giovedì 26 marzo 2015

La storia e le storie. Davide Giacalone


Imbrogliare e mentire sulla storia nazionale è un antico vizio italiano. Piuttosto che fare i conti con la realtà dei fatti si è ripetutamente preferito travisarli. Prima che José Luis Rodriguez Zapatero, ex capo del governo spagnolo, venga in Italia a raccontarci quel che ci siamo già detti, quindi, vale la pena rimettere in funzione la bussola della storia. Possibilmente senza usare i magneti delle tifoserie per truccarla.

La sorte dei governi italiani, quindi la nostra stessa sovranità, è stata determinata da influenze o decisioni prese al di là dei nostri confini? Si può rispondere oscillando da un irragionevole “no”, a un ecumenico “sì, ma è normarle che sia così”, fino a un estremo “sì, fu un colpo di Stato”. Esercizio inutile. Il nostro dovere è prima di tutto sapere, poi capire. Anche per leggere meglio quel che accadde dopo.

Senza andare alla notte dei tempi, come pure sarebbe utile, l’Italia, e per essa il suo governo, nella seconda metà del primo decennio del secolo appena iniziato, è finita due volte nel mirino di interessi a noi contrapposti. La prima è la più istruttiva e dice molto della seconda: il gas russo. Un pezzo dei governi europei e quello statunitense non hanno mai digerito il rapporto con i russi, per la fornitura di gas. Più in generale il rapporto con il governo di Vladimir Putin. Troppo lungo approfondirne qui i passaggi, sta di fatto che i più esposti eravamo noi e i tedeschi. Con una enorme differenza: quando Gerhard Schroder, pochi mesi dopo avere perso la cancelleria, prende la guida di Nord Stream AG (il gasdotto che passa nel Baltico e salta paesi come Polonia e Ucraina), designato dai russi di Gazprom, si accendono polemiche in varie parti del mondo occidentale, talune ardendo per lo scandalo, ma l’argomento non viene utilizzato come arma di polemica politica interna tedesca. Anzi: Angela Merkel inaugurerà l’opera. Da noi accadde l’esatto contrario. Ci torno, prima, però, è bene ricordare un dettaglio: coincide con quel periodo la pubblicazione della prima foto di Silvio Berlusconi con sulle ginocchia una squinzia, ritratti nella casa di Sardegna. Va da sé che se un capo del governo può essere fotografato, può anche essere accoppato. O, meglio, può essere accoppato fotografandolo.

Nel 2011, passaggio cui si riferisce Zapatero (ma anche Tim Geithner, segretario Usa al tesoro, narrante di funzionari europei che proposero agli americani di eliminare il governo Berlusconi), molte cose precipitano. Veniamo trascinati (marzo) in una dissennata guerra di Libia, voluta da francesi e inglesi. Il governo italiano recalcitrava, anche perché eravamo gli unici a rimetterci, ma la pressione esterna si amplifica all’interno, a cominciare dal Quirinale, temendo (timore reale, del resto) l’isolamento dell’Italia. Poi si scatena la speculazione contro i debiti sovrani (estate). E qui, scusate, ma Zapatero non ci può rivelare altro che succosi particolari, perché la sostanza noi la scrivemmo durante, non dopo: la polemica degli spread, intesi come indici di inaffidabilità governativa, era da trogloditi, o da imbroglioni. Lo documentammo e i fatti confermarono. Ma mentre si usava quell’artiglieria per colpire il governo, è arrivata la bomba.

Tale fu la costituzione del fondo salva stati (luglio). Cosa giusta, salvo che francesi e tedeschi vollero e ottennero che ciascuno partecipasse in percentuale del proprio pil, mentre gli italiani chiesero e non ottennero che si partecipasse in ragione dell’esposizione delle proprie banche con il debito greco. Era chiaro che la prima formula ci avrebbe portato a pagare per salvare le banche francesi e tedesche. Cose che scrivevamo allora, non poi. E non basta, perché oltre a pagare per gli altri non dovevamo neanche supporre di usare per noi stessi quel fondo, come invece fecero gli spagnoli, perché eravamo e siamo troppo grossi. Era ragionevole, quindi, che altri volessero fiaccare la forza del governo italiano. Ma non sarebbe stato possibile se in Italia non vi fosse stato un berniniano schieramento di quinte colonne. Così nacque il governo Monti (novembre).

