sabato 31 agosto 2013

Una vecchia storia. Angelo Libranti

 

 
Le vacanze estive, per chi ha un eremo in cui rifugiarsi, rappresentano un’ottima occasione per riassumere la propria vita attraverso testimonianze quali lettere, documenti, libri, giornali, oggetti, raccolti e conservati a futura memoria.
Fra un piatto di sagne e fagioli ed una visita al monastero di San Benedetto, c’è abbastanza tempo per rileggere vecchie riviste, fra le quali ha colpito la mia attenzione un numero de “Gli oratori del giorno” del 1962, con un articolo di Titta Madìa riguardante “L’indipendenza della magistratura”, argomento di urgente attualità. L’autore, tra le altre osservazioni, scrive: “Facile è eccepire l’assurdo di processi dibattuti e risolti sui giornali, giornali di parte dove spesso il recente giudice improvvisato è un antico istigatore complice; se anche si voglia prescindere da questa solidarietà faziosa, è evidente che al giudizio del pubblico manchino gli integrali elementi di conoscenza, oltre che l’altezza professionale, la tecnica quotidiana e la superiore responsabilità del magistrato”.
Sembra uno scritto di oggi, invece sono passati cinquantuno anni. Invano.
In quel tempo non c’era ancora “Magistratura democratica” ma restava evidente il retaggio del Guardasigilli Togliatti, che dette un’impronta “interessata” alla giustizia italiana.
I tempi maturarono fin quanto certi giudici si tolsero la maschera e fondarono “Magistratura democratica”, scrivendo, operando e giudicando secondo il proprio punto di vista politico.
Non a caso il manifesto di presentazione dell’associazione, a Bologna il 4 Luglio 1964, pubblicato su “La Magistratura” del Sett.Ott. 1964, tra gli altri proponimenti, recita nelle Finalità immediate e mediate:”Tali aspettative si concretano nella richiesta ognora più pressante di rottura delle strutture istituzionali ereditate da un lontano e tragico passato e nella esigenza di instaurare la nuova tavola di valori scaturita dalla Resistenza e consacrata nella Costituzione”. Prosegue nelle direttive programmatiche:
”Il Movimento vuole evitare ogni superficiale improvvisazione e ogni generica formulazione di principio per aprire il più largo dibattito sugli obbiettivi stessi, non solo all’interno, ma anche all’esterno dell’Associazione e a tutti i livelli. Proprio in armonia con queste esigenze di approfondimento, la presente mozione si limita a tracciare soltanto le grandi linee della futura riforma, quali sono state trasfuse nella Carta costituzionale. Tenendo presente che l’esegesi di quest’ultima non deve mai prescindere da quel significato politico cui abbiamo ancorati i fondamenti ideologici del movimento, e al di fuori del quale le strutture giuridiche volute dal Costituente perdono qualsivoglia valore, soggiacendo la loro attuazione alla valutazione discrezionale della forza politica dominante”.
Ed ancora, fra tante elucubrazioni di tipo prettamente politico:“Ne discende la necessità della più ampia e profonda democratizzazione dell’esercizio della funzione, affinché la sovranità popolare sia posta sempre in grado di esercitare il suo controllo, e affinché si impedisca al magistrato di sentirsi avulso dal corpo sociale, chiuso nella torre eburnea di un esclusivo tecnicismo, o, peggio ancora, posto al di sopra del corpo sociale stesso.”
Come si nota non vengono citate norme di diritto, di doveri e di applicazione dei codici, previsti dal Potere Legislativo.
Allora non ci si deve meravigliare se il World Economic Forum, nel comunicato del 27 marzo 2013, pone l’Italia al 19° posto sui 27 Stati dell’Unione Europea come credibilità della Magistratura nell’emettere sentenze rispettando l’imparzialità secondo le regole del Paese. (the Front Page)

Perché pacificazione. Piero Ostellino


Il Foglio - L’obbligatorietà dell’azione penale genera mostri; il più colossale, e vergognoso, dei quali – che ha, di fatto, trasformato la nostra Repubblica in una Repubblichetta delle banane nelle mani di caudilli in toga – è la distinzione, che una parte della magistratura fa, quando apre un fascicolo su qualcuno, fra “chi non sapeva”, che è ontologicamente non colpevole (innocente in se stesso), e chi “non poteva non sapere”, che è teoricamente colpevole (per deduzione accusatoria). E’ con la (legittima) autonomia e indipendenza di cui giustamente gode – ma anche, diciamolo, con discrezionalità e arbitrarietà spesso extra legem e contro ogni senso comune – di propendere per l’una o per l’altra delle due interpretazioni che essa tiene sotto permanente ricatto chiunque ed esercita il suo dominio sul paese. La politica, a sua volta, per viltà e quieto vivere, ha abdicato alle proprie funzioni.

D’altra parte, non saremmo il paese che siamo se la parte della magistratura politicamente radicale e impegnata non godesse di certe complicità fra gli stessi soggetti ricattabili. Diciamola, allora, tutta. Tangentopoli e Mani pulite non sono state (solo) l’auspicabile lavacro di un paese allora devastato dalla diffusa corruzione, ma (anche, e soprattutto), al riparo della legalità, un golpe, il sovvertimento di ogni ordine costituzionale, legale e politico razionale. Il “controllo di legalità”, che qualcuno, adesso, vorrebbe addirittura assegnare alla magistratura inquirente, è il modo col quale ogni regime illiberale tiene sotto il proprio tallone la propria popolazione e sovrintende ad ogni zona grigia nei comportamenti regolati dalla moralità individuale e da principi etici universalmente riconosciuti nei paesi di più matura democrazia liberale. Il controllo di legalità sarebbe l’ultimo passo verso il totalitarismo di un cammino già da tempo in corso.

Come ha scritto Guido Carli, un ex presidente della Confindustria (!), nelle sue memorie,il mondo degli affari aveva compensato l’ingresso dell’Italia nella Comunità europea, e l’apertura del suo mercato alla concorrenza esterna, con la complicità col mondo della politica e la diffusione della corruzione; di fatto, le tangenti avevano cancellato il mercato interno e ogni possibilità di corretta concorrenza. Con Tangentopoli e Mani pulite, la magistratura aveva cercato di fare piazza pulita del malcostume imperante ma – per le ambizioni politiche, o la vanità, di alcuni dei suoi stessi esponenti – ne era stata, a sua volta, coinvolta e politicamente inquinata. Non c’era alcun uomo d’affari che, per la natura stessa delle sue attività, non avesse qualcosa da nascondere al principio di legalità. Chiunque, perciò, avrebbe potuto finire nella rete di Mani pulite e potrebbe ancora cadere sotto la mannaia del “non poteva non sapere”. Dipendeva (dipende) unicamente dall’obbligatorietà dell’azione penale e dal conseguente incontrollato potere discrezionale, leggi arbitrarietà, di cui la magistratura disponeva e dispone. Né ne era esente alcun partito politico, come avrebbe detto Bettino Craxi in un memorabile discorso alla Camera nel 1993. Ma nessuno gli aveva dato retta; Dc e Pci avevano pensato di potersene tenere fuori e di guadagnarci persino in reputazione e voti; Craxi sarebbe morto in esilio, cui l’aveva condannato l’accusa, peraltro da lui stesso confessata in Parlamento (!), che “non poteva non sapere”; il Partito socialista, con tutti gli altri, era stato spazzato via a vantaggio di uno solo, il Pci, che avrebbe cambiato nome per la bisogna e per opportunismo, ma non avrebbe mai vinto le elezioni, né riflettuto su se stesso e la propria storia.

Nacque, così, tacitamente una sorta di pactum sceleris fra il mondo dell’informazione – di proprietà di quello degli affari non sempre esente da qualche peccato, piccolo o grande che fosse – e la parte della magistratura interessata a sovvertire gli equilibri politici esistenti e a portare al governo il Partito comunista che ne era rimasto fuori per i suoi rapporti con l’Unione sovietica dalla quale aveva ricevuto sostegno finanziario, peraltro senza che a nessun magistrato fosse mai venuto neppure in mente di aprire un relativo fascicolo sul caso. “Voi – dissero i media a magistrati ormai più interessati a cogliere e a mettere a frutto la portata sovvertitrice dell’alleanza che veniva loro proposta e ad accrescere il proprio potere che ad amministrare la giustizia – tenete fuori da Mani pulite i nostri editori e noi vi aiutiamo a mettere le mani, e a far fuori, i loro concorrenti e ad attribuire tutta la responsabilità della corruzione alla politica; fidatevi, sosterremo la vostra azione”. Fu ciò che puntualmente avvenne.

Dietro la parvenza di un’informazione “civile”, e legalitaria, si consumò la condanna dello stato di diritto, si realizzò la trasformazione dell’Italia in un paese nelle mani di una magistratura inquirente e di un sistema informativo che ignoravano l’Habeas corpus e istruivano processi e comminavano condanne sulle pagine dei giornali prima che a farlo fossero i tribunali. I giornalisti che si occupavano di vicende giudiziarie diventarono il megafono delle procure e, dalla santificazione di un uomo ambiguo come Antonio Di Pietro, acquistarono, a loro volta, un potere di pressione nei confronti dei loro stessi direttori. La cui permanenza al proprio posto, da quel momento, sarebbe dipesa dal grado del loro rispetto del pactum sceleris e dallo spazio dato a scandali e ruberie senza, però, che se ne spiegassero le ragioni intrinseche alla estensione dei poteri pubblici, come, in realtà, era. Spuntarono i direttori di professione, uomini d’ordine – che passavano, indipendentemente dalla loro linea politica, da una testata all’altra, come i questori passano da una città all’altra col compito di evitare disordini – per i quali la linea editoriale era quella fissata dal pactum sceleris.

Il giornalismo entrò in coma e, poco per volta, morì per carenza di pensiero; forse, per la natura dei rapporti di produzione capitalistici, direbbe Marx, non era mai stato libero e indipendente come qualche anima candida aveva preteso fosse; ma, almeno, fino a quel momento, aveva conservato una accettabile funzione informatrice e, in se stessa, liberatoria e una parvenza di dignità rispetto a quello dei paesi di socialismo reale. Di questo ha via via assunto la funzione, invece di darle, di nascondere ai lettori le informazioni e le idee non gradite al regime, mantenendoli in uno stato di permanente ignoranza e soggezione. Ad esso sta progressivamente assomigliando sempre più, senza che nessuno, né editori, né giornalisti mostri di accorgersene e di preoccuparsi. E, poi, si dice – senza aggiungere a quali, ad evitare anche solo di alludere al pactum sceleris – che gli italiani sarebbero incapaci di mantenere fede ai patti.

Senatori a morte. Davide Giacalone


Non m’indigna che i quattro nuovi senatori a vita siano riconducibili all’area della sinistra. Non so neanche se sia vero, visto che tutti loro si sono distinti per meriti che nulla hanno a che vedere con la politica, o anche solo con il dibattito pubblico e la vita collettiva. In ogni caso non è rilevante, perché la storia della seconda Repubblica (quella della prima è un’altra storia) dimostra, come nel caso del governo Prodi, che o sono utili alla sinistra o sono inutili. Essere utili alla sinistra non è né un male, né un disvalore, ma è un dato politico di cui solo gli ipocriti possono non tenere conto.

Non m’indigna che ne siano stati nominati quattro in un colpo solo. Assumendo così il solo significato che i meritevoli, in Italia, possono essere tutto, tranne che persone politicamente impegnate. Il che poi, forse, ha pure un fondamento. Fino alla presidenza di Sandro Pertini la regola era: cinque senatori a vita nel Senato. Pertini innovò: cinque senatori a vita per ciascun presidente. Amen.

Non m’indigna che Giorgio Napolitano non abbia voluto nominare, prima delle elezioni anticipate, o subito dopo la sua rielezione, Silvio Berlusconi e Romano Prodi, vale a dire i due soli vincitori elettorali della seconda Repubblica. Entrambe, poi, incapaci di tradurre quelle vittorie in effettiva attività di governo. Sarebbe stato un modo per chiudere un capitolo della nostra storia e prevenire problemi che era facilissimo prevedere che sarebbero arrivati. Non m’indigna perché queste sono scelte che ricadono nella esclusiva potestà (ma non responsabilità, perché la Costituzione non fa eccezioni, e il Colle è irresponsabile) del presidente della Repubblica. Ha valutato diversamente. Amen.

