lunedì 31 gennaio 2011

In nome dell'intercettazione sovrana, il Cav. sarebbe già bello che condannato. Giuliano Cazzola

Sabato sera, intervistato da Fabio Fazio nel suo "salottino", Enrico Mentana faceva notare quanto fosse compatto il PdL in difesa di Sivio Berlusconi. Nonostante – aggiungiamo noi – che la violenta campagna mediatica a cui è sottoposto il premier lasci qualche ragionevole dubbio su particolari abitudini e stili di vita sicuramente discutibili. Il caso si spiega in tanti modi non meritevoli della solita banalità del "partito sottomesso ad un padre-padrone".

Nei confronti di Berlusconi agiscono certamente sentimenti di gratitudine. E merito suo se, nel 1994, la "gioiosa macchina da guerra" messa in campo da Achille Occhetto non ha mietuto quel grano che i pm avevano seminato per gli eredi del Pci. E se, ancora adesso, le sinistre stanno all’opposizione. Inoltre, nessuna persona onesta militerebbe o anche solo voterebbe per il PdL se non fosse convinta (e le prove sono tante da "oscurare il sole") che nei confronti del Cavaliere è in atto, fin dal momento in cui iniziò a fare politica, una meticolosa, spietata e palese persecuzione giudiziaria, con motivazioni prettamente politiche. Nulla è più insopportabile di una giustizia deviata, di una consorteria di magistrati che si avvale dei propri delicati poteri per condurre una lotta politica, giustificandone il conseguimento dell’obiettivo – l’abbattimento del tiranno – anche mediante la violazione delle regole dello Stato di diritto di cui invece dovrebbe essere geloso custode e irriducibile garante.

Ma nella vicenda di "Ruby e le compagne", a saperlo cercare in mezzo alle scollature, ai fondischiena e ai ricchi premi e cotillons distribuiti a piene mani, c’è in ballo molto di più di quanto, pur importante, abbiamo ricordato fino ad ora. A qualunque studente di giurisprudenza – persino a quei beoti che vanno in giro negli atenei a predicare stupidaggini contro Marchionne e Gelmini e a lodare i metalmeccanici - intento a frequentare il corso per l’esame di procedura penale, il professore spiegherebbe che la confessione è soltanto un mezzo di prova come gli altri. Che un magistrato non può accontentarsi di indurre un indagato a confessare le sue colpe, ma deve cercare anche altri riscontri oggettivi. Volendo, il professore potrebbe anche spingersi fino a ricordare che, nei secoli passati, la pratica della tortura non dipendeva dalla malvagità dei tribunali, ma da una precisa cultura giuridica, in base alla quale senza la confessione non era possibile pronunciare una condanna. Fu Cesare Beccaria a fare evolvere questa impostazione e ad aprire nuovi orizzonti al processo penale. L’imputato può essere condannato in base a riscontri differenti dalla confessione, al punto che essa non è più non solo indispensabile, ma persino necessaria per la sentenza.

Durante "Tangentopoli" la carcerazione preventiva fu usata come tortura per indurre le persone a confessare ciò che serviva al pm. Non a caso. La "confessione" (sempre estorta) fu al centro delle purghe staliniane in Urss e nei Paesi satelliti, proprio perché la regia dell’evento richiedeva la distruzione della personalità dell’avversario politico. Oggi però la magistratura è andata oltre l’abuso della confessione. Con le intercettazioni telefoniche a strascico e la loro pubblicazione sugli organi di stampa si è arrivati alla condanna oggettiva e preventiva. Non c’è più bisogno nemmeno del processo. E neppure della confessione. Le frasi virgolettate, scaturite dalle intercettazioni, sono diventate la prova inconfutabile, sufficienti a pronunciare la condanna. Sembra di essere tornati ai tempi dell’Inquisizione: tra peccato e reato non c’è più distinzione.