Ciò va ricordato per evitare di supporre che la partita fosse d’antipatia personale, o di supposta impresentabilità. Per questo va anche ricordato che il governo in carica (Berlusconi) era già gravemente crepato, sia da divisioni interne, sia da scissioni favorite dal Colle, che dal ministro dell’economia disponibile a sostituire il capo del governo. Va ricordato che il centro destra ha votato a favore di tutti i passaggi governativi successivi (salvo poi dissociarsi). Producendosi poi la situazione odierna, con una coalizione di governo che nessuno ha mai votato (spaccato il centro destra e destituito Bersani). E va anche ricordato che se le serate gaudenti non furono la causa di quella crisi, ben altrimenti ricca d’interessi, furono comunque lo strumento utilizzabile. Quindi una colpa.

Pubblicato da Libero

mercoledì 11 marzo 2015

Ruby, Berlusconi, l'assoluzione. Claudio Cerasa




il Foglio - L'imbarazzo del pornogiornalismo chiodato è tutto in un verbo usato al posto di un altro. Titolo a cinque colonne di Repubblica, severo, accigliato, rattristato, disperato: "La Cassazione salva Berlusconi". Salva, non assolve. Salva perché è dura riconoscere, non solo per Repubblica ma per tutto il codazzo cieco e manettaro che da cinque anni segue in modo pruriginoso l'inchiesta sul bunga bunga berlusconiano, che la conferma in Cassazione sul caso Ruby equivale a una condanna definitiva per tutti quelli che dal 2010 provano a spacciare un'inchiesta sulla morale berlusconiana per un reato, e per tutti quelli che, come ha scritto magistralmente sul nostro giornale due giorni fa Luciano Violante, confondono il codice morale con il codice penale.

La notizia è che il reato di cena elegante non è ancora stato inserito nel codice penale, che la furbizia orientale non è ancora un capo di imputazione sufficiente per mandare qualcuno in galera, che giocare con i reati, aggravarli, renderli più severi solo per poter giocare meglio e più a lungo con le intercettazioni alla fine aiuta solo a produrre molte indignate inchieste dei giornali assetati di carte giudiziarie e che persino alla procura di Milano può accadere che inchieste costruite sul nulla si concludano con un nulla di fatto. Sui dettagli dell'assoluzione torneremo più avanti, ma per noi che anni fa andammo in piazza giocando con il nostro "siamo tutti puttane" e manifestando contro una campagna giornalistico-giudiziaria costruita sulla fuffa, sul pregiudizio, sul codice etico e a volte anche sul codice estetico, ciò che impressiona è quello che resterà di questa inchiesta, quello che non si potrà cancellare e quello che coincide con la conseguenza del processo mediatico. Fango su fango senza che sia prevista dalla legge un'impresa di pulizia etica pronta a condannare chi ha giocato con il ventilatore, con le dieci mille domande e chi ha utilizzato tonnellate di intercettazioni per fare quello che ai tempi, nel 2010, la politica non riusciva a fare: sconfiggere Berlusconi.