Né, infine, m’indigna che il seggio di senatore a vita sia oramai diventato una specie di cavalierato lautamente retribuito, perché, in effetti, da molto tempo quelle nomine hanno perso il senso e il valore che i Costituenti immaginavano. Anziché animarsi per questa o quella nomina ritengo che, quando un giorno si metterà finalmente mano alla profonda riscrittura della Costituzione, quel genere di nomine vada semplicemente e risolutivamente cancellato.

M’indigna, invece, la nomina di Claudio Abbado. Lo dico con franchezza e rispetto. Si tratta di un grande direttore d’orchestra (preferisco Riccardo Muti, ma questi son gusti, benché temo che nella scelta quirinalizia abbia pesato poco la musica e molto l’intonazione culturale). Si tratta anche di un cittadino italiano che ha manifestato ammirazione e condivisione per la feroce dittatura cubana, nemica delle libertà individuali, politiche, culturali e artistiche. E non vedo come possa essere compatibile la presenza in Senato (non frutto di elezione, perché in quel caso anche i sostenitori d’ideologie dispotiche, e ce ne sono, a destra come a sinistra, hanno comunque dovuto accettare il sistema democratico e il libero voto popolare), per meriti repubblicani, di chi ha in così poco conto la libertà. E la libertà viene prima di ogni altra cosa, anche della convenienza e della prudenza, che suggerirebbero di non scrivere queste cose.

Nel mio cuore c’è Reinaldo Arenas. Grande poeta e scrittore cubano. Discriminato e avviato al gelido lager tropicale perché uomo libero e omosessuale. Fuggito, approdato negli Stati Uniti, un giorno si trovò a un ricevimento, con banchetto: uno dei presenti, con il piatto in mano, magnificava il castrismo, sicché Arenas gli tolse il piatto e lo scaraventò contro al muro: faccia la fame e taccia, come noi cubani. La sua autobiografia s’intitola: “Prima che faccia notte”. Racconta che era costretto a scrivere nascosto su un albero, prima del buio. Se le sue pagine finivano nelle mani degli squadristi castristi venivano distrutte. Con questa nomina s’è fatta notte. In Italia.

Pubblicato da Il Tempo

venerdì 30 agosto 2013

Lista Berlusconi


Se fossi in Silvio Berlusconi più che della ineleggibilità, mi preoccuperei degli eventuali arresti domiciliari.

Essere ristretto a casa propria comporta certamente molti vantaggi rispetto alla detenzione in carcere, ma non bisogna dimenticare che non si può uscire di casa (sarebbe evasione), non è possibile comunicare con l'esterno né per telefono, né tramite web, è vietato ricevere estranei in casa e ci si può relazionare solo con familiari conviventi.

Per il Cav. sarebbe un anno di morte civile!

Sarà bene che, assieme ai suoi avvocati, trovi una soluzione al problema: forse l'affidamento ai servizi sociali offre qualche spiraglio di libertà in più.

Per le eventuali elezioni credo non ci siano problemi, anche se risultasse incandidabile.
Gli elettori gli hanno sempre dato fiducia e, se proprio non volesse rinunciare al nome, potrebbe promuovere una Lista Berlusconi, composta da candidati selezionatissimi, come ha fatto Pannella a suo tempo: sono certo che i voti non mancheranno, soprattutto da parte di coloro che considerano un sopruso l'esclusione di Berlusconi dalle elezioni.

I suoi detrattori potranno fiaccare l'uomo, ma non potranno mai più cancellare il messaggio che Silvio Berlusconi è riuscito a diffondere: l'amore per la libertà, il rispetto della persona ed il primato del singolo sullo Stato.

Forza Silvio!

giovedì 29 agosto 2013

Pannella, volta a destra!


Ho già firmato tutti i 12 referendum radicali anche se per alcuni devo ancora fare mente locale: mi importa che possano essere votati, con un sì o con un no, oppure con l'astensione.
E' doveroso che si apra un dibattito e si possano sentire le opinioni di tutti.

I quesiti sono ben riassunti nell'articolo che segue:
http://www.linkiesta.it/testo-referendum-radicali

Mi auguro che tanti elettori vadano nei Comuni a firmare per raggiungere il numero necessario di firme da depositare in Cassazione.
Vorrei, però, fare anche una riflessione che spero i radicali prendano in considerazione: i compagni del Pd latitano e fanno orecchie da mercante, mentre il Pdl si è speso per la riuscita della raccolta firme e non è escluso che Berlusconi stesso firmi i quesiti.

I radicali hanno guadagnato voti e consensi solo quando sono stati alleati del centrodestra: l'otto per cento alle europee del '99 con Emma Bonino, è una vetta inarrivata per i seguaci di Pannella.

Personalmente ritengo che i radicali abbiano più affinità con i moderati del centrodestra che non con la sinistra che li ha sempre usati. A sinistra si tengono stretti i voti e non faranno mai un atto di generosità votando candidati alleati che hanno idee e progetti in sintonia ma migliori dei loro.
A sinistra interessa solo il potere: il bene del Paese non è compreso nel programma.

Speriamo che Pannella abbia il coraggio di riportare i suoi nell'area liberale che è il brodo di coltura dei radicali.


martedì 27 agosto 2013

Perché credo in Berlusconi


E' un self made man. Ha dimostrato di essere un imprenditore di successo con intuizioni lungimiranti.

Non ha bisogno di vivere con la politica, è ricco di suo.
Ha dimostrato da subito di scendere in campo per fermare l'avanzata comunista e non per salvare le sue aziende: avrebbe potuto mediare con il potere. Infatti è difficile trovare imprenditori che non siano arrivati a compromessi con la politica pur di salvarsi dal dissesto o per avere finanziamenti agevolati da banche sottomesse alla regola che favorisce gli amici degli amici.

Si è inimicato mezza Italia che sperava nella vittoria tirandosi addosso le maledizioni, e non solo, di una sinistra vogliosa di governare ad un passo dall'agognato potere ( anche se con il consociativismo si era abituata ad esercitarlo seppure sotto forma di ricatto).

Una sinistra priva di idee, chiusa in se stessa, dominata da burocrati attaccati al potere, impreparata e spocchiosa ha trovato l'antiberlusconismo come sostituto dell'antifascismo che, dopo cinquant'anni, era diventato stantio.

Comodo e facile lasciar perdere il fascismo e passare all'attacco di un quasi sconosciuto imprenditore che ha l'ardire di presentarsi alle elezioni e di vincerle.
Il potere è "cosa loro": l'intruso deve essere abbattuto con qualsiasi mezzo.

La parobola, non ancora discendente, di Silvio Berlusconi va letta in quest'ottica.

Il mosaico che compone i suoi vent'anni di politica ha una serie di tessere che, solo partendo dal presupposto che quest'uomo sia sincero ed abbia sempre detto la verità, possono incastrarsi alla perfezione.
Il comportamento di Berlusconi ha una sua logica solo partendo dal presupposto che il suo scopo fosse il bene dell'Italia: se avesse agito per puro interesse personale la sua condotta sarebbe stata incoerente, per usare un eufemismo.
Se avesse voluto si sarebbe potuto ritirare quando e come voleva e le persecuzioni sarebbero finite: per quale scopo rimanere a prenderle?
Le sue aziende sono più in pericolo ora o quando è sceso in campo?

Basta una lettura in buona fede della biografia di Silvio Berlusconi per capire che è un perseguitato

Democrazia arrestata. Davide Giacalone


Può la magistratura emettere provvedimenti che abbiano l’effetto di modificare i risultati elettorali e impedire a chi è stato eletto di adempiere ai propri doveri e far valere i propri diritti? No, non sto parlando della solita persona, del caso di cui tutti discettano. Di questo si occupano in pochini e la grande politica lo snobba. Sbagliando, di molto. Perché per chi ha a cuore le sorti dell’altro caso, quello arcinoto e arcidibattuto, sarebbe saggio indicare che la faccenda non è limitata e le degenerazioni assai pericolose. Per chi, all’opposto, antipatizza verso il celeberrimo condannato, ma non ha perso la testa e non sbava latrando, sarebbe utile dimostrare sensibilità laddove a finire in ceppi è la democrazia. E’ il caso di Luigi Villani: consigliere regionale in Emilia Romagna e, in assenza di alcuna sentenza, senza che mai si sia visto un processo, su richiesta della procura e con l’avallo del giudice per l’indagine preliminare, ha perso il diritto di onorare i doveri che ha contratto con gli elettori. Follia, allo stato puro. Si tratta di un consigliere del Pdl. Se stessimo ragionando fra persone civili la cosa sarebbe del tutto irrilevante: potrebbe essere del Pd, grillino o dipietrista, non cambierebbe niente. Ma nell’Italia faziosa vale solo la divisione per bande. Lo dico da sbandato.

Si tratta di un cittadino che la Costituzione ci obbliga a considerare innocente. Ma se dovesse dimostrarsi colpevole anche questo è irrilevante, perché ciò seguirebbe un (si spera regolare) processo, mentre qui la pena lo precede. Ora spalanchiamo la finestra sull’orrore.

Indagando su casi di peculato la procura chiede e ottiene provvedimenti di custodia cautelare. Già su questo ci sarebbe, e non poco, da ridire: il codice prevede tale misura, estrema e devastante, per reati che comportino rischi collettivi, mica per ogni cosa (c’è scritto, non è una mia fantasia), e in quanto all’inquinamento delle prove e alla fuga ci devono essere pericoli concreti, non la mera ipotesi (di per sé sempre presente, quindi insignificante). Ma le leggi sono declamazioni inutili, se chi le applica se la suona e se la canta. La prassi della custodia cautelare ha devastato diritto, diritti e civiltà. Oltre che troppe vite. Comunque: il consigliere non è accusato di peculato, bensì di concorso (detta facile: avrebbe raccomandato una persona), e va agli arresti domiciliari.

In quel momento l’Assemblea regionale, applicando la legge, provvede alla sua sospensione, che durerà fin quando durerà la misura cautelare. Del resto, stando agli arresti è difficile che prenda parte all’Assemblea. Lo tengono privo di libertà per cinque mesi, ottenendo meno di nulla, perché quello continua a dichiararsi innocente del reato contestato, ma colpevole non di una, bensì di numerose raccomandazioni. Che, però, non sono reato. Dopo cinque mesate gli arresti cadono, quindi potrebbe tornare a fare il consigliere. Invece no, perché la procura chiede e ottiene, aprite le orecchie, che all’indagato sia interdetto l’ingresso nella città di Bologna, dove il Consiglio regionale ha sede. Non deve andarci, perché se ci mette piede “consolida” i suoi legami e le sue amicizie politiche.

E qui fermiamoci un attimo. Il ragionamento della misura cautelare presuppone una delle due possibilità: a. la politica è per definizione un’associazione a delinquere; b. la giustizia è in mano agli eversori. Nel primo caso è finita la democrazia, nel secondo lo stato di diritto. Essendo opzionale la richiesta delle misure cautelari, sicché a certuni si applicano e ad altri no, non è escluso che siano finiti entrambe.

Ecco, questo è il caso di un eletto cui non una sentenza, non un processo, ma una mera misura cautelare impedisce di fare il consigliere regionale. Il problema, però, non è lui (è un chirurgo e ha già fatto richiesta di tornare a fare il suo mestiere), non i suoi diritti, ma i diritti di noi tutti. L’offesa è arrecata non alla sua persona, ma alla collettività. Chi di questo non si dice scandalizzato, pur conservando il diritto di non condividere neanche una delle cose che quel signore pensa, dice o fa, è già democraticamente morto. A me è sfuggito cosa, sul tema, hanno detto i capipartito di questa maggioranza, come anche dell’opposizione. Non i parlamentari locali (che pure tacciono), ma i capi. Solitamente loquaci oltre i limiti della logorrea. Chiariscano subito, oggi stesso, cosa pensano di questo caso, possibilmente senza biascicare minchionerie del tipo “la giustizia faccia il suo corso”, perché qui se ne vede l’opposto, vale a dire il sopruso. Parlino, così, almeno, da quel che diranno e da quel che non diranno, ciascuno capirà di che pasta son fatti.

