martedì 29 dicembre 2015

Il fumo e l'arrosto: Davide Giacalone



Oltre al fumo potrebbe esserci l’arrosto, se solo il problema dell’inquinamento cittadino fosse affrontato puntando alle soluzioni, anziché alle polemiche. Bloccare il traffico, ridurlo coartando la libertà di movimento nella riffa illogica del pari e dispari e delle fasce orarie, serve solo ad una cosa: evitare che al sindaco possano essere mosse accuse per omissioni d’atti d’ufficio. Per il resto è tempo e denaro perso. Il traffico cittadino, del resto, non crea solo inquinamento atmosferico, ma caos e lentezze che andrebbero comunque eliminati. Solo che si dovrebbe farlo offrendomi delle alternative, non proibendomi di usare quel che è mio e ho comprato in un regolare negozio. Discorso lungo, quello del trasporto collettivo, che da noi è anche lento perché ci si ostina a credere che il solo modo economico ed equo per gestirlo sia tenerlo nelle mani delle municipalizzate, quindi di personale politicizzato, così conquistando diseconomie e iniquità.
L’inquinamento, però, può essere affrontato anche dal lato della ripulitura e della prevenzione. Scoprendo che si tratta di un affare, non di una sciagura. Noi italiani, ad esempio, abbiamo brevetti importanti nel campo delle vernici che mangiano l’inquinamento. E’ una tecnologia che funziona in modo simile alla fotosintesi delle piante: utilizza l’energia della luce per produrre una ionizzazione dell’area vicina alla superfice trattata, rendendo possibile la trasformazione degli inquinanti pericolosi, tra cui l’azoto, in sali minerali idrosolubili. Innocui. Se usassimo queste vernici per tinteggiare il 20% delle facciate degli immobili saremmo in grado di assorbire l’inquinamento prodotto dalle vetture in circolazione. Il che, almeno, toglierebbe l’alibi dei blocchi per far finta di far qualche cosa.
Anche in questo settore valgono le caratteristiche così marcate del nostro mercato produttivo: tanta ricerca fatta in fabbrica, tanta inventiva, poco capitale, dimensioni ridotte. Ricordo di avere visto una di queste ditte, la Airlite, in una trasmissione televisiva a concorso, alla ricerca di investitori. Le banche sono occupate a prestare capitali con diversi criteri. Pur in queste condizioni riusciamo a esportare (altra caratteristica del nostro mercato, sbandierata come un merito da chi non ha alcun merito). Se, anziché dare mance e bonus a cappero, usassimo quei soldi per farne investimenti, correremmo il serio rischio di vedere salire il pil, aumentare l’occupazione e diminuire l’inquinamento.
Se, anziché far entrare la manona statale in casa, con la pretesa di girare il termostato (a proposito, frequento stanze ministeriali dove è saggio portarsi dietro un golf d’estate e i bermuda d’inverno), si lavorasse alla coibentazione e alla sostituzione degli infissi spifferanti, otterremmo risparmio energetico e minore inquinamento.
In tutti i casi simili, ed è la cosa più importante, riusciremmo a usare l’edilizia, che assorbe molta manodopera, nuovamente come volano di sviluppo. Non più moltiplicando le cubature, ma riqualificando il patrimonio immobiliare esistente. Considerato che il fisco ha lungamente provveduto a eroderlo, sarebbe un ottimo servizio a una ricchezza che, ricordiamolo, tiene ancora in equilibrio il nostro patologico debito pubblico. Inoltre, così procedendo, si farebbe dell’Italia un meraviglioso laboratorio a cielo aperto, dove le bellezze che ci invidiano, risalenti non solo all’impero romano, ma anche a molta edilizia pre-palazzinara, si unirebbe alla tecnologia della salvaguardia ambientale. Una specie di show-room aperto al mondo, in cui esporre quel che può essere venduto e riprodotto.
Invece diamo gli incentivi per mettere sul tetto i pannelli solari fatti dai cinesi, per produzioni energetiche così poco convenienti da dovere essere sussidiate, naturalmente a carico di quelli che poi puniamo perché accendono il condizionatore. Se anziché le targhe si varassero le bischerate alterne, almeno una su due si potrebbe indovinarla.

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lunedì 14 dicembre 2015

Il salvabanche è lo specchio dell'incapacità del governo. Renato Brunetta

La politica economica di Renzi è fallimentare. L'esecutivo si è svegliato troppo tardi portando in sofferenza il sistema bancario. E si rischia l'effetto panico agli sportelli