Ecco dunque che si profila un’altra ragione per tenere duro, in nome di una cultura moderna e democratica del diritto. Negli anni ’70, uscì sugli schermi un film intitolato "In nome del popolo italiano", dove un pm integerrimo, interpretato da Ugo Tognazzi, si convince della colpevolezza di un palazzinaro romano (interpretato da Vittorio Gassman: quasi un ritratto del Cav ante litteram) nella morte di una giovane escort. Quando viene in possesso delle prove che discolpano l’imputato, le distrugge perché individua in lui tutti i mali dell’Italia. E’ questa la cultura di cui sono imbevuti tanti magistrati oggi. (l'Occidentale)

Finalmente sappiamo cos'è Futuro e Libertà. L'Occidentale

Erano mesi che cercavamo di capire quale fosse la natura e il programma politico dei quella nuova creatura chiamata Fli. Abbiamo letto articoli, studiato saggi, ascoltato interviste, compulsato siti web e guardato talk show, ma niente da fare. Futuro e libertà ci continuava a sembrare sfuggente, contraddittoria, trasformista. Forse, ci siamo detti a un certo punto, è questa la modernità di cui parlano: un partito inafferrabile, così leggero e mutevole da sfuggire a qualsiasi definizione. Stupidi noi, ancora legati a vecchi paradigmi, che ci arrovelliamo attorno all’identità.

Poi a Todi, Italo Bocchino, ha finalmente sollevato il velo di incertezza che avvolge dall’inizio il movimento di Gianfranco Fini. Ha pronunciato parole chiare e inequivoche che ci hanno illuminato e confortato. Ora sappiamo con cosa abbiamo a che fare.

Dice Bocchino: “Non si presenterà per noi il problema della candidatura alla leadership, per questo cerchiamo piuttosto uno speaker che non un leader. Dovrebbe essere una donna, quarantenne, credibile e preparata”. In coro gli hanno subito chiesto se pensasse ad Emma Marcegaglia e lui pronto: “Ma no, con lei si giocherebbe per vincere e questo sarebbe assurdo. L’unica cosa certa dopo le prossime elezioni è che da noi non si potrà prescindere perché saremo decisivi al Senato”.

Bene, alla fine l’abbiamo capita. Futuro e Libertà sarà un partito di rompicoglioni a vocazione minoritaria.

Immobilismo cautelare. Davide Giacalone

I prossimi funzionari pubblici che saranno chiamati ad occuparsi della spazzatura napoletana, come d’ogni altro disastro ambientale provocato dall’incuria degli amministratori locali e dagli interessi della criminalità organizzata, saranno fortemente tentati di rifiutare. In alternativa potrebbero chiedere, in via cautelare, una casa all’estero, un conto nei paradisi fiscali e un passaporto diplomatico, in modo da potere scappare nel caso qualche procura decidesse che la colpa del disastro non è di chi lo ha provocato, ma di chi ha tentato di porvi rimedio.

Quando la protezione civile fu chiamata a Napoli, cosa si pensava che potesse fare? Credevano che facessero sparire la mondezza per incanto, disintegrandola fuori dall’atmosfera terrestre? Avevano a che fare con discariche chiuse, sotto sequestro della magistratura o sature. Se così non fosse stato non si sarebbe provocata alcuna emergenza, semmai un accumulo, da smaltirsi in fretta e, tutto sommato, in modo semplice. Il problema è strutturale, invece, perché non si sapeva dove metterla. Gli uomini al servizio dello Stato, un prefetto e il personale della protezione civile, avranno anche sbagliato, ma se fossero stati disponibili luoghi e modalità per fare sparire il tutto, nel rispetto formale e sostanziale della norma, semplicemente si sarebbe dovuto mandare al manicomio quanti non avevano provveduto prima. Hanno agito, quindi, in condizioni d’emergenza.

Ricordo una telefonata fra di loro, raccolta dagli inquirenti e prontamente passata ai giornali (è il rito post moderno della malagiustizia medioevale), nel corso del quale uno diceva all’altro che in una tale discarica c’era ancora posto, si poteva usarla. Peccato che, codicilli alla mano, era da considerarsi satura. E allora? dovevano mangiarsela? Decisero di procedere, come avrebbe fatto qualsiasi persona sensata. O, meglio, qualsiasi sconsiderato che crede di adempiere ad un dovere e non ha fatto i conti con l’irresponsabilità di massa. Difatti, ora sono al gabbio. Accusati di reati ambientali, hanno perso la libertà. Di taluni si dice con il “beneficio” degli arresti domiciliari, come se fosse una scelta di bontà e non una modulazione relativa alla pericolosità sociale. E la minaccia, per la collettività, non sono quanti hanno seppellito Napoli sotto al pattume, ma quanti hanno provato a rimuoverlo.

