, il figlio di don Vito?. “Mi sono allenato per anni – mi ha risposto – sono vent’anni che mi processano…”. Vent’anni? Non mi pare… E’ solo al suo secondo processo, quello per il mancato arresto di Provenzano, e il primo, quello per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina, è solo di tre o quattro anni fa… “Le prime insinuazioni dei giornali, sussurrate nei corridoi del palazzo di Giustizia di Palermo, sono del ’93 e del ’94, poco dopo che con il capitano ‘Ultimo’, Sergio Di Caprio, avevamo catturato il capo di Cosa nostra. E già parlavano di ‘trattativa’, che Riina ce l’avevano ‘consegnato’ in cambio dell’impunità per gli altri e dell’impegno a non perquisire subito il covo per non sequestrare i ‘documenti’ e i ‘papelli’. Sarebbero già sedici o diciassette anni prima della comparsa e delle comparsate di Massimo Ciancimino, dichiarante perpetuo. Ma il processo a me, ai miei colleghi, al Ros, ai carabinieri, è cominciato anche prima, è cominciato il 16 febbraio del 1991, vent’anni fa, quando consegnammo alla procura di Palermo il rapporto dell’inchiesta detta ‘mafia e appalti’…”. L’inchiesta mafia e appalti è diventata una leggenda. “E’ vero, una leggenda. Era solo il primo mattone, ma era una novità assoluta, il capitano Giuseppe De Donno, il principale collaboratore di Giovanni Falcone, che lo chiamava affettuosamente ‘Peppino’ e che era uno dei pochi investigatori che poteva permettersi di dargli del ‘tu’, e non si staccava mai da lui, che se lo portava appresso anche all’estero, in giro per il mondo, aveva fatto un ottimo lavoro e, avvalendosi delle confidenze di un geometra, Giuseppe Li Pera, che lavorava in Sicilia per la ‘Rizzani De Eccher’, una grossa azienda del nord, aveva ricostruito la mappa del malaffare tangentizio siciliano, la prima del genere e che anticipava di qualche anno la Tangentopoli nazionale”. Sul momento, non se ne accorse nessuno. “Se ne accorse Giovanni Falcone, che ci fece persino lo spunto per un convegno, che concluse col famoso annuncio: ‘La mafia è entrata in borsa’… E con quell’annuncio iniziò la sua fine, perché se ne accorsero gli interessati, le imprese, i mafiosi e i politici”.

Ma non successe niente. “La procura di Palermo non ci dette nemmeno le deleghe per proseguire le indagini e delle 44 posizioni che avevamo individuato emise solo cinque ordini di arresto, ma consegnò agli avvocati degli arrestati tutto il malloppo, tutte le 890 pagine del rapporto, con i nomi e i cognomi di tutti i 44 indiziati”. Seppero tutti subito… “E qualcuno aveva saputo anche da prima, come Angelo Siino, il cosiddetto ‘ministro dei Lavori pubblici’ di Cosa nostra, quello che si sedeva al ‘tavolino’ tra gli imprenditori e i politici per spuntare la quota di Cosa nostra”. Siino non era anche un informatore del capitano De Donno? “Siino trafficava anche con i carabinieri, ci passava qualche informazione… Ma quando seppe dell’inchiesta si precipitò dal maresciallo Guazzelli, che allora collaborava coi Ros del generale Subranni e che sarà ucciso poco dopo l’assassinio di Salvo Lima, per cercare di farla franca. Quando capì che non c’era niente da fare, vomitò in casa di Guazzelli, e finì tra gli arrestati, insieme con il geometra Li Pera. Ma De Donno fece in tempo a fargli confessare da chi aveva saputo dell’inchiesta…”. E cioè? “Siino raccontò a De Donno che le informazioni sull’inchiesta le aveva avute dalla procura, e fece anche i nomi…”. Successe il finimondo, e dalla procura querelarono De Donno. “Ma De Donno aveva le bobine registrate dei suoi colloqui con Siino e le portò alla procura di Caltanissetta…”. Ma alla procura di Palermo avevano le deposizioni di Siino, che dichiarava che erano stati i carabinieri a indurlo ad accusare i magistrati. “Una volta arrestato, Siino si era ‘pentito’, e come fanno spesso i ‘pentiti’ rovesciò la versione dei fatti…”. E come finì? “Apparentemente finì con un nulla di fatto, la procura di Caltanissetta archiviò sia le bobine di De Donno sia le dichiarazioni del ‘pentito’ Siino e archiviò la querela di De Donno e la querela di quelli della procura di Palermo. E fu allora che cominciò il processo a me e a De Donno e ai carabinieri. E, dopo l’assassinio di Lima, furono uccisi Guazzelli, Falcone e Borsellino, tutti quelli che avevano a che fare con l’inchiesta mafia e appalti…”. Perché anche Falcone e Borsellino?