Di tegola in tegola, di banca in banca. Lo stesso sistema mediatico e di potere che ha portato Matteo Renzi a palazzo Chigi dopo meno di due anni già lo sta affossando. La sua stella si sta offuscando prima del previsto. Ormai tutto quello che fa suona finto, falso, strumentale. Fuori dalla realtà. Ormai la sua narrazione viene da tutti percepita come insopportabile, lugubre propaganda. La gente adesso gli chiede il conto, e non sopporta più di essere presa in giro.
Nella incredibile vicenda delle quattro banche fallite e malamente «salvate», su una sola cosa Renzi ha ragione (anche se nessuno ormai gli crede): bisogna fare chiarezza. Ma questa richiesta di chiarezza l'ha fatta prima, con uno scatto d'orgoglio, il Parlamento, proponendo l'istituzione di una Commissione di inchiesta non solo sul sistema bancario italiano, ma anche e soprattutto sul sistema che vigila su di esso.L'obiettivo è fare chiarezza su chi ha sbagliato: 1) nelle quattro banche coinvolte, vale a dire amministratori e responsabili di vari livelli, che hanno venduto titoli inadeguati; 2) in Banca d'Italia, che è la responsabile della vigilanza sull'operato degli istituti che hanno emesso i titoli ora diventati carta straccia; 3) in Consob, che è responsabile della correttezza dei prospetti informativi dei prodotti finanziari offerti ai risparmiatori; 4) nel governo, alla luce degli interessi e dei conflitti di interesse in esso presenti. Così facendo Renzi scoprirà davvero la verità, e cioè che gli errori di politica economica che hanno portato il sistema bancario italiano, una volta solido, alla condizione in cui versa oggi vengono da lontano. Dal governo Monti e dall'aver accettato l'egemonia tedesca nella soluzione della crisi del debito in Europa e la demenziale strategia del sangue, sudore e lacrime che ne è derivata. Aver subito passivamente l'imbroglio dello spread con conseguente colpo di Stato contro un governo legittimo, democraticamente eletto, ha distrutto in un colpo solo non soltanto il sistema delle imprese italiane, ma conseguentemente anche il sistema bancario.Vediamo, allora, com'è andata, dalla A alla Z. Dallo scoppio dei mutui subprime negli Stati Uniti, che ha portato al fallimento di Lehman Brothers il 15 settembre 2008, al fallimento e relativo salvataggio (?) delle quattro banche italiane. A. Il 3 ottobre 2008, sotto la presidenza di George Bush e su iniziativa dell'allora segretario al Tesoro americano, Henry Paulson, gli Stati Uniti approvano il troubled assets relief program (Tarp), che contiene lo stanziamento di 700 miliardi di dollari volti a depurare i bilanci delle banche statunitensi dai titoli cosiddetti «tossici». B. Mercoledì 8 ottobre 2008, l'allora governo Berlusconi vara l'istituzione di un Fondo di 20 miliardi di euro finalizzati alla ricapitalizzazione delle banche italiane, qualora ve ne fosse stato bisogno. Fondo mai utilizzato: è bastata l'approvazione in Consiglio dei ministri per tranquillizzare gli italiani ed evitare la corsa agli sportelli. C. Il provvedimento italiano viene tanto apprezzato che due giorni dopo il governo di Gordon Brown vara un atto simile per le banche inglesi, per un importo pari a 50 miliardi di sterline, poi elevato a 100 miliardi. D. Nei giorni che seguono, anche il governo americano, il cui primo intervento per salvare i propri istituti di credito non aveva ben funzionato, rielabora il troubled assets relief program alla luce di quanto fatto in Italia e in Inghilterra. A conferma dell'efficacia del provvedimento. Fino a quel momento, il sistema bancario italiano, come detto da tanti e in svariate occasioni, era ancora solido. E. Per tutto il 2009 e il 2010 gli indicatori macroeconomici del nostro paese erano ancora positivi. F. Arriva il 2011, quella maledetta estate e quel maledetto autunno in cui caschiamo tutti nel grande imbroglio dello spread. In quei mesi la speculazione finanziaria prende di mira i debiti sovrani degli Stati dell'area euro considerati più fragili, inclusa l'Italia. Inizia un periodo di grande tensione sui mercati che si traduce, a partire dal 2012, in una profonda recessione economica, aggravata dalle misure varate in quei mesi, a partire dal decreto cosiddetto «Salva Italia» del 6 dicembre 2011, dal governo Monti. La crisi attuale deriva dalle misure di politica economica sbagliate adottate con il governo Monti. G. Per far fronte a questa condizione di grave difficoltà per le banche, gli istituti hanno chiesto ai propri azionisti di procedere a grossi aumenti di capitale. Non tutte ce l'hanno fatta, ed è da lì che deriva il fallimento delle quattro banche. Qui comincia la seconda parte della storia. H. Tutto nasce dalla necessità di offrire tutela al cosiddetto «risparmiatore inconsapevole», vale a dire colui che non ha facile accesso alle informazioni necessarie per valutare lo stato di salute dei soggetti cui affida il proprio risparmio. Quello citato/accusato dal ministro Padoan nella sua scandalosa, ridicola, inutile audizione in Commissione Bilancio della Camera deideputati di venerdì 11 dicembre 2015. A tal fine, nel 1987 viene costituito il «Fondo interbancario di tutela dei depositi» (Fitd), che garantisce conti correnti e depositi fino a 100.000 euro. Nota bene: il Fondo non garantisce le obbligazioni, le azioni e i titoli di Stato. Il Fondo interviene nei casi di banche in liquidazione coatta amministrativa o di amministrazione straordinaria, e gli interventi sono subordinati all'autorizzazione della Banca d'Italia. I. Con il decreto legislativo 16 novembre 2015, n. 180 è stata data attuazione alla direttiva 2014/59/UE (cosiddetta Brrd, Bank recovery and resolution directive). La direttiva introduce nuovi strumenti di gestione delle crisi bancarie finalizzati ad evitare che il salvataggio di banche in crisi avvenga a carico della finanza pubblica (cosiddetto bail-out), bensì anticipando nella fase fisiologica dell'attività bancaria la gestione dell'eventuale emergenza (cosiddetto bail-in). L. Stando alla lettera del decreto, la Banca d'Italia può sottoporre a procedura di risoluzione le banche che versino in una condizione di dissesto o prossima al dissesto, avendo verificato che non sussistano alternative di mercato che consentano la soluzione della crisi. M. Pertanto, in data 21 novembre 2015, la Banca d'Italia ha avviato le procedure di risoluzione, ai sensi del decreto, nei confronti di 4 banche italiane in amministrazione straordinaria: Cassa di risparmio di Ferrara Spa; Banca delle Marche Spa; Banca popolare dell'Etruria e del Lazio - Società cooperativa; Cassa di risparmio della Provincia di Chieti Spa. N. I provvedimenti di avvio della risoluzione sono stati approvati dalministro dell'Economia e delle finanze, Pier Carlo Padoan, in data 22 novembre 2015. O. Lo stesso giorno, una domenica pomeriggio, il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legge n. 183, che contiene le norme di «tempestiva» attuazione delle 4 procedure di risoluzione avviate dalla Banca d'Italia il giorno precedente (21 novembre 2015). I provvedimenti di avvio della risoluzione prevedono la costituzione di un «Ente ponte», al quale vengono trasferite le attività e le passività delle banche in risoluzione, e la costituzione e di una società-veicolo (bad bank) a cui vengono trasferiti i crediti in sofferenza. Azioni e obbligazioni subordinate sottoscritte dai piccoli risparmiatori vengono azzerate. P. Primo punto critico. L'azzeramento da un giorno all'altro delle azioni e obbligazioni subordinate emesse dalle 4 banche ha comportato perdite per i piccoli risparmiatori pari a circa 1,2 miliardi di euro: 800 milioni di euro circa è la perdita causata a circa 20.000 sottoscrittori di obbligazioni subordinate; 400 milioni circa è la perdita causata a circa 130.000 piccoli azionisti. Q. Secondo punto critico. Le risorse per il funzionamento dell'«Ente ponte» e della bad bank sono fornite dal nuovo «Fondo di risoluzione nazionale», a sua volta alimentato da tutte le banche italiane mediante contributi ad hoc, diversi da quelli che le banche già versano al «Fondo interbancario di tutela dei depositi». Fondo non previsto, straordinario. E per un importo rilevante, pari a 2,4 miliardi di euro circa che si aggiunge, come abbiamo visto, a 1,2 miliardi di perdite sostenute dagli azionisti e sottoscrittori di obbligazioni subordinate delle 4 banche «salvate». Un conto totale di circa 3,6 miliardi di euro. R. Perché, ci si chiede, Banca d'Italia e governo hanno voluto intervenire «a gamba tesa» tra il 21 e il 22 novembre 2015, ricorrendo al «Fondo di risoluzione nazionale» per salvare le quattro banche e non al «Fondo interbancario di tutela dei depositi»? Si poteva fare, e infatti è stato fatto negli altri Stati europei, ad esempio in Germania per 247 miliardi. Bastava pensarci per tempo. Non si sarebbero potuti comunque garantire gli azionisti e i sottoscrittori di obbligazioni subordinate ma si sarebbe senz'altro evitato l'ulteriore onere di 2,3-2,4 miliardi a carico degli azionisti di tutte le altre banche italiane. Garantendo conti correnti e depositi fino a 100.000 euro. S. Stando alla ricostruzione di Banca d'Italia e governo, non è stato possibile fare ricorso al Fondo interbancario per la «preclusione manifestata da uffici della Commissione Ue, che hanno ritenuto di assimilare ad aiuti di Stato gli interventi di tale Fondo». T. Ma la versione della Commissione europea è un'altra: «All'Italia sono state prospettate tre possibili strade per salvare le quattro banche in amministrazione controllata: una con fondi privati; una usando il Fondo interbancario; una usando «Fondo di risoluzione nazionale». La decisione è stata presa dalle autorità italiane». U. Posizione confermata dal presidente e direttore generale dell'Abi Giovanni Sabatini in audizione in commissione Finanze alla Camera il 9 dicembre 2015: «Il Fondo interbancario è un fondo distinto, con suoi organi che avevano deliberato già da luglio degli interventi per risolvere la situazione delle quattro banche in amministrazione straordinaria. Ma poi non vi è mai stata un'istruttoria formalizzata che possa aver portato la Commissione Ue a esprimere una specifica valutazione contraria sull'intervento del Fondo». V. Qualcuno mente. O qualche passaggio non ci è ancora noto. Sorge il dubbio che il governo abbia barattato la flessibilità in Europa, per comprarsi il consenso con l'uso del Fondo interbancario, che avrebbe potuto in parte risolvere la situazione. Senza dubbio la proposta del ministro Padoan di «misure umanitarie volte a tutelare le fasce deboli di cittadini che hanno perso i loro risparmi» è un implicito riconoscimento di responsabilità del governo Z. Perché il governo non è intervenuto subito? Perché si è ridotto a poche settimane prima dell'entrata in vigore, dal primo gennaio 2016, della direttiva europea sul cosiddetto bail-in? L'opacità e lo stato confusionale in cui si trova oggi l'esecutivo rischiano di produrre il panico finanziario. Gli italiani hanno ormai paura di tenere i propri risparmi in banca e speriamo che lunedì non comincino le file agli sportelli. Questa spericolata operazione colpisce il sistema, indebolendolo. E questo non potrà che riverberarsi sul credito a famiglie e imprese, che diventerà ancora più caro e più difficile, con la connessa fuga degli investitori e l'aumento del rischio sistemico. In un perverso circolo vizioso. I nodi stanno venendo al pettine. Renzi non è uno statista, ma un populista. E se di questi tempi il populismo si può comprendere, a piccole dosi, per i partiti di opposizione, il populismo di governo è disgustoso perché sa tanto di peronismo.

(il Giornale)


sabato 12 dicembre 2015

Prevenzione bancaria. Davide Giacalone

Invece di giocare a scaricabarile, facendo sì che la ragione di ciascuno divenga il torto di tutti, sarà meglio accertare subito quanti altri azionisti e obbligazionisti inconsapevoli ci sono in giro. Dal prossimo primo gennaio non potranno più essere né salvati né aiutati, ma, una volta tanto, ci si potrebbe muovere in anticipo, disincagliando le posizioni critiche. E invece di avviare indagini penali su roba immaginifica, come l’induzione al suicidio, sarà meglio piantarla di far finta di non vedere la diffusione delle truffe allo sportello bancario.

I titoli emessi da una banca, come da una qualsiasi società, non si dividono in appropriati e inappropriati, ma in legali e illegali. Pur restando nella legalità, però, la vendita di determinati prodotti a determinati clienti segnala una anomalia. Pericolosa. Il giorno in cui, a Cortina, si vendessero più fucili subacquei che scarponi da sci, sarebbe più che saggio chiedersi cosa diamine stia succedendo. Quante banche hanno venduto proprie azioni e obbligazioni a soggetti incoerenti con quel genere di investimenti? Possiamo accertarlo non solo nel fare l’autopsia del morto, ma nel monitorare il vivo. Meglio avere dati che sensazioni. La paura è velenosa, quando si parla di risparmio. Quindi accendiamo la luce. Accertata la dimensione, proviamo a rompere il vincolo insano: il risparmiatore che cerca alti rendimenti, non sapendo o facendo finta di non sapere che comportano alti rischi, e la banca che usa la cupidigia altrui per alimentare la propria dissolutezza. Si può farlo aprendo una via d’uscita, capace di evitare il panico: riassorbire quei titoli e avviarne la resa a investimenti meno rischiosi, naturalmente scontando una perdita del loro valore. Chi rifiuta è libero di farlo, ma domani non venga a piangere per le perdite (anche perché non vengono mai a condividere la gioia dei guadagni). Per i clienti singoli, i piccoli risparmiatori, può provvedere direttamente la banca emittente. Per gli istituzionali serviranno veicoli e fondi specifici, che sono normali operatori di mercato, remunerati per i rischi che corrono. Ma è discorso del tutto diverso.

Ora leggete quanto mi scrive un imprenditore: “oltre a coloro che hanno comperato le azioni consapevolmente e a quelli che le hanno comperate inconsapevolmente (i più), ci sono quelli, come me, che sono stati obbligati a comprarle. Era prassi consolidata (mi creda siamo in tantissimi) che quando si andava in banca a presentare una qualsiasi operazione immobiliare, questa veniva vista favorevolmente e quindi deliberata a condizione, ovviamente non scritta, che si comprassero delle azioni della banca stessa. Addirittura ti davano loro i soldi per farlo, o ti facevano usare il fido personale”. Gli credo. Ho tolto i riferimenti alla persona e alla banca, anche perché lo stesso imprenditore aggiunge: “prove scritte di tutto ciò che le ho detto non ci sono oltre al fatto che spesso l’imprenditore, come il sottoscritto, ha impegni con l’istituto e ha paura di ritorsioni che non riuscirebbe a gestire”. Vuol dire che se ti metti contro la banca quelli ti chiedono subito di rientrare di tutte le esposizioni e ti rovinano.

Tale condotta non è in tutte le banche, ma è in troppe. Sono convinto che il nostro sistema bancario sia sano, ma questo non è un buon motivo per trascurare le parti malate. Invece di indagare l’ipotesi che qualcuno abbia spinto un disperato a impiccarsi sarà meglio indagare sull’esistenza di reati come quello descritto. Si può farlo incrociando i dati e descrivendo il profilo dell’azionista e del prestatore di soldi. Se si scopre che spesso sono gli stessi cui i soldi vengono prestati, la cosa puzza. E manco poco.

