giovedì 29 maggio 2008

Antifascisti con i paraocchi. Mario Cervi

La versione politicamente corretta degli incidenti di martedì scorso alla Sapienza l’abbiamo letta ieri mattina sulla stampa di sinistra. Per motivi imprecisati - si glissava su un fatterello non marginale, ossia il veto posto dai «collettivi» studenteschi a un dibattito sulle foibe promosso da Forza nuova - una squadraccia di torvi neofascisti aveva aggredito pacifici ragazzi intenti ad affiggere manifesti. Gli sgherri mussoliniani, muniti di cinghie e manganelli, avevano infierito sugli indifesi campioni della democrazia. «Roma, dilaga la violenza nera» tuonava l’Unità. «Assalto fascista all’Università» recitava di rincalzo Liberazione; e il Manifesto alludeva faceto a «dottori in spranga». La Repubblica non era da meno: «Raid neofascista contro gli studenti di sinistra, quattro feriti».
In realtà le cose stavano ben diversamente. Premetto che su certi brutti ceffi dell’estrema destra - e su certi dell’estrema sinistra - è opportuno vigilare. Ma all’ombra della Sapienza s’è svolta una violenta e banale rissa. Lo dimostra una fotografia riprodotta proprio su Repubblica: nella quale è possibile vedere con chiarezza che i presunti inermi rossi si lanciano all’attacco di un’automobile carica di gentaglia nera. Quell’auto è stata semidistrutta; non dai neofascisti e nemmeno con citazioni di Lenin. C’è voluto qualcosa di più sostanzioso per ridurla così. Nella colluttazione c’è stato, da entrambe le parti, chi le ha date e chi le ha prese.
L’idea della rissa è stata fatta propria dal magistrato che ha convalidato i sei fermi compiuti dalla polizia: quattro di Forza nuova, due dei «collettivi». Liberiamo dunque il terreno della polemica da grottesche enfatizzazioni per le quali la Patria sarebbe in pericolo, orde hitleriane scorrazzerebbero nella capitale, e docenti servi del nuovo potere tenterebbero di assoggettare La Sapienza ai dettami del dottor Goebbels. Tra tanti urli, gemiti, anatemi è andata dispersa la questione fondamentale: quale mandato autorizza i «collettivi» giovanili, in una delle massime istituzioni culturali italiane, sia a decidere chi possa dibattervi un tema di indubbia attualità come le foibe, sia a decidere se il Papa possa avervi licenza d’ingresso?
La risposta è semplice. Il mandato deriva dall’antifascismo. Chi invoca l’antifascismo dispone d’uno strumento politico e culturale di fronte al quale sono impotenti sia le norme di legge sia la Costituzione. Secondo le quali un qualsiasi cittadino ha, se non commette reato, diritto di parola, d’associazione, di riunione. Questo vale sia per un Francesco Caruso sia per un Roberto Fiore. Ferma restando la mia personale allergia all’uno e all’altro.
Questi concetti abbastanza ovvi hanno trovato posto ieri nelle dichiarazioni del professor Roberto Antonelli - collega del professor Guido Pescosolido che ammise la discussione sulle foibe, poi revocata - al Manifesto. «Bisogna imparare - ha dichiarato l’Antonelli - a parlare con tutti e non solo a parlarsi addosso. Io sono diventato di sinistra leggendo le opinioni di destra. Negare a priori il diritto di parola è scendere sullo stesso piano dei fascisti». Bravo Antonelli. Peccato che sulla stessa pagina, in un commento di Marco Buscetta, fosse possibile leggere affermazioni allucinanti.
«L’Università non è il salotto di Bruno Vespa dove tutto è facilmente sdoganabile in ossequio ai desideri del potere politico di turno, dove tutti i giuochi sono truccati e sotto controllo. È invece un luogo dove vivono soggettività politiche non disposte a ingoiare tutto in nome di un pluralismo fittizio e asservito alle gerarchie dominanti». Traduciamo in linguaggio comune, corrente e coerente questo diktat intriso di «soggettività politiche» e di «pluralismo fittizio».
Il principio fondamentale può essere così riassunto: l’Università è il luogo dove solo la fazione di sinistra deve avere libertà di parola, dove solo i guru che alla sinistra piacciono - anche se noti più per doti cabarettistiche che per profondità filosofica - sono osannati, dove il Papa è sgradito, e dove per decretare il divieto di parola basta citare il fascismo o l’integralismo (altrui). Io sono d’accordo con il professor Antonelli. Chi non lascia aprir bocca agli avversari si comporta, lui sì, da fascista. (il Giornale)

Fuori i ministri dal Parlamento. Paolo Guzzanti

La maggioranza è andata sotto alla Camera pur avendo un vantaggio di oltre cento deputati. Gli elettori si sono fortemente irritati e non è stata una bella prova. Gli assenti erano tutti i membri del governo (legittimamente assenti perché impegnati nel loro mestiere), più un gruppone di deputati allegroni e scansafatiche. Per i secondi, gli scansafatiche, dovrebbe bastare una tirata d'orecchie e forse una pedata di scoraggiamento. Esiste però la questione dei membri del governo, che fanno parte soltanto nominalmente del Parlamento e che in realtà sono impegnati, e molto impegnati, nel loro lavoro di ministri e sottosegretari.Non vogliamo buttarla in antipolitica. Vogliamo buttarla in politica. Per dire: coloro che sono ministri e sottosegretari dovrebbero dimettersi e fare soltanto il loro lavoro. Un ministro non può e non deve essere costretto a correre a Montecitorio con la lingua di fuori perché c'è un’importante votazione, cancellando impegni e appuntamenti. E c'è una ragione costituzionale, di principio, molto forte per sostenere questa necessità. La ragione è che il Parlamento deve controllare l'esecutivo e l'esecutivo non può recitare due parti in commedia: quella del controllore e quella del controllato. Si dirà: ma si è sempre fatto così. Vero, ma è stato fatto male ed è ora di cambiare perché abbiamo tutti detto che questa è una legislatura di grandi riforme anche di valore costituzionale.
E poi c'è la questione dello stipendio. Lo stipendio di un parlamentare che faccia davvero il suo mestiere è assolutamente equo, checché ne dicano quelli della casta. Se un parlamentare fa anche il ministro o il sottosegretario, cumula due stipendi, e questo è male. Pensiamo anche che chi fa il ministro o il sottosegretario debba guadagnare il giusto, e cioè anche molto, ma senza cumulare due stipendi di cui uno relativo a un lavoro che non può e non deve svolgere. C'è poi una ulteriore ragione: in questa legislatura il Parlamento rischia di essere totalmente esonerato dal suo ruolo e di diventare un votificio in cui una massa di deputati e senatori devono soltanto seguire le istruzioni impartite e spingere un bottone. Il Parlamento in questa legislatura deve invece trovare strumenti per non restare appiattito e svuotato. Se recupererà i deputati cui ha diritto, il Parlamento farà meglio il suo mestiere e permetterà al governo di compiere al meglio il proprio. (il Giornale)

mercoledì 28 maggio 2008

TV, il ritorno del sempre uguale. Davide Giacalone

Più che praticare l’ostruzionismo sull’emendamento governativo che riguarda le televisioni, la sinistra ha subito un’ostruzione dell’anima. La situazione è quella che anch’essi hanno contribuito a creare, in quasi trenta anni di pauperismo catodico, restando prigionieri dei loro slogan, dei loro cineasti finanziati dallo Stato, dei loro giornalisti lottizzati e, ora, del loro alleato giustizialista. Si concedono un supplemento di dolore, con una disciplina che estasierebbe Von Masoch.
La maggioranza, però, non ne approfitti troppo, perché vendere l’emendamento come se fosse un dovere europeo, un recepimento di sagge direttive od un passo avanti, è troppo. E’ circonvenzione d’incapace. Trattasi di pezza. Siamo inadempienti, da anni, circa il piano delle frequenze (a proposito, i sapientoni che ammoniscono e sdottoreggiano sui relativi canoni, hanno dimenticato un particolare: non sono mai state assegnate). Hanno fissato, destra e sinistra, date ridicolmente irrealistiche per il passaggio al digitale, per giunta si è condotta la carretta come se il duopolio analogico dovesse solo fare un salto tecnologico. L’arbitro europeo ha fischiato e noi, ora, rimediamo frettolosamente. A parte ogni altra considerazione, ho due obiezioni da muovere.
La prima: il giochetto non è senza costi, perché rilanciando verso il futuro la non regolazione si penalizza chi, oggi, è tenuto con la forza fuori dal digitale, ovvero le radio. Se quelle vanno alla Corte di Giustizia ci fanno neri, dato che in Europa galoppa un digitale radiofonico che da noi è impedito proprio dallo Stato, dalla sua televisione e da autorità incapaci di garantire anche solo il rispetto della legge. Ci pensino, gli emendatori, prima di rifinire nei guai. La seconda: salvo imprevedibili traumi, la legislatura si chiuderà nel 2013, mentre il definitivo passaggio al digitale dovrebbe avvenire entro il 2012. Quindi è affare di questa maggioranza. Facciamo come in passato, sostenendo l’insostenibile fino all’ultimo momento, salvo poi dire: ohibò, non si poté? Oppure entriamo nel mondo della realtà e stabiliamo per tempo che il digitale non è terrestre o marziano, ma una tecnica che passa per ogni mezzo di trasmissione? Lo dico ora, perché è triste l’idea di vivere nel sempre uguale, con ostruzioni sempre più idiote.