“Falcone non smise mai di incoraggiare De Donno a continuare a indagare e, per giunta, si parlava di lui per la Superprocura, da dove avrebbe potuto ricominciare a indagare. Borsellino, dopo l’assassinio di Falcone, il 25 giugno del ’92, tre settimane prima di essere assassinato a sua volta, convocò me e De Donno in gran segreto, alla caserma Carini e non in procura, perché non si fidava dei suoi colleghi, e ci sollecitò a riprendere le indagini…”. Indagini che non sono state mai riprese. “Il 20 luglio del 1992, il giorno dopo la strage di via D’Amelio e la morte di Borsellino, la procura di Palermo chiese l’archiviazione dell’inchiesta mafia e appalti, e il 14 agosto il gip archiviò. L’indomani della strage di via D’Amelio e la vigilia del Ferragosto: non se n’è accorto nessuno… Archiviata l’inchiesta, invece di processare gli imprenditori, i mafiosi e i politici degli appalti truccati, è iniziato il processo contro i carabinieri… Prima il voltafaccia del ‘pentito’ Siino e la querela a De Donno, poi le accuse a me e a Di Caprio per il covo di Riina, quindi le accuse a me e al colonnello Mauro Obinu per la mancata cattura di Provenzano, fino al remake di Massimo Ciancimino che, pappagallo più dei pm che del padre, ha ripreso e rilanciato la storia della ‘trattativa’… tutti espedienti e pretesti, ma il filone è sempre lo stesso, i teoremi dei cosiddetti ‘sistemi criminali’ e della cosiddetta ‘trattativa’ tra lo stato e la mafia…”. Oltre che De Donno e lei e Di Caprio e Obinu, ci sono altri carabinieri finiti in questi anni nel mirino della procura di Palermo: il maresciallo Antonino Lombardo, comandante della stazione di Terrasini, il tenente Carmelo Canale, il capitano Carlo Giovanni Meli, comandante la stazione di Monreale, lo stesso generale Subranni, capo dei Ros prima di lei.

“Il maresciallo Lombardo si recò con Obinu negli Stati Uniti per convincere il boss Gaetano Badalamenti, che era in prigione, a venire a testimoniare in Italia al processo contro il presidente Andreotti, e lo convinsero, e Badalamenti sarebbe venuto a sconfessare Buscetta e le sue accuse a Andreotti: Lombardo fu infamato e si suicidò; suo cognato, il tenente Canale, che era il più fidato collaboratore di Borsellino, denunciò le trame contro Lombardo, inventate per impedirgli di andare in America a prendere Badalamenti, e subito spuntarono sei ‘pentiti’ che lo accusarono di connivenze con la mafia, Canale è stato processato per sette anni, ma è finito assolto con formula piena. Il colonnello Meli scoprì, intercettando le sue telefonate, che il mafioso ‘pentito’ Balduccio Di Maggio, quello famoso per il bacio tra Andreotti e Riina, era tornato in Sicilia a mafiare e a uccidere, e fu accusato di averlo fatto per tramare contro la procura. Subranni è stato sempre informato delle iniziative mie e di De Donno e ci ha sempre difeso, e solo per questo è finto indagato…”. Si potrebbe dire che prima la mafia uccideva i carabinieri e i magistrati e i politici e che, dopo il 1992, da diciotto anni, la mafia non li uccide più, ma è l’antimafia che li inquisisce e li processa… E inquisisce e processa non solo i carabinieri, e così tanti carabinieri, ma anche i poliziotti, sono stati processati e condannati due famosi poliziotti, Contrada e D’Antone, e sono stati processati magistrati come Corrado Carnevale, poi assolto, e politici come Andreotti e Mannino, anche loro assolti alla fine, Mannino dopo diciassette anni… La mafia li uccideva, l’antimafia li processa. Che cosa è, una maledizione, un paradosso, una nemesi? “Al processo Contrada ho deposto in sua difesa, le indagini dei processi ai poliziotti, ai magistrati e ai politici sono state per lo più affidate non ai carabinieri del Ros, ma alla Dia…”. Quella che Francesco Cossiga ha definito “una polizia politica degna della Stasi e della Ghepeù”. “Non tocca a me dare giudizi sulle indagini della Dia e degli altri corpi dello stato, e nemmeno sui teoremi e sugli altri processi della procura di Palermo…”. E questo suo ultimo processo, come finirà? “Non può che finire come gli altri… Ho appena dimostrato che i famosi documenti prodotti in abbondanza e a rate da Massimo Ciancimino sono facilmente falsificabili e molti sono sono stati falsificati, come quello indirizzato ‘per conoscenza’ al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, e che dovrebbe provare i rapporti tra Cosa nostra e la nascita di Forza Italia, e che è stato prodotto in fotocopia, proprio per incollarvi sopra l’indirizzo a Berlusconi… Questi famosi documenti sono quasi tutti in fotocopia, compresi i pizzini di Provenzano e il famoso ‘papello’… Del resto, anche i periti della procura, che hanno comparato i documenti prodotti da Massimo Ciancimino con la scrittura di tutti i boss più conosciuti, da Riina a Provenzano a Lo Piccolo a Brusca e a 47 altri di Cosa nostra, hanno concluso che non sono ascrivibili a nessuno di loro, e che anche i pizzini attribuiti a Provenzano non risultano in battuta originale, e la macchina per scrivere con cui sono stati battuti, un’unica macchina per scrivere, non è riconducibile a nessuna delle macchine per scrivere utilizzate per redigere i documenti dattiloscritti sicuramente da Provenzano…”. Se è così, si è trattato di un’operazione sciocca e puerile quanto azzardata e provocatoria… A Palermo lei ha citato il famoso personaggio del romanzo di Jaroslaw Hasek, “Il buon soldato Sc’vèik”, e ha parlato di un “ebete notorio” che si aggira nell’aula bunker. Si riferiva evidentemente a Massimo Ciancimino, e ai guai che è capace di combinare. “Solo un personaggio come il buon soldato Sc’vèik può pensare di di essere creduto esibendo documenti contraffatti in maniera così rozza e scoperta…”.