Pubblicato da Libero

Siria ed Egitto come la Libia: islamisti campioni di inganni. Gian Micalessin

I Fratelli musulmani hanno costruito notizie toccanti per spingere l'Occidente a (disastrosi) interventi

La fiducia è una cosa seria. Riservata alle persone serie. Il rischio in Siria è, invece, di schierarci con chi si fa beffe della nostra fiducia, della nostra buona fede e della nostra disponibilità alla compassione. Tutti temi in cui la Fratellanza musulmana, artefice della ribellione, ha una consolidata tradizione.
Dalla Fratellanza musulmana nasce Hamas, l'organizzazione maestra nell'innescare le rappresaglie israeliane e moltiplicarne poi il numero delle vittime. Alla Fratellanza erano legati i militanti di Bengasi trasformati in protetti della Nato grazie alle «bufale» di Al Jazeera.
Alla Fratellanza appartengono i militanti egiziani pronti a piangere centinaia di «fratelli» caduti, ma anche a ospitare nei propri cortei - come documentano le foto esclusive de Il Giornale - gli armati chiamati a sparare sui militari e a innescarne la reazione.
E Fratelli musulmani sono quei rivoltosi siriani puntualissimi nel denunciare un attacco con i gas perfettamente «sincronizzato» con l'arrivo a Damasco degli ispettori Onu chiamati ad indagare sulle armi chimiche.

Hamas e le resurrezioni
di Jenin e Gaza

Nell'aprile 2002 quattro militanti di Hamas portano a spalla una barella con un cadavere coperto da una bandiera dell'organizzazione nata da una costola della Fratellanza Musulmana. Siamo a Jenin, la città dove per dieci giorni Israele ha stretto d'assedio i militanti palestinesi. D'improvviso i quattro inciampano e barella e «defunto» franano a terra. A rialzarsi però non sono, come documentano le riprese di un drone israeliano, solo i quattro barellieri, ma anche il «cadavere» prontissimo a risaltare nella lettiga. La mesta processione precipita nuovamente nel grottesco quando i quattro tornano ad inciampare e il «morto» torna a «rialzarsi» terrorizzando un gruppo di civili convinti di aver davanti uno zombie. La farsa inscenata da Hamas per moltiplicare i 54 caduti palestinesi dell'assedio di Jenin si ripete negli anni a venire. L'ultima rappresentazione va in scena a Gaza nel novembre 2012. Anche lì una presunta vittima delle bombe israeliane, un uomo in giacca beige e maglietta nera trascinato dai soccorritori, riprende vita al termine delle immagini destinate alla Bbc. Poi si rialza, si guarda attorno e soddisfatto s'allontana.

Le finte fossi comuni
di Al Jazeera in Libia

In Libia nel 2011 i video e le immagini fornite dai ribelli ad Al Jazeera e Al Arabya spingono le opinioni pubbliche occidentali ad appoggiare la richiesta di una «no fly zone» santificata dal voto dell'Onu e realizzata dalla Nato. I falsi storici con cui l'emittente del Qatar prepara il terreno a un intervento militare «indispensabile» per fermare i «massacri» di Gheddafi sono due. Il primo nel febbraio 2011 documenta un presunto intervento dei Mig del Colonnello scesi in picchiata nelle strade della capitale per mitragliare i dimostranti. La notizia è palesemente falsa, ma l'Occidente se la beve come un caffelatte a colazione. Così, subito dopo, si ritrova servite le immagini di un cimitero spacciato per fossa comune in cui verrebbero sepolti gli oppositori uccisi dalle milizie governative. Non è vero niente, ma intanto il Colonnello diventa un mostro sanguinario. Un mostro da eliminare con l'aiuto di un Occidente obbligato a difendere i più deboli e chiamato ad instaurare libertà e democrazia.

Egitto, i cortei armati
dei Fratelli Musulmani

Queste foto, parte di un dossier esclusivo fornito a Il Giornale, dimostrano come la reazione dell'esercito sia stata innescata dai militanti di Hamas armati di pistole e kalashnikov. I militanti mascherati vengono mandati a sparare contro le postazioni dei militari dopo essersi mescolati ai cortei di protesta della Fratellanza Musulmana. Gli uomini armati utilizzano i dimostranti come scudo innescando la reazione dei militari che causerà centinaia di vittime. La presenza dei militanti armati cambia la dinamica di un massacro attribuito al cinismo di una cricca di generali pronta a tutto pur di costringere alla resa i sostenitori del deposto presidente Morsi.

Siria, il gas stermina i bimbi
e risparmia i soccorritori

Le immagini di Ghouta, la località dove il governo avrebbe usato i gas sono devastanti dal punto di vista emozionale, ma assai ambigue dal punto di vista documentale. La contraddizione più evidente è la mancanza di protezioni da parte dei presunti sanitari arrivati a soccorrere le vittime. L'altra è la sistematica plateale teatralità con cui i bambini deceduti vengono allineati davanti agli obbiettivi. Ad Halabja nel marzo 1988 i gas di Saddam non fecero distinzione tra vittime e soccorritori e sterminarono chiunque non si fosse allontanato. A Ghouta nessuno fugge, non c'è un clima di panico e gli ospedali continuano a funzionare. L'impressione è di un attacco circostanziato e molto limitato. E questo fa sorgere due grossi interrogativi. Perché Assad avrebbe atteso due anni e mezzo prima di usare i gas salvo poi impiegarli sotto gli occhi degli osservatori dell'Onu? E soprattutto perché incominciare da una zona dove il regime non è militarmente in difficoltà e dove non viene sfruttato il vantaggio tattico offerto dall'arma chimica per riconquistare il territorio e nascondere le prove? (il Giornale)

Macché superscontrini. E' la legge del mercato. Nicola Porro

Va di moda pubblicare sul web i conti di aperitivi in posti esclusivi e raccogliere l’indignazione popolare. È il segno di una società che vuole farsi guidare dall'alto


Prima è arrivato lo scontrino da 100 euro del caffè Lavena, in piazza San Marco a Venezia. Poi l’acqua minerale alla Zagara di Positano. E ieri la ricevuta da 120 euro per quattro succhi di frutta al Phi beach in Sardegna.
 
Tutti a stracciarsi le vesti per il costo esorbitante della consumazione. È un pieno di indignati su Twitter e su Facebook, i due popolari confes­sionali elettronici, e poi giù arti­coli moralistici sui giornaloni. Un caffè non può costare dieci euro, e un succo venti. E così an­dando. Fino a qualche lustro fa aveva­mo l’equo canone. Perché non stabilire per legge l’equo drink o il caffè solidale?

Sulla vicenda ci si potrebbe scherzare su. Ma è più seria e ri­guarda la nostra ignoranza sul funzionamento dei mercati: qualcuno forse pensa che i prez­zi ( come un tempo i salari) deb­bano essere una variabile indi­pendente. Non vogliamo fare troppa filosofia, ma abbiate la pazienza di seguire ancora per un po’ il ragionamento. Tutti e tre gli scontrini di cui parliamo hanno caratteristiche simili. Sono battuti da locali piut­tosto rinomati. E i prezzi consi­derati ex post scandalosi erano esposti. Entrano così in gioco i due principi fondamentali di una società libera.
1. Il prezzo è un’informazio­ne, oltre che l’incrocio tra la do­manda (di acqua o caffè) e l’of­ferta. Quando l’informazione ci dice che un caffè costa dieci eu­ro, mentre il suo prezzo cosid­detto normale sarebbe di un eu­ro, ci dice che per particolari mo­tivi vi è un effetto rarità. O troppe persone lo vogliono acquistare o pochi commercianti sono in grado di somministrarlo. Il prez­zo è lo strumento migliore fino a oggi inventato per raccontare sinteticamente cosa stia succe­dendo su un mercato. L’alterna­tiva è che «qualcun altro» fissi il prezzo. Ma a quel punto ne di­scende che tutti i fattori di produ­zione, come ad esempio la loca­zione del bar, il tipo di prodotti venduti, la remunerazione dei camerieri debbono essere stabi­liti da questo «qualcun altro».Ec­co perché è fondamentale che un mercato sia competitivo: sol­tanto l’esistenza di altri luoghi in cui è possibile comprare il caf­fè o sedersi a un tavolino è garan­zia di buon funzionamento del mercato. Ma direte voi, se tutti i bar di piazza san Marco (visto che il luogo è quello) si mettono insieme per tirare su i prezzi, il nostro ragionamento non vale più un acca. Si forma un cartel­lo. Ecco perché diventa fonda­mentale il secondo aspetto del nostro ragionamento.
2. I maggiorenni che hanno comprato caffè a Venezia, ac­qua a Positano e succhi di frutta in Sardegna possono votare, sti­pulare un contratto, fare un fi­glio, abortire, divorziare, aprire un’impresa,assumere persona­le e comprarsi anche una pisto­la. Ma per quale ragione non sia­no i­n grado di stabilire la loro mi­gliore convenienza su come spendere i loro quattrini qualcu­no ce lo deve spiegare. Insom­ma non si vede per quale motivo economico e sociale si debbano tutelare questi signori dal loro er­rore ( se tale si giudica) posto che hanno a disposizione, in tutti e tre i casi, milioni di comporta­me­nti alternativi e più economi­ci da tenere ( la concorrenza esi­steva eccome): tipo prendere il caffè al banco, portarsi l’acqua da fuori,scegliere un’altra locali­tà per il proprio svago e via di­scorrendo.
Il punto fondamentale è che ci stiamo abituando a rivendica­re una molteplicità dei diritti (anche il caffè a prezzo calmiera­to) senza neanche supporre che prima c’è un dovere all’informa­zione e pretendiamo poi di esse­re deresponsabilizzati nelle no­stre scelte. L’abbiamo buttata giù un po’ dura,per soli tre scon­trini, ma temiamo che sia il ter­mometro di una società che chiede, forse inconsapevolmen­te, di essere sempre meno libe­ra. O più banalmente pretende che lo Stato sani i suoi errori. (il Giornale)

domenica 25 agosto 2013

Guerra al Monopoly. Machete

 



Il ridicolo è un grande patrimonio nazionale e qualcuno dovrà pure prendere il posto di Berlusconi. A sorpresa ci prova un gruppo di deputati renziani (?) con una lettera di severa protesta, niente popò di meno che all’ambasciatore americano a Roma. Contro che cosa ? Gli F35 ? Contro le violazioni della privacy da parte della National Security Agency? No: contro la nuova versione del Monopoly! Che, secondo notizie di intelligence (si fa per dire) dei nostri “contraddicendo la chiave etica della amministrazione Obama”, prevede la sostituzione di immobili con pacchetti di azioni! Il che rappresenta una minaccia gravissima ed un cedimento inammissibile ai falchi della speculazione finanziaria! Che “non permetteremo”. Nella versione (sempre del Monopoly) che piaceva ai magnifici 7, era specificato invece che l’acquisto, che so,di Vicolo Largo e Parco della Vittoria avveniva con regolari rogiti notarili..come in tutto il mondo?! Vi si potevano infatti costruire immobili e alberghi in tutta tranquillità chiedendo pedaggi in dollaroni a chi vi transitasse. Vuoi mettere?

Inoltre, lamentano i parlamentari, c’era la prigione! Dove è finita la prigione in cui si finiva , più o meno come da noi, pescando una carta a dadi tra Probabilità e Imprevisti. Perché rinunciare proprio alla prigione? È evidente, lamentano, la contraddizione della nuova versione del gioco della Hasbro con la legge americana severissima contro gli speculatori. Quella di prima era certamente una versione più educativa e meno minacciosa per chi il seggio parlamentare deve averlo vinto a “Scemopoly”, gioco nostrano derivato dalle cosiddette parlamentarie del PD nelle quali bastava pescare la carta “sono sempre stato con…Renzi o con Bersani”, “imbertare” il voto di tanti che credono ad una rivoluzione, poi magari mettersi d’accordo con qualche camarilla locale per diventare rappresentanti del popolo senza preferenze, e con la partecipazione più bassa della storia.. fino a che Letta non ci separi. Sempre meglio che discutere delle regole del Congresso PD.