Arrestati, dunque. Pensavano di scappare all’estero? No, erano a casa. Possono inquinare le prove? A parte il triste umorismo, relativo all’inquinamento dell’inquinamento, se la procura ha raccolto le prove non c’è nulla da inquinare. Come, del resto? Mica possono cambiare le carte del depuratore. Possono reiterare il reato? Tanto per fare un esempio, la dottoressa Marta Di Gennaro è in pensione. Al massimo può reiterare buttando qualche cartaccia lontano dai cestini. Però sono detenuti, le loro foto si trovano sui giornali, il loro nome infamato, a qualche anno di distanza da un qualsiasi processo e a imperituro monito di quanti s’azzardino a fare il proprio dovere guardando al risultato anziché alla forma. Serva d’esempio per le forze dell’ordine, cui già s’è portato quello di carabinieri impegnati a perseguire la mafia e processati (poi, molto poi, assolti) per mafia.

Quindi, la (im)morale di questa storia è: il burocrate faccia il burocrate, si trinceri dietro la mezza manica e se ne freghi delle conseguenze per gli altri, quel che conta, per lui, è solo il rispetto scrupoloso, maniacale e immobilista di tutte le norme e regolamenti. Si blocca tutto, ma la procura non verrà a svegliarti e ammanettarti.

Canto degli italiani

Il "Canto degli italiani" è stato scritto nel 1847 da Goffredo Mameli e musicato da Michele Novaro.
Mameli aveva vent'anni e morirà due anni dopo nella difesa della seconda Repubblica Romana.
L'Inno di Mameli venne adottato come Inno nazionale provvisorio il 12 ottobre 1946 e definitivamente il 17 novembre 2005.


Fratelli d'Italia,

l'Italia s'è desta,

dell'elmo di Scipio

s'è cinta la testa.

Dov'è la Vittoria?

Le porga la chioma,

che schiava di Roma

Iddio la creò.

Stringiamoci a coorte,

siam pronti alla morte.

Siam pronti alla morte,

l'Italia chiamò.

Stringiamoci a coorte,

siam pronti alla morte.

Siam pronti alla morte,

l'Italia chiamò, sì!



Noi fummo da secoli

calpesti, derisi,

perché non siam popoli,

perché siam divisi.

Raccolgaci un'unica

bandiera, una speme:

di fonderci insieme

già l'ora suonò.

Stringiamoci a coorte,

siam pronti alla morte.

Siam pronti alla morte,

l'Italia chiamò, sì!



Uniamoci, uniamoci,

l'unione e l'amore

rivelano ai popoli

le vie del Signore.

Giuriamo far libero

il suolo natio:

uniti, per Dio,

chi vincer ci può?

Stringiamoci a coorte,

siam pronti alla morte.

Siam pronti alla morte,

l'Italia chiamò, sì!



Dall'Alpe a Sicilia,

Dovunque è Legnano;

Ogn'uom di Ferruccio

Ha il core e la mano;

I bimbi d'Italia

Si chiaman Balilla;

Il suon d'ogni squilla

I Vespri suonò.

Stringiamoci a coorte,

siam pronti alla morte.

Siam pronti alla morte,

l'Italia chiamò, sì!



Son giunchi che piegano

Le spade vendute;

Già l'Aquila d'Austria

Le penne ha perdute.

Il sangue d'Italia

E il sangue Polacco

Bevé col Cosacco,

Ma il cor le bruciò.

Stringiamoci a coorte,

siam pronti alla morte.

Siam pronti alla morte,

l'Italia chiamò, sì!


L'elmo di Scipio: L'Italia ha di nuovo sulla testa l'elmo di Scipio (Scipione l'Africano), il generale romano che nel 202 avanti Cristo sconfisse a Zama (attuale Algeria) il cartaginese Annibale. L'Italia è tornata a combattere.