E Spatuzza… Anche Spatuzza non è credibile? “Spatuzza è un testimonio a nostro favore… per molte ragioni, ma basterebbe la sua dichiarazione, certa e documentata, che egli fu incaricato di procurare il tritolo per la strage di via D’Amelio unitamente e contemporaneamente al tritolo che servì per la strage di Capaci, il che prova che Cosa nostra aveva deciso fin dall’inizio di uccidere Borsellino come Falcone, e liquida definitivamente il teorema della procura che la decisione di uccidere Borsellino sarebbe stata presa solo successivamente e sarebbe stata presa perché Borsellino avrebbe scoperto della nostra presunta ‘trattativa’ con Cosa nostra e vi si sarebbe opposto… Quello che Spatuzza ha detto di vero, e ha inequivocabilmente provato, è che fu lui a rubare l’auto che servì per la strage di via D’Amelio e che, di conseguenza, tutti i processi e le condanne inflitte per quella strage sono sbagliati… E’ di questo che bisognerebbe parlare e bisognerebbe indagare sulle responsabilità di quelle indagini e di quei processi e bisognerebbe processare i responsabili invece di processare i carabinieri, ma è anche per non farne parlare o farne parlare il meno possibile e distogliere l’attenzione, che si parla solo e sempre della presunta ‘trattativa’e si processano i carabinieri…”. C’è da sperare che lo faranno e indagheranno su chi e perché ha depistato le indagini e i processi su via D’Amelio quando anche quest’ultimo processo ai carabinieri sarà finito. “Finirà anche questo processo come gli altri, ma non finirà la guerra della procura di Palermo ai carabinieri… sta già per cominciarne un altro processo…”. Un altro? Come sarebbe? “Il capitano De Donno ha ricevuto un avviso di reato ai sensi dell’articolo 338”. E’ una storia poco conosciuta. “De Donno non ha nemmeno risposto, come era suo diritto, e non ha fatto dichiarazioni… E’ un avviso di reato per ‘minaccia a corpo politico-amministrativo o giudiziario’…”. Che roba è? “È un reato previsto dal codice nel 1936, settantaquattro anni fa, in piena era fascista, e che in settantaquattro anni è stato contestato una sola volta, e quella volta è finito nel nulla… ma si sa che è un reato che prevede l’associazione a delinquere, e deve essere contestato almeno a tre soggetti… si prevede che saremo avvisati in una decina… Un altro pretesto, questa volta ancora più misterioso, per ricominciare e continuare…”. Mi pare di aver sentito che anche Riina, Provenzano e Tanino Cinà sono citati in vostra compagnia, con questo curioso strumento giudiziario. Auguri, signor generale. (il Velino)

Ordigni di pace e di guerra. Michele Ainis

C’è un che di surreale nel modo in cui la politica italiana ha reso omaggio ai quattro alpini uccisi nel lontano Afghanistan. Il ministro della Difesa ha detto che a questo punto bisogna armare i nostri aerei con le bombe. Il suo predecessore gli ha risposto che non si può fare, è vietato dalla Costituzione. Il successore del predecessore ha controrisposto che tutto dipende dal bersaglio delle bombe. Insomma i nostri arsenali ospiterebbero bombe costituzionali e bombe incostituzionali, bombe di pace e bombe di guerra.