martedì 27 maggio 2008

L'Unità che demonizza il Ponte 44 anni fa non voleva l'Autosole. Filippo Facci

Per meglio comprendere il ricompattamento della sinistra attorno al fronte del no (al nucleare, al ponte sullo Stretto eccetera) leggere i giornali di trenta o quaranta o cinquant’anni fa è forse ancor più utile che leggere quelli di stamattina. Perché si cita e ricita il nucleare, ma parrebbe un pazzo chi dicesse che la sinistra italiana era anche contro la televisione, contro l’automobile, contro la metropolitana, contro i grattacieli, contro i ponti e i sottopassaggi, contro l’alta velocità in ogni sua forma, contro i computer, contro l’automazione del lavoro, contro il part-time, contro tutto ciò che si è rivelato causa e conseguenza della modernizzazione del Paese: e stiamo parlando, ricordiamolo sempre, di una forza che ha sempre amato definirsi «progressista» per quanto non abbia risparmiato ostilità rivolte contro tutto ciò che è stato via via ricondotto alla società dei consumi.
Le autostrade, per esempio: la sinistra non le approvava perché privilegiavano i consumi individuali (era la tesi) a discapito del trasporto pubblico. Il 3 ottobre 1964, dopo che il governo di Aldo Moro aveva inaugurato l’Autostrada del sole, qualcosa cioè che davvero cambiò l’Italia, l’Unità scrisse questo: «Abbiamo l’autostrada, ma non sappiamo bene a che serve... è evidente l’impegno di spremere l’economia nazionale nella direzione di una motorizzazione individuale forzata... dimenticando che mancano le strade normali in città e nel resto del Paese». Sembrano i titoli dell’Unità circa il ponte di Messina. Lo schema è sì migliorato, ma non molto mutato: da allora a oggi ogni grande opera è stata inquadrata come un fumo spettacolare ma privo del necessario arrosto. Roba per pochi: «Velocità alte e comode», insisteva l’Unità, «sono soltanto per redditi più elevati».
Tipo i camionisti bulgari.
E non dite che sono polemiche datate, perché ciò che scrisse l’Unità dell’8 gennaio 1977, quando il Pci era ai massimi, oggi andrebbe riletto ai pendolari della Salerno-Reggio Calabria per saggiarne le reazioni: «Gli investimenti in autostrade hanno aperto una falla difficilmente colmabile nelle risorse del Paese, a detrimento di investimenti la cui mancanza determina continui danni economici ed ecologici». La magica parola, ecologia, era già stata requisita dalla sinistra non senza colpe di un centrodestra piuttosto vacante sul tema. Resta il delirio: «Mettere fine agli sperperi in una ragnatela di autostrade, dando rigorosa precedenza a investimenti sociali e produttivi, ecco il nostro impegno». Sempre l’Unità.
Era il gergo sempreverde che andava a richiamare «un diverso modello di sviluppo». Quale? Mai capito, però vediamo che all’inizio del 1977 proprio Enrico Berlinguer, peraltro alla vigilia di una straordinaria fase di espansione mondiale dell’Italia, dettava una precisa parola d’ordine: austerità.Sì, perché «l’austerità è il mezzo per contrastare alla radice, e per porre le basi, del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale. Lo scopo di questa austerità», disse sempre Berlinguer in un celeberrimo discorso, «è in primo luogo quello di instaurare una moralità nuova».La mentalità è in parte rimasta. La sinistra progressista, nel dopoguerra, si era già opposta alla realizzazione della Metropolitana milanese; negli anni Sessanta, il tram era definito di sinistra e la metropolitana di destra: va da sé che anche le conseguenze di questo, oggi, separano lo status di certe città italiane da quello di altre metropoli europee.
La sinistra progressista si oppose parimenti allo sviluppo urbanistico verticale (i grattacieli) e anche di questo le conseguenze sono note. Una volta tinta di verde, la stessa sinistra avrà modo di opporsi a tutti i progetti di Alta velocità ferroviaria, alla variante di valico Firenze-Bologna, alla realizzazione dell’aeroporto della Malpensa, al progetto Mose per salvare Venezia, per non parlare appunto del ponte sullo Stretto e di ciò che è successo coll’energia nucleare: eravamo il terzo Paese del mondo per produzione, prima dello stop via referendum.
Poi, se volete divertirvi, c'è la televisione. Nel 1954, a dir il vero, la nascita della Tv italiana fu accolta con sospetto e freddezza non solo a sinistra: nessun quotidiano infatti riportò la notizia in prima pagina, a parte La Stampa.
Era già evidente che cosa la televisione avrebbe potuto determinare nei costumi di un Paese: negli Stati Uniti i televisori erano già trenta milioni, in Inghilterra tre milioni, la Rai in ogni caso vantava già centinaia di dipendenti.
Un esordio in bianco e nero che forse contribuirà a ritardare di dieci anni quello della televisione a colori: fin dal 1967 la tecnologia fu ampiamente disponibile (apparteneva già a Stati Uniti, Inghilterra, Germania, Francia, Giappone e persino, sì, all’Unione Sovietica) ma in Italia riaffioravano discorsi sui consumi individuali e collettivi: «La Tv a colori è caldeggiata dagli industriali e dalla Rai» titolava l’Unità del 14 settembre 1977. Vade retro: «La questione non è se tradurre in Italia la Tv a colori, bensì quando introdurla... chiarire se il Paese può sopportare questa spesa e quali vantaggi eventuali, se vantaggi ci sono, potrebbe dare alla nostra economia».
L’arcano, oggi, pare risolto. Ma allora no: «Si tratta di capire e decidere», tuonava l’Unità, «se la Tv a colori è conciliabile con la vigente necessità di case, scuole, ospedali». A parte il congiuntivo sbagliato, oggi è forse più facile requisire case e scuole e ospedali che non i televisori a colori: prima dell’Europeo di calcio, almeno. Tutto il resto è noia, a parte una vicenda più recente e tuttavia più rimossa: negli anni Settanta, quando nacque la prima tv commerciale (si chiamava Telebiella ed era più che altro un esperimento) la sinistra additò «un pluralismo televisivo illegale, incostituzionale e tecnicamente impossibile». Impossibile, già.
Già allora, i «progressisti» proposero che il raggio d’azione delle tv private non dovesse superare il chilometro e mezzo. Poi saranno sempre loro ad applaudire i pretori che spegneranno le tv di Berlusconi e che si batteranno contro gli spot televisivi: perché non si interrompe un’emozione. Al limite si perdono le elezioni. (il Giornale)

martedì 20 maggio 2008

Cosa c'è dietro il declino della satira. Vito Schepisi

I giullari di regime erano coloro che divertivano i monarchi e le loro corti. La storia ha registrato la loro presenza sotto tutte le corone, ma la storia ci racconta anche della loro ingloriosa fine quando non riuscivano più a far sorridere. Erano tra i primi ad essere scaricati quando non erano più utili ed esaurivano la loro carica di comicità o di utile idiozia.

In Italia le azioni dei guitti, accompagnati da nani e ballerine, non si è fermata con la monarchia. A lungo, infatti, e fino ai tempi nostri, la pratica dei cosiddetti “artisti”al servizio dei potenti ha proseguito il suo corso, tanto da doverci ancora avvalere, con alternante successo, delle loro prestazioni. Da Benigni a Grillo, da Luttazzi a Fazio, Dai Guzzanti a Crozza e poi Rossi, Vauro, Celentano ma anche truppe di uomini immagine dello spettacolo comunicativo per la carica di sensazioni che riescono a sviluppare come Travaglio, Santoro, e persino Di Pietro (è un “artista” anche lui nel suo campo). Per essere giullari non è richiesto un mestiere specifico o un ruolo particolare, lo si è quando si interpreta, senza lasciarsi prendere da un accenno di dubbio, il ruolo di cantore di una verità compiacente. Lo si è quando si mistifica alla propria convenienza ideologica, ovvero all’interesse economico ed alla carriera, il copione di una produzione troppo spesso monotematica ed a bersaglio costante, quando si baratta la democrazia e la libertà di espressione con il dileggio, i racconti zoppi, le “verità” degli atti giudiziari che spesso sono radicalmente diverse dalle verità provate.

Sono mutati i modi perché anche le abitudini e le espressioni sono cambiate. Sono cambiati i mezzi di diffusioni perché la tecnologia ha reso più facile la divulgazione delle immagini e delle parole. E’ cambiata la base degli utenti perché la democrazia ha reso fruibile al popolo anche l’arte e le rappresentazioni teatrali. La satira, una volta riservata al divertimento degli aristocratici, o alla lotta clandestina contro gli oppressori del popolo, l’oscurantismo e la censura, ha rafforzato la sua espressione dissacrante ma solo per renderla più congeniale al compiacimento dei potenti.

La satira è divenuta a larghi tratti una forma di manifestazione di servilismo utile ad incassare la benevolenza del principe e di tutti coloro che riservano ai guitti ed ai compiacenti un posto al tavolo delle ingordigie e dello spreco delle risorse pubbliche. L’espressione artistica ha assunto persino la dimensione di lotta politica surrettizia, laddove l’antipatia cieca, la faziosità ed il rancore ideologico hanno preso il sopravvento sulle ragioni di un temperamento dissacrante.

Come in un grande domino, però, quando parte la caduta delle tessere inesorabilmente viene tutto giù. La politica ha le sue regole, anche se chi le detta non sa sempre interpretarne un percorso virtuoso. E quando le regole sono dettate, i più sprovveduti, e coloro che si mostrano più realisti del re, restano inevitabilmente col cerino acceso in mano.

Chi glielo spiega, ad esempio, ora a Di Pietro che le sciocchezze che fino ad ora erano ripetute sino alla noia contro Berlusconi (conflitto di interessi, leggi ad personam, editto bulgaro, abolizione del reato di falso in bilancio, etc. etc…) era solo propaganda e sciacallaggio politico? Chi glielo spiega ora a Di Pietro e Travaglio che l’assalto giudiziario, unico nelle realtà democratiche del mondo per durata, concentrazione, impegno di uomini e di mezzi, caparbietà e persino aggressività è fallito per la inconsistenza delle ipotesi di reato, per diversità dello svolgimento dei fatti, per essere molto spesso i reati ipotizzati soltanto frutto di semplici teoremi ideologici?

Chi spiega a quel mondo di blogger, di forumisti, di commentatori spesso anonimi che ancora si lasciano andare al dileggio ed a commenti deliranti, che la “guerra” è finita perché il loro “nemico” ha resistito all’aggressione ed ha avuto ragione per l’inconsistenza dei suoi avversari?