Leggo geremiadi vittimistiche circa il fatto che le banche di altri Paesi europei hanno ricevuto soldi statali, mentre a noi è impedito farlo. Questa roba la scrivevo mentre accadeva, ricordando che a banche tedesche e francesi sono andati soldi anche del nostro contribuente. Ma non prendiamoci in giro: quando quei trasferimenti di ricchezza erano possibili in Italia si negò fossero necessari. Che le regole sarebbero cambiate lo sapevamo. Si poteva esserne all’oscuro solo a patto d’essere ignoranti (in quel caso ci si occupi d’altro). Mi fa rabbia, tanta, che noi non si sia stati capaci di usare quello che allora era un punto di forza, magari per dare qualche lezione di buon mercato e sfruttare il vantaggio. Come fanno gli altri, quando possono. Invece fummo inerti allora e piagnucolosi oggi. Francamente insopportabile.

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martedì 17 novembre 2015

La zona grigia. Davide Giacalone


E’ necessario illuminare la zona grigia, come lo fu aprire l’album di famiglia. L’espressione “islam moderato” è fuorviante, a sua volta priva di moderazione. Contano le persone. Quando si raggruppano, le comunità. E di mussulmani conducenti una vita normale ce ne sono tanti, in Italia. Tantissimi nel mondo. Mussulmano è il Marocco che in passato ospitò gli ebrei in fuga, da cristiani bastardi, e che oggi organizza scuole per guide religiose, iman, interessate alla fede e non alle armi. Però, non dobbiamo essere ipocriti: c’è una zona grigia, che comporta un problema. Siccome è evidente che camminiamo su un terreno minato, da sensibilità religiose ed etniche, siccome non sfugge a nessuno che buonisti e cattivisti hanno messo su una sceneggiata insensata, ma nella quale trovano il solo senso alla loro vita, partiamo dalla zona grigia che fu tra noi.
Per troppo tempo si tentò di negare che il terrorismo di sinistra fosse comunista. Affermarlo era considerato offensivo, a dispetto del fatto che i vari dispacci, analfabeti e deliranti, provenienti da quel mondo non facevano che inneggiare al comunismo. Nel diffondersi di quella allucinazione contò anche il consenso tacito. Cominciarono con i sequestri lampo dei capo reparto, talché era possibile sentire: quello è una carogna, se l’è meritato. Poi arrivarono le gambizzazioni: è una brutta cosa, ma anche quello cui hanno sparato non è mica una bella persona. Dietro c’era tutta la retorica basata sul falso storico della “resistenza tradita”. E chi glielo poteva far capire, a quelle zucche vuote, che il mito gemello del “risorgimento tradito” aveva portato alla guerra e al fascismo. In quella brodaglia, allungata con miti e ignoranza, sobbolliva la zona grigia: non era parte del terrorismo, ma neanche le andava d’essere dall’altra parte (lasciate perdere Leonardo Sciascia, che è tutt’altra faccenda).
Erano comunisti quelli delle Brigate rosse, quelli di Prima linea. Erano comunisti i cattolici allucinati alla Renato Curcio, lo era un contadino alla Prospero Gallinari, un borghesuccio alla Valerio Morucci, una scappata di casa alla Adriana Faranda, una spia dell’est alla Mario Moretti. Ma erano comunisti anche Giorgio Napolitano e Massimo D’Alema, per citare solo due illustri contemporanei. Ovvio che non fossero la stessa cosa, ma Rossana Rossanda scrisse che nell’album di famiglia si trovavano tracce comuni. Aveva ragione. Nel mentre la repressione faceva il suo giusto corso, quello fu il viatico verso la consapevolezza: erano comunisti, in quanto tali doppiamente nemici di quanti, da comunisti, erano dentro le istituzioni. Questo portò a una rottura sul fronte più esposto, le fabbriche. Cominciarono le denunce, l’indicazione dei potenziali terroristi, considerate un dovere, non una spiata. Un sindacalista, Guido Rossa, per questo fu ammazzato. Lo scontro era aperto, la zona grigia non più possibile, la sconfitta del terrorismo era solo questione di tempo. E così andò, anche se ci costò molto. In sangue e in diritto.
Quella è tutta roba nostra. Oggi va benissimo che le comunità islamiche condannino il terrorismo, e si dovrebbe dare loro più spazio, nei mezzi di comunicazione. Va benissimo che parlino della loro fede come tesa alla vita e non alla morte. Ma prosciugare la zona grigia comporta il passare dalla distanza alla denuncia. Tocca a loro guardare nell’album di famiglia e cogliere i segni di qualche degenere. Anche dei sospetti, delle sensazioni, senza timore di esagerare. Tanto più che il nostro sistema in tutti i modi si può definire, ma non certo come ferocemente repressivo (per l’attentato al Bardo, Tunisi, ci fu segnalato il nome di un presunto terrorista, marocchino, che fu subito arrestato, ma non estradato e riconosciuto estraneo).
E senza scuse. Certo che esiste il disagio sociale. Certo che c’è disoccupazione e delusione. Ma in un contesto di ricchezza, assistenza e garanzie. Chi non lo sopporta, italiano o straniero che sia, di prima, seconda o terza generazione, può imboccare la porta e andare via. Saluti. Chi resta, da mio concittadino, ha tutto il diritto di prosperare o protestare, se del caso, ma non ha alcun diritto di coprire i terroristi, o anche solo la brodaglia nella quale galleggiano. La situazione nella quale ci troviamo comporta la necessità di guardare dentro i raduni islamici. Va fatto con rispetto, ma va fatto. La accolgano come un’occasione positiva, pur se frutto di tragedie.
Nella nostra storia recente, di italiani, spazzammo via la zona grigia, senza per questo diventare tutti uguali o rinunciare alle nostre preziose differenze. I nostri concittadini islamici devono ora fare la stessa cosa. Lo si farà comunque, ma fatto da loro sarà fatto meglio.
Davide Giacalone


venerdì 13 novembre 2015

Il linguaggio della sinistra


Cos'è la coesione sociale? Tra virgolette potremmo dire un percorso condiviso. Detto questo penso che la cultura della cooperazione necessiti di regole condivise.
A monte della questione c'è un modello da portare avanti mentre a valle penso ad un modello di relazioni.
Ciò non toglie che un'alleanza larga con la società civile sia del tutto evidente.
Rimane sul tappeto il problema delle risorse: in questo caso vedo l'opportunità di aprire tavoli di verifica e discussione.
Qualora non ci fossero le condizioni la risposta è molto semplice: il modello di relazioni sarà bipartisan e gli interlocutori saranno accompagnati in un percorso condiviso.
Credo assolutamente che stiamo andando nella giusta direzione perché il governo ha fatto le scelte opportune seguendo regole condivise.
Poiché siamo sulla strada giusta, non possiamo fare un passo indietro: nella fase costituente è necessario orientare il sistema politico verso un modello fortemente radicato sul territorio.
La stagione referendaria consentirà di prendere le giuste posizioni e di imprimere alla lotta sindacale il riconoscimento che le spetta.


Carezze moleste. Davide Giacalone


Se è una coincidenza non si sarebbe potuto immaginarla più sfortunata. Un improvvido ringraziamento del presidente del Consiglio, cui sfuggono i confini dei diversi ruoli istituzionali, ha lasciato intendere che alla procura (“i magistrati” comprendono anche i giudici, il che peggiora le cose) di Milano occorre essere grati, per non avere disturbato lo svolgimento dell’Expo e il “sistema istituzionale” (“voglio ringraziare i magistrati di Milano per il rispetto rigoroso della legge ma anche del sistema istituzionale”). Siccome la procura non gestisce lavori stradali e non emette rumori molesti, s’intende che la gratitudine sia relativa al ruolo che la legge le assegna: svolgere le indagini e formulare le accuse. Piovono le smentite, si ribadisce che nessun accordo, patto o trattativa ci sarebbe mai stato. Già, ci mancherebbe altro! Poi, la mattina appresso, s’eseguono mandati di cattura, in Italia e in Grecia, diretti a quanti avrebbero messo a soqquadro Milano, il primo maggio, al grido (delirante) di “No-Expo”. Se è una coincidenza è diabolicamente maliziosa.
Posto quel che vale sempre e per tutti, ovvero che gli arrestati sono da considerarsi innocenti fino a condanna definitiva, gliecché l’accusa loro rivolta li caratterizza come soggetti pericolosi. Quanto meno a giudizio della procura che ne ha chiesto la custodia cautelare. Se sono tali, non andavano arrestati subito? I reati per i quali sono indagati sono proprio quelli descritti dalla legge, con violenza e pericolosità sociale, per giustificare una detenzione prima della condanna. Che senso ha la custodia cautelare sette mesi dopo? Dicono in procura: abbiamo indagato per mesi. Anzi, questo smentisce sospensioni o congelamenti. Hanno indagato su cosa? Sulle immagini. Nel frattempo i sospetti si sono dileguati. E se le indagini sono già state fatte, di grazia, perché non ne depositano i risultati, chiedendo il rinvio a giudizio di quelli che, in quel momento, diventerebbero imputati? Siccome i contorni della faccenda sono piuttosto confusi, va a finire che la coincidenza temporale (chiude l’Expo, il governo ringrazia la procura per essersi astenuta, quindi partono gli arresti) fanno da conferma a un pessimo sospetto.
Aggiungo che non mi scandalizzerei affatto, se una procura, quella di Milano per Expo o altre, per altri eventi di rilievo generale, ritenesse di dovere evitare atti che, pur consentiti dalla legge, arrechino un danno al Paese. Che so, ad esempio, non mandare al capo del governo un avviso di garanzia nel mentre è in corso un vertice internazionale. Ribadito che la legge non prevede e nessuna persona seria avverte il bisogno che i procuratori si producano in conferenze stampa, che precedono di lustri gli esiti processuali, non mi scandalizzerebbe se ci si astenesse anche da atti formali rinviabili. Ma questo non può che avvenire nel più assoluto silenzio e nel più rigoroso isolamento, dovendosi escludere ogni pur minimo contatto con le autorità di governo. In caso contrario si esce dalla prudenza e si entra nell’impudenza. Se non direttamente nel reato. Ecco perché, a essere seri, dopo le parole di Matteo Renzi sarebbe stato saggio emettere un comunicato, dalla procura, che prendesse rispettosamente le distanze dallo strafalcione istituzionale. Del tipo: nessuno deve ringraziarci per avere rispettato la legge e siccome altro non facciamo che rispettarla, nessuno di ringrazi mai. Invece s’è vista qualche penna di pavone, prima che l’intervento de Il Giornale suggerisse l’opportunità di rimpiattarle in fretta. Del resto, mi pare ovvio: se accetti gli elogi devi accettare anche le critiche. Cosa che non mi pare solita, in quei palazzi. Ragione di più per cui ci sarebbe stato bene anche un comunicato della solitamente loquace Associazione nazionale magistrati: il governante non s’azzardi a interferire nella totale indipendenza del magistrato, né con carezze né con avverse facezie. Ma nulla di ciò leggemmo.
La cosa paradossale è che tutti pensano alle inchieste sulla corruzione, quindi agli arresti dei colletti bianchi (che, ove colpevoli, sono dei delinquenti, ma non dei violenti e non pericolosi per l’umanità che li circonda), invece l’arresto successivo alle lodi riguarda maneschi e teppisti. Anche questo potrebbe avere una logica: farlo prima avrebbe significato sollecitare una risposta della pizza, nel mentre su piazza si trovava l’Expo. Ma, oltre a essere conferma di uno scambio illecito, questa sarebbe anche una posticipazione che ha esposto altri a pericoli reali, mentre ha consentito a taluni fughe all’estero.
Coincidenze. Può darsi. Ma sarebbe più facile crederlo se le parole di Renzi avessero destato ripulsa fra quanti venivano lisciati, se si fossero discostati dalle carezze moleste. Invece s’udirono le fusa.
Pubblicato da Libero