E dunque, sì, si capisce l'imbarazzo delle corazzate del moralismo chiodato, e si capisce, e ha persino ragione, che nelle cronache di oggi si leggano cose così. "L'Italia - scrive a ragione Piero Colaprico su Rep - continuerà a essere divisa tra innocentisti e colpevolisti". Ed è vero,è naturale: nell'Italia del processo mediatico le sentenze che contano sono quelle raccontate più dai giornalisti che dai giudici. Lo sappiamo. Ma rispetto al passato, dopo anni di ventilatore, forse c'è una novità. A forza di spacciare il fango per cioccolata alla fine anche i lettori più testardi si stanno convincendo, forse, che il fango è fango, e che la cioccolata, con il processo mediatico, semplicemente non c'entra nulla. Berlusconi forse si sarà "salvato". Ma se c'è qualcuno che non si salva è proprio chi negli ultimi cinque anni ha confuso il fango con il cacao.

(il Foglio)

 

lunedì 9 marzo 2015

Leggere il Corano per capire che l'islam non si fermerà. Magdi Cristiano Allam

Quanto mi fanno ribollire il sangue i buonisti, relativisti e islamofili nostrani che di fronte alle atrocità perpetrate dai terroristi islamici che sgozzano, decapitano, ardono vivi, massacrano i «nemici dell'islam», puntualmente si affrettano a scagionare l'islam, Allah, il Corano e Maometto e contemporaneamente ci auto-colpevolizzano sostenendo che i cristiani sarebbero responsabili di crimini non meno efferati compiuti a partire dalle Crociate, così come gli ebrei (anche se non sono israeliani) avrebbero già quasi del tutto completato il genocidio dei palestinesi.
Questo vero e proprio odio nei nostri stessi confronti si sta rivelando il colpo di grazia del tracollo della civiltà profondamente in crisi di quest'Europa sempre più scristianizzata e materialistica, con la prospettiva concreta della sua sottomissione alla dittatura islamica, in un contesto dove sussistono condizioni similari a quelle che portarono all'islamizzazione delle popolazioni delle sponde meridionali ed orientali del Mediterraneo dopo essere state al 99% cristiane per sette secoli.

Dopo la morte di Maometto nel 632, gli eserciti islamici sbaragliarono rapidamente prima l'impero persiano nel 637, poi logorarono l'impero bizantino con la conquista di Siria e Palestina (633-640), Egitto (639-646), Gerusalemme (638). La conquista dell'Africa del Nord avvenne dal 647 al 763. Nel 711 iniziò l'occupazione della Spagna protrattasi per ben otto secoli fino al 1492. Nel 718 gli islamici si spinsero in Francia occupando Narbona, Tolosa (721), Nimes e Carcassonne (725), prima di essere fermati a Poitiers (732). In Italia i primi attacchi islamici alla Sicilia iniziarono nel 652 e il controllo stabile sulla Sicilia è durato fino al 1061, mentre solo nel 1190 finisce la presenza islamica nell'isola. Le incursioni islamiche raggiunsero la Sardegna, Amalfi, Gaeta, Napoli e Salerno, il Monferrato, la Riviera Ligure. Nell'813 gli islamici distrussero l'odierna Civitavecchia, avanzarono verso Roma e saccheggiarono la Basilica di San Pietro e la Basilica di San Paolo per due volte (la seconda nell'864). A Bari fondarono un Emirato islamico durato 25 anni a partire dall'847. La Storia ci dice che dalla morte di Maometto nel 632 fino a quando i cristiani cominciarono a reagire organizzando le Crociate a partire dal 1.096, ovvero 464 anni, gli islamici avevano già occupato con le guerre e una lunga scia di sangue le sponde orientale e meridionale del Mediterraneo, la Spagna, la Sicilia e avevano per due volte saccheggiato la Basilica di San Pietro a Roma.