Le porga la chioma: La Vittoria sarà di Roma, cioè dell'Italia. Nell'antica Roma alle schiave venivano tagliati i capelli. Così la Vittoria dovrà porgere la sua chioma perché sia tagliata, perché la Vittoria è schiava di Roma che sarà appunto vincitrice.

coorte: nell'esercito romano le legioni (cioè l'esercito), era diviso in molte coorti. Stringiamoci a coorte significa quindi restiamo uniti fra noi combattenti che siamo pronti a morire per il nostro ideale.

calpesti: calpestati

Raccolgaci: la lingua di Mameli è la lingua poetica dell'Ottocento. Questo raccolgaci in italiano moderno sarebbe ci raccolga, un congiuntivo esortativo che assimila il pronome diretto. Il significato è: ci deve raccogliere, tenere insieme.

una speme: altra parola letteraria e arcaica. Significa speranza. Non c'è però da stupirsi troppo se Mameli usa queste parole. Nella lingua delle canzonette di musica leggera intorno al 1950, queste parole si trovano ancora.

fonderci insieme: negli anni di Goffredo Mameli l'Italia è ancora divisa in molti staterelli. Il testo dice che è l'ora di fondersi, di raggiungere l'unità nazionale.

per Dio: doppia interpretazione possibile. Per Dio è un francesismo e quindi significa "da Dio": se siamo uniti da Dio, per volere di Dio, nessuno potrà mai vincerci.

Certo è però che in italiano "per Dio" può essere anche una imprecazione, una esclamazione piuttosto forte. Che avrà mai voluto intendere Goffredo Mameli? Siccome aveva vent'anni ci piace pensare che abbia voluto lui stesso giocare sul doppio senso (in fondo i suoi rapporti con il Vaticano non erano buonissimi, tant'è vero che è morto proprio a Roma dove combatteva per la Repubblica)

Dovunque è Legnano: ogni città italiana è Legnano, il luogo dove nel 1176 i comuni lombardi sconfissero l'Imperatore tedesco Federico Barbarossa

Ferruccio: ogni uomo è come Francesco Ferrucci, l'uomo che nel 1530 difese Firenze dall'imperatore Carlo V.

Balilla: è il soprannome del bambino che con il lancio di una pietra nel 1746 diede inizio alla rivolta di Genova contro gli Austro-piemontesi

I Vespri: nel 1282 i siciliani si ribellano ai francesi invasori una sera, all'ora del vespro. La rivolta si è poi chiamata la rivolta dei Vespri siciliani

Le spade vendute: i soldati mercenari si piegano come giunchi e l'aquila, simbolo dell'Austria, perde le penne.

Il sangue polacco: l'Austria, alleata con la Russia (il cosacco), ha bevuto il sangue Polacco, ha diviso e smembrato la Polonia. Ma quel sangue bevuto avvelena il cuore degli oppressori