giovedì 22 ottobre 2015

Salviamo i risparmiatori. Davide Giacalone


Non abbandoniamo nessun risparmiatore italiano. Proteggiamolo anche nel caso i suoi soldi si trovino in banche a rischio fallimento. Non farlo sarebbe come pugnalarlo alle spalle, dato che quando mise i soldi in banca non aveva idea che una scelta sbagliata potesse incorporare un pericolo così alto. Proteggiamolo quale che sia la cifra depositata, mentre lasciamo al loro destino gli azionisti e i dirigenti che avessero specifiche responsabilità, coloro, insomma, che erano e sono tenuti a sapere quel che fanno. Questa la proposta di Ennio Doris, presidente di Banca Mediolanum, destinata a far storcere la bocca ad alcuni suoi colleghi banchieri. Una proposta il cui senso supera il confine prettamente bancario: noi italiani dobbiamo imparare a fare sistema. I tedeschi sanno farlo e ne traggono vantaggio.

Per capire la portata della proposta si deve sapere quale sarebbe l’alternativa, chi si oppone e perché, quanti soldi ci vogliono e quali vantaggi se ne potrebbero trarre.

Dal primo gennaio 2016 entra in vigore la normativa europea sui salvataggi bancari, denominata “bail in”. Prevede che in caso di fallimento di una banca i soldi per assicurare i diritti dei clienti si prenderanno, nell’ordine: a. prima dagli azionisti; b. poi dagli obbligazionisti subordinati (non garantiti, con in mano titoli assimilabili alle azioni); c. dai depositanti che abbiano più di 100mila euro, i quali perderebbero la parte eccedente; d. da un fondo interbancario; e. per poi giungere all’intervento degli Stati e del Meccanismo europeo di stabilità. Con ciò si rispetta l’articolo 47 della nostra Costituzione, nel quale si prevede la tutela del risparmio. Il solo neo riguarda i depositi superiori a 100mila euro. La cui ragione è: se metti una simile cifra sul conto corrente (non se compri titoli o certificati od obbligazioni garantite, che restano tutelati) compi una scelta informata, quindi ne rispondi. Si possono, però, verificare casi in cui quella condizione non è soddisfatta, come quando il cliente s’è appena visto accreditare un mutuo, o quando ha appena incassato una fattura e deve subito far fronte ai costi relativi a quello stesso lavoro. Insomma, se si vuol far valere quel principio sarà bene affiancare al tetto dei 100mila anche un criterio temporale, relativo alla giacenza: se sono arrivati il giorno prima del fallimento è evidente che il risparmiatore non ha compiuto alcuna scelta.

Resta il fatto, comunque, ragiona Doris, che queste cose, fin qui, le conoscono in pochi. E, specialmente se si dovesse decidere di applicare anticipatamente il meccanismo del bail in, sarebbe un po’ come cambiare le regole nel mentre il gioco è in corso. Non si fa. Prima della nuova norma, infatti, e fin dal 1936, l’ipotesi del fallimento bancario era praticamente esclusa. Non che non potessero fallire, ma sarebbe intervenuto lo Stato a salvare i depositanti (concetto che non cancella il rischio, ma lo sposta sul contribuente). Nella pratica, inoltre, non è successo nemmeno quello, perché le banche fallimentari sono state salvate dalle altre banche. Da qui la proposta: ciascuna altra banca, in ragione della propria quota di mercato, versi il necessario non a salvare le banche concorrenti, non i loro azionisti o i loro dirigenti, ma i loro clienti.

A naso, l’idea dovrebbe piacere sia alla Banca d’Italia che all’Associazione bancaria italiana. Non piace a chi ragiona corto, vedendo nel fallimento del concorrente una possibilità d’espansione propria, anziché un ulteriore crollo, destinato ad alimentare sfiducia e ostilità verso tutte le banche. Non piace alle banche estere che hanno sportelli in Italia, che obietteranno contro gli “aiuti di Stato”. Ma, a parte il fato che le altre banche non sono lo Stato, c’è da dire che fra queste ci sarebbe anche Deutsche Bank, a sua volta difesa e salvata dal suo azionista: lo Stato. Senza contare che, fra il 2008 e il 2014 ci sono state 450 deroghe europee, in modo da concedere aiuti di Stato. Non in Italia. Non ne chiediamo, ma neanche intendiamo prendere lezioni, in materia.

Per tutelare tutti, compresi i depositanti sopra i 100mila, e considerate le banche effettivamente a rischio, serviranno 3 miliardi. Metterceli significherà entrare nella nuova normativa, fra due mesi e mezzo, senza avere subito amputazioni anticipate o preannunciate, avendo fatto sistema e non avendo accettato che quel che si fa altrove non si possa fare in Italia. Significherà entrare nell’era delle aggregazioni continentali senza dovere mettere in conto disgregazioni nazionali. L’impressione è che sia una buona idea, oltre che del tutto legittima. Sarà bene aggiungere un dettaglio: le banche che vendevano ai propri clienti le proprie azioni e obbligazioni, legando a quell’acquisto la concessione di crediti, sarà bene che assistano alla scomparsa dal mercato di chi le ha dirette e amministrate.

Pubblicato da Libero

venerdì 2 ottobre 2015

La retorica di Bella Ciao ho rotto i c... Francesco Maria Del Vigo

Pietro Ingrao per me non è un mito. Ne ho altri, finti, veri, cartacei. Ma non pretendo che siano universali. Non è un padre della Patria. Non può essere un padre della Patria uno che questa diavolo di Patria voleva svenderla a quella che sentiva la sua, di patria. Cioè la madre Russia comunista. Ma è possibile che qui ci si debba dividere tutti tra russi e americani? Ma uno che fa il tifo per l’Italia non è un’opzione disponibile? (Non la nazionale, per carità, di quelli ce ne sono troppi).
Ingrao, per me, non è un esempio. È uno che dalle colonne dell’Unità difendeva gli eccidi delle truppe russe in Ungheria e che oggi, dagli stessi che si genuflettono davanti al suo cadavere, sarebbe stato licenziato come un sovversivo criminale. Ma lui rappresenta i vincitori, anche adesso che è stato vinto dalla vita, come succede e succederà a tutti noi. Pietro Ingrao, per me, è un vecchio morto a cento anni, davanti al quale non posso che elevare un arrivederci ossequioso e laico. Perché amo gli anziani e ammiro i coerenti e gli idealisti. Anche di idee che non condivido. E invidio le comunità. Quella folla di pugni alzati, quelle bandiere rosse con la falce e il martello, quelle ugole che si squarciano intonando Bella Ciao. È roba d’altro tempo, di un’altra era. Archeologia politica e umana. Come quelle poltrone di modernariato che dici: cavolo che design strano. Ma a casa non le vorresti mai.
Ma facciamo una precisazione: evviva le comunità, evviva le idee. Ma Bella Ciao non è un inno nazionale. È un canto da ultras. Dell’antifascismo. Quella è una comunità che rispetto, ma non è una nazione. Non è di tutti, ma di parte. Divide e non unisce. Come direbbero i moderni: è divisiva. Il mito della resistenza non è realtà, ma finzione. Se va bene fiaba. È il Babbo Natale della sinistra. Shhh. Non diciamolo a voce alta che sennò poi ci sentono. Chè l’Italia l’hanno liberata gli americani. Bella Ciao non è pace, ma guerra. E pure civile. Che è il massimo dell’inciviltà. Basta. Basta con questo culto della resistenza, con questa religione laica della Liberazione. Pure il Papa apre ai divorziati, ma le vestali di piazzale Loreto non riescono nemmeno a parlare agli a-partigiani. Basta coi talebani del 25 aprile, con i santificatori del comunismo, con quelli che ci vogliono infilare in testa il burka del politicamente corretto. Con quelli che pensano che mettere la gente a testa in giù sia un atto di libertà.
Renzi, Grasso e Mattarella avrebbero chinato il capo davanti al feretro di Giorgio Almirante? No. Perché era un fascista. Redento. Democratico. Ma c’aveva sempre quel problema lì. Non parlo del peccato mortale di aver eletto Fini come proprio delfino. Ma di quella camicia non troppo intonata coi colori alla moda. Invece erano tutti lì, davanti alle falci e ai martelli. Immobili davanti a simboli di morte. Persino Fini era uscito dal sepolcro. E pure Marino. Ma quello si imbuca ovunque: dal Vescovo di Roma al patriarca dei bolscevichi, che differenza c’è?
Anche il comunista Ingrao avrebbe mandato a quel paese quella massa di sciacalli che cerca di vivere su una (presunta) rendita di posizione. Io vorrei mandare a quel paese Renzi, Grasso, la Boldrini, la religione (catto)comunista dei partigiani, le falci e il martello, il galateo del 25 aprile e Bella Ciao. Che, ripeto, non è Fratelli d’Italia, ma una canzone più secessionista della Lega di Bossi: spacca il paese, allarga la piaga e divide gli italiani. Ma, soprattutto, rompe i coglioni. È l’ora di dire ciao. Anche a Bella Ciao.