Niente si costruisce demolendo! Ci ha provato Prodi mettendo in piedi una maggioranza contro la volontà del popolo, obbligata a raccontare bugie per restare compatta, incapace di assumere qualsivoglia provvedimento necessario. E la ragione, come sempre accade, alla fine prevale!

E mentre Berlusconi si è dimostrato lo statista che la storia ricorderà per aver fortemente caratterizzato gli anni a cavallo tra il secondo ed il terzo millennio, Prodi, invece, sarà ricordato per la sua incapacità di rappresentare il cambiamento, per le sue bugie, per la mancanza di un definito progetto politico.

Per molti è ancora duro ammetterlo, ma è così! Lo ha stabilito il popolo! E’ così anche se la democrazia e le sue regole non sempre sono condivise da coloro che hanno nell’indole l’abitudine ai metodi sbrigativi e violenti. Ci sono e ci saranno sempre coloro che, lungi dal rassegnarsi al verdetto del giudice istituzionale della democrazia che è il popolo, discriminano persino sull’intelligenza degli elettori. Ed è così che Santoro e Travaglio, improvvisamente, si trovano a loro fianco soltanto Di Pietro in Parlamento, come l’ultimo dei giapponesi, e pochi altri al di fuori a combattere ancora una guerra che invece sembra sia già esaurita. L’odio e la demonizzazione si apprestano a lasciar spazio alla civiltà del confronto tra le idee, i contenuti e le soluzioni.

Anche le trasmissioni della tv pubblica più caratterizzate da forme di aggressione politica siano ora chiamate a rispondere su obiettività e pluralismo. E’ un diritto di ogni cittadino quello di non essere messo alla berlina, o tacciato pubblicamente di nefandezze, senza che questi abbia la possibilità di difendersi nello stesso contesto in cui avviene la sua lapidazione. Basta con lo sciacallaggio e con le imboscate televisive, retaggio di culture totalitarie, antipopolari e poliziesche. Il rispetto delle diverse posizioni è il metro con cui si misura la legittimità di rappresentare il popolo. La vittoria del Popolo delle Libertà alle ultime consultazioni elettorali è anche l’espressione della volontà di compostezza, di tolleranza e di pluralismo degli elettori italiani.

Riuscirà ora Santoro, che non è poi uno stupido, a comprendere i limiti di un servizio pubblico?

Resta la convinzione che le democrazie liberali non dovrebbero consentire il reiterarsi del metodo diffamatorio delle accuse lanciate come pietre nello stagno, dove si diramano in spazi sempre più larghi, e che lasciano traccia nella coscienza degli uomini. La civiltà democratica ha il dovere di contrastare l’espediente teorizzato da Francis Bacon “Diffama sempre il tuo nemico e vedrai che qualcosa resta nella memoria della gente”, metodo fatto proprio dalla scuola marxista (Togliatti)con l’uso di sostenere ripetutamente quelle falsità che alla lunga diventano “verità” politiche. Si vorrebbe insomma conquistare quella normalità, diversa da quella sostenuta dal sofista D’Alema, che manca alla politica italiana. E si vorrebbe tutto questo senza azioni ed affermazioni che prestino il fianco a clamorosi vittimismi, tipici proprio di coloro usi a compiacere la loro parte politica. Si vorrebbe che accadesse attraverso la consapevolezza della responsabilità di un servizio pubblico, ad esempio, e nella convinzione che il confronto politico non può essere una rissa da condominio in cui si forma sempre un “partito” che accusa l’amministratore d’essere un ladro ed in cui alcuni condomini assumono comportamenti prevaricatori ed arroganti.

Un po’ di civiltà e di rispetto reciproco non guasterebbe e tornerebbe utile ai bisogni ed alla dignità di tutti, perché la chiarezza delle tesi esposte ed il rispetto verso gli altri sono alla base della libertà e del diritto naturale degli uomini, mentre l’insinuazione e l’opacità sono strumenti di grigiore e di oppressione. (l'Occidentale)

domenica 18 maggio 2008

Senza giustizia dopo vent'anni. Filippo Facci

Oggi fanno vent’anni che è morto Enzo Tortora, e il caso vuole che il Giornale m’abbia chiesto di scriverne proprio mentre ero immerso in una biografia su Enzo Tortora che è tra le migliori biografie che abbia mai letto in assoluto, qualcosa che forse dovrebbero leggere e rileggere colleghi, avvocati, magistrati, cittadini e scolari che credono di sapere e invece non sanno, credono di ricordare e invece non ricordano, credono che ogni tanto succeda ancora qualcosa, nel mondo della malagiustizia italiana, e invece è già successo tutto: ma di più. Questa biografia è titolata «Dagli applausi agli sputi» (Sperling&Kupfer) e l’ha scritta Vittorio Pezzuto in molti anni di lavoro, e dico la verità: da principio pensavo che non mi sarebbe importato granché del Tortora giornalista e uomo di spettacolo a tutto tondo: senonché l’impressionante genialità innovatrice e anticipatrice del Tortora televisivo (il suo «Portobello» anticipò trasmissioni come «Chi l’ha visto?», «Stranamore», i «Cervelloni» eccetera) non fu la vetta da cui un intero Paese decise che doveva cadere inesorabilmente, irrazionalmente, vergognosamente. I ferri esibiti davanti alle telecamere la mattina del 17 giugno 1983, all’uscita dall’hotel Plaza di Roma, furono la straordinaria inaugurazione della giustizia spettacolo all’italiana. La messinscena del processo mediatico che ne seguì, nondimeno, fu l’ouverture di un patto scellerato tra giornalisti e procure di cui non ci siamo ancora liberati. Per non parlare dell’allegra stagione del pentitismo di cui il caso Tortora fu implosione, lo scandalo di assassini e psicotici trattati in guanti bianchi purché accondiscendessero alle richieste della pubblica accusa: stiamo parlando di animali come Pasquale Barra, che in carcere uccise un uomo divorandogli il cuore, o di psicotici come Giovanni Pandico che uccise due passanti dopo che un impiegato dell’anagrafe era stato troppo lento nel dargli un certificato. Stiamo parlando di un giornalismo conformista che si esercitò nel bastonare il collega che affoga, laddove penne avvelenate d’invidia costruirono capi d’accusa basati sul niente: ma attenti, colleghi che c’eravate, perché Vittorio Pezzuto non ha fatto sconti, le vostre perle sono state rimesse nero su bianco e sono tutte da rileggere, così come lo sono le perle di una magistratura scandalosa, boriosa e supponente per quanto incredibilmente impunita. Sì, perché le ceneri di Enzo Tortora attendono ancora giustizia: ogni causa intentata presso il tribunale civile di Roma, o presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, si è insabbiata in un mare di cavilli. Nessun magistrato ha ufficialmente sbagliato per il caso Tortora: nessuno. E nessuno ha mai risposto davvero al j’accuse lanciato da Leonardo Sciascia: «Vorrei sapere se sia vero che l’accusa che Tortora usasse soldi raccolti per i terremotati è fatta da un anonimo, se sia vero che il mandato di cattura è stato spiccato per la denuncia di due pentiti, se sia vero che un decina di persone sono state arrestate nell’intento di trovarne una sola, se sia vero che duecento persone sono state arrestate per omonimia». Nell’attesa di una risposta, nessun magistrato ha pagato una lira o un’oncia della propria carriera. Felice Di Persia è diventato membro del Csm e procuratore capo a Nocera Inferiore. Lucio Di Pietro è diventato procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia e Procuratore generale a Salerno. Diego Marmo è diventato procuratore generale presso il tribunale di Torre Annunziata. Luigi Sansone è presidente di Cassazione. Orazio Gattola è presidente di sezione a Torre Annunziata. Se non stai attento, i suddetti magistrati sono ancor oggi capaci di querelarti. È successo: hanno querelato giornalisti e denunciato, per calunnia, gli stessi avvocati che avevano vanamente promosso una causa civile contro di loro. Anche le ispezioni ministeriali promosse dall’allora ministro Sebastiano Vassalli non diedero risultati: tutti a posto, tutti assolti. Anche il plenum del Csm, riunito nell’aprile 1989, votò a maggioranza l’archiviazione di ogni accusa nei confronti dei magistrati; tra i pochi che si ribellò ci fu Giancarlo Caselli, che parlò di «sciatteria» e di «gravi omissioni» dei suoi colleghi napoletani oltreché di gente arrestata per omonimia e tenuta in galera per due anni e mezzo, e cittadini tenuti pure in galera senza neppure un indizio. Non servì. Fu tutta una corporazione a restare impunita o perlomeno mai punita: il referendum promosso proprio a margine del caso Tortora, quando nel 1987 gli italiani votarono a favore della possibilità di punire i magistrati per cosiddetta «colpa grave», è rimasto lettera morta. Da allora a oggi, i magistrati puniti per colpa grave sono stati zero. Ripetiamo: zero. Non ha pagato nessuno, mai. Uno dei pentiti più celebri, Gianni Melluso, nel 1992 rilasciò un’intervista e tornò a calunniare Tortora: denunciato, fu assolto da un magistrato che esordiva in quegli anni: Clementina Forleo. Anni dopo, nel 1995, Melluso racconterà di aver inchiodato Tortora seguendo un copione che i magistrati gli avevano suggerito di recitare in cambio della libertà. Ma era pur sempre la parola di un pentito.
La battaglia per dimostrare che Tortora era innocente durò 1185 giorni. Fu eletto nel partito radicale, ma fu condannato a dieci anni per droga e associazione a delinquere a scopo camorristico, e tornò in carcere rinunciando all’immunità parlamentare. La sentenza d’appello smontò l’impianto accusatorio con scandalosa facilità. «Io sono innocente», aveva detto Tortora fissando negli occhi i magistrati, «spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi». Morì di cancro di lì a poco, il 20 maggio 1988, lasciando vivi e disorientati noi tutti. (il Giornale)

sabato 17 maggio 2008

Dalla replica del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, alla Camera dei Deputati

Signor Presidente,
onorevoli colleghi,

non c'è bisogno di scomodare Adam Smith per sapere che un'economia forte e libera non dipende dalla benevolenza del birraio, del macellaio, del fornaio, ma dal loro interesse. Non ho parlato e non parlo di benevolenza quando dico che esistono le condizioni per cambiare registro e per impegnarci in una grande rivalutazione della politica e del suo significato di servizio per i cittadini. È dall'interesse vostro e nostro, dall'interesse comune di una classe dirigente eletta per risolvere i problemi degli italiani che può e deve nascere un Paese più sereno, un metodo più tranquillo e limpido di discussione, un'attitudine politica sempre esigente, sempre rigorosa, sempre severa ma non disfattista e arrogante.