Ora aspettiamo di sapere se i nostri coraggiosi, illustreranno la determinazione internazionale del Parlamento con la abolizione di tutti gli sport e giochi da combattimento dal pugilato alla scherma fino alla morra cinese, per la eliminazione dei War Games da tutte le piattaforme e per il rilancio della educativa “palla prigioniera”, anche on line. Vale la pena anche porsi il problema di riformare il Risiko rottamando almeno l’Alberta e la Kamchatka, rivedere radicalmente Cluedo (se ancora ci gioca qualcuno), nonché di scrivere una lettera alle Nazioni Unite contro i rischi che comporta per la lotta contro l’obesità l’icona negativa di Peppa Pig! Peggio di così…     (the FrontPage)

Il pericolo è che vincano i manettari. Giuliano Ferrara

Da Mauro a Travaglio a Zagrebelsky c'è chi vuole la galera per Berlusconi. Eppure anche a sinistra in molti non chiedono lo scalpo del Cavaliere



Nella coscienza pubblica c'è un'Italia diversa da quella dei republicones, i militanti dell'antiberlusconismo indignato, e dei manettari duri e puri. Solo che fino a ora non ha avuto una voce, o la sua voce è risultata timida.

Faccio qualche nome. Il professor Giovanni Orsina, cattolico liberale, docente, non sarà contento se la mannaia cadrà sulla testa del reo di frode fiscale, cioè il maggiore contribuente italiano condannato in via definitiva da un giudice che si chiama Esposito e non brilla a quanto pare per impersonalità e imparzialità, se stiamo a certe testimonianze vernacolari dei suoi commensali. La sua teoria è che Berlusconi è combattuto con assurdo accanimento perché la sinistra e le caste non elette non sopportano l'Italia che egli rappresenta, più ancora che lui.
Piero Ostellino, liberale da una vita, ha avuto tanto coraggio civile da unirsi a noi del Foglio quando facemmo del nostro essere restati in mutande, nudi di fronte alla furia vendicatrice della Boccassini, una bandiera contro i violatori della privacy e i banditori della caccia alle streghe, figuriamoci una soluzione finale contro il centrodestra guidata dalla sentenza Esposito. Non può piacergli.

Angelo Panebianco spiega da anni le sue ragioni, da gran signore: i magistrati hanno assunto un prepotere che fa di loro, in modo illiberale, gli arbitri e i signori della politica. Non va bene. Sergio Romano e Antonio Polito, o Pierluigi Battista e qualche altro, ragionano di politica e giustizia in modo diverso dai manettari semplici e da quelli di risulta, non la dicono né la scrivono come Mauro, Zagrebelsky, Travaglio. Nessuno di loro, che la pensano ciascuno a suo modo sui rimedi possibili, sottoscriverebbe la cinica sciocchezza dei republicones: la sentenza è legale e dunque legittima, non c'è ombra di sospetto su un eventuale fumus persecutionis, non c'è problema se non quello di applicare il dispositivo integralmente, possibilmente mandando Berlusconi in galera per espiare la sua colpa di diritto comune.

Anche Mario Monti, senatore a vita ed ex presidente del Consiglio, non ha mai partecipato alla festa della forca intorno a Berlusconi. Luciano Violante da anni dubita che il controllo di legalità, inteso come prepotere della magistratura sulla politica, sia una buona soluzione per la Repubblica. La sinistra è piena di testimoni, da Renzi a De Gregori, del fatto che vincere con lo scalpo giudiziario di Berlusconi in mano è fonte di imbarazzo, non di gloria. Lo stesso capo dello Stato può essere criticato per non aver fatto abbastanza di quanto era ed è nei suoi poteri, ma non di aver operato nella direzione del giustizialismo manettaro, via, siamo seri.

I nomi che ho fatto sono nomi che a diverso titolo contano. Hanno influenza in molti ambienti, sono credibili in Parlamento, nelle redazioni dei giornali e delle televisioni, fra i facitori di opinione. Perché hanno più appeal giochini verbali violenti e retorici del partito degli indignati permanenti? Perché le tifoserie prevalgono su un pubblico civilizzato, disponibile a ragionare, che pure avrebbe in molti di coloro che ho menzionato una rappresentanza non banale? Credo dipenda dal fatto che Repubblica e il suo gruppo fanno in modo appena dissimulato una guerra civile permanente, trasformano in mostri i nemici, in opportunisti e traditori coloro che alla mostrificazione sono riluttanti, agitano bandiere ideologiche capaci di sostituire, per interessi di gruppo e golosità di copie e di glamour mondano, l'insulto al dialogo («servi!», «venduti!») e una bande déssinée, un fumetto, al racconto delle cose e delle idee. In poche parole: mettono paura, minacciano ostracismo, e in questo sono campioni. È un guaio. Se prevalesse questa Italia indignata e pasticciona, che finge eleganza morale ma esercita solo un pietoso snobismo, non solo la giustizia e la politica ne risentirebbero. È tutto un clima di civiltà, di pluralismo e di buona educazione istituzionale che sarebbe dissolto nella fog of war, nella nebbiosa e opaca luce di una guerra senza significato e onore. (il Giornale)

giovedì 22 agosto 2013

Così Berlusconi smaschererà i giudici. Paolo Guzzanti

L'ex premier spiegherà agli italiani tutte le falle del processo Mediaset e l'assurdità della condanna: ecco cosa dirà

Che dirà agli italiani Silvio Berlusconi all'inizio di settembre? Tutti si arrovellano, molti si chiedono, altri ipotizzano e quanto a me, ho formato il numero di telefono di Arcore e ho avuto fortuna: mi ha risposto dopo un paio di minuti. Quella che segue non è un'intervista, ma quel che resta di una conversazione durata otto minuti e 43 secondi, tanti quanti ne ha contati il mio cellulare.

Che cosa farà dunque l'ex presidente del Consiglio? Se ho capito bene, sta preparando una vera lezione di storia.
 
Certo, sarà la sua storia, ma nessuno può negare che la sua storia coincida con una parte della storia collettiva del nostro Paese.

Berlusconi traccerà dunque la storia del suo processo e spiegherà ciò che a suo parere documenta la sua innocenza e l'ingiustizia subíta. Spiegherà che cosa avrebbero potuto dire i testimoni che la sua difesa aveva chiesto di udire, ma che sono stati rifiutati dalla Corte. Sosterrà l'assurdità di una condanna penale per un reato fiscale su una vicenda ancora aperta in sede di ricorso per dire ai suoi ascoltatori ed elettori (prima o poi, si dovrà pur andare a votare) di essere stato vittima di un'antica e ben oliata trappola giudiziaria per farlo fuori.

Mi ha però particolarmente colpito quel che Berlusconi ha detto a proposito della magistratura. La sua tesi è che il problema non è tanto quello di un'entità astratta (potere? ordine?) come la magistratura, ma di quella specifica parte dei magistrati che fa capo alla corrente politica chiamata Magistratura democratica.

Così, mentre ascoltavo mi è venuto un flash: rivedevo me stesso negli anni Sessanta e Settanta, quando ero psiuppino (da Psiup, Partito socialista di unità proletaria) cioè parecchio più a sinistra del Pci, e cominciai a seguire le vicende e le parole dei primi magistrati di sinistra - chi ricorda più i «pretori d'assalto»? - i loro congressi, le pubblicazioni, i dibattiti.

Non ne mancavo uno e li trovavo straordinari: vi si diceva, su una vasta scala di tonalità, che in Italia c'è un deficit di democrazia che sarebbe stato colmato soltanto quando la sinistra, allora comunista, sarebbe andata al potere.

I magistrati di quella corrente che diventò «Emmedì» (Magistratura democratica, appunto) non facevano mistero della loro missione politica mentre indossavano la toga e dicevano tutti più o meno così: «Noi, in quanto operatori della giustizia, dobbiamo fare tutto quanto in nostro potere per bloccare qualsiasi persona o partito che possa ostacolare l'avanzata della sinistra». A me, allora che avevo quarant'anni meno di oggi, sembravano propositi meravigliosi, rivoluzionari e «in linea» con la nostra linea di allora.

Non ce ne fregava assolutamente niente - politicamente parlando - di che cosa fosse vero e che cosa fosse falso, di chi fosse buono e di chi fosse cattivo, purché la linea andasse avanti. Eravamo tutti, allora, «sdraiati sulla linea». Non avevamo, noi giovani rivoluzionari e i giovani magistrati di allora, nulla di liberale: la parola «libertà» la trovavamo utile per le lapidi e le canzoni partigiane che cantavamo a squarciagola, perché venivamo da una scuola di pensiero - comune a tutti i comunisti, ma anche a tutti i fascisti e nazionalsocialisti del secolo scorso - secondo cui l'unica cosa che importa è la presa del potere, possibilmente per vie legali e democratiche (ma senza rinunciare ad altre opzioni che la Storia nella sua generosità può metterti a disposizione) sapendo che questa presa del potere, come ogni parto difficile, ha bisogno di bravi ginecologi, talvolta del forcipe e anche della lama del bisturi.

«La rivoluzione non è un pranzo di gala» disse Lenin a Bertrand Russell orripilato per le esecuzioni di massa a Mosca, e neanche la giustizia deve essere tanto ossessionata dalle buone maniere, o semplicemente dall'idea «borghese» del giudice terzo, indipendente, sereno, che appende con il cappotto anche le sue idee sull'attaccapanni.

Qualcosa di analogo avveniva in psichiatria. Ero molto amico di Franco Basaglia, padre della psichiatria democratica, che quando era a Roma veniva spesso a prendere un caffè da me. Basaglia mi spiegava con entusiasmo rivoluzionario che non esiste la malattia mentale, ma soltanto la malattia generata dalla classe borghese che con le sue contraddizioni e violenze crea la malattia, schizofrenia e paranoia. Dunque, mi diceva, il disturbo andava trattato come una questione politica: «Non si tratta soltanto di chiudere i manicomi - chiariva - ma di far esplodere il nucleo sorgente della borghesia stessa, ovvero la famiglia borghese». Ne seguì una legge di riforma psichiatrica che ha seguito quelle direttive: i manicomi sono stati chiusi, ma la sofferenza psichiatrica è stata spostata sulla famiglia incriminata con il bel risultato di far accatastare negli anni più di diecimila morti per violenze psichiatriche, come documentò l'indimenticato psicanalista liberale e libertario Luigi De Marchi in un convegno che promovemmo insieme in Senato anni orsono.

È sintomatico come due cardini regolatori della stabilità sociale come la psichiatria e la giustizia siano stati mossi dallo stesso impulso ideologico e negli stessi anni. E che da allora seguitino a diffondere le conseguenze di quella distorsione ideologica.

Ma torniamo alla chiacchierata con Berlusconi. Quando mi ha riportato alla memoria storica di Emmedì per averne letto - mi ha detto - centinaia di documenti antichi e recentissimi - mi sono suonati parecchi campanelli. Ho ricordato che quando io stesso mi sentivo dalla loro parte mi rendevo conto che non avessero come primo scopo l'esercizio di una giustizia indipendente, tale da garantire ogni cittadino a prescindere dalle sue idee.

Volevano, al contrario, garantire la vittoria di chi stava sul carro della presa del potere e procurare la sconfitta di chiunque fossa dalla parte opposta e ostacolasse la sinistra. La fedina penale di Berlusconi diventò subito nerissima appena sfidò «la gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto e la ridusse in frantumi. Partirono subito raffiche di avvisi di garanzia che mi ricordavano i killer di Al Capone che, quando andavano a far fuori qualcuno, prima di tirare il grilletto ci tenevano a precisare: «Nothing personal: it's just business». Nulla di personale, è solo una questione di affari, e facevano fuoco.

Anche con Berlusconi, e non soltanto con lui molti magistrati sembrano comportarsi come se fossero animati da quell'antico modo di intendere la giustizia. E così quando il Cavaliere mi ha detto che si era messo a studiare i dossier di tutte le dichiarazioni politiche dei magistrati di Emmedì raccolte negli ultimi anni, ho capito perfettamente a che cosa si riferiva.