venerdì 28 gennaio 2011

Bassolino a processo da tre anni. Ma nessuno lo sa. Andrea Cuomo

C’è un processo che riguarda un importante esponente politico di cui nessun giornale riporta mai notizia. C’è un processo che rischia di naufragare causa prescrizione all’orizzonte e nessuno si straccia le vesti. Domanda: a quale schieramento politico appartiene l’imputato? Risposta (ovvia): al Pd. E così niente inondazione di intercettazioni cortesemente girate da magistrati compiacenti alla stampa nella fase istruttoria, come accade in questi giorni nel caso Ruby, che guarda caso riguarda Silvio Berlusconi, il nemico numero uno della sinistra (e della magistratura). Anzi, nel caso del processo di cui vi vogliamo parlare qualsiasi informazione è ostacolata. Nel processo di cui vi vogliamo parlare, che vede imputato l’ex sindaco di Napoli ed ex presidente della Regione Campania Antonio Bassolino e che è in corso da quasi tre anni a Napoli, telecamere, registratori e cellulari sono vietati, per decisione del procuratore generale del capoluogo campano. Il risultato è che le udienze, decine dal maggio 2008, sono praticamente clandestine e solo chi ha la voglia, il tempo e la competenza per navigare su internet può avere aggiornamenti e resoconti - unicamente scritti - su quello che accade nell’aula bunker di Poggioreale. Informazioni che si devono in parte a Radio Radicale, in parte a qualche cittadino dotato di spirito di servizio che mette in rete resoconti delle udienze, come gli animatori del gruppo «Non censurate il processo Bassolino!», che vanta non pochi proseliti su Facebook. Insomma, chi vuole sapere alla fine sa, ma di certo l’opinione pubblica, quella che si fa un’idea guardando i tg e leggendo i grandi giornali, quella che viene condizionata dall’informazione di serie A, nemmeno sa che Bassolino è sotto processo. E, scommettiamo, l’ignoranza riguarda anche molti tra politici e giornalisti. E così viva il ministro per la Gioventù Giorgia Meloni, che ieri si è incaricata di fare da post-it umano addirittura in diretta tv: «Vorrei sapere - ha detto alla Telefonata su Canale 5 ieri mattina e quindi ben lontana dai picchi di audience - quanti italiani sanno che si sta celebrando il processo all’ex presidente della regione Campania Antonio Bassolino sulla gestione delle discariche. Io non ne ho sentito parlare. L’utilizzo di due pesi e due misure è evidente», conclude la Meloni.
E sì che i reati contestati a Bassolino e agli altri 27 imputati del maxiprocesso non sono da poco: truffa aggravata e continuata ai danni dello Stato, frode in pubbliche forniture, falso e abuso in atti d’ufficio. La vicenda riguarda la gestione commissariale dell’emergenza rifiuti a Napoli - che faceva capo all’allora governatore della Campania Bassolino - nel periodo che va dal 2000 al 2004, l’epoca in cui si sono poste le basi del disastro ambientale che il capoluogo partenopeo sconta ancora oggi. L’impianto accusatorio teorizza che il commissario non avrebbe fatto di tutto per superare l’emergenza rifiuti in Campania, perpetuando una situazione nella quale in molti traevano benefici e guadagni illeciti. Addirittura Bassolino e i suoi sodali avrebbero scientemente posto in essere meccanismi di gestione dello smaltimento dei rifiuti chiaramente inefficaci, in modo da peggiorare la situazione, consentendo a pochi di prosperare e a tutti gli altri - i poveri cittadini di Napoli e dell’hinterland, di annegare nella munnezza. Tra gli imputati anche i vertici di Impregilo, l’azienda costruttrice del termovalorizzatore di Acerra, che gestiva anche grazie all’impresa Fibe. (il Giornale)

Fermare i pazzi. Davide Giacalone

Fermiamo i pazzi. Un gruppo di esaltati e assatanti s’è impadronito del nostro dibattito pubblico, costringendolo a strisciare nel sordido e impedendogli di guardare quale che sia cosa abbia a che vedere con gli interessi collettivi, con i rischi che corriamo, con le opportunità che non cogliamo.

Che senso ha mandare al Parlamento centinaia di pagine d’intercettazioni, segnalandone ai giornali passi ove non si scorge l’ombra di un reato, ma si soffia sul fuoco del discredito, del dileggio, del mettere zizzania? Certo, conosco a memoria l’obiezione dei moralisti senza morale, che sono anche i politicastri senza idee: in nessun Paese del mondo sarebbe possibile vedere al governo chi conduce a quel modo la propria vita privata. Finiscono la frase con l’impressione d’avere detto una grande verità, talmente tale da non potere essere dimostrata. Invece hanno suggellato la propria inutilità: in nessuna democrazia un governante in quel modo colpito e indebolito resta al governo con il consenso degli elettori, perché da nessuna parte c’è un’opposizione di morti viventi, come da noi.