Lo so e noi tutti sappiamo che non sarà facile, ma siccome per natura sono un ottimista e ho sempre avuto la passione dell'ottimismo credo che se lo vorremo davvero e tutti insieme, come direbbe pacatamente e serenamente il principale esponente dello schieramento a me avverso, «se po' fa», ce la possiamo fare.

È con questo auspicio, anzi con questa certezza che chiedo la vostra fiducia.

I Ministri del Governo Berlusconi IV e i Sottosegretari

Presidente del Consiglio
Silvio Berlusconi
Sottosegretari di Stato alla Presidenza del Consiglio
Gianni Letta
Paolo Bonaiuti (Editoria)
Gianfranco Miccichè (CIPE)
Carlo Giovanardi (Famiglia, Droga, Servizio civile)
Michela Vittoria Brambilla (Turismo)
Aldo Brancher (Federalismo)
Rocco Crimi (Sport)
Maurizio Balocchi (Semplificazione normativa)
Ministri senza portafoglio
Rapporti con le Regioni
Ministro: Raffaele Fitto
Attuazione del Programma
Ministro: Gianfranco Rotondi
Pubblica amministrazione e l'Innovazione
Ministro: Renato Brunetta
Pari opportunità
Ministro: Mara Carfagna
Politiche Comunitarie
Ministro: Andrea Ronchi
Rapporti con il Parlamento
Ministro: Elio Vito
Riforme per il Federalismo
Ministro: Umberto Bossi
Politiche per i Giovani
Ministro: Giorgia Meloni
Semplificazione Normativa
Ministro: Roberto Calderoli
Ministri con portafoglio
Affari Esteri
Ministro: Franco Frattini
Sottosegretari:Stefania Gabriella Anastasia Craxi, Alfredo Mantica, Enzo Scotti
Interno
Ministro: Roberto Maroni Sottosegretari: Michelino Davico, Alfredo Mantovano, Nitto Francesco Palma
Giustizia
Ministro: Angelino Alfano Sottosegretari: Maria Elisabetta Alberti Casellati, Giacomo Caliendo
Economia e Finanze
Ministro: Giulio Tremonti Sottosegretari: Alberto Giorgetti, Daniele Molgora, Nicola Cosentino, Luigi Casero, Giuseppe Vegas
Sviluppo Economico
Ministro: Claudio Scajola Sottosegretari:Ugo Martinat, Paolo Romani, Adolfo Urso
Istruzione Università e Ricerca
Ministro: Mariastella Gelmini Sottosegretari: Giuseppe Pizza
Lavoro Salute e Politiche sociali
Ministro: Maurizio Sacconi Sottosegretari: Pasquale Viespoli, Ferruccio Fazio, Francesca Martini, Eugenia Maria Roccella
Difesa
Ministro: Ignazio La Russa Sottosegretari: Giuseppe Cossiga, Guido Crosetto,
Politiche Agricole e Forestali
Ministro: Luca ZaiaSottosegretari: Antonio Bonfiglio
Ambiente, Tutela del Territorio e del Mare
Ministro: Stefania Prestigiacomo Sottosegretari: Roberto Menia
Infrastrutture e Trasporti
Ministro: Altero Matteoli Sottosegretari: Roberto Castelli, Bartolomeo Giachino, Mario Mantovani, Giuseppe Maria Reina
Beni e Attività Culturali
Ministro: Sandro Bondi Sottosegretari: Francesco Maria Giro

lunedì 12 maggio 2008

In "difesa" di Travaglio. Davide Giacalone

Non me lo merito, non c’è ragionevolezza nel fatto che avverta il bisogno di difendere Marco Travaglio. Il suo giustizialismo fascistoide, il suo pettegolezzo giudiziario, mi hanno sempre dato l’orticaria. Come tutti i giustizialisti, se ne frega della giustizia. Non si cura del fatto che è ben oltre la bancarotta, non si batte perché i tribunali funzionino, non avverte il dramma degli innocenti. A lui interessa solo lo spettacolo delle accuse. Con il materiale prodotto dalle procure ha riempito articoli e libri, facendosi portavoce d’ogni ipotesi di reato ha costruito il suo successo televisivo. Grazie alla debolezza morale e culturale della sinistra è divenuto uno dei pifferai che l’ha condotta nel baratro dell’anti politica, praticata con la spocchia cieca di una dissennata e mal supposta superiorità.
Però, però … petrolinianamente parlando, la colpa non è mica solo sua. Lui non ha avuto orrore di sé, certo, ed è stato disonesto quanto basta per non prendere atto di tutte le volte che ha avuto torto, ma chi gli stava accanto, o piuttosto dietro, l’ha osannato nella speranza che servisse a vincere una partita che non si sentiva in grado di giocare politicamente. Le piazze contro il diritto non le ha mosse lui, che s’è gettato nell’orgia forcaiola per perduto amore di sé. E quando, oggi, dice che raccontare certe storie non può essere giusto se la sinistra le acclama e sbagliato se la sinistra s’è accorta che è meglio parlare d’altro, ha ragione. Così come ha ragione quando sostiene che il compito di chi scrive senza essersi preventivamente arruolato è proprio quello di toccare temi che altri giudicano scomodi, o sconvenienti.
Non lo leggo spesso, per ragioni igieniche, ma mi piace che scriva. Uno così deve anche parlare, ma è bene lo faccia avendo contraddittori all’altezza, senza conduttori incapaci o complici che lo millantano come fonte di verità. Se avesse maggiore concorrenza nella competenza potrebbe trarne il giovamento di passare da velinaro a capace tratteggiatore della realtà. Se sapesse prendere atto che le ipotesi d’accusa sono solo carta straccia, ove non accompagnate da sentenze definitive, farebbe il suo ingresso nella civiltà del diritto. E se fosse coraggioso, così come se fosse bravo, scoprirebbe che si possono descrivere scandali enormi pur non facendo ricorso alle categorie penali, che competono ad altri. Rifletta su quel che è capitato a me, dopo il lavoro fatto su Telecom, e lo paragoni con quel che capita a lui, facendo il copista di procura. Magari, in un sussulto di dignità, gli si raddrizza la schiena.
Il guaio della letteratura che ha coltivato è d’essere saccente e falsante. Ma questo non significa non ci siano storie e connessioni che meritano d’essere scandagliate e raccontate. Metto nel conto, naturalmente, le due obiezioni che qualcuno mi muoverà: a. di Travaglio è meglio non parlare, gli si fa solo pubblicità; b. se c’è un modo per farlo tacere, tanto di guadagnato. La penso diversamente, perché la nostra scuola del diritto, il nostro garantismo nella libertà, non tollera nessuna eccezione. Mai.

venerdì 9 maggio 2008

I Ministri del Governo Berlusconi IV

Presidente del Consiglio
Silvio Berlusconi
Sottosegretari di Stato alla Presidenza del Consiglio
Gianni Letta
Ministri senza portafoglio
Rapporti con le Regioni
Ministro: Raffaele Fitto Sottosegretario:
Attuazione del Programma
Ministro: Gianfranco Rotondi
Pubblica amministrazione e l'Innovazione
Ministro: Renato Brunetta Sottosegretari:
Pari opportunità
Ministro: Mara Carfagna Sottosegretario:
Politiche Comunitarie
Ministro: Andrea Ronchi
Rapporti con il Parlamento
Ministro: Elio Vito Sottosegretari:
Riforme per il Federalismo
Ministro: Umberto Bossi Sottosegretario:
Politiche per i Giovani
Ministro: Giorgia Meloni Sottosegretari:
Semplificazione Normativa
Ministro: Roberto Calderoli Sottosegretari:
Ministri con portafoglio
Affari Esteri
Ministro: Franco Frattini Vice Ministri:Sottosegretari:
Interno
Ministro: Roberto Maroni Vice Ministro: Sottosegretari:
Giustizia
Ministro: Angelino Alfano Sottosegretari:
Economia e Finanze
Ministro: Giulio Tremonti Vice Ministri:Sottosegretari:
Sviluppo Economico
Ministro: Claudio Scajola Vice Ministro: Sottosegretari:
Istruzione Università e Ricerca
Ministro: Mariastella Gelmini Sottosegretari:
Lavoro Salute e Politiche sociali
Ministro: Maurizio Sacconi Sottosegretari:
Difesa
Ministro: Ignazio La Russa Sottosegretari:
Politiche Agricole e Forestali
Ministro: Luca ZaiaSottosegretari:
Ambiente, Tutela del Territorio e del Mare
Ministro: Stefania Prestigiacomo Sottosegretari:
Infrastrutture e Trasporti
Ministro: Altero Matteoli Vice Ministro: Sottosegretari:
Beni e Attività Culturali
Ministro: Sandro Bondi Sottosegretari:

Femminismo e basaglismo, ruderi del sinistrese. Luigi De Marchi

Si è tenuto in questi giorni a Firenze un grande convegno intitolato “Donne in rivolta tra arte e memoria” che ha mobilitato molte delle leader femministe italiane e internazionali ma che, forse proprio per questo, non è andato oltre i luoghi comuni con cui, dagli anni ’70, queste leaders hanno prima distorto e poi seppellito la liberazione della donna. Quest’incapacità autocritica emerge anche dalla relazione introduttiva di Nadia Fusini dedicata ai personaggi femminili del romanzo ottocentesco e pubblicata da “Repubblica”.