Ebbene oggi stiamo assistendo all'espansionismo del terrorismo islamico che occupa militarmente dei territori in Siria, Irak, Libia, Nigeria, Mali, Somalia, Yemen, Afghanistan, Pakistan, Indonesia e Filippine; alla crescente islamizzazione delle istituzioni civili in Turchia, Tunisia, Algeria e Marocco; alla presenza di terroristi islamici europei che sferrano attentati all'interno dell'Europa; alla diffusione di una rete sempre più capillare di moschee, scuole coraniche, tribunali sharaitici, enti assistenziali islamici, siti di propaganda jihadisti, centri studi e di formazione che condizionano le leggi secolari e ci impongono di non criticare l'islam, banche islamiche che supportano questa islamizzazione della nostra società. Eppure quest'Europa è sempre più tentennante su come reagire. Se dovessimo attendere non 464 anni ma anche soltanto 40 anni per deciderci ad intervenire per salvare quel che resterà di cristianità sulle altre sponde del Mediterraneo ma soprattutto per salvarci dal terrorismo e dall'invasione islamica all'interno stesso dell'Europa, sarà decisamente troppo tardi. Non esisteremo più né come società europea né come civiltà laica e liberale dalle radici cristiane. La nostra debolezza l'ha descritta in modo impeccabile monsignor Giuseppe Bernardini, vescovo di Smirne, quando il 13 ottobre 1999, ha raccontato che «durante un incontro ufficiale sul dialogo islamo-cristiano, un autorevole personaggio musulmano, rivolgendosi ai partecipanti cristiani, disse a un certo punto con calma e sicurezza: «Grazie alle vostre leggi democratiche vi invaderemo; grazie alle nostre leggi religiose vi domineremo». C'è da crederci, perché il «dominio» è già cominciato con i petrodollari, usati non per creare lavoro nei Paesi poveri del Nord Africa e del Medio Oriente, ma per costruire moschee e centri culturali nei Paesi dell'immigrazione islamica, compresa Roma, centro della cristianità. Come non vedere in tutto questo un chiaro programma di espansione e di riconquista? È un fatto che termini come «dialogo», «giustizia», «reciprocità», o concetti come «diritti dell'uomo», «democrazia», hanno per i musulmani un significato completamente diverso dal nostro. Sappiamo tutti che bisogna distinguere la minoranza fanatica e violenta dalla maggioranza tranquilla e onesta, ma questa, a un ordine dato in nome di Allah o del Corano, marcerà sempre compatta e senza esitazioni. Ecco perché oggi più che mai è necessario conoscere il Corano. «O voi che credete, non sceglietevi per alleati i giudei e i nazareni, essi sono alleati gli uni degli altri. E chi li sceglie come alleati è uno di loro. In verità Allah non guida un popolo di ingiusti» (5, 51). «Vorrebbero che foste miscredenti come lo sono loro e allora sareste tutti uguali. Non sceglietevi amici tra loro, finché non emigrano per la causa di Allah. Ma se vi volgono le spalle, allora afferrateli e uccideteli ovunque li troviate» (4, 89). Sono decenni che la Chiesa promuove, legittima e difende il dialogo con i musulmani. Il risultato concreto è che i cristiani che rappresentavano il 30% della popolazione del Medio Oriente fino al 1945, oggi si sono assottigliati al 3% e continuano a subire un vero e proprio genocidio. Dico che è arrivato il momento di svegliarci dal sonno della ragione con cui ci siamo imposti di non conoscere la verità presente nel Corano, che per i musulmani è Allah stesso. Solo riscattando il nostro dovere di conoscere la verità del Corano potremo salvaguardare la nostra civiltà.

(il Giornale)

 

L'ipocrisia della non punibilità. Davide Giacalone


Ci si complica la vita, aumentando i costi e le lungaggini della giustizia, non avendo il coraggio delle soluzioni semplici e lineari. Già sperimentate in paesi di comprovata civiltà giuridica. Arriva al Consiglio dei ministri il decreto legislativo sulle “cause di non punibilità”. Se il fatto è lieve, il danno è piccolo e l’autore non è recidivo, il giudice può decidere di non punire e archiviare. Non funzionerà. Per ottenere il risultato desiderato, più che giusto, ovvero quello di non discutere inutilmente cause irrilevanti, esiste una via meno ipocrita e tortuosa: far cadere l’obbligatorietà dell’azione penale.