In realtà a venire bombardata ormai da tempo è proprio la nostra vecchia Carta. Che non è affatto una Costituzione pacifista, e dunque imbelle, come costantemente si ripete; tant’è che in quel testo la parola «guerra» risuona per 6 volte (erano 7 nel documento licenziato dai costituenti), innervando altrettante disposizioni costituzionali. Per quale ragione? Perché tutta la civiltà giuridica moderna nutre l’ambizione di porre l’emergenza sotto il prisma del diritto, d’imporle procedure e regole, anche nella condizione più estrema, quando l’emergenza incendia i cannoni.

E perché i nostri padri fondatori le bombe in testa le avevano sperimentate per davvero, avevano vissuto una guerra di conquista e una di resistenza all’esercito invasore, senza che il popolo italiano fosse mai stato convocato dal fascismo per esprimere la sua libera opinione.

Sicché dissero: mai più. Però non adottarono la scelta pacifista della Costituzione tedesca, o quella neutralista della Costituzione giapponese, le altre due nazioni sconfitte dalle truppe alleate. Dissero mai più alle guerre d’aggressione, e così scrissero l’art. 11: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Fu approvato con due soli voti contrari in Assemblea costituente, dai cattolici e dai marxisti insieme, saldando una lezione illuminista (quella consegnata alla Costituzione francese del 1791) all’etica professata da don Sturzo (che nel febbraio 1947 definì la guerra «atto immorale, illegittimo e proibito»). E fu scritto distillando ogni parola, a partire dal «ripudio» della guerra. Non «rinuncia», come qualcuno aveva suggerito, perché possiamo rinunciare all’esercizio di un diritto, e perché la guerra non è affatto un diritto.

Non «condanna», termine che esprime una valenza etica piuttosto che giuridica. Loro scelsero di ripudiare la guerra per sconfessare ogni intervento armato fuori dai nostri confini.

Ma che è accaduto negli anni successivi? Nel 1949 l’Italia ha aderito al patto Nato, dal quale è scaturito un obbligo di mutua assistenza militare fra gli Stati contraenti, sul presupposto che ogni attacco armato contro uno di essi «sarà considerato quale attacco diretto contro tutte le parti». Da qui una prima incrinatura nell’edificio costituzionale, benché lo stesso art. 11 menzioni limitazioni di sovranità in favore d’organizzazioni sovrannazionali. Ma soprattutto dagli Anni Ottanta in poi si sono moltiplicate le occasioni d’intervento militare all’estero, con o senza Nato, con o senza l’egida dell’Onu: il Libano, la Somalia, l’Iraq, la Bosnia, il Kosovo, o per l’appunto l’Afghanistan. E l’art. 11? Desaparecido. O meglio apparve come un Ufo sui cieli di Montecitorio nella primavera del 1999, durante il dibattito parlamentare che accompagnò i bombardamenti in Kosovo. Per un istante la Lega Nord e la sinistra estrema ne scoprirono difatti l’esistenza, nonché la manifesta violazione; al punto che un esponente della maggioranza - Clemente Mastella - consigliò di riformularlo per riallineare i principi costituzionali alle nuove circostanze.

Ma è stato un attimo, un battito di ciglia. Prima, durante e dopo quel dibattito tutto è continuato come sempre: le guerre ormai non si dichiarano (come vorrebbe l’art. 87 della Costituzione), si fanno e basta; non si deliberano (come vorrebbe l’art. 78); e naturalmente non servono mai a difendere il nostro territorio, a prescindere dalle bombe sugli aerei. L’unico effetto dell’art. 11 è un’ipocrisia verbale, come tante altre cui ci ha abituato la politica. Niente più guerre, solo conflitti armati, o meglio ancora operazioni di polizia internazionale. D’altronde in Italia non ci sono più spazzini, solo operatori ecologici. Ma si tratta pur sempre di monnezza. (la Stampa)