Spesso si leggono delle espressioni sarcastiche sulla questione delle «toghe rosse», come se si trattasse di una tipica panzana berlusconiana, del tutto inventata. Penso che siano sarcasmi difensivi. Penso anche - calendario e fatti alla mano - che la magistratura avesse fin dal 1980, almeno, tutti gli elementi per scatenare una campagna moralizzatrice sulle ruberie della politica, sulla commistione tra affari e politica, come io documentai con la storica e fortunata intervista a Franco Evangelisti passata alla storia delle cronache come «A' Fra' che te serve».

La risposta della magistratura fu il silenzio di tomba. Il sistema di approvvigionamento dei partiti, Pci in testa, andava allora benissimo anche a quella parte della magistratura democratica che soltanto quando partì la parola d'ordine di decapitare la prima Repubblica, scattò gridando allo scandalo, alla necessità di fare pulizia, di castigare e demolire. Prima, neanche un fiato.

L'operazione Mani pulite annunciò con le trombe e i tamburi la scoperta dell'acqua calda, annunciando che i partiti prendevano il pizzo dagli imprenditori e il Pci, in barba al codice penale e alla Costituzione, lo prendeva dall'Urss. Anzi, il reato commesso dal Pci, che importava capitali in nero su cui non pagava una lira di tasse - a proposito di evasione fiscale! - veniva usato come alibi: poiché i comunisti prendono soldi dai russi, noi per pareggiare il conto li andiamo a prelevare dalle tasche degli imprenditori.

La magistratura inquirente usò senza risparmio la detenzione preventiva come forma di tortura che condusse molti al suicidio (penso a Gabriele Cagliari che si ficca in testa un sacchetto di plastica e muore in cella e a Raul Gardini che si ficca una pallottola nella tempia dopo essersi fatto una lunga doccia purificatrice) e tutte le suggestioni mediatiche che indussero gli italiani a credere davvero che la corruzione a favore dei partiti fosse nata con il Psi di Craxi e con la Dc di Andreotti e Forlani.

Mentre la memoria mi riportava a quei vecchi fatti - ma come mai il libro The Italian Guillotine di Peter Burnett e Luca Mantovano non è stato mai tradotto in italiano? - Berlusconi sosteneva che è veramente un caso straordinario in Italia che un uomo sia condannato a una pena detentiva per una supposta evasione fiscale per una cifra ancora sottoposta a vari ricorsi.

E riflettevo: è vero. Ditemi voi, dica qualcuno più informato di me, quanti imprenditori, evasori, uomini politici e no, sono finiti in galera per evasione. La memoria non mi soccorre. La Guardia di finanza ha appena accertato che 5mila evasori totali, ora identificati, hanno sottratto al fisco ben 17 miliardi di euro «a spese dei contribuenti onesti». Non ricordo di aver letto che una processione di cellulari li abbia trasferiti in galera. Eppure, 17 miliardi sottratti sono più del doppio dei miliardi di ricchezza che le aziende di Berlusconi hanno versato nelle casse dello Stato. Ma Berlusconi è stato condannato alla galera per una supposta evasione dell'1,2 per cento delle sue imposte. Bah, sarà tutto vero, ma non c'è qualcosa che non quadra?

Per la cronaca, Berlusconi mi ha confermato che non chiederà la grazia, non chiederà i servizi sociali, non chiederà i domiciliari, non chiederà nulla: c'è in ballo un enorme problema politico e a quello deve pensare chi ha gli strumenti per farlo, dice. Penso alluda al presidente della Repubblica, ma non l'ha detto. Ci siamo salutati e mi sembrava tutt'altro che depresso e rassegnato. (il Giornale)

martedì 20 agosto 2013

Severino law. Davide Giacalone

Abbiamo un problema di giustizia, che latita, ritarda, si nega. Abbiamo un problema di magistratura, afflitta da corporativismo e divismo, autoreferente e irresponsabile. Ma abbiamo anche un problema di leggi, scritte male, votate senza neanche leggerle, compitate per la gran parte da burocrazie ministeriali a loro volta affollate di magistrati. Prendete la legge Severino, che disciplina la decadenza di un parlamentare condannato, quella su cui può infrangersi il governo: neanche hanno finito di votarla che s’apre il festival delle interpretazioni, non escludendo la possibilità che sia incostituzionale o contraria alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Ma quando quella legge (madre) era in discussione, quando il governo Monti sollecitò il voto della propria maggioranza sulle norme intitolate all’anticorruzione, noi qui scrivemmo che erano sbagliate, contraddittorie e pericolose. Sostenemmo che nella loro applicazione sarebbero sorti problemi irrisolvibili. Parole al vento. Sicché una prima cosa vorrei dirla ai parlamentari che oggi inorridiscono: abbiate orrore della vostra superficialità. Fate tesoro della vostra incapacità, anche perché vi apprestate a votare altre norme demenziali e controproducenti, con la stessa giuliva faciloneria che vi portò a votare la legge che ora v’accorgete essere abominevole.

Detto questo, ribadito che prima di votare potrebbero leggere, sottolineato che se non capiscono quel che leggono potrebbero anche andare via, per decoro proprio e collettivo, veniamo al merito della faccenda. Ebbene: supporre che un parlamentare, che in questo caso è anche un capo politico, possa essere destinato alla detenzione, sebbene domiciliare, quale esito di una sentenza penale, ma possa, al tempo stesso, restare parlamentare, in questo modo supponendo di potere continuare la propria attività, è troppo idiota per essere oggetto di discussione. Che, infatti, è del tutto diverso: dopo avere votato la soppressione dell’autorizzazione a procedere, dopo che il “Parlamento degli inquisiti” (epoca manipulitista) consegnò sé stesso al potere delle toghe, dopo che nell’era successiva nessuno ebbe il coraggio di ripristinare una guarentigia presente in tutte le democrazie del mondo civile, ora si accorgono che avendo votato una legge che comporta la decadenza l’odierno parlamentare non solo va a scontare la pena, ma può essere oggetto di custodia cautelare. Tante volte quante volte piacerà ai pubblici ministeri e ai loro colleghi giudici delle indagini preliminari. Ecco il problema.

Pensare di risolvere quello di Silvio Berlusconi facendo una battaglia contro la sua decadenza è curioso assai. Se il centro destra tacesse, sul punto, lascerebbe nei guai gli alleati (e già, alleati sono). Invece s’agitano, senza costrutto. In ogni caso il problema che va sollevato è quello del mostruoso abuso che in Italia si fa della custodia cautelare. Ma, anche qui, con che faccia lo denunciano quelli che votano norme per cui è obbligatorio l’arresto degli stupratori, salvo il fatto che magari stupratori non sono, ma glielo diciamo con comodo, dopo averli sbattuti in galera? Con che faccia fanno i paladini del diritto quelli che votano norme per cui se A picchia B è più grave che se B picchia A, ove la differenza è il sesso? Questi forcaioli della domenica si scoprono garantisti al lunedì. E se me la prendo più con i parlamentari del centro destra che con quelli del centro sinistra è solo perché i primi sbagliano per inammissibile confusione mentale, mentre i secondi per profondissimi immoralità e cinismo.

Ergo: fate quel che credete per metterci una pezza, tanto non funzionerà (l’unica sarebbe la commutazione della pena), ma imparate a ragionare come se stesse legiferando per tutti, e non solo per gli amici vostri: va rivoluzionata la custodia cautelare, riportando la magistratura al rispetto della legge. Perché è la magistratura, in tale campo, a violare continuamente la legge.

Poi ponete il problema generale delle pene accessorie e dell’eleggibilità. L’interdizione dai pubblici uffici deve essere divieto d’accesso agli incarichi per nomina, non per elezione. L’idea stessa che una sentenza sottragga al voto chi altrimenti raccoglierebbe molti voti (perché se non lo votasse nessuno il problema non esisterebbe) ha un che di malato. In democrazia il diritto di votare per Tizio è sì quello dell’interessato di candidarsi, ma prima di tutto quello di tutti i Caio e Sempronio che si recano al seggio.

L’odierno dibattito sulla legge Severino è il trionfo del fallimento legislativo, il tripudio dell’azzeccagarbuglismo velenoso per la libertà e per la ricchezza, l’apogeo della legislazione improntata alle chiacchiere farlocche, al “lanciare messaggi”, al “segnalare orientamenti”. Chi segnala e lancia, all’evidenza, non ci capisce un accidente.

Pubblicato da Libero

lunedì 19 agosto 2013

Occasioni sinistre. Davide Giacalone

La destra ha un vantaggio: sa che il proprio futuro non può essere uguale al proprio presente. Magari non gradisce, ma prima o dopo lo digerisce. La sinistra, invece, è popolata da funzionari di partito, gente che non ha mai assaggiato il gusto del lavoro, tutti talmente convinti d’avere avuto sempre ragione da non avvedersi non solo degli immensi torti che la storia ha certificato, ma neanche del vuoto pneumatico nel quale coltivano l’illusione d’esser pregni d’idee e moralità. Per dare contezza delle occasioni che la destra perde ho usato il rapporto fra diritti civili e libertà individuali. Per capire l’abisso conservatore in cui è piombata la sinistra usiamo il rapporto fra diritti di cittadinanza e libertà dal bisogno.

Prima, però, da tosco-siculo, consiglio a Matteo Renzi di leggere le poesie in lingua di Renzino Barbera. In una si racconta delle piccole gioie, compresa quella di indossare l’abito della festa, abito “ca di vint’anni è novu”. La modestia di un tempo portava a considerarlo sempre “nuovo” perché aveva due caratteristiche: era stato confezionato per un evento festoso e non veniva mai usato. Ecco, si faccia due conti e chiarisca a noi tutti per quanto tempo pensa di restare il promettente nuovo di una sinistra che non c’è. E non ci sarà, senza affrontare quel che segue.

La contraddizione della sinistra italiana è genetica: dal punto di vista teorico crede nello Stato forte, capace di svolgere ogni funzione, in modo da compensare ogni ingiustizia, ma dal punto di vista storicamente realizzatosi, essendo consapevole d’essere una minoranza (con la spocchia di rappresentare la totalità), ha puntato sulla debolezza del governo, quindi dello Stato, quindi sulla sua incapacità di rimediare ai guasti del mercato. Non è un caso che a sinistra trovate i più inebetiti innamorati della finanza e delle scalate, perché diffidano del mercato, aborrono il lavoro, ma si sdilinquiscono innanzi al dio che già ispirò il fondatore che non lessero: il capitale. Li sordi, i piccioli, la pecunia. Che frequentano con indole subordinata e anima soggiogata. Nessuno adora nobili e ricchi con più bastarda generosità della sinistra.

Al punto in cui siamo giunti, nel mentre favoleggiamo di riprese e procediamo nell’imbuto che ci porta o a uscire dall’euro o a imporre manovre ulteriormente recessive, la sinistra ha una grande occasione: sappiamo tutti che l’Italia ha bisogno di poteri funzionanti, in grado di decidere e governare, altrimenti l’andazzo rinviante e conservante asfissia anche quella parte del Paese che è rimasta forte e dinamica, inducendola a chiudere o fuggire. Sappiamo che la debolezza istituzionale è consustanziale alla Costituzione del 1948. Ecco l’occasione: sia la sinistra a far quel che alla destra non riesce, ovvero seppellire il mito mendace della Costituzione nata dalla Resistenza. Cacci dal tempio i mercanti di perline tarocche, i biascicanti della “migliore Costituzione del mondo” e apra il cantiere della sua riscrittura. Non si tratta di un tradimento repubblicano, ma dell’unica fedeltà ragionevolmente possibile: cambiare e crescere per non fossilizzarsi e morire.

E nel porre la questione come irrinunciabile e immediata, non come opzionale e futura, metta in chiaro che i cardini sono due: la forma governo e la giustizia. La prima serve a restituire potere al popolo, il cui voto oggi vale troppo poco. Dal 1948 in poi l’obiettivo della sinistra ideologica fu quello di evitare che il vincitore governasse. C’erano motivi seri, legati al quadro internazionale. Quel mondo è finito. Nessuno, che non soffra il vuoto, può avere paura di Alfano o di Letta. Mentre il vuoto di potere governativo spalanca le porte del disfacimento e impedisce la fuga dal bisogno.