La logica che presiede alla soluzione seria è inespugnabile: lo Stato paga un apposito ufficio, quello della procura, con il compito di accusare i cittadini che si ritiene siano colpevoli di qualche reato; poi paga un meccanismo più complesso e regolato, che presiede al processo, condotto da giudici equidistanti dall’accusa e dalla difesa, in modo da stabilire se quel cittadino è colpevole o innocente dei reati che gli vengono imputati; ne deriva che se l’ufficio dell’accusa non ritiene di doverla sostenere, considerando irrilevante la cosa o infondato il sospetto, la cosa finisce lì, senza ulteriori perdite di denaro e tempo (sia dello Stato che del cittadino accusato). Se l’accusa decide di non accusare è evidente che il processo non ha senso. Possono esistere solo due casi, in cui questo dà luogo a problemi: quando il procuratore è un incapace o quando è un corrotto. In tutti e due i casi si cambia il procuratore, non la legge.

Questo nel mondo della razionalità e della concretezza, non in Italia. Da noi si pretende che sia giusto obbligare la procura a sostenere l’accusa in ogni caso in cui ci sia notizia di reato. L’idea è quella che, così procedendo, si evita che i procuratori sfuggano al dovere di accusare i potenti. Peccato che questo tradisca scarsa fiducia nell’onestà e capacità delle procure. E peccato che l’obbligatorietà consenta al procuratore non solo di scegliere quali procedimenti portare avanti e quali lasciare languire, ma anche di prediligere quelli che assicurano adeguata visibilità mediatica. Si pretende, inoltre, che a disporre l’archiviazione, anche quando lo chiede la procura, sia un giudice, in modo da vigilare anche sugli eventuali intrallazzi dell’accusa. Il che potrebbe anche sembrare giusto, in linea di principio (ma non lo è), salvo che l’asino casca sulla cosa più grossolana: l’accusatore e il giudice sono colleghi. E lo sono in modo sconosciuto in tutto il resto del mondo civilizzato.

La non punibilità, di cui al decreto legislativo, non risolve la questione. Nasce male proprio perché ipocrita. Facciamo esempi concreti. Ricordate il decreto legislativo di Natale, morto a Santo Stefano, con il quale si prevedevano soglie al di sotto delle quali non si perseguiva penalmente l’evasione fiscale? Seppellito sotto un tripudio d’indignazione fuor di luogo e conformismo manettaro. Ma qui si ripristina la stessa cosa, solo che si toglie l’automatismo e si lascia la decisione al giudice. Risultato: più soldi e più tempo per arrivare allo stesso risultato. Prendete i casi di violenza in famiglia (preferisco parlare di violenza in famiglia, non di violenza sulle donne, perché il reato è abietto chiunque lo commetta e chiunque lo subisca), ebbene: è grave o no, uno schiaffone? Dipende, perché se è l’innesco di un crescendo, lo è, se è la modalità espressiva reciproca di due maneschi, meno. Dipende. E chi lo stabilisce? La procura, secondo me, che magari dispone anche la sorveglianza. Il giudice, secondo la legge e secondo questo decreto. Ma per arrivarci avremo perso altro tempo e denaro. Prendete le frodi negli appalti pubblici: può esistere una frodina? Dipende: se si tratta di un errore, di una scemata, ci può stare, ma se il trucco sul prezzo è piccolo ciò non toglie che la gara è falsata. Decida chi accusa, anche perché non ha senso accusare chi sarà assolto. Invece decide chi giudica, e siamo daccapo.