“Non c’è dubbio – ha detto la relatrice – che nella seconda metà dell’Ottocento esista una quantità di opere, assai simili per tematica e struttura, che vanno a comporre un unico grande romanzo, definibile “femminista” se non altro perché ne sono protagoniste indiscusse le donne: Emma Bovary (1857), Anna Karenina (1877), Nora di “Casa di Bambola”, Giovanna di “Una vita” (1883), Hedda Gabler (1890), Effi Briest (1895 e Marta nell”Esclusa” (1901).

“Sono tutte donne colte nella posa dell’adultera. E’ altrettanto indubitabile che, nel corso dell’opera noi assistiamo all’eliminazione fisica delle protagoniste e che, ove volessimo accertare la responsabilità della loro morte e comprendere se si tratti di suicidio o di omicidio, dovremmo concludere che ad uccidere Anna Karenina sono insieme il marito Karenin e l’amante Wronsky; che ad uccidere Effi Briest sono insieme il marito Von Innstetten e il maggiore Crampas; e che ad uccidere Hedda Gabler sono insieme il noiosissimo marito Tessman, il demoniaco Loevborg e il volgare Brack”.

Non proseguo la citazione perché questo paio di paragrafi mi sembra dimostrare già a sufficienza la distorsione paranoidea che Nadia Fusini esprime nella sua relazione, allineandosi del resto al femminismo prevalso nel mondo dagli anni ’70 ad oggi. E’ un femminismo che ho definito “androfobo” non solo perché esso tende a vedere nel maschio il colpevole di ogni umana nefandezza (esattamente come ha fatto con la femmina, per secoli, il clero cristiano e come fa tuttora il clero islamico) ma anche perché fa rima con “idrofobo” e bene esprime l’aggressività patologica di certe femministe nei confronti del maschio.

Ciò che, senza neppure accorgersene, Nadia Fusini trascura o rimuove è un piccolo particolare, e cioè il fatto che gli autori di quei romanzi e di quei drammi erano, vedi caso, tutti maschi: maschi che amavano e ammiravano le loro eroine trasgressive e appassionate e che hanno testimoniato ed esaltato la nobiltà morale in aperta sfida ai pregiudizi correnti. E in questo fatto silenziosamente sottaciuto o rimosso sta l’errore storico del femminismo androfobo, che ha condannato al fallimento quella che poteva essere la più grande rivoluzione della storia. Fu un errore imposto dal femminismo segregazionista americano arrivato in Italia all’inizio degli anni ’70, che impresse una rovinosa svolta androfobica al Movimento Radicale di Liberazione della Donna, ove donne e uomini libertari lavoravano e lottavano insieme. Come forse ricordate, già nel ’68, nel quadro del Movimento Radicale di Liberazione della Donna, con Adele Faccio, Guido Tassinari, Gianni Tibaldi e pochi altri, avevamo fondato un periodico “La via femminile” il cui primo editoriale dichiarava: “Se il mondo ha qualche speranza di salvezza, questa speranza sta nelle mani delle donne”. Ma l’apartheid sessuale americano travolse quella nostra intelligente e realistica impostazione ficcando il movimento delle donne in un vicolo cieco e facendone solo, o soprattutto, un trampolino per alcune dirigenti in cerca di potere e di successo.

Sul piano di massa, infatti, quella politica androfobica non poteva avere un futuro, e non l’ebbe, perché era impossibile varare una rivoluzione sociale (come pretesero di fare le femministe “americane de Roma” all’Alberto Sordi) basandola sull’odio tra i sessi, cioè sulla negazione d’un istinto biologico fondamentale qual’è l’attrazione reciproca tra il maschio e la femmina. Così, dopo un successo effimero, la massa delle donne abbandonò il movimento femminista che, divenuto spesso una sorta di mafia lesbica, anziché approdare alla più grande rivoluzione di tutti i tempi, scomparve nella sabbia come certi fiumi asiatici.

In questa miniaturizzazione del movimento femminista credo si possa leggere anche un’altra conferma dell’approccio psicopolitico al sociale. Come accennavo testè, il movimento femminista androfobo finì per scimmiottare inconsapevolmente la rabbiosa misoginia del clero cristiano e islamico, che aveva per secoli indicato nella donna il “demonio dipinto”, la “porta del diavolo” o il “vaso d’ogni corruzione”. Il sessismo dei preti maschilisti e delle pretesse femministe, il razzismo nazista o il classismo comunista commettono tutti lo stesso errore: credere che il valore o il disvalore d’una persona dipenda dalla sua appartenenza all’uno o all’altro sesso, all’una o all’altra razza, all’una o all’altra classe sociale. Esso invece dipende solo dalla sua struttura di carattere, dalla sua personalità, dalla sua mentalità. Per questo ci sono donne meravigliose e donne detestabili, uomini meravigliosi e uomini detestabili, neri meravigliosi e neri detestabili, operai meravigliosi e operai detestabili. Ricordo un bellissimo articolo pubblicato nel 1977 sulla rivista dell’Istituto Reich da una mia indimenticabile compagna e collaboratrice, Daniela Napoletano, che avevo conosciuto nella lotta comune presso il Movimento radicale di Liberazione della Donna:

“Insieme ad altre donne – scriveva Daniela – ascolto anch’io il discorso di una leader femminista. La voce al microfono alterna una sequela di luoghi comuni: “Tremate, tremate, le streghe son tornate! Il cazzo è fascista…” In pochi minuti le parole svaniscono nella noia, ma resta il timbro della voce: aspro, violento, carico di odio, sopraffattorio. Penso tra me: “Basta! Questa è il peggior maschio della specie…Qui bisogna muoversi, bisogna reagire!” Clemenceau diceva che la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai generali. Io dico che la liberazione della donna è una cosa troppo seria per lasciarla fare alle sue generalesse. E’ tempo di convincere la donne a riprendersi la loro rivoluzione, a fermare quest’ondata di rancorosa violenza che viene da certi gruppi femministi”. Parole di 31 anni fa ma ancora attualissime.

Sono passati più trent’anni ma, mentre le dirigenze comuniste e fasciste hanno riconosciuto i loro rovinosi errori, quelle femministe restano spesso inchiodate ai loro dogmatismi arroganti come fanno, in questi giorni di celebrazione della legge 180, le dirigenze basagliane. I ruderi pseudo-femministi e basagliani del sinistrese sopravvivono, a quanto pare, al crollo delle loro cattedrali. (il blog del Solista)

E' cominciata la dittatura. Filippo Facci

I giornali di opposizione non hanno ancora niente a cui opporsi: e allora, per ingannare il tempo, sparano balle. Non è un’opinione che Giorgia Meloni sia il ministro più giovane della storia della Repubblica, non lo è che ci siano ben quattro ministri sotto i quarant’anni, non lo è che l’età media del nuovo governo sia eguale a quella del famoso governo Zapatero. Ma ecco l’editoriale del Manifesto: «Il vecchio che avanza», dove peraltro non si argomenta in alcun modo e ci si limita a ripetere che il governo «sarebbe potuto andar bene vent’anni fa». Perché? Perché sì. I ministri, poi, sono 21, e anche comprendendo i vice e i sottosegretari non ci saranno più di 60 persone. Non è un’opinione. Il governo Prodi annoverava 103 persone: non è un’opinione. Ma ecco i titoli dell’Unità: «Governo, troppe poltrone», «Il governo c’è ed è abbondante». Basta scriverlo. Per quanto riguarda gli attacchi ad personam, si stanno scaldando. Alla sorvegliatissima Giustizia è andato quell’Angelino Alfano che pare inattaccabile, maledizione: è avvocato, è un cattedratico, è giovanissimo pure lui e ha pubblicamente recitato quel genere di mantra antimafia che piace tanto a sinistra. In mancanza d’altro, hanno scritto che «solidarizzò con Dell’Utri». In mancanza d’altro, Di Pietro ha detto che è solo una marionetta di Berlusconi. E che in Italia vige «una dittatura dolce». Perché? Perché sì. (il Giornale)

giovedì 8 maggio 2008

Trasparenza dei redditi. Victor Uckmar

Caro Romano,
in merito alla mia lettera sulla trasparenza dei redditi e alla sua risposta («I redditi su Internet fra privacy e trasparenza»), trasparenza per trasparenza potremmo, come cittadini e in vista del federalismo fiscale, conoscere l’indebitamento delle Regioni, delle province, dei comuni, con evidenza dei famigerati derivati, nonché i compensi per consulenze? Le mie ricerche, purtroppo, sono rimaste vane. (Corriere della Sera)