(il Giornale)


mercoledì 16 settembre 2015

Triciclo migrante. Davide Giacalone

           

L’accordo europeo su come gestire il tema delle migrazioni, distinguendo e adottando politiche necessariamente diverse per profughi e migranti economici, non s’è raggiunto. Ma così come è disegnato non potrebbe comunque funzionare. L’architettura cui si tende, illustrata dal ministro degli interni, Angelino Alfano, in una intervista a Rtl 102.5, si regge su tre pilastri: 1. hot spot per l’identificazione; 2. quote obbligatorie di ripartizione (per quelli cui viene concesso asilo); 3. respingimenti a cura e spese dell’Unione europea. Non può funzionare perché il primo pilastro è troppo fragile, mentre gli altri due non ci sono ancora.

Lasciamo da un canto la sfasatura temporale e ammettiamo che il triciclo parta con tutte e tre le ruote. In caso contrario non parte e stiamo parlando del nulla. La denominazione “hot spot” (punto caldo), mutuata dalla telematica, presuppone l’esistenza di una rete, a sua volta capace di connessioni che portino a destinazione messaggi e persone. Non solo non c’è, ma se quei punti restano nel dominio e nella responsabilità di autorità nazionali è evidente che possono funzionare solo per quanti vengono ammessi, mentre i respinti presenteranno ricorso. Come è loro diritto. Impedirlo, con una legislazione speciale, comporta enormi complicazioni legali e va incontro a pressoché certa bocciatura costituzionale. Una volta che presentano ricorso partono i tempi dei diversi gradi di giudizio, restando gli interessati nel limbo del riconoscimento, o meno, della loro natura di rifugiati. Nessun centro di raccolta è in grado di amministrarli e contenerli così a lungo. Intanto questo scarica sul Paese di frontiera tensioni ingovernabili, tenuto presente che non ci sono solo i costi economici, ma anche quelli umani. Per esemplificazioni vedi alla voce Cie, centri di identificazione ed espulsione, creati nel 1998. Non aggiungo altro.

Tale architettura rispecchia l’errore commesso dai tedeschi: supporre che si possano fare scelte d’accoglienza senza essere direttamente coinvolti nell’amministrazione delle frontiere esterne. Attenzione: i tedeschi non si sono rimangiati la loro decisione, ma si sono accorti d’avere sollevato uno tsunami umano, destinato ad infrangersi sui loro centri d’accoglienza, a loro volta destinati a esplodere. Ben venuti in questo inferno. Allora provano a scaricarne la responsabilità su altri, conservando a sé la parte dell’apertura. Non è buono o cattivo, umano o disumano, lungimirante o miope, è solo e soltanto un errore enorme.

Per rimediare deve essere europeo il primo pilastro, il che aiuterebbe a rendere non effimeri gli altri due. Il lavoro negli hot spot deve essere fatto da autorità dell’Unione, sulla base di un diritto che non è quello nazionale del Paese in cui ci si trova. Lo ripetiamo da tempo: serve extraterritorialità. Troppo facile (e inutile) dire: lo faremo quando creeremo campi di raccolta fuori dall’Ue, in prossimità delle zone da cui i migranti provengono. Vasto e futuribile programma, realizzabile solo se si usa la forza e, comunque, fra troppo tempo. Intanto non si può stare con frontiere interne permeabili e frontiere esterne la cui impermeabilità alternata sia affare solo di chi se le trova in casa.

Il triciclo immaginato, al vertice di lunedì, ha la ruota davanti quadrata. Anche ammesso che arrivino le due posteriori, non va da nessuna parte. Escluso (spero) che siano così sciocchi da non avvedersene, ne deriva che non avevano altro da raccontare che una favola futuribile. Peccato che questo, come l’azzardo tedesco, contribuisce a muovere moltitudini, che spostandosi seminano morti. E che l’affogato sia un bimbo profugo o un bimbo migrante non sposta di un capello la responsabilità morale e politica di chi non sia all’altezza del dramma.
Davide Giacalone
www.davidegiacalone.it
@DavideGiac

mercoledì 2 settembre 2015

Un aforisma, un commento. Massimo Negrotti









“Se un intellettuale non ha tempo per cercare la verità vuol dire che è impegnato.”
La pretesa supremazia dell’intelletto sulle altre attitudini umane, come la sensibilità e l’esperienza, è antica quanto la filosofia e ha fatto più danni di quanti ne abbia fatti l’aggressività fisica. Senza l’intervento dell’intelletto o, più propriamente, della ragione, ogni esperienza è sicuramente povera e senza respiro, ma è anche vero che, senza sensibilità ed esperienza, l’intelletto vaga nel vuoto, riempito unicamente di visioni metafisiche che non hanno mai prodotto alcunché di rilevante per il genere umano. La perfetta coniugazione delle due attitudini non è cosa semplice ma, in fondo, la scienza, con la sua integrazione di teoria e sperimentazione, è una buona soluzione a questo proposito.
Tuttavia, ancora oggi, alcuni cosiddetti “intellettuali”, non sono disposti a riconoscere che medici e ingegneri, astronomi e geologi, ma persino musicisti o pittori, siano definibili correttamente alla loro stessa stregua. Questa posizione decisamente sciocca è particolarmente radicata nella cultura italiana per l’influenza dell’idealismo, ma è stata notevolmente modificata dalla strategia comunista. Quest’ultima è da ricondursi alla dottrina di Gramsci, con la sua immagine dell’“intellettuale organico” e il suo progetto per la conquista della cultura come viatico per la successiva conquista del potere da parte delle così chiamate masse diseredate. È su questa base che nasce la dottrina dell’“intellettuale impegnato” che mira a ricondurre l’intellettualità alla la realtà, ma solo, purtroppo, in una chiave sociale ideologicamente chiusa e dogmatica.
L’intellettuale, ridefinito, è così un uomo di lettere, di storia o di filosofia ma anche tecnico o scienziato, che, a parole o con la firma ben visibile nei tanti “manifesti” che si sono susseguiti negli ultimi decenni, si mette al servizio degli sfruttati e, ovviamente, si mostra ostile nei confronti del ceto borghese cui peraltro appartiene disinvoltamente. Il Partito comunista italiano, dopo la Seconda guerra mondiale, ha abilmente organizzato tutto questo per almeno trent’anni potendo contare sulla collaborazione di quotidiani, editori e buona parte dei mai sufficientemente deplorati “assessorati alla Cultura”.
Ciò che, però, gli strateghi marxisti non avevano saputo prevedere è che il principale risultato di questa strategia sarebbe consistito nella formazione di una consorteria fra gli intellettuali e l’industria culturale, totalmente fondata sulle due ambizioni prevalenti nello stesso e odiato mondo borghese: il successo e il profitto. Attori, registi, docenti, autori letterari, persino compositori, cantautori e comici hanno raggiunto i propri scopi, di successo e di reddito, proprio grazie all’organizzazione messa a loro disposizione e che, nelle ingenue speranze dei comunisti, avrebbe dovuto contribuire alla realizzazione di una società socialista. Essi si sono ben guardati, come si guardano bene tutt’oggi, dal riconoscere il proprio “conflitto di interesse” persino nel momento in cui denunciavano quello altrui e dall’auspicare davvero una società di eguali, tutti dipendenti pubblici, senza personalismi e senza profitto. Tuttavia, la politica che essi hanno contribuito a consolidare è fortunatamente naufragata attraverso la riscossa delle più semplici verità della natura umana, ampiamente raccolte dalle società aperte, che includono il successo e il profitto come legittime manifestazioni della libertà, ragionevolmente regolate dallo Stato ma non certo perseguite come esibizioni del demonio.
La doppiezza di larga parte degli intellettuali è perciò stata e in parte è ancora la peggiore manifestazione di ciò che il sociologo Max Weber additava, un secolo fa, come l’attitudine di molti a fare dell’attività politica la propria fonte permanente di reddito più che una beruf, nel senso di vocazione, tesa davvero al bene comune.

(l'Opinione)


venerdì 7 agosto 2015

C'è un ministro a Berlino. Davide Giacalone

Il governo rimuove un procuratore generale della Repubblica perché non ha più fiducia in lui. Attentato alla giustizia? No, è così che funziona la giustizia, dove la giustizia funziona. Siccome il procuratore in questione (Harald Range) aveva criticato la prudenza del governo nel vedere perseguire due giornalisti e aveva avvertito che: “influenzare le indagini perché il possibile esito non appare opportuno è un attentato intollerabile all’indipendenza della giustizia”, è intervenuto il ministro della giustizia (Heiko Mass) e lo ha mandato via. In Germania, come in Francia, come in qualsiasi altro Stato di diritto, l’indipendenza assoluta è una prerogativa dei giudici, non delle procure. Provate a tradurlo in italiano, se ci riuscite.
Nel prendere tale decisione, naturalmente, il ministro tedesco si assume una responsabilità politica. Anche se, in questo caso, somiglia di più a un merito, visto che l’idea di perseguire dei giornalisti, accusandoli di alto tradimento, per avere rilevato piani riservati destinati al monitoraggio del web, non per avere scritto il falso (nel qual caso è giusto ne rispondano), aveva suscitato vivaci reazioni e proteste. Il governo, inoltre, non archivia l’inchiesta, come può fare quello francese, ma nomina un altro procuratore, in cui ripone fiducia. Nulla di tutto questo, ovviamente, sarebbe stato possibile nel caso di un giudice, ovvero di chi è incaricato non di accusare, ma di stabilire se l’accusa è fondata o meno, se il cittadino è colpevole o innocente. Il giudice è protetto, nella sua indipendenza, ovunque lo Stato di diritto non sia una battuta di spirito. Figurarsi poi a Berlino, dove un giudice onesto e indipendente lo trovò anche il celebre mugnaio. Il guaio, in Italia, è che si fa una gran confusione fra giudici e magistrati, posto che i procuratori non sono giudici, mentre i giudici sono magistrati. Sano e lineare è il sistema in cui non sono neanche colleghi, ma, pur permanendo questa mefitica anomalia, comunque non sono la stessa cosa.
Fuori dall’intoccabile indipendenza dei giudici (che, comunque, non sono irresponsabili e la cui qualità del lavoro viene controllata, almeno dove lo Stato non è un agglomerato di corporazioni e prepotenze), le procure rappresentano la pretesa punitiva dello Stato, pertanto è considerato normale che rispondano del loro operato a chi governa, in ragione del consenso popolare raccolto. Certo che una condizione di questo tipo può prestarsi ad abusi, o indurre a proteggere amici e sodali, solo che poi se ne risponde davanti agli elettori. Ammesso e non concesso che si riesca a restare al governo. Perché dove la giustizia funziona è ovvio che i procuratori non sono giudici, ma è anche ovvio che proteggere politici amici, o direttamente sé stessi, dalle inchieste equivale a mettersi fuori dal consesso civile. Se non ti dimetti al volo vieni dimesso a furor di popolo. E mentre il citato furore è una bestemmia in un’aula di giustizia, è poesia in quelle parlamentari.
L’avere deragliato, uscendo dai binari dritti del diritto, comporta distorsioni pazzesche, destinate a rendere ancor più anomale le cose. Penso, ad esempio, ai cinque decreti legge che si sono fatti per cercare di rimediare agli effetti delle inchieste giudiziarie sullo stabilimento Ilva di Taranto. Cinque pezze colorate e inefficaci. Penso a un capo del governo che dice di non volere fare il passacarte delle procure, laddove la carta gli arrivava da un giudice. Penso a un ministro di giustizia che sbraca fuggendo la responsabilità politica, sperando di scaricarla sulla Corte costituzionale. A Berlino c’è un giudice, ma c’è anche un ministro. E non crediate che tale vantaggiosa presenza non si rifletta anche sui numeri dell’economia.
Pubblicato da Libero