La seconda, la giustizia, serve a ricordare che nulla è più dalla parte dei diritti collettivi e della difesa dei deboli se non una giustizia funzionante. La nostra, pessima e sfregiata dalla faziosità, non è più neanche connivente con il potere o agente per censo, è distruttiva del diritto e sterminatrice di ogni debolezza e innocenza. La sinistra rompa con il partito reazionario delle toghe, inverta la retriva connivenza con i pochi forti contro i tanti deboli, e comincerà a parlare il linguaggio del futuro.

Una destra attenta all’individuo e al merito, una sinistra attenta al colletivo e al diritto. Sarebbe il segno che l’Italia cambia e si rimette a correre. Come in passato ha saputo fare. Resterà un sogno, però, finché dall’una e dall’altra parte ci saranno a far da capi i peggiori nostalgici rintronati che si possa immaginare: quelli che hanno nostalgia di ciò che mai fu e di quel che mai furono.

Pubblicato da Libero

venerdì 16 agosto 2013

Il doping informativo che ha trasformato i TGR in un regime sinistro. Renato Brunetta

Il centralismo democratico dei Tg regionali dimostra che il federalismo televisivo di Rai Tre non è mai esistito
Qualcuno sa quale sia la più grande testata giornalistica non solo televisiva europea? E’ il Tgr della Rai. Conta più di 500 giornalisti. Un potere immenso. Anche perché le informazioni raccolte in questa immensa rete poi hanno un doppio uso. La maggioranza viene offerta e consumata sul posto, attraverso i telegiornali regionali di ciascuna delle venti regioni. La pesca più pregiata è indirizzata al mercato centrale, che sta a Roma, in Saxa Rubra, e da qui, oltre che agli italiani, è diffusa per il mondo in proprio oppure esportata ai vari notiziari televisivi esteri, acquistando così un peso planetario. Questo è interessante e istruttivo. A mia conoscenza, nessuno aveva mai provato ad affrontare un’analisi quantitativa dell’informazione politica regionale per verificarne il pluralismo caso per caso. E poi paragonando i dati tra loro, osservare se esiste nelle varie piccole capitali una indipendenza di linea oppure no. La risposta è la seconda che ho detto: oppure no. Nessuna indipendenza, nessuna anomalia. Uniformità estrema. Come la Torre di Pisa pende, eccome se pende: a sinistra, sistematicamente. Salvo il caso del Veneto, Lombardia e un paio d’altri luoghi, dove la prevalenza elettorale del centrodestra in regione è così lampante che non si può proprio evitare di essere equilibrati, sia pure con una maggior generosità proporzionale verso il centrosinistra, nelle restanti regioni il piatto della bilancia registra un’indecente coerenza. In che senso? Quello che state tutti pensando e in fondo sapete benissimo: si privilegia alla grande la voce dei politici di centrosinistra. Questo dato è incidente localmente, ma fuori paese è innocuo, può pensare qualche buona anima. In fondo l’assessore di Ferrara non farà sentire la sua voce al di là dei confini emiliano-romagnoli, e tantomeno la sua dichiarazione sarà immessa nel circuito internazionale. A parte il fatto che la realtà nazionale è la somma di tante particolarità. E se la rappresentazione dei particolari è falsata, non è che il risultato complessivo può essere corretto. C’è di più, e qui deve valere un minimo di pratica della vita. I Tg regionali che, evidentemente per ragioni estranee all’equilibrio proprio del servizio pubblico, parteggiano per una parte sull’altra persino là dove le cose si possono misurare con facilità, tanto più nel taglio delle cronache e della cultura saranno accondiscendenti verso la propria casa madre politica. Se il ragionamento non fila, qualcuno mi faccia un fischio.

Provo a ripetere il concetto in altra forma. Il federalismo televisivo? Non esiste. Nella Rai, anche nei Tgr, i telegiornali regionali, vige una forma di centralismo democratico di tipo sovietico. E’ vero che esiste una direzione unica. Ma si supponeva che questo valesse per garantire davanti alla legge, alla direzione generale della Rai, al Parlamento e all’Autorità per le garanzie della comunicazione, un responsabile della linea editoriale e dunque garante del pluralismo. Pia illusione. Anzi, dati alla mano, pia frode. I dati che fornisco ora sono attinti né più né meno da quelli dell’Osservatorio di Pavia, che sono cronometristi svizzeri. Di mio ho osato il paragone tra queste cifre e il contesto elettorale dei rispettivi territori, indicando poi se il governatore sia di centrodestra o di centrosinistra. Insomma: nessuna pretesa che la ripartizione dei tempi locali rifletta il dato nazionale, non avrebbe senso dare spazio sulla base del dato nazionale alla Lega in Calabria. Ma almeno la proporzione locale, quella sì. L’indagine si riferisce agli ultimi sei mesi del 2012 e, dopo aver saltato a piè pari il periodo elettorale in cui vige la par condicio, al marzo del 2013. Sette mesi di dati puntuali. Si noti: quel semestre del 2012 vedeva in Parlamento una maggioranza netta di centrodestra, nettissima, prima delle elezioni regionali del 24 febbraio, in Lombardia e Sicilia. Eppure…

Cominciamo subito con una perla. La Val d’Aosta. La regione gode di molta autonomia, ma non ho letto in nessun articolo della Costituzione sia un emirato. Invece nella realtà è così. Il Tgr assegna all’Union Valdôtaine (insieme con altre formazioni assai minori tipo Stella Alpina) il 76 per cento dello spazio politico. Il 7 per cento del tempo totale è per il centrodestra e il 17 per cento al centrosinistra. C’è una ragione ovvia che sta nel nome stesso del partito. Il presidente della regione inoltre è Augusto Rollandin esponente dell’Union Valdôtaine. Ma la porzione di elettori è solo del 33,47 per cento. Piccola osservazione. Come mai così pochi? Con la propaganda totalitaria di cui dispone questo partito si vede che gli aostani hanno un animo resistente alle lusinghe martellate ogni dì. Non ha nulla da dire la direzione generale? O, visto che l’Union si sposta in sede parlamentare più facilmente a sinistra, le va bene così? O no?
Sarebbe sbagliato ridurre la pratica a folklore localistico, proprio per rispetto all’identità della Vallée e del suo popolo. La democrazia non ha luoghi piccoli o grandi, come diceva Stanislawski “non esistono piccole o grandi parti, ma piccoli o grandi attori”. E il Tgr valdostano è un pessimo attore della democrazia.

C’è poi una perlona per così dire. Un caso ciclopico di Repubblica socialista sovietica tuttora imperante e senza un belato che denunci questo strapotere. E’ la Toscana. Qui il governatore Enrico Rossi e il sindaco di Firenze Matteo Renzi sono satrapi babilonesi che si fanno massaggiare i piedi dai giornalisti Rai (parlandone con il dovuto rispetto). Non esagero: il Tgr Toscana ha consegnato al centrosinistra il 76 (settantasei!) per cento del tempo di parola. L’11 per cento al centrodestra, invece il 13 per cento alle altre liste. Si consideri: i risultati delle ultime elezioni regionali assegnano al centrodestra il 34 per cento dei voti e alla coalizione di centrosinistra il 61 per cento dei voti. Il centrodestra è stato privato nel telegiornale del servizio pubblico di più di due terzi del suo spazio di diritto. Non il dieci per cento, il venti per cento, ma precisamente il 67,64 per cento del suo patrimonio di democrazia spendibile nella tv pubblica. Questo come chiamarlo se non furto di democrazia? Più che un difetto di pluralismo, questo è un attentato alla decenza.
Come si fa a non essersene accorti e a non cercare un rimedio da parte di chi, come dirigente apicale, deve rispondere del contratto di servizio sottoscritto dalla Rai? Essa deve garantire il pluralismo. E’ scritto chiaro e tondo. E come può anche l’AgCom finora non aver notato questa rapina? Forse l’abitudine fa considerare questo esproprio cosa normale? Di tutto questo ho fatto oggetto di interrogazione nella commissione di Vigilanza sulla Rai e di un esposto con tanto di dati e numeri all’Agcom. Ma io domando lateralmente: non si vergognano i dirigenti del Pd ad avere un arbitro così sfacciatamente dalla loro parte? Che gusto c’è a giocare la partita del consenso?
Questo è un caso di doping informativo che falsa il bilancio della democrazia, e impone al centrodestra una corsa a handicap. E non è però solo questione di questo o quel partito danneggiato. C’entra il diritto del cittadino a non essere turlupinato, aggirato nel suo magnifico dovere di conoscere per deliberare.

Siamo in un regime intangibile (apparentemente, spero) e reso digeribile dall’indifferenza e dal silenzio di troppi complici della casta giornalistica e intellettuale.
Andando oltre la Toscana le cose non è che sono molto diverse.
Sugli altri Tgr mi limito a trasferire i dati sulla pagina con commenti anodini. Non sarei sereno nell’uso degli epiteti. Quelli giusti e pacati li trovi il lettore. Ad esempio, un caso spaventevole è quello delle Marche.