L'impari opportunità. Filippo Facci

Io preferivo quando nella politica italiana c’erano meno donne e magari pure più brutte: almeno avevi la certezza che non passavano di lì per caso, che i meriti dovevano averli per forza, anche perché in caso contrario il cinismo maschile le avrebbe spazzate via. Ora, invece, la logica politicamente corretta delle quote rosa, delle quote marketing, delle quote copertina, delle quote «noi-sì-che-siamo-moderni», ti costringe a guardare con sospetto anche donne magari bravissime, signore che sono riuscite in politica non perché sono belle: ma nonostante siano belle.
Il problema è che il reclutamento di femmine a manciate, durante la campagna elettorale, è stato penoso a sinistra come a destra: non erano una variante qualitativa, ma quantitativa, erano «tot donne» da sbattere in lista: il criterio di selezione era un problema che veniva dopo. Anche questa ossessione di dover piazzare assolutamente tot donne in tot ministeri sa di forzatura e convince poco: soprattutto se, nel totoministri quotidiano, capitava di veder saltabeccare certi nominativi da un ministero all’altro come se fossero intercambiabili, come se le attitudini e le competenze fossero un optional. Scegliere una donna solo se è più brava di un uomo: è questa l’emancipazione. Il governo potrebbe essere composto solo da donne oppure da nessuna: perché è un governo, non è mica una scampagnata. (il Giornale)

mercoledì 7 maggio 2008

E il nemico peggiore resta la menzogna. Fiamma Nirenstein

Israele compie sessant’anni: dopo la giornata del ricordo dei più di 22mila soldati caduti nelle guerre che dal 1948 non lasciano questa terra, cominciano stasera le celebrazioni di Yom Azmaut, il Giorno dell’indipendenza, che dureranno tutta la giornata di domani. E a sessant’anni, questo piccolo Stato non può sedere a riposarsi neppure un attimo: corre nello stadio della storia fra due ali di folla. Da una parte chi lo ama e lo difende, dall’altra chi lo odia e lo diffama. Ed è logico che ciò che appare una gran festa per chi ritiene la democrazia un bene supremo, diventi un motivo per digrignare i denti per chi invece la ritiene un artifizio che cela ingiustizie e crimini a fronte di un’utopia palingenetica. In Italia la divisione è evidente proprio oggi, giorno in cui festeggiamo la nascita e la resistenza della patria del Popolo ebraico contro la diffamazione e le aggressioni che hanno punteggiato la sua vita. Il suo primo successo è proprio la sopravvivenza. Nonostante le crescenti minacce, dell’Iran e di tutto il terrorismo islamista.
Ma fra i nemici di Israele c’è anche una propaganda incessante e pervasiva che si sostanzia di una quantità inaudita di bugie che oggi sostituiscono una attendibile conoscenza dei fatti. La falsa conoscenza ispira purtroppo gli incendi delle bandiere e le vergognose bugie che si odono in queste ore all’Università di Torino nella conferenza che vuole contrastare la Fiera del Libro che si aprirà domani. Tutta la conferenza indetta non ha niente a che fare con la libertà accademica delle cui piume si pavoneggia, ma c’entra piuttosto con la mera politica dell’odio. Propone in tutte le salse il tema della «pulizia etnica» che Israele avrebbe compiuto nei confronti dei palestinesi: la tecnica è quella di usare un termine odioso, da pulizia etnica a apartheid, da olocausto a deportazioni, per appiccicarlo su Israele e farne quindi un paria indegno di vivere. Ma se si guarda dentro le etichette non si trovano altro che menzogne. La pulizia etnica non è mai stata nelle più lontane intenzioni della parte israeliana: semmai, l’intenzione di spazzare via il popolo ebraico è sotto gli occhi di tutti, ripetuta, scritta, filmata e stampata ogni giorno dai terroristi.
Se gli israeliani avessero perpetrato una pulizia etnica sarebbero dei veri incompetenti. Prendiamo per esempio Gerusalemme. Dal ’67, quando Israele annesse Gerusalemme Est, la popolazione araba è cresciuta del 266%, il doppio rispetto alla popolazione ebraica, cosicché la proporzione fra ebrei e arabi è di 66 a 34, mentre nel ’67 era di 74 a 26. Anche durante l’Intifada, con la chiusura, il muro e quant’altro, è cresciuta da 208mila a 252mila. E non si tratta solo di crescita naturale: Ziad al Hamuri, che guida il centro per i diritti economici di Gerusalemme, stima che circa 30mila arabi si siano spostati a Gerusalemme dalla costruzione del recinto. Del resto, anche il noto storico revisionista Benny Morris scrisse che mai gli ebrei avevano avuto intenzione di spostare gli arabi dai loro villaggi e che furono invece invitati e costretti dai loro leader a farlo, e che sin dal ’48 i padri fondatori di Israele, da Jabotinsky a Ben Gurion, hanno insistito per far restare i palestinesi anche dopo la partizione. Chi ne vuole sapere di più può leggere l’articolo di Efraim Karsh sulla rivista americana Commentary di questo mese. Due mesi prima della proclamazione dello Stato nel settembre 1947, due rappresentanti di Israele cercavano di convincere Abdel Rahman Azzam, segretario generale della Lega Araba, che «sia gli arabi che gli israeliani beneficeranno grandemente di comuni politiche di sviluppo». Gli arabi aumentarono di numero soprattutto nelle aree urbane a causa del benessere e dello sviluppo del nuovo Stato, sospinti tuttavia allo scontro da leadership estremiste. È una bugia che la legittimità internazionale di Israele possa essere messa in discussione, perché, se fosse vero, data la legittimazione del focolare ebraico in Terra d’Israele nell’ambito della risistemazione del Medio Oriente dopo la fine dell’Impero Ottomano e del colonialismo, tutti gli Stati Medio-Orientali andrebbero rifondati da capo.
È falso che la guerra fra palestinesi e israeliani sia dovuta all’impossibilità di trovare una sistemazione territoriale di condivisione: Israele ha troppe volte dato prova di essere disponibile a lasciare territori in cambio di pace senza che questo portasse ad altro che a rifiuti ideologici carichi di sangue. È falso che esista un «ciclo della violenza» o cieche rappresaglie israeliane: Israele ha sempre risposto agli attacchi per fermare ulteriori attacchi terroristi, o altri attacchi missilistici per strada, o per punizioni puntuali e definite che, di nuovo, promettessero la diminuzione dell’aggressività del nemico contro i suoi civili.
È falso che il cosiddetto «muro» sia un «muro»: su una lunghezza di 790 chilometri, una volta completato, la lunghezza della parte in muratura che serve a evitare spari da edifici alti nella zona sulle macchine e i cittadini di passaggio, sarà di 30 chilometri.
La maggior parte delle accuse a Israele sono diventate luoghi comuni che la gente non controlla, ma che beve insieme al caffè della mattina. Il recinto non stabilisce confine né annette nessuna terra; serve, come del resto i famigerati check point, a bloccare stragi di innocenti. E ha funzionato bene, dato che gli attentati sono diminuiti per il 98%. Non è vero che a Jenin ci sia stata una strage, non è vero che il bambino Mohammed al Dura sia stato ucciso dal fuoco israeliano, non è vero che i soldati uccidano bambini innocenti con premeditazione e se accade senza volerlo vengono sottoposti a dure inchieste. E non è vero che Israele abbia devastato il Libano. Sono stati gli hezbollah a devastarlo, così come è Hamas che affama i suoi a Gaza mentre Israele seguita a fornire derrate alimentari e benzina. Non è vero che Israele non rispetta le risoluzioni dell’Onu: aspetta solo di poter implementare quelle che stabiliscono che i territori debbano essere scambiati con condizioni di sicurezza.
Israele non detiene prigionieri senza processo, non tortura, non impedisce alle organizzazioni internazionali di entrare nelle sue carceri, ed è quindi insensato paragonare la detenzione di criminali e terroristi a quella di Shalit, Eldad e Regev, i soldati nelle mani di Hamas e Hezbollah. Israele non reclude i palestinesi in cosiddette «prigioni a cielo aperto»: intanto sia i Territori che Gaza sono aperti verso 22 Stati arabi circostanti e oltre, inoltre il divieto d’accesso in Israele varia e si modifica a seconda della minaccia terrorista in atto. E la minaccia è grande, concreta e definitiva per tutti quei bambini che, come Kobi Mandel, 13 anni, sono stati massacrati. E quella maggiore sofferta dai bambini palestinesi è la spinta ideologica a morire, a diventare shahid, che proviene dalla società palestinese stessa... Soprattutto, la menzogna più grande è quella ontologica, basilare, sul presupposto che Israele sia un fatto negativo per il mondo, cattivo, generatore d’odio. Basta guardare i libri di testo delle scuole o la tv israeliana per capire che ne esce un messaggio di pace, mentre dalle tv e dai blog di palestinesi e fiancheggiatori non esce che odio e minaccia. C’è un solo modo in cui si può definire il loro atteggiamento: la ragione si è trasformata in torto, la verità in bugia, gli aggrediti in aggressori, definiti patrioti del popolo palestinese. Io penso che esso non abbia bisogno di loro, ma di una pace giusta che consegni due Stati a due popolo.