lunedì 3 agosto 2015

I giudici dettano legge. Vladimiro Iuliano

















Dove c’è discrezionalità, c’è arbitrarietà, non c’è né ci può essere certezza delle regole, del diritto. I giudici stravolgono la volontà del Parlamento interpretando di fatto la legge. Nessuno li ha eletti, non rappresentano la volontà popolare ma fanno, di fatto, con la loro interpretazione discrezionale e spesso arbitraria, le norme valevoli nei confronti di tutti.
I giudici da molto tempo dettano legge in Italia. La politica è allo sbando e la magistratura, o meglio le interpretazioni della magistratura, detta legge. In pratica da molto tempo i giudici italiani approfittano del ruolo che hanno per sconfinare dalle loro funzioni e competenze e riempire i buchi e spesso financo sovvertire la volontà del legislatore. Con l’aiutino spesso della Direttiva o del Regolamento europeo, i giudici agiscono piegando la norma come a loro più piace e conviene. Dalle corti e dai tribunali arrivano letture disperate delle leggi e anche di ciò che legge non è; princìpi generali eletti e “promossi” a leggi dello Stato, e in quanto tali valevoli per tutti. Il giudice orienta il Paese come più gli piace e conviene decidendo sulla Legge Severino, sul caso De Luca, sull’Ilva di Taranto, sul cambiamento di sesso, sulle pensioni, sulle tasse per le scuole cattoliche, sull’immigrazione, sulla fecondazione artificiale e sui contratti dei calciatori. Indicano, o meglio dettano la strada della legge alla Corte dei Conti, al Consiglio di Stato, ai Tar, alla Corte Costituzionale come alla Cassazione. I giudici sanno bene che, stante la loro inamovibilità e lo stipendio statale sicuro oltre che nessun controllo sul proprio operato, potranno conquistare le prime pagine dei giornali con dichiarazioni o sentenze creative, innovatrici, o interpretazioni cosiddette “evolutive”, cioè in progress, vale a dire come vuole e intende lui/lei. Ogni giudice legifera di fatto in Italia, e niente e nessuno è in grado di circoscrivere, limitare ed eliminare il problema fuori liceità.
Le leggi sono numerosissime; grovigli spesso inestricabili, fatti apposta, nella loro ambiguità, per l’interpretazione personalissima del giudice che ne dà le coordinate e la ratiodell’applicazione alla vita concreta. Non solo dove non è chiara la volontà del legislatore è facilissimo per il giudice sottrargli il privilegio (il legislatore, Napolitano permettendo, è espressione della volontà di tutti noi) e riscrivere soggettivamente ed il più delle volte ideologicamente la legge stessa che verrà manipolata, sovvertita e strumentalizzata, ma anche dove non v’è la legge, i giudici “scrivono” e dettano, fanno valere a ripetizione il principio di diritto che si sono dati tra loro, e lo fanno valere come legge disciplinandone i casi. Vere e proprie invenzioni del diritto, abusi del diritto cui è difficilissimo per il comune mortale fare fronte, resistere, difendersi, contrapporsi, reagire, e anche solo sopravvivere.
Finché la giustizia e i giudici italiani non saranno realmente sottoposti a responsabilità effettiva per ciò che fanno, dicono e scrivono sentenziando, sarà sempre così. L’unica soluzione possibile è privatizzare le funzioni e circoscrivere ad un raggio limitato l’azione “espansiva” del giudice stesso. Si guardi anche solo ai cosiddetti nuovi diritti elaborati dai giudici novelli, che rappresentano il loro vero “capolavoro”. Manipolazioni genetiche, eutanasia, Internet, coppie gay, fecondazione artificiale, transgender, regole del web, sono il Bengodi dei giudici d’assalto (posto pubblico fisso, stipendiato da noi, retribuito meglio di ogni altro). Lo sconfinamento ad esempio dei giudici dotati di pruderie maliziosa è totale in camera da letto ove si verta in questioni di corna, o di obblighi genitoriali e da ultimo pure i nonni. Ricordiamo la sentenza della Cassazione che entrava nell’uso dei jeans in caso di stupro. Consulta (è la Corte costituzionale), Cassazione, Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), ogni singolo magistrato discetta e detta legge sulla qualsiasi, Legge 40 sull’inseminazione eterologa o immigrazione clandestina che sia.
I giudici scrivono la legge formulando sentenze non solo sui processi in corso, ma anche su quelli già conclusi. Solo l’altro giorno la Corte di Cassazione ha detto che la perdita del lavoro non costituisce “grave danno alla persona” e il web si è scatenato dicendo che i giudici di legittimità fanno “i froci con il culo degli altri”, cioè del popolo, dato che loro ed il loro lucroso stipendio pubblico (quindicimila euro al mese circa dei nostri soldi) sono sicuri. Le norme europee sono utilizzate e forniscono la materia prima necessaria a scardinare le leggi interne italiane, in nome del principio della prevalenza di quelle sovranazionali. La magistratura italiana si avvale ed utilizza princìpi costituzionali ed europei per fare da sé e creare nuove leggi non attraverso il processo democratico stabilito, ma direttamente attraverso la propria penna, il proprio pensiero, la propria discrezionalità.
La certezza del diritto e della norma non esiste più in Italia. Esiste ciò che pensa, vuole, scrive e detta il giudice di turno, più o meno instabile. Ormai i giudici da noi sono i creatori ancora prima degli interpreti della norma. E a chi tocca tocca, nella arbitrarietà più iniqua e totale.

(l'Opinione)


venerdì 31 luglio 2015

Vergogne dell'Italia renziana. Cesare Alfieri


 
Tempo fa un Paese del Nord Europa è rimasto sfornito di governo. È proseguito tutto al meglio, a dimostrazione di quanto sia ultroneo ogni governo, soprattutto quando gestito malamente o per il solo proprio profitto o addirittura, come oggi da noi in Italia, rubato con l’imbroglio quindi illegittimo.

Con il partitino personale fatto da soli dieci senatori raccattati qua e là per costituire un gruppetto di supporto alla vergogna del governo illegittimo Renzi, Denis Verdini è l’ennesima, indegna dimostrazione di come ci se ne infischi dei voti espressi dagli italiani, che quella stessa decina ha a suo tempo scelto e fatto eleggere solo perché stava con Silvio Berlusconi, a destra e nel centrodestra. Oggi la decina traditrice di destra va a dare manforte al governo mai eletto di sinistra di Renzi, per la poltrona e i ricchi contributi di Stato, cioè i nostri soldi che ignominiosamente è previsto ricevano da subito i gruppi parlamentari (590mila euro di nostri soldi dati con tassazione esosa sul nostro groppone). Un’ignominia, uno sberleffo, un sopruso, una presa in giro. Questo è Matteo Renzi, questi sono stati Monti, Letta e Napolitano; questo è Mattarella, Alfano, così come il Pd e il Pdl, la Lega e il Movimento Cinque Stelle. Non si creda infatti che cambiando di chiappe il posto parlamentare, da noi retribuito, cambi l’andazzo. Anche i nuovi culi, allo stesso modo degli occupanti la poltrona di oggi come di ieri, si comporteranno nella stessa maniera, ovvero a sbafo e a schifìo per il Paese. Non basterà non essere andati in massa a non votare; non sarà bastato aver votato i partiti della protesta novelli occupanti allo stesso modo dei precedenti della poltronciona retribuita da noi; non sarà bastato vedere i tradimenti, le porcherie, le indecenze tutte del popolo degli “eletti”, nessuno scandalo o ribellione sarà mai sufficiente a cambiare alcunché.

È necessario costringere l’intero sistema politico a rispondere di ciò che fa. Chi oggi si mette in tasca 509mila euro “a gratis” deve non solo risponderne ma risarcire gli italiani in caso di mala gestione. Risarcimenti effettivi e non a parole. Devono essere stretti i gangli del potere politico. Così come viene richiesto a un qualsiasi cittadino italiano con attività privata di rispondere in ogni momento di ciò che fa, allo stesso modo il parlamentare ed il politico devono rispondere personalmente ed economicamente di quanto fanno. Tagliare a meno della metà i parlamentari tra Camera e Senato con stipendi drasticamente diminuiti sino ad un terzo di quelli attuali; regolamentare i partiti politici istituendo la categoria della responsabilità politica al loro interno e nello svolgimento dell’attività politica. Ridurre i contributi o meglio disciplinare partiti e gruppi, parlamentari e non, in modo che siano autonomi economicamente e trasparenti nelle entrare e nelle uscite. Traghettare il più possibile ciò che è pubblico nel privato. Ridurre lo Stato e la sua presenza.