Parliamo dei dati crudi

I dati crudi del Tgr di Ancona riferiscono che il centrodestra ha totalizzato (si fa per dire) il 14 per cento rispetto al centrosinistra che ha intascato il 66 per cento del tempo totale; le altre liste il 20 per cento. Il presidente delle Marche è Gian Mario Spacca, di centrosinistra. A fronte di un misero 14 per cento di spazio gli elettori di centrodestra espressisi nelle ultime regionali sono il 40,1 per cento (il centrosinistra ha conseguito il 53,4 per cento). Il tempo di parola rubato al Popolo della libertà e alleati ammonta al 65,08 per cento di quello cui avrebbe avuto diritto! In pratica: invece di parlare dieci minuti, come si dovrebbe in ossequio al pluralismo, te ne assegnano poco più di tre. Com’è possibile che una simile sesquipedale violazione sia tollerata?
Piemonte. Centrodestra (d’ora in poi Cd) 38 per cento del tempo totale, il centrosinistra (Cs) 46 per cento; le altre liste (Al) il 16 per cento. Il dato fortemente a favore del Cs risulta maggiormente viziato se si considera che il Cd alle elezioni regionali ha conseguito il 47,3 per cento dei voti totali rispetto al Cs che ha totalizzato il 46,9 per cento , e che il governatore Roberto Cota è leghista (Cd).
Trentino Alto Adige. Cd 18 per cento, Cs 63 per cento, Al 19 per cento. Il presidente è Alberto Pacher, Cs. Nelle ultime elezioni regionali Cd 36,5 per cento, Cs 57 per cento. (Il furto al Cd è del 49,31 per cento del tempo dovuto).
Liguria. Cd 24, Cs 53, Al 23. Presidente di Regione è Claudio Burlando (Cs). Ultime regionali Cd 47,3, Cs 52,7. (Il tempo rapinato al Cd è il 49,26 per cento del dovuto).
Emilia Romagna. Cd 19, Cs 59, Al 22. Governatore è Vasco Errani (Cs). Ultime elezioni regionali, Cd 37, Cs 52. (Spazio scippato al Cd: il 48 per cento di quello spettante).
Umbria. Cd 22, Cs 69, Al 10 per cento. Presidente della regione è Catiuscia Marini (Cs). Elezioni regionali: Cd 36,7; Cs 59. (Il maltolto al Cd è il 40 per cento della spettanza di tempo).
Lazio. Cd 38, Cs 50, Al 38. Governatore Nicola Zingaretti (Cs). Alle ultime elezioni regionali Cd 32,7; Cs 42. (Si noti: nei sei mesi del 2012, la maggioranza in Lazio era del Cd, con la presidenza di Renata Polverini che aveva avuto il 51,14 dei voti, mentre il Cs era stato sotto, al 48,32).
Basilicata. Cd 13, Cs 65, Al 22. Presidente Vito De Filippo, del Cs. I risultati delle ultime elezioni regionali. Cd 27,3; Cs il 67,6. (Entità del furto: 52 per cento del tempo spettante al Cd).
Per non soffocare nei numeri torno più discorsivo.
Puglia. Il centrosinistra ha totalizzato il 53 per cento e il centrodestra il 29 per cento del tempo totale; le altre liste il 18 per cento. Il presidente della regione Puglia è Nichi Vendola esponente della sinistra. Alle ultime elezioni regionali il centrodestra ha ottenuto il 44,2 per cento dei voti e il centrosinistra il 46,1 per cento. Dunque il tempo sottratto e che spettava al Cd è stato il 34,38 per cento di quanto il pluralismo esige.
Sardegna. Il Tgr locale ha attribuito al centrodestra il 27 per cento del tempo diretto totale, mentre il centrosinistra ha ottenuto il 33 per cento; le altre liste il 40 per cento. Il presidente della regione Sardegna Ugo Cappellacci è di centrodestra. Alle ultime elezioni regionali il Cd ha conseguito il 51,9 per cento rispetto al 42,9 per cento del Cs. Tempo sgraffignato dalle tasche del Cd: 47,97 per cento del giusto.
Casi di equilibrio sostanziale si registrano invece in Friuli Venezia Giulia, Abruzzo, Calabria, Sicilia, Campania.
Un caso inverso, sia pure di entità assai minore rispetto al rovesciamento del concetto di servizio pubblico degli altri Tgr, era stato segnalato in Veneto e in Lombardia, a leggere le proteste dei politici locali di sinistra. Non è affatto così. E – sia chiaro – ho comunque trascritto questi dati in interrogazione ed esposto.
Veneto. Nei sette mesi in esame, la coalizione di centrodestra ha complessivamente ottenuto il 53 per cento del tempo in video, mentre il centrosinistra ha incassato il 30 per cento del tempo totale, e le altre liste il residuo 17 per cento. Alle ultime elezioni regionali il centrodestra aveva conseguito il 60 per cento dei voti mentre il centrosinistra se l’era cavata con il 29,3 per cento. Risultato che aveva dato la presidenza di giunta all’esponente della Lega nord Luca Zaia. Come si vede balla un 7 per cento a sfavore del Cd.
Lombardia. Il Tgr ha dato spazio al centrodestra per il 48 per cento del tempo complessivo, Il Cs ha avuto il 31 per cento; le altre liste il 20 per cento. Nel periodo in esame, dunque, il Tgr risulta sostanzialmente equilibrato, considerando che alle ultime elezioni regionali la coalizione di centrodestra ha totalizzato il 43 per cento dei voti, mentre il centrosinistra ha ottenuto il 37,2 per cento e il presidente della regione Lombardia è Roberto Maroni, esponente del centrodestra. Ma questi dati elettorali valgono come termine di misura del pluralismo solo per il mese di marzo 2013. Nei sei mesi del 2012 le proporzioni erano assai diverse. Il governatore Roberto Formigoni era sostenuto con un consenso elettorale del 56,11 per cento e un risultato per le liste di Cd a lui collegate del 49 per cento contro il 27 per cento del Cs. A rigore, quindi, un vantaggio netto lo ha avuto il Cs.
Semmai un caso di rovesciamento, sia pur lieve, dello schema favorevole alla sinistra si registra in Molise. Il Tgr locale ha dato il 46 per cento al centrodestra e il 24 per cento al centrosinistra; il restante 30 per cento alle altre liste. Il presidente della regione oggi è Paolo Di Laura Frattura, esponente del centrosinistra. Alle ultime elezioni regionali (febbraio 2013) il centrodestra ha ottenuto il 27,5 per cento dei voti mentre il centrosinistra ha conseguito il 50,1 per cento. In precedenza però, e dunque nel semestre finale del 2012 sottoposto ad analisi, il presidente del Molise era Michele Iorio, vincitore delle elezioni con il 46,98 per cento dei voti.

Dopo di che, avendo esposto ai lettori del Foglio e all’Agcom questi dati sconcertanti, sono praticamente certo che, pur essendo agosto, il tutto sarà avvolto dalle nebbie novembrine. Conosciamo i nostri struzzi, già che sono in spiaggia figuriamoci se rinunciano a infilarci la testa sotto.
Se ci sono lettori che trovano qui ragioni del loro sconcerto per l’informazione del Tgr delle loro parti, e le cui osservazioni hanno sempre inciampato nel sorrisetto dei capi locali della Rai, adesso agiscano anche loro. Inviino esposti sui singoli casi di mala informazione, di mala Rai, in fondo di furto di canone oltre che di democrazia all’Agcom. Cerchino sul sito internet. Se poi ci sono dei dirigenti di partito, magari responsabili regionali, che si sono accomodati nel quietismo dinanzi al sopruso, è il tempo di finirla con l’appeasenent. Non è questione di bega locale ma di resistenza all’occupazione delle coscienze, finanziata per di più dal nostro canone.
di Renato Brunetta (capogruppo alla Camera del Pdl)

Successione e identità. Davide Giacalone

Il problema non è la successione, ma l’identificazione. Se una forza politica ha identità che guarda al futuro avrà leader capaci d’incarnarlo, se ha identità ancorate al passato ne avrà capaci d’imbalsamarlo. Guardate a sinistra: il Partito comunista chiuse ufficialmente i battenti nel febbraio del 1991, ventitré anni dopo il gruppo dirigente è ed è sempre stato composto da coloro che ne erano alla guida. Non c’è stata successione, perché la loro identificazione è tutta al passato. La destra ha avuto un innovatore, un aggregatore e un capo. Privo di passato politico. Dopo venti anni, però, e a prescindere dalle vicende giudiziarie, quel che era nuovo non ha trovato maggioranza e realizzazione, mentre quel che era vecchio resta permanente. Abbiamo una sinistra e una destra di vecchi (non è questione anagrafica) che s’identificano con la conservazione dell’inconservabile, relegando il futuro nel settore dell’impensabile.
Eppure non mancano temi e sfide su cui ridefinire la propria identità, affermandola in positivo, non come semplice negazione dell’avversario. Qui mi concentro su un binomio: destra e diritti civili. Ma solo perché è un articolo e non un libro. E solo perché si crede, del tutto erroneamente, che la successione sia oggi un problema esclusivo della destra.
Terreni come la Convenzione di Istanbul, il femminicidio e l’omofobia, sono ideali per definire una destra moderna. Quel che vedo è l’esatto opposto: una destra a rimorchio del luogocomunismo conformista. Presa dal non volere essere quel che fu, intenta a separarsi dall’identità tradizionalista, assediata da un cattolicesimo moderato i cui leaders invocano la sacralità della famiglia unica avendone diverse e profane, la destra si abbandona nelle braccia del politicamente corretto, supponendo eroico il confluire verso le parole d’ordine della legge che proibisca il male. Ed è, invece, proprio quello il frutto avvelenato: così si uccide la libertà individuale.
Convenendo con Giorgio Gaber, circa la riconducibilità a simboli vuoti della differenza fra destra e sinistra, e scusandomi per la rozza sintesi, potremmo metterla così: la sinistra consiste in una maggiore attenzione al collettivo, la destra all’individuale. Le democrazie che funzionano sono amministrate ora dall’una e ora dall’altra, non solo perché l’alternanza è igienica, ma anche perché dopo essersi spostati troppo verso un estremo è bene muoversi verso l’altro. Così si mantiene l’equilibrio, nel mentre chi perde aggiorna il proprio programma. Da noi non funziona, per due ragioni: a. nessuno perde mai veramente (quindi nessuno vince); b. alleviamo nostalgici. Posto ciò, provenendo da società a solida forma familiare, con annesso valore religioso, si è giustamente imboccata la via dei diritti individuali. Fra questi il divorzio. Poi, però, è stata la sinistra a teorizzare il superiore valore di taluni diritti collettivi, fino a giungere alla perversione di legislazioni per settori umani. Non è fenomeno solo italiano (magari!). Abituati a credere che il diritto stia solo nella legge s’è cominciato a produrre norme per le femmine o per gli omosessuali. Perversione assoluta, sia perché quella produzione ribadisce e certifica la discriminazione, sia, ancora più rilevante, perché i diritti stanno nella libertà. La legge serve a garantire l’esercizio dei diritti individuali, non a discriminarli. L’idea, invece, che serva a compensare squilibri pregressi (le donne ammazzate sono sempre più numerose, che neanche è vero, sicché serve una legge per punire i maschi; gli omosessuali sono discriminati, dove?, quindi serve una legge per punire anche le prese in giro), creandone di settoriali, è tipicamente collettivista. Ecco, allora, che si offre l’occasione per una battaglia di libertà, di rispetto e di progresso, contro i totem e i tabù di un sinistrismo retrogrado e sessista. Invece quei (dis)valori sono così dilagati che la destra vota giuliva l’opposto della propria possibile identità positiva.
Su che si dividono, poi, destra e sinistra? Sul dramma di una malagiustizia che nessuno ha saputo riformare, ma ciascuno usa come arma di ricatto politico. Sul fisco che non sono stati capaci di ridurre, ciascuno accudendo i propri tartassati. Sulla spesa pubblica che non sono stati capaci di tagliare, ciascuno difendendo i propri acri d’improduttività. Sul tutto quotidiano, insomma e sul nulla futuro. Poi non si stupiscano, se il pubblico sciama verso gli spettacoli comici.

Pubblicato da Libero

mercoledì 14 agosto 2013

Il futuro di Berlusconi. Gianni Pardo

Berlusconi è stato inopinatamente condannato in Cassazione e i giornali non parlano d’altro. E invece c’è chi si sente vittima di una sorta di afasia. Non c’è un’idea che si presenti alla mente con quei connotati di chiarezza e distinzione che la renderebbero degna di essere comunicata. Si possono soltanto elencare gli snodi, i dubbi irrisolti, le possibili soluzioni.

Nel frattempo s’è aperto il festival delle ipocrisie. Si fa finta di credere che la Cassazione abbia emesso una normale sentenza, che il Cavaliere abbia commesso un grave reato e che per questo sia stato punito. In realtà non lo crede nessuno. Se quell’uomo fosse un delinquente, sarebbe già stato condannato la prima volta che è stato accusato. O anche la seconda. O anche la terza. Ma non la trentesima. Se avviene alla trentesima accusa è segno che si è tanto insistito che finalmente si sono trovati tre giudici di fila disposti a condannarlo comunque. Ecco perché tanti italiani voterebbero di nuovo per lui domani mattina. Ed ecco perché tutte le omelie che vengono dal Pd – “le sentenze si rispettano”, “Berlusconi è indegno di partecipare alla vita politica”, “le sentenze si eseguono”, “Berlusconi faccia un passo indietro” – suonano false. A sinistra mietono una messe attesa per lustri ma che è stata loro offerta dalla magistratura: un successo ottenuto barando.

La sentenza, comunque la si voglia qualificare, esiste ed ha i suoi effetti. Dunque è inutile girarci intorno: Berlusconi deve scontare la pena. Una grazia di Giorgio Napolitano è improbabile e comunque farebbe un buco nell’acqua: perché ci sarà un’altra sentenza e un’altra ancora, soprattutto ora che s’è rotto il ghiaccio. All’occasione basterà continuare a non ascoltare i testi della difesa o a dichiararli falsi e condannare anche loro.

Il Presidente Napolitano non si impegna a nulla e parla degli interessi del Paese. Ma Berlusconi in questo momento si starà chiedendo chi pensa ai suoi, di interessi. E immaginiamo abbia il sospetto che debba pensarci lui. Né sono significativi i moniti quirinalizi riguardanti lo scioglimento delle Camere e nuove elezioni: Napolitano ammonisce, Berlusconi decide.

Il fatto che il Cavaliere sia formalmente escluso dalla vita politica in Parlamento è meno significativo di quanto i suoi avversari possano sperare. Il king è importante, ma più importante è il king maker. Un Berlusconi privato dell’elettorato passivo rimane infatti il capo del suo movimento. Potrà tenere comizi, rilasciare interviste, continuare ad essere il dominus del suo partito. A quel punto, quanto peserà l’impossibilità di essere deputato o senatore? Forse che Beppe Grillo lo è? E se tentassero di ridurlo al silenzio, non gli si potrebbe comunque negare ciò che è stato concesso ad Adriano Sofri, colpevole di omicidio: quel detenuto eccellente dalla sua cella ha scritto per i giornali ed ha continuato a partecipare quotidianamente alla vita pubblica. Diversamente all’estero si potrebbero accorgere che in Italia non è lecito fare politica contro la sinistra: si rischia la mordacchia e la morte civile.