martedì 6 maggio 2008

Doppia morale. Davide Giacalone

Siamo proprio il Paese della doppia morale, dei due pesi e due misure, delle coscienze a corrente alternata. La cosa mi fa ancora impressione. Insomma, secondo quasi tutti le cose stanno così: i dati fiscali, pubblicizzati ufficialmente dall’Agenzia delle entrate, che ancora insiste nel sostenere di avere agito per il meglio, non si pubblicano, perché trattasi di riprovevole invasione delle vite private, di violazione della privacy, mentre i verbali d’interrogatorio e le intercettazioni, distribuiti da un’autorità giudiziaria che sempre nega di averlo fatto, non solo si pubblicano, ma da quella roba si parte per far la morale a tutti e ciascuno. I redditi dichiarati appartengono alla sfera della riservatezza, mentre le parole estorte o letteralmente rubate, anche se si riferiscono alla propria camera da letto, invece, è doveroso renderle di dominio pubblico. Va a finire che sarò grato a Visco per avere disvelato questo tripudio d’infingardaggine.
Sulla scelta dell’amministrazione fiscale ho già detto che non la condivido affatto, e ci tornerò per argomentare quanto essa sia falsante della realtà. Ma il vedere il rossore dello scandalo sulle gote dei tanti che hanno speso anni e pensiero nello spiegare che tutto deve essere noto al popolo, induce ad un tale sollazzo che la cosa è bene non sia taciuta.
Abbiamo tutti saputo che un tale finanziere riteneva suo titolo di distinzione il giacere (non propriamente inattivo) quotidianamente con la sua signora. Ma questo non apparteneva alla sua riservatezza, e neanche a quella della citata. Era giusto che tutti sapessimo non trattarsi di matrimonio rato e non consumato. Non erano affari, e non solo affari, loro, il pubblico doveva sapere. Quel signore, del resto, non aveva il senso della misura ed aveva supposto di potere comprare a proprio piacimento delle azioni del Corriere della Sera, come se la società fosse quotata in Borsa e come se non si trattasse di un santuario intoccabile, di una tutela costituzionale a salvaguardia del pensiero giusto e corretto. Allora più di un commentatore e più di un giurista si spesero per manifestare il proprio scandalo. Non perché si fossero introdotti dei microfoni fra le lenzuola del presunto scalatore, bensì perché costui aveva immaginato possibile scalare. L’operazione finanziaria fu stroncata, ma non nell’unico modo lecito, ovvero con il patto di sindacato che mette mano al portafogli e vara un delisting (uscita dalla Borsa), o si consolida ed esclude che possano esserci soci che vendono, no, l’operazione fu affossata in procura. Che non solo costa meno, ma serve anche di lezione per chi pensi di riprovarci.
Ora gli stessi sono lì a dire: ma vi pare che in un Paese civile si pubblicano i redditi dei cittadini? Roba da terzo mondo. E la boccuccia sdegnata non riesce neanche ad avvertire che l’operazione pubblicità è avvenuta a cura del medesimo governo che la stampa “per bene” ha appoggiato e favorito, dalla campagna elettorale in poi. Neanche vogliono ricordare che mentre noi sostenevamo ci fossero dei gran trucchi nell’amministrazione finanziaria, loro erano lì ad applaudire al “tesoretto”, alla concertazione, alla severità. Ricordate la teoria: è arrivata gente seria e gli italiani hanno capito che si deve pagare. E’ la stessa gente che ha messo in rete i dati che a loro fanno tanto ribrezzo. Oltre tutto, devo dire, Visco è coerente con la sua idea di fisco, che a me non piace, ma chi lo ha sostenuto fino alla settimana scorsa la coerenza non sa neanche dove stia di casa.
L’ipocrisia è una brutta cosa. Nell’italietta dei furbi può essere contrabbandata per scaltrezza, addirittura per acutezza e mobilità d’animo. In realtà è solo il sintomo epidermico di una deprecabile debolezza intellettuale e morale, che subordina il diritto ed i diritti alla convenienza ed alla faziosità. Non so come questa storia andrà a finire e, del resto, il danno è già fatto ed è irrimediabile, so, però, che per come è cominciata ha un altissimo valore istruttivo, utile a riconoscere la malattia da cui promana tanta parte del nostro declino. Ed utile anche a capire che l’Italia attende un cambiamento vero, per potere avere fiducia non in qualcuno, ma in se stessa.

lunedì 5 maggio 2008

Il riflesso di Pavlov della sinistra. Vittorio Macioce

Verona è perfetta. La sinistra aveva bisogno di un luogo simbolo del fascismo reincarnato. Verona città dell’odio, dove l’amore da sempre viene sconfitto dalla violenza di Montecchi e Capuleti. Verona leghista, quindi rozza, razzista, dove allo stadio volano gli ululati sulla pelle nera. Verona con le bande neonazi in bomber e dove si muore per una sigaretta. Verona è perfetta per lanciare la campagna di primavera contro il Cavaliere oscuro e le sue orde barbariche. La cronaca di un massacro, vigliacco e bastardo, diventa così lo spunto politico per raccontare l’Italia che verrà. Veltroni parla di un clima «culturale e politico nel quale si vanno affermando principi di odio e intolleranza verso i più deboli». L’Unità, domenica, lancia l’allarme sul profondo Nord. E titola: Verona, nessuno vede i picchiatori «italiani». Italiani, appunto. Come se fosse importante. Senza capire che la battaglia sulla sicurezza non distingue tra bianchi e neri, tra stranieri e nostrani. Gli assassini fanno paura, sempre. E andrebbero puniti, sempre. Criminologi e statistiche dicono poi che un clandestino è più a rischio criminalità. Ma questo valeva anche nella Chicago degli anni ’30. Anche lì quelli con il mitra erano spesso italiani. E clandestini. Spazziamo ogni dubbio. Lo faccia la Lega. Lo facciano i veronesi. I killer delle bande sono come i clandestini che stuprano e massacrano. Il problema non è la mano. Il problema è che uccide.
L’Unità accusa Verona di omertà. Il silenzio ideologico e fiancheggiatore che copre gli assassini. Nessuno svela. Chi sa parli. Salvo poi scrivere: «La provenienza dei cinque aggressori è certa, perché parlavano il dialetto locale. L’età è al massimo 25 anni, due di loro indossavano jeans e un giubbotto bomber, uno aveva un cappellino in testa». Insomma, manca solo la foto. È il massimo che si può chiedere ai testimoni alle due di notte, in una città diversa, che non ha la movida di Barcellona. Verona ha detto tutto ciò che sapeva. Ma non basta a salvarla dal «teorema». Le bande neofasciste crescono in una cultura leghista. E tutto questo serve a rilanciare il pericolo fascista urbi et orbi. Alemanno a Roma dice: la festa del cinema sia un po’ più italiana. E il Times scrive: il sindaco ex fascista mette sulla lista nera le star hollywoodiane come Leonardo Di Caprio e Nicole Kidman. Tutto fa brodo: anche il maccartismo.
Basta. Cambiate musica. La cultura di sinistra deve avere una strana malattia, una sindrome che rende gli uomini più cocciuti e ripetitivi del cane di Pavlov. Perdono le elezioni? Fascisti. Un saggio di Gianpaolo Pansa sulla Resistenza? Tradimento. Una riflessione sull’articolo 18? Reazionari. Un Ferrara sull’aborto? Maschilista. È un giochino così semplice che ormai mette tristezza. Non c’è nulla da fare. È un riflesso condizionato, un abito mentale che resiste a tutte le stagioni. Puoi cambiare nome ai partiti, cercare nuove coalizioni, rinnegare falce e martello, aprire discussioni sull’occupazione sovietica dell’Ungheria, ma appena vedi l’osso alzi la zampetta e tiri fuori la lingua. Fregati. Pavlov colpisce ancora.
C’è un muro che a sinistra non è mai caduto. È la vecchia «diversità antropologica» della destra. Chi vota Berlusconi, Bossi o Alemanno non ha semplicemente un’opinione diversa dalla tua. È uno con cui non si può andare a cena perché è un cafone. Uno che non conosce Bulgakov e alla domanda: chi è Pirandello? Risponde: un pittore. Se è ricco è arricchito. Se è colto si è venduto. Se scrive è un servo. Se fa il commerciante è un evasore. Se vive in periferia è un naziskin. Se è dei Parioli è un palazzinaro. Ed è comunque, ora e sempre, un fascista.
La democrazia li manda in bestia. Ne parlano spesso, ma ogni volta che il popolo non vota dalla parte «giusta» diventa plebe. Ergo: i pavloviani cominciano a vedere camicie nere ovunque. Ormai sono rimasti solo loro ad avere nostalgia del saluto romano. Se non percepiscono qualche braccio alzato vanno in crisi d’identità. C’è da capirli. Tutte le loro roccheforti culturali, i loro miti, sono sprofondati sotto le macerie del Novecento. Da Mao a Fidel Castro, dal ’68 alla P38. Hanno cercato di riciclare tutto il riciclabile, compreso JFK e la resistenza vietnamita. Non sanno più chi sono e così si aggrappano al nemico. Noi siamo se lui è. Il fascismo è l’ultima prova dell’esistenza della sinistra. (il Giornale)

domenica 4 maggio 2008

Aron e gli uomini intelligenti dalle idee stupide. Davide D'Alessandro

Se i giovani del ’68 francese preferirono avere torto con Sartre piuttosto che ragione con Aron, che cosa induce i cosiddetti maestri del pensiero come Gianni Vattimo, Luciano Canfora e Domenico Losurdo, a continuare ad avere torto con Sartre, con la loro storia, con la loro Chiesa, dalla quale non riescono a distaccarsi?

“L’oppio degli intellettuali”, il pamphlet capolavoro di Raymond Aron, nella nuova edizione Lindau, ripropone una storica riflessione sul pensiero “sinistro”, accecato dall’ideologia, dalla guerra incessante contro la verità.

Fu Vattimo, anni fa, a invocare le brigate di combattenti a favore di Saddam, per partecipare a quella che riteneva “la difesa della libertà contro l’invasore americano”, convinto di farle agire come in Spagna contro la dittatura franchista. Lo stesso Vattimo boicotta la Fiera del Libro di Torino, perché non ritiene che un luogo di cultura possa e debba celebrare Israele.

Fu Canfora, anni fa, a liquidare il Massacro di Katyn come un atto di guerra, duro sì, ma solo atto di guerra, tanto da far inorridire Umberto Piersanti, intellettuale che non ha il cuore certo a destra: "Giustificare le fosse di Katyn è come giustificare i Lager: il revisionismo rosso di Canfora non ha nulla da invidiare al revisionismo di chi ridimensiona o, addirittura nega, la portata dei campi di sterminio”.

E’ stato Losurdo, appena un mese fa, ad assurgere agli onori delle cronache con un manifesto, subito firmato ovviamente da Vattimo, Canfora e altri, per denunciare “un’indegna campagna di demonizzazione della Repubblica Popolare Cinese” e accostare le presunte aggressioni dei tibetani contro i negozi cinesi a quelle dei nazisti contro gli ebrei.

Perché? Perché studiosi di valore (per capire che lo sono basta leggere “Il soggetto e la maschera” del primo, “Il papiro di Dongo” del secondo e “Nietzsche, il ribelle aristocratico” del terzo), nelle analisi della storia e della politica non hanno mai smesso di praticare un pericoloso rovesciamento della realtà, scambiando spesso la vittima con il carnefice, incapaci di guardare i fatti con distacco, con serenità, con obiettività?

Che cosa li rende ancora chiusi, faziosi, settari, fanatici?

Leggiamo Aron, rileggiamo Aron e troviamo la risposta: è il mito comunista che li rende ciechi. E’ la fede nell’idea, che diventa sistema e dunque ideologia. E’ la solidarietà. E’ l’amore incondizionato. E’ l’adesione immediata e totale che scatta, quando c’è un angolo rosso, magari l’ultimo rimasto, da difendere, da preservare. Senza se e senza ma.

Aron metteva in guardia da chi era indulgente verso i grandi crimini purché perpetrati in nome delle buone dottrine. Come aveva ragione, come ha ragione!