Cosa si aspetta ad esempio oggi a mettere sotto accusa Giorgio Napolitano per tradimento alla Costituzione, per avere cioè defraudato gli italiani della loro espressione del voto, delle loro scelte? Cosa si aspetta ad avviare procedimenti di responsabilità e risarcimento per i governatori ladri dei governi a cominciare da Monti, Letta e Renzi? Quali regole o meglio non regole si stanno applicando? Oggi “grazie” a questi siamo fuori dalla democrazia; si rientri e torni dentro la democrazia. Ma come si fa a sperare che degli imbroglioni la smettano di imbrogliare? Quando mai un imbroglione al governo abbasserà la pressione fiscale? È nel suo stesso “interesse” che rimanga tale quale è, a garanzia del proprio posto, stipendio e poltrona, e quelli dei suoi amici. La burocrazia? La Rai? Una qualsivoglia spending review? Macché! Qui si tiene volutamente tutto com’è nella speranza che non salti tutto tra le proprie mani, nella speranza becera di lucrare e “salvarsi” da soli. Invece deflagrerà, e questi imbroglioni avranno incassato a più non posso. Si torni alle urne, al voto e alla democrazia. Chi verrà scelto, già oggi, ci penserà due volte prima di fare danni. La misura è colma. Bisogna cambiare.

(l'Opinione)


martedì 21 luglio 2015

Renzi annuncia l'età dell'oro. Gianni Pardo





Nell’assemblea del Partito Democratico è comparso l’arcangelo Gabriele. Era da qualche tempo che non si vedeva, ma stavolta valeva la pena di ritornare sulla Terra. Bisognava infatti annunciare all’Italia che ciò che non era riuscito per molti decenni sarebbe finalmente riuscito, che ciò che si era lungamente desiderato, senza ottenerlo, era finalmente a portata di mano; “Nuntio vobis gaudium magnum!”.
L’arcangelo Gabriele – che stavolta ha il faccino del nostro Matteo Renzi, in rara versione con cravatta - prevede, già per il 2016, «l’eliminazione della tassa sulla prima casa, l’Imu agricola e sugli imbullonati». In seguito, nel 2017, il bambino prodigio si occuperà di Ires e Irap, sicché, nel 2018, se abbiamo capito bene, nei fiumi scorreranno latte e miele. Entro l’agosto di quest’anno (e sarà un altro miracolo) avremo la riforma della Pubblica Amministrazione di solito considerata una tale impresa che ha scoraggiato tutti. Tanto che ci chiediamo se ora il provvedimento più importante non sia l’avere unificato, sotto il numero “112”, il 113, il 115 e il 118.
Gli “imbullonati” di cui Renzi ha parlato sono i macchinari ancorati al suolo con bulloni, su cui lo Stato ha pensato bene di mettere una tassa. E al riguardo ci si può legittimamente chiedere se un Primo Ministro possa permettersi di usare termini incomprensibili ad un italiano largamente alfabetizzato, perfino a suo agio con qualche lingua straniera. Ma forse le massaie e i sagrestani usano questo termine tutti i giorni.
Torniamo al libro dei sogni. Il discorso di Renzi suscita un sarcastico scetticismo perché in questi casi non è il programma, che interessa: chi non amerebbe promettere l’abolizione della tassa sulla prima casa, chi non amerebbe potersi vantare di averla eliminata? La notizia dunque non è che il Segretario del Pd la metta nel suo programma, la notizia sarebbe che il suo programma sia realistico. E a questo scopo non basterebbe certo che egli si dichiari capace di compiere il miracolo: vorremmo sapere come conta di farlo e vorremmo anche vederglielo fare.
Sempre che sia lecito fare i conti con le dita, il problema si può porre in questi termini: per funzionare, lo Stato ha bisogno di soldi. Oggi questi soldi li ricava dalla casa, dall’Imu agricola e perfino dagli “imbullonati”, oltre che da Ires, Irap e Iradiddio di tasse e imposte. Nel momento in cui si parla di abolirle, le possibilità sono soltanto due: o Renzi conta di eliminare la maggior parte dei servizi dello Stato - chiudendo scuole, caserme, ministeri, comuni, ferrovie, tribunali - sicché lo Stato potrebbe sostenersi con la tassa sugli alcoolici o poco più. Oppure il taumaturgo conta di mantenere tutti quei servizi, attingendo il denaro necessario dal pozzo di San Patrizio, ad Orvieto. Sempre che, come le banche greche, non sia a secco di contanti.
E pensare che davano dello sbruffone a Berlusconi. Il Cavaliere indubbiamente ha mantenuto molto meno di quanto ha promesso, ma Renzi batte tutti: ha l’aria di promettere la Luna, dandone un quarto a ciascuno dei sessanta milioni di italiani.
L’esagerazione è uno degli strumenti classici della comicità, ma qui nella sostanza non c’è assolutamente nulla da ridere. Non è normale che un Primo Ministro prenda per i fondelli l’intera popolazione del suo Paese. Per mesi si è parlato di “spending review” e l’unico effetto concreto che s’è visto è stata la fuga all’estero dello scoraggiato esperto incaricato di progettarla, Carlo Cottarelli.
Ma non bisogna essere avari di aperture di credito. Naturalmente Renzi può fare ciò che ha promesso. Naturalmente forse sarà capace di realizzare il miracolo sopra descritto. E naturalmente in molti saremmo pronti a fargli parecchi monumenti a cavallo, nelle maggiori piazze cittadine, perfino mediante colletta pubblica. Ma in realtà saremmo piuttosto disposti a scommettere mille dei pochi euro che abbiamo che non ci riuscirà. A meno che, per abolizione, non intenda che l’Imu si chiamerà Umi, l’Ires Sier e via dicendo.
Chiunque usa un computer sa che deve guardarsi dalle truffe, atte ad abbindolare coloro che sono contemporaneamente avidi ed ingenui. Esemplare quella che annuncia la vincita ad una lotteria cui non si è partecipato. In questi casi chi ha buon senso butta via la mail e passa ad altro. Ora forse bisognerà imparare a fare la stessa mossa quando parla il Primo Ministro.
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venerdì 3 luglio 2015

Diritto sequestrato. Davide Giacalone

 



Sul buco di Monfalcone non può essere messa la toppa di un decreto legge. Anche perché, sommato al buco di Taranto, è troppo grosso. Il problema che si pone non è isolato e momentaneo, ma generale e ripetuto. Anzi, si tratta di tre ordini di problemi: a. le misure cautelari al posto delle pene, l’indagine al posto del giudizio, quindi l’assenza di proporzione fra il reato presupposto e la punizione eventuale; b. l’insensatezza di consentire all’accusa di ricorrere sempre e comunque; c. l’assenza di responsabilità. E non se ne esce con un decreto legge.
Lasciamo perdere che Fincantieri è un pezzo prezioso e irrinunciabile del nostro essere la seconda potenza manifatturiera d’Europa, nonché uno dei settori, la cantieristica, che più traina quel poco che c’è di ripresa economica. Facciamo finta che non sia decisivo (e lo è), perché non è di questo che si occupa la magistratura. Osserviamo quel che è accaduto a Monfalcone: un’indagine iniziata nel 2013, con la misura cautelare presa due anni dopo. L’urgenza, come dire, mi pare contraddetta dal calendario. La questione riguarda il trattamento di rifiuti. Non si tratta di roba che avvelena, non siamo alla terra dei fuochi, qui la faccenda è di carta: Fincantieri accatasta rifiuti anche per conto delle ditte che lavorano in appalto, ma, dicono alla procura, ci vuole l’autorizzazione. E’ così? non lo è? Non lo so, ma penso che per accertarlo, posto che stiamo parlando di roba che non inquina, si possa e si debba farlo in giudizio. Applicare il sequestro, quindi provocare la chiusura dello stabilimento, significa affibbiare una misura cautelare che supera in durezza anche la più micidiale delle condanne possibili. Ammesso e non concesso che gli imputati siano colpevoli, per mancata autorizzazione bollata a far quello che, comunque, tutti possono vedere.
Tanto la cosa è fuori dalla logica che sia il gip quanto l’appello rifiutarono alla procura il sequestro. Ma l’accusa ricorre sempre. Spesso si sente dire che la giustizia non funziona anche perché gli avvocati fanno ostruzionismo, ricorrono per principio, facendo perdere tempo. Ma, almeno, lo fanno a spese del cliente. La procura lo fa a spese nostre. Che senso ha ricorrere per due anni? Se credi che le accuse siano fondate, già dopo il primo rifiuto molli la presa sulla misura cautelare e punti al giudizio, per avere le condanne. Invece ci si comporta come se il solo processo credibile sia il non processo della fase preliminare. Quello, oltre tutto, in cui l’accusato ha meno strumenti per difendersi. Questa stortura non la si corregge intervenendo sulle conseguenza, ma sulle cause.
La prima (esagerazione della non pena) e la seconda (ricorrere a oltranza) cosa sono possibili perché nessuno risponde di quel che fa. Se la carriera del magistrato fosse legata alla sua capacità (nel caso della procura) di accusare chi sarà condannato, probabilmente si eviterebbe di sostenere accuse in modo temerario. Se si dovesse rispondere del fatto che una misura cautelare chiesta si rivelerà sproporzionata rispetto alla pena poi stabilità, o, addirittura, all’assoluzione, probabilmente si sarebbe più cauti. Ma nulla di tutto questo: la procura chiede sempre tutto e lo chiede ricorrendo in ogni sede. Se va bene, bene, e se va male che problema c’è? Anzi, dimostra che la giustizia funziona. Eccome.
Seguiamo la logica del sequestro: siccome credo che tu abbia violato la legge, prima ancora di dimostrarlo fermo la tua attività. Con un sistema di questo tipo fare industria è impossibile. Ma c’è di più: è impossibile fare qualsiasi cosa. Anche giustizia. In modo analogo, infatti, si potrebbe dire: siccome quel tribunale ha sbagliato, difatti la sentenza è stata riformata, siccome quella procura ha sbagliato, difatti la richiesta è stata rigettata, per impedire danni più grossi li sequestriamo e chiudiamo. Manca l’autorizzazione? Chiudo lo stabilimento. L’accusa si rileva infondata? Chiudo la procura. Vi pare folle? Lo è.
Pubblicato da Libero
 
 

giovedì 2 luglio 2015

Trappola greca. Davide Giacalone

Il referendum greco è una trappola. Per i greci. La bancarotta greca sarebbe una tragedia per loro, ma anche una trappola per gli altri europei e per l’occidente. Non è la prima volta, nella storia, che problemi la cui soluzione conviene a tutti, e che non è neanche così difficile, si allontana a causa di condotte irrazionali e di interessi di gran lunga meno rilevanti del danno che provocano.