Senza dire che Berlusconi potrebbe sempre farsi prelevare da un elicottero nel cortile di casa e volare verso un paradiso qualunque da cui, via satellite, non sarebbe solo presente, in Italia, ma addirittura ubiquo. Non siamo ai tempi di Craxi. La sinistra si illude, se pensa di avere eliminato Berlusconi dalla scena. Forse è meglio che speri nell’anagrafe.

I giornali riferiscono ogni giorno che questo ingombrante personaggio ha detto questo e ha detto quello, ma una persona di buon senso non si fida. Non solo potrebbe trattarsi d’invenzioni, ma Berlusconi potrebbe non fare ciò che ci si aspetta, perché non è sottoposto alle decisioni di alcun sinedrio. Come sempre, ascolta i consiglieri ma alla fine fa di testa sua. E potrebbe far cadere il governo anche se tutti glielo sconsigliano. Perché costoro parlano nel loro interesse, lui agisce nel suo. Ma attualmente può anche darsi che neppure lui sappia qual è la migliore linea da seguire.

La vicenda avrà comunque provato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che la modifica dell’art.68 della Costituzione (1993) ha turbato l’equilibrio dei poteri. Oggi la magistratura decide chi può partecipare alla vita politica e chi no. E quando la materia è troppo astratta per essere risolta con una condanna penale, ci pensa la Corte Costituzione a far prevalere, sulla volontà del Parlamento, quella di alcuni uomini non eletti ma in toga.

Se si costringe la politica ad avere i suoi momenti più importanti fuori dal Parlamento - perché fuori dal Parlamento è tenuto chi in esso peserebbe di più - la nostra democrazia è azzoppata. Chi non lo vede deve andare dall’ottico. L’oculista sarebbe sprecato.

pardonuovo.myblog.it

martedì 13 agosto 2013

Caccia grossa ai nostri soldi. Nicola Porro

La redistribuzione è il paravento dietro il quale lo Stato nasconde gli artigli per impossessarsi del nostro patrimonio

Dietro ad ogni comportamento di un politico italiano, sia locale sia nazionale, si nascondono due modalità contrapposte: quella che potremmo definire la modalità del pubblico in antitesi alla modalità del privato. Purtroppo i due modi di essere, in questo nostro bipolarismo forzato, sono trasversali ai due grandi partiti.
 
Non è detto che un rappresentante del centrodestra non legiferi, ordini, ed esterni con la modalità del pubblico. Più raramente, ma avviene, alcuni rappresentanti di sinistra fanno invece propria la modalità del privato. In estrema sintesi la modalità del privato ritiene che, con tutti i loro difetti, le scelte dei singoli, compresi gli errori, siano da agevolare in un'ordinata e libera organizzazione dello Stato. Per uno sponsor della modalità del pubblico la norma e i suoi sacerdoti (funzionari e politici) sono invece comunque da preferire. Non pensiate che si stia parlando di filosofia. Ogni comportamento politico, anche il più insignificante, si può leggere in questa semplice contrapposizione.
Il caso di scuola è ovviamente quello fiscale. Anche se la bulimia normativa e burocratica è altrettanto pericolosa: regolare nel dettaglio il nostro vivere comune è l'altra faccia dell'oppressione fiscale. Ieri il ministro Delrio ha spiegato in quale direzione si dovrebbe rimodulare l'Imu: «Il nostro principio irrinunciabile è la redistribuzione della ricchezza, la giustizia sociale». L'obiezione più ovvia è che prima di distribuirla, è necessario crearla, la ricchezza. E il macigno delle imposte di fatto la distrugge. Si tratta di una confutazione tecnica, contabile. Ma non l'unica.
Il vero problema nell'affermazione di Delrio, peraltro considerato un ottimo amministratore locale, è piuttosto politico. La sua è la tipica posizione della modalità del pubblico. Il concetto stesso di re-distribuire implica che la distribuzione fatta dal mercato sia sbagliata, ingiusta, illecita o peggio, illegale. E che è necessario che qualcuno si occupi della buona e corretta re-distribuzione, appunto, di quanto erroneamente accumulato. E a farlo deve essere la politica e qualche illuminato funzionario pubblico. Ma dove sta scritto che ciò che ha stabilito il mercato sia emendabile da ciò che scrive un Parlamento? Le Camere nacquero storicamente proprio per il motivo opposto e cioè non permettere al sovrano di re-distribuire, in quel caso a proprio favore, ciò che la borghesia stava iniziando ad accumulare.
Bisognerebbe fare un passo indietro. E pensare all'imposizione fiscale come al modo che una società moderna ha di fornire servizi, ritenuti oggi essenziali, a coloro che non siano in grado di permetterseli. Si può anche immaginare una fetta di questa imposizione dedicata a quelle opere pubbliche e infrastrutture, che i singoli non avrebbero alcun interesse a finanziare. Punto.
La re-distribuzione del reddito non è un nobile ideale, ma un fantoccio ideologico. Almeno per coloro che hanno ben stampata in testa la modalità del privato. Ma soprattutto, negli anni, essa ha dimostrato di essere anche molto inefficiente. Dietro alla bandiera della re-distribuzione si consumano e si perpetuano le peggiori ingiustizie, che proprio essa vorrebbe cancellare. Quello che emerge chiaramente dal bilancio dello Stato è che l'enorme mole di quattrini sottratti dalle tasche dei contribuenti, riesce perfettamente nel suo intento di ridurre il reddito disponibile dei privati, ma nel contempo non riesce neanche lontanamente a soddisfare i bisogni essenziali dei più deboli. Abbiamo la tassazione più alta d'Europa e la spesa sociale pro capite più bassa, abbiamo le aliquote più penalizzanti dell'Occidente e gli investimenti pubblici più bassi nel vecchio Continente.
L'unico obbiettivo che la re-distribuzione raggiunge è quello di trasferire le risorse dai privati per elargirle diffusamente ai poteri pubblici. Non raccontiamoci palle.
Occorre combattere contro l'Imu, il rialzo dell'Iva, non solo per i 10 miliardi di euro che complessivamente valgono, ma per dare un primo forte segnale di discontinuità. La re-distribuzione dai ricchi ai poveri è l'ultimo, e neanche più originale, paravento dietro il quale la bestia statuale nasconde i suoi artigli per impossessarsi del nostro reddito e del nostro patrimonio.
Diffidate dagli sconosciuti che vengono a casa vostra per farvi del bene. Soprattutto se sul loro biglietto da visita c'è scritto: On... (il Giornale)

Spread giù debito su. Davide Giacalone

Lo spread scende e il debito pubblico sale. Per una volta mi piacerebbe partecipare ai riti della setta degli spreadofili, che per un anno andarono predicando che tutto stava in quell’indice e tutte le cause del male nel governo italiano. Allora rimproverammo loro di non capire che la causa era nell’euro e gli effetti si vedevano anche in altri paesi dell’Unione monetaria. Oggi sarei curioso di vedere la faccia di quei sacerdoti, laddove il rapporto inverso fra spread e debito pietrifica il loro torto. Ma la guerra alle sette, benché giusta, non è poi così interessante. I dati diffusi dalla Banca d’Italia suggeriscono riflessioni rivolte al futuro. E alle scelte politiche.

Lo spread, dunque, è ai minimi da quel dannato 2011, quando raggiunse le stelle. A cosa si deve questo successo (che tale è)? Alle parole della Banca centrale europea e alla determinazione del suo presidente, Mario Draghi. Frapponendosi fra la speculazione e il finanziamento dei debiti pubblici, la Bce ha creato uno spazio temporale nel corso del quale ciascuno avrebbe dovuto effettuare i cambiamenti necessari a non trovarsi nuovamente nei guai. Lo abbiamo fatto? Solo parzialmente. Il nostro più significativo passo in avanti riguarda il capitolo delle pensioni: si è portata a compimento la riforma avviata dal primo governo Berlusconi e poi realizzata da colui che ne fu ministro dell’economia, Lamberto Dini, riforma impostata sulla base delle indicazioni fornite da Onorato Castellino e avversata dai sindacati, dalla sinistra e, infine, dalla Lega. Dopo il governo Dini il cammino fu ripreso da un successivo governo Berlusconi, quando al ministero competente si trovò un esponente della Lega, Roberto Maroni. Cammino interrotto e retrocesso dal governo della sinistra, che cancellò lo “scalone”, mettendolo sul conto dei precari. Cammino completato dal governo Monti, con la riforma Fornero. A parte questo, ben poco. Per non dire nulla. Quel tempo, conquistato dalla Bce, lo abbiamo spredato.

Attenzione agli altri due dati, che accompagnano la discesa dello spread: 1. il debito pubblico continua a crescere, raggiungendo, a giugno, il nuovo record di 2.075 miliardi; 2. la pressione fiscale continua a crescere, generando una raccolta, nei primi sei mesi dell’anno, pari a 189,436 miliardi, con uno spettacolare aumento del 5,1% rispetto ai primi sei mesi del 2012.

Sono due facce della medesima medaglia, che è poi il vero dato politico, di cui ci si ostina a non tenere conto. Lo spread scende perché la Bce fa da scudo, ma quello scudo è credibile perché i bilanci statali non possono sfuggire ai vincoli imposti, sicché noi, non procedendo a tagli della spesa pubblica e abbattimento del debito non possiamo che far crescere il prelievo fiscale. Questo è il cappio che abbiamo al collo, sicché tirare è la meno saggia delle scelte. Prendere tempo, ovvero farlo passare senza fare nulla, adagiandosi su quel solo provvedimento per le pensioni (oramai risalente alla fine del 2011), significa comprare tempo ai danni dei contribuenti. La grande lite sull’Imu assume toni e caratteri sportivamente avvincenti, ma è largamente irrilevante, rispetto a questo scenario. 46,3 miliardi li abbiamo versati solo nel mese di giugno, quando sono giunti a scadenza gli acconti (che erano saldi) di Irpef, Ires e Imu. Per forza che il gettito da Iva diminuisce, perché in queste condizioni la pecunia scarseggia e i consumi si contraggono. E il fatto che si contraggano meno che nel recente passato dimostra solo che si è vicini all’osso.

Fra le voci che hanno portato alla crescita del debito pubblico ci sono gli 8,2 miliardi che abbiamo versato quali aiuti ai paesi euro in crisi. In quel conto l’Italia ha così messo la bellezza di 50,8 miliardi. Alla faccia della propaganda secondo cui noi saremmo alla ricerca di aiuti, o alla balla secondo cui qualcuno ci stia già aiutando. Siamo noi che aiutiamo gli altri. Con una particolarità: prestando soldi ai greci (a titolo di esempio) al tasso concordato del 3% noi regaliamo quattrini ai fratelli ellenici (visto che il Btp decennale, dopo il calo dello spread, resta al 4,17), mentre i tedeschi, facendo la stessa cosa, ci guadagnano, perché prendono denaro dei mercati a tasso reale praticamente nullo. Ripeto: il contribuente italiano sta finanziando l’Ue e i paesi in crisi, il contribuente tedesco non solo non finanzia l’Italia, ma non finanzia nessuno. Inoltre incassa la salvaguardia per le proprie banche, più esposte delle nostre con crediti a rischio.

Morale: il tempo creato dalla Bce non lo abbiamo usato come si sarebbe dovuto e vediamo crescere il nostro debito pubblico anche perché diamo soldi agli altri. In queste condizioni un governo degno dovrebbe essere in grado di garantire non solo rispetto per l’Italia, ma anche di spiegare ai nostri cittadini la convenienza delle riforme. Invece siamo lì a cincischiare sul nulla, a far propaganda con decreti vuoti e a prendere lezioni come se campassimo alle spalle altrui.

Pubblicato da Libero