"L’oppio degli intellettuali" è del 1955. Angelo Panebianco, nella splendida introduzione di oggi, ricorda che scatenò feroci controversie in Francia, mentre da noi non ebbe alcuna fortuna e spiega perché: ”La sinistra intellettuale, che all’epoca esercitava un’influenza preponderante sui circuiti della comunicazione culturale, non amava confrontarsi con le espressioni più alte, e più forti, del pensiero a essa avverso. In parte per arroganza, in parte a causa della sua cattiva coscienza, di una certa vaga consapevolezza dell’inconsistenza dei propri argomenti. Non è sicuro che le cose siano oggi davvero cambiate”.

Continua Panebianco: ”Nonostante il ripudio (tardivo) del comunismo, a comunismo già morto, la sinistra intellettuale italiana, nelle sue componenti maggioritarie, non ha mai davvero fatto i conti con le ragioni dei propri errori di allora. Tanto è vero che fior di intellettuali di sinistra continuano, oggi, a usare, per esempio nell’interpretazione della storia italiana recente, categorie molto simili a quelle che usavano allora, ai tempi del comunismo trionfante. Questo libro, al tempo stesso documento sulla Guerra Fredda e spiegazione sociologica delle ragioni che spingono uomini intelligenti ad adottare idee stupide, potrebbe aiutare alcuni di loro a sbarazzarsi finalmente di quelle categorie. Proprio per questo, credo, continueranno a non leggerlo”.

Così come non leggono Boudon, che in :”Perché gli intellettuali non amano il liberalismo” (Rubbettino, 2004) spiega l’avversione, di chi si sente depositario della verità, verso le idee liberali, che non solleticano, per varie ragioni, le ambizioni dei cosiddetti maestri del pensiero.

Così come non leggono Dahrendorf, che in “Erasmiani. Gli intellettuali alla prova del totalitarismo” (Laterza, 2007) sostiene che il dio da tanti cercato, aveva fallito perché era un falso dio e scrive:”Nel comunismo si parla in continuazione di “fede” e anche di una fede equiparata a quella religiosa”.

Il comunismo attirò con il legame e la speranza. Era ideologia del futuro. Ma non era obbligatorio lasciarsi conquistare. Dahrendorf dimostra che ci furono persone impermeabili alle tentazioni: Karl Popper, Raymond Aron e Isaiah Berlin su tutti. Rimasero forti, annota lo scienziato sociale, quando la maggior parte degli altri diventarono deboli:”Difesero, anche nelle situazioni più sfavorevoli, le idee su cui si fondavano gli ordinamenti liberali”.

Così come, gli intellettuali dei quali scrive Panebianco, non hanno mai letto Montanelli che, prima di andarsene, nel 2001, scrisse sul Corriere della sera: ”L’ntellighenzia di sinistra è davvero insopportabile e - quel che è peggio - inseppellibile. Autoinvestitasi - quando aveva tutto dalla sua, compresa la contestazione - della esclusiva del Verbo, ci ha costruito sopra un reticolo clientelare di posti di potere culturali a prova di tutto, compresi i certificati della sua incultura. Questi titolari del «Sale e Tabacchi» della ragione storica, li abbiamo avuti sul gobbo, noi del Giornale, per vent' anni con tutta la loro prosopopea, per fortuna corretta dalla illeggibilità dei loro saggi, o per meglio dire, delle loro truffe. Che continuano, imperturbabilmente, come se il muro di Berlino fosse ancora lì, a occultarci quello che c' era dietro”.

La speranza, oggi, è che i politici, tutti i politici, chiamati a scrivere le nuove pagine della storia di un paese moderno, libero, democratico, all’interno di una legislatura che ci auguriamo davvero costituente, smettano anche solo di udire da lontano le canzoni stonate e composte da pseudo-maestri, che non hanno più alcuna ragion d’essere.

La libertà è più importante dell’uguaglianza. Lo diceva Popper. Liberale come Aron. Come Berlin. Occorre leggerli. E per chi l’avesse già fatto, rileggerli. (l'Occidentale)

Furti, stupri e altre percezioni. Lorenzo Mondo

Ricordate? Fino a ieri, chi tendeva a minimizzare l’influenza dell’immigrazione incontrollata sulla criminalità, esortava a distinguere tra la realtà effettiva e la «percezione» che ne avevano i cittadini. Assegnando alla parola percezione un significato limitante, di sensazione avulsa anziché corroborata dai fatti, si finiva per accusare di imbecillità le persone che nei quartieri più poveri e disagiati ma anche nelle villette isolate del ceto medio, dovevano affrontare gravi problemi di ordine pubblico. Le aggressioni, i furti, il degrado ambientale, l’inosservanza discriminante delle regole (a partire dalla corsa in tram e autobus senza pagare il biglietto), il consiglio rivolto da carabinieri impotenti ai cittadini, di chiudersi in casa tra le inferriate...

Non erano e non sono ansietà generate dai pregiudizi e dai sogni. D’altra parte, cade in una patente contraddizione chi, commuovendosi per il presunto rigore della legge contro gli immigrati, è forzato a considerare che essi concorrono per un terzo a intasare le nostre carceri. Avviene forse per caso? I dati più recenti forniti dal ministero dell’Interno segnalano che negli ultimi mesi si è avuta ad opera degli stranieri un’impennata dei furti e delle rapine, e una crescita costante delle violenze sessuali.

Adesso, dopo il risveglio dovuto al terremoto elettorale, tutti sembrano prenderne atto. Quasi tutti, perché non manca chi si esibisce ancora in parole e ragionamenti strani. La violenza sulle donne? Non bisogna esagerare e gettare la croce sugli stranieri, tenendo conto che la maggior parte di questi reati si consumano tra italiani dentro le mura domestiche. Ma come si fa a tirare in ballo queste abiezioni sommerse, per lo più non denunciate, per sottovalutare quelle che avvengono per le strade e nei viali ad opera di estranei? E siamo sicuri che nelle famiglie degli immigrati, a qualunque specie appartengano, intercorrano rapporti immacolati? In ogni caso, ci troviamo di fronte a una sommatoria di reati ai quali non si deve concedere tregua. Distinguere e sottilizzare comporta una perversione del sentimento di equità e di tolleranza. Non finiscono di stupire, in materia così grave, gli esercizi sofistici che mal si distinguono da una irrimediabile insipienza. (la Stampa)

sabato 3 maggio 2008

Una scomoda verità. Christian Rocca

A leggere l'intervista di Al Gore al Magazine del Corriere tutti quegli espertoni americani, Colombo, Travaglio, Sartori, Fassino, che per anni hanno raccontato la balla che "in America no, Berlusconi non potrebbe essere eletto perché lì sì che hanno la legge sul conflitto di interessi" saranno rimasti traumatizzati. Al Gore, a Severgnini ha spiegato che sì, è possibilissimo, come dimostra anche il caso Bloomberg. Per anni solo sul Foglio avete letto che in America, in realtà, non esiste nemmeno una legge sul conflitto di interessi. E che a decidere sono gli elettori, mica Furio o Gherardo Colombo. (il Foglio)

giovedì 1 maggio 2008

Vedi. Jena

Perché la sinistra ha perso le elezioni? Vedi alla voce Visco. (la Stampa)

Il sindacato dei non lavoratori. Nicola Porro

Oggi, festa dei lavoratori, ascolteremo quintali di retorica. I sindacati dirigeranno il traffico delle celebrazioni e i politici ci spiegheranno la ricetta miracolosa per sostenere il mercato del lavoro. In realtà c’è poco, pochissimo da festeggiare. Ma non per i motivi che oggi verranno elencati in piazza. Il sostegno dei redditi non arriva dalla manina dello Stato, ma dalla competitività dei «padroni». Le morti sul lavoro non si risolvono con sanzioni e controlli burocratici assurdi. La tutela dei più deboli non si persegue con il posto fisso, ma con maggiore flessibilità, anche in uscita, dal posto di lavoro.Ieri la Fiat, il principale gruppo industriale italiano, ha deciso di investire 700 milioni di euro in una fabbrica di automobili in Serbia. Difficile dar torto alla scelta strategica di Sergio Marchionne. Solo pochi mesi fa ha rimesso in sesto gli stabilimenti campani di Pomigliano d’Arco, dove lavorano in 5mila. Ha spento gli impianti per un paio di mesi e ha investito un centinaio di milioni di euro per rinnovarli. Nel frattempo ai dipendenti ha assicurato retribuzione e un corso di formazione. Insomma, un tentativo per creare in Campania un’eccellenza metalmeccanica. Ebbene sono settimane che la produzione va a singhiozzo per i blocchi, gli scioperi e i picchetti organizzati dai sindacati locali, contrari al trasferimento di 316 operai a 12 chilometri di distanza, a Nola. In queste condizioni, un manager o un imprenditore avveduto scappa, se ne va. Preferisce trattare con le forze sindacali serbe piuttosto che ficcarsi in un buco nero italiano. Il problema sindacale lo risolve alla radice: non assume.
Sempre ieri sulla prima pagina del Manifesto un gruppo di delegati sindacali della Pirelli, in una lettera, ha elencato le motivazioni per le quali ha abbandonato la Cgil: «Abbiamo trovato di frequente - scrivono - un netto distacco tra sindacato e lavoratori, molto pensiero politico, grandi aree di superficialità e improvvisazione, autoreferenzialità e difficoltà a capire i veloci cambiamenti del mondo del lavoro...». C’è poco da aggiungere.
Il sindacato tradizionale è uno dei freni nello sviluppo economico di questo Paese. La contrattazione collettiva, uno strumento arcaico che però garantisce lo status quo delle organizzazioni sindacali, ha reso possibile l’erosione del reddito dei lavoratori dipendenti e la scarsa produttività del nostro sistema economico. Oggi i sindacati non celebreranno la festa dei lavoratori, ma la loro sopravvivenza. Frutto anche dell’opacità delle regole che governano la loro rappresentatività: i bramini del sindacato non possono essere spazzati via dal voto popolare. (il Giornale)