Nel 2011 la Grecia si approssimava alla bancarotta, dopo anni in cui il tenore di vita e la ricchezza disponibile erano colà cresciute. Lasciamo da parte i conti taroccati, notoriamente tali e come tali tollerati dalla Commissione Ue. Erano i bassi tassi e la convenienza a far debiti a spingere i disavanzi continui, dando l’impressione di un Bengodi infinito. La crisi dei debiti sovrani infranse il sogno, trasformandolo in incubo. In quel momento sostenemmo che, se l’Unione aveva un senso, non si dovevano abbandonare i greci e non si doveva ipotecare il futuro dei più giovani. Il primo passo fu indecoroso, usando i soldi degli aiuti per salvare le banche, prevalentemente tedesche e francesi, che si erano esposte (a fini di lucro, mica di beneficienza) con la Grecia. Poi, però, i debiti furono due volte tagliati e gli aiuti sono affluiti più copiosi degli interessi (bassi) che i greci pagavano. Chi parla di “strozzinaggio” europeo ha dei seri problemi con l’aritmetica.

Oggi la situazione è ribaltata. Un nuovo governo è al potere, eletto grazie a promesse suggestive, irrealistiche. Pretende che i creditori continuino a prestare denaro, sapendo che non sarà restituito, senza porre condizioni. Che, del resto, non sono tali da impoverire i greci, visto che a tutti conviene che riprendano a crescere, ma servono a chiudere la mangiatoia della spesa pubblica. Veleno per la vita dei giovani ellenici. Per giunta il governo greco se la prende con la Banca centrale europea, che in questi mesi s’è spesa per alimentarli di liquidità, attirando su di sé critiche pesanti e non del tutto infondate. Vogliono non solo la liquidità d’emergenza (che la Bce ancora assicura), ma che sia aumentata. Non si sa dove finisca l’improvvisazione e dove cominci l’impudenza. Hanno chiuso le banche, togliendo ai cittadini il diritto di disporre del proprio denaro, perché sanno che la loro condotta incita alla fuga. Sperare di attribuirne la colpa alla Bce è infantile, oltre che irresponsabile.

Il referendum è truffaldino, perché su un documento tecnico e articolato, che, semmai, dovrebbe essere oggetto di negoziato, non di voto in blocco. Non è pro o contro l’euro, anche perché sanno che la grande maggioranza voterebbe a favore della permanenza (mica sono scemi). Lo hanno inventato perché sanno che la Grecia ha un posto rilevante, nello scacchiere militare europeo, con confini delicati, quindi oggetto di sollecitazioni statunitensi affinché non sia persa (il passato avrebbe dovuto vaccinarli, sui governi militari). Hanno pensato: mettiamo il negoziato davanti a quel bivio e il resto d’Europa sbraca. Il genio della teoria dei giochi, Yanis Varoufakis, lo ha anche detto: cambiate le condizioni e noi diremo di votare sì. Li ha presi per scimmie ammaestrate, i cittadini. Invece quel referendum diventa un alibi per i falchi, per i devoti della contabilità, per chi crede che i conti vengano sempre prima della storia e della politica: lasciateli votare, evviva la (falsa) democrazia: se voteranno a favore del piano, andrà a fondo il governo greco (il bello è che Varoufakis lo nega, candidandosi a sostenere l’opposto di quel che dice); se voteranno contro nessuno avrà buttato fuori i greci, ma saranno loro ad avere deciso. Come trovarsi nell’Oceano e sventrare la chiglia per far dispetto all’equipaggio.

Ci sono sempre le condizioni e le possibilità per sottrarre la Grecia al naufragio, come fin qui s’è fatto, ma per riuscirci è necessario che i greci siano consapevoli che il loro governo è il loro problema. Si sono messi nelle mani dell’ex gioventù comunista e affidati alla sapienza di chi li porta verso una svalutazione ciclopica avendo un lavoro pagato in dollari, negli Stati Uniti. Il popolo è sovrano, ma il 64% dei votanti non li votò. Ora sovranamente deve provvedere. Errori ne sono stati commessi molti, dagli altri europei, compreso l’avere instaurato tavoli non istituzionali, con i soli tedeschi e francesi. Ciò ha indebolito la capacità di risposta istituzionale, rafforzando l’impressione che l’esito del negoziato fosse la sottomissione ad alcuni. Ma Tsipras e Varoufakis non hanno sollevato questo problema, stanno solo provando a trattare in modo inaccettabile. Chiedendo di farlo ancora a lungo. Tocca agli elettori greci fare quello che il loro Parlamento si dimostra incapace di fare. Pagina pessima, foriera di mille complicazioni. Va girata in fretta.

Pubblicato da Libero


venerdì 26 giugno 2015

Lo scollamento tra popolo e ufficialità. Gianni Pardo

 
 
Come si risolve il problema dell’immigrazione clandestina?”
“Basta affondare i barconi a cannonate con tutti gli immigranti dentro e l’immigrazione finirà”.
Questo ideale dialogo è quanto di più “politically incorrect” si possa immaginare. È contro il codice penale, contro la legge del mare, contro la morale e contro il buon senso. Non si vede contro che cos’altro debba essere, per dire che non è plausibile: ma ciò non è sufficiente per dire che non bisogna tenerne conto.
I principi che i singoli dicono di seguire dipendono spesso dallo strato della società cui appartengono. Più la società è ricca, più è cortese e, non raramente, generosa. Un cane affamato troverà molto più facilmente chi gli dia da mangiare se il benefattore a sua volta ha già mangiato; se viceversa il possibile donatore ha fame ed ha soltanto un pezzo di pane, il cane non avrà speranze. Ciò si estende all’intera mentalità. Il ricco predicherà la piccola generosità (non la grande) perché può permettersela senza sforzo, mentre il povero ascolterà con fastidio le nobili esortazioni, perché per lui significano o privarsi di qualcosa di cui ha bisogno o essere giudicato egoista.
Un esempio analogo si ha in materia di razzismo. Negli anni in cui i “cafoni” meridionali andavano a lavorare alla Fiat di Torino, era ovvio che cercassero alloggi a basso prezzo. E poiché si comportavano male (a quei tempi c’era un maggiore divario di civiltà, fra Nord e Sud) finivano col rendersi odiosi ai torinesi, i quali dunque reagivano da “razzisti”. Ma quali torinesi? Naturalmente i loro vicini di casa, anche loro poveri. Ecco perché ancora oggi, quando qualcuno predica il massimo di apertura agli immigranti, vien fatto da chiedergli: “Scusi, lei dove vive? Ai Parioli? Quanti vicini immigrati ha?”
In quello specchio del mondo che è Internet, si scopre che la Francia ufficiale è egalitaria e antirazzista, la Francia profonda è esasperata. Si lamenta da un lato delle tasse che è costretta a pagare, dall’altro dei vantaggi che sono concessi a volte agli immigrati a preferenza degli stessi francesi poveri.
In materia di sociologia, come di politica, il moralismo non serve a capire. Per sapere in che misura un Paese sia antisemita, non bisogna guardare le sue istituzioni o le dichiarazioni ufficiali dei suoi rappresentanti, bisogna guardare a quelle oceaniche sedute psicoanalitiche che sono i commenti nei blog. Si scopre così che anche in un Paese come l’Italia, che pure non ha le peggiori tradizioni in materia, l’antisemitismo è ben più diffuso di quanto non risulti ufficialmente.
Per capire qual è la realtà, bisogna innanzi tutto essere disposti a vederla com’è, e non come si vorrebbe che fosse; ed è proprio in questo campo che mentre l’Italia ufficiale parla del dovere di concedere asilo politico, del dovere di accoglienza, del dovere di solidarietà umana, e di altri bei doveri ancora, la base ha tutt’altri sentimenti. Questi doveri non li sente molto. 
Ha ragione? Ha torto? Non è questo il punto. Il punto è che i governanti e i politici devono tenere conto del popolo. Sia perché esso è il nuovo sovrano, come stabilisce anche la Costituzione, sia perché il popolo vota: e se si insiste in una politica nobile e alta che non tiene conto dei sentimenti della gente, il risultato è che qualche demagogo si appropria dei peggiori argomenti per farsene una piattaforma programmatica ed elettorale. In Italia il successo della Lega di Matteo Salvini non ha altra spiegazione. 
La Francia, dopo molti decenni di porte aperte al Maghreb, ha chiuso la frontiera di Mentone; l’Ungheria progetta un muro alla frontiera con la Serbia; la Gran Bretagna è disposta a salvare qualche emigrante ma non ad accoglierlo in Inghilterra. Tutti gli altri fatti di questo genere dimostrano che l’Occidente - innanzi tutto al livello popolare e poi al livello politico - sta prendendo coscienza di un pericolo. Dunque è inutile, come fanno alcuni, parlare dell’ineluttabilità dello spostamento delle grandi masse umane, delle migrazioni che da sempre fanno parte della storia, e soprattutto del dovere dell’Occidente di porre rimedio ai mali dei Paesi più sfortunati. La base su cui si regge tutto l’edificio, il popolo, ha il sentimento d’avere già dato, e chiede maggiore protezione. Ché se poi ci sono risorse per i più deboli, che si cominci dai deboli nostrani.
Non bisogna lasciare spazio a chi predica di affondare i barconi con tutti gli emigranti, ma è necessaria una politica di asilo politico serio, per gli aventi diritto, e di respingimento di tutti gli altri.
pardonuovo@myblog.it
(LSBlog)