Procedendo in maniera vile ci si consegna alle mode. Ci sarà la stagione in cui lo spaccio di droga è reato di grande allarme, poi verrà quella della violenza, poi quella degli appalti, poi si mischieranno fra di loro. E non cambierà niente, perché ciascuno agirà burocraticamente e irresponsabilmente, scaricando su altri l’onere della non punizione, da giustificare non davanti al diritto, ma all’opinione pubblica. Ed è esattamente la giustizia che abbiamo. Non funzionante.



domenica 8 marzo 2015

Trani, Berlusconi ed i botoli di compagnia. Arturo Diaconale

 

A nome del Tribunale Dreyfus ed insieme all’avvocato Valter Biscotti ho presentato alla Procura di Roma un esposto in cui si chiede che la magistratura solleciti il Tribunale dei Ministri ad indagare sulle singolari circostanze, emerse dal processo in corso a Trani, che spinsero il governo Monti nel 2011 a pagare alla banca d’affari americana Morgan Stanley due miliardi e seicentomila euro di penale a seguito dal declassamento della nostra economia stabilito dalla agenzia di rating Standard & Poor’s, agenzia partecipata dalla stessa Morgan Stanley.

La notizia è stata tranquillamente ignorata dalla stragrande maggioranza della stampa italiana. Che ha preferito dedicare il massimo dell’attenzione alle intercettazioni delle telefonate tra Berlusconi e Tarantini depositate al Tribunale di Bari. La circostanza meriterebbe di essere trattata in uno dei tanti corsi che l’Ordine ed il sindacato dei giornalisti organizza per l’aggiornamento professionale e deontologico della categoria. Per informare i più giovani e confermare nei più vecchi addetti all’informazione italiana come nel nostro Paese il “cane da guardia” della democrazia sia abituato ad abbaiare non sulla base dei principi di correttezza e completezza dell’informazione, ma su quelli delle proprie convinzioni politiche e della regola ferrea dei due pesi e delle due misure. La pubblicazione delle telefonate intercettate dalla magistratura tra Berlusconi e Tarantini sono prive di qualsiasi rilevanza penale. Servono semplicemente ad alimentare la campagna di discredito moralistico nei confronti del Cavaliere alla vigilia della scadenza della sua pena ai servizi sociali e, soprattutto, della pronuncia della Cassazione sull’appello dei Pm alla sua assoluzione nel processo Ruby. La pubblicazione delle telefonate, prive di valore penale ma anche prive di rivelazioni pruriginose, non risponde ad un’esigenza informativa ma solo ad una necessità politica: creare un clima moralisticamente ostile al Cavaliere per condizionare il giudizio della suprema Corte.

Nessuno, neppure il più intransigente nemico di Berlusconi, nutre dubbi a questo proposito. Ancora una volta il circolo mediatico si è messo al servizio della giustizia ad orologeria per colpire con gli strumenti giudiziari il proprio avversario politico.

Allo stesso modo, nessuno nutre dubbi sulla ragione per cui lo stesso circolo mediatico abbia azzittito i propri latrati per nascondere che mentre il governo Monti faceva “i compiti a casa” imponendo sacrifici pesanti agli italiani, lo stesso governo pagava sull’unghia e senza alcuna istruttoria due miliardi e seicentomila euro ad una banca d’affari americana come penale per un declassamento stabilito da un’agenzia di rating di proprietà della banca stessa. Quelle somme avrebbero potuto impedire la tragedia degli esodati! Ma mentre la Fornero piangeva, Monti pagava senza battere ciglio. Sulla base di impegni assunti nel lontano 1994 dall’allora governo Ciampi e senza che quegli impegni fossero stati mai fatti applicare in precedenza. Bastano queste circostanze per suscitare qualche interrogativo e qualche preoccupazione non solo per il passato del nostro Paese, ma soprattutto per il suo futuro? La nostra è una nazione sovrana o è al servizio, attraverso i terminali italiani di oscuri banchieri stranieri, di un certo tipo di finanza internazionale?

A regola non solo una stampa “cane da guardia” della democrazia ma anche una stampa “botolo di compagnia” dei poteri forti avrebbe dovuto porsi interrogativi del genere. Invece, nulla di tutto questo. Tanto polverone su Berlusconi e solo silenzio assoluto sulla sovranità calpestata e sulle tasche depredate dei cittadini. Vergogna!

(l'Opinione)