Quando vai al mercato non compri la migliore mela del mondo, non acquisti l’iperuranica perfezione del pomo, porti a casa la migliore disponibile. Nel nostro mercato elettorale Silvio Berlusconi è considerato la scelta preferibile perché le altre sono orribili. Pensare di uscirne sperando che si suicidi o che lo ingabbino per sempre è da pazzi (oltre che da soggetti incapaci di vivere nella democrazia e inadatti a comprendere lo stato di diritto). I giornali di ieri titolavano: “Sesso e Soldi”, riferendosi a Bertolaso. Sono mesi e mesi, anni, che non parliamo d’altro, ma non c’è lo straccio di una sentenza, mentre l’opposizione non è riuscita a creare il simulacro di un’alternativa. Sembrano dementi, non si rendono conto che il loro andare appresso al giustizialismo convince gli italiani che l’altro è comunque migliore. O, se preferite, meno peggiore. Fra una mela ammaccata e una marcia e bacata preferiscono la prima. Ovviamente.

La sinistra è stracolma di falliti che campano solo grazie ai soldi della politica. Gente vecchia che si dimena in lotte antiche, che non ha mai lavorato. Nel frattempo si scopre che alle primarie votano i cinesi di Napoli che, per chi non lo sapesse, sono terreno d’azione della criminalità organizzata. Ebbene, noi queste cose le scrivemmo per tempo, dicemmo che la boiata delle primarie sarebbe stata una trappola. Ci sono caduti e, ora, non sanno che rispondere al Saviano di turno, in regolare ritardo. E fosse solo il giovane divo: la sinistra dei morti viventi e dei mantenuti dipende non solo dalle procure, ma anche dai conduttori televisivi, loro strapagati e arciricchi aguzzini. Scontata la replica: perché, a destra è meglio? Sì, perché in quanto a bassezza se la giocano, ma in quanto a spocchia intellettualoide, almeno, ce la risparmiano. Aggiungo: a destra magari non ti leggono, ma a sinistra non sanno fare altro che maledirti e cercare di cancellarti. Sono pericolosi, nella loro fallimentare frustrazione.

Vorrei dire una cosa, a proposito di Ilda Bocassini. Ci sono vicende e racconti, su di lei, che da anni girano, fra gente che mostra il medesimo ghigno cretino di quelli che oggi si sollazzano con le intercettazioni da lei raccolte e diffuse. Una via di mezzo fra l’adolescente ormonalmente instabile e lo stupido cronico. Ma questo vale per l’una e l’altra cosa, per quel che si narra e per quel che si sbobina. E vale a comprendere che in una lotta del fango si resta tutti infangati. Nella fanga sparisce il valore di ciascuno, compreso quello di un magistrato che seppe, da sola, alzarsi e rimproverare ai colleghi di avere abbandonato Giovanni Falcone all’isolamento e alla sconfitta, preludio della morte.

Allora: fermiamo i pazzi. Questa stagione deve finire. Contare sulla lungimiranza e sulla dignità degli astanti non è saggio, semmai sul loro (animale) spirito di sopravvivenza. Votiamo: i sinistri senza arte né parte torneranno ad avere il seggio per sfamarsi e sentirsi eleganti, i destri più fedeli saranno premiati, qualche “diverso” s’infilerà qui e là, ma sarà poi chiara l’inutilità di puntare subito ad una nuova crisi. Al mondo politico, dopo l’ennesimo lavacro elettorale, dopo il centesimo referendum su Berlusconi, sarà più chiaro il bivio: continuare l’andazzo debosciato e inconcludente della seconda Repubblica, finendo impalati con questa; oppure aprire la storia della terza, riformare le istituzioni e uscire di scena come se si fosse reso un servizio.

giovedì 27 gennaio 2011

Sesso & Soldi. Davide Giacalone

Guido Bertolaso, secondo la procura di Perugia, è un corrotto che, in associazione a delinquere con altri, ha fatto lievitare i costi in capo all’amministrazione pubblica e ha favorito gli amici negli appalti, ricavandone benefici in vil denaro (mediante il pagamento dell’affitto di un appartamento a sua disposizione) e in prestazioni sessuali (la celebre massaggiatrice del Salaria Sport Village), pertanto si chiede che sia rinviato a giudizio e si chiederà, al processo, la sua condanna. Peccato però che, da molto tempo e per mesi, le carte dell’accusa si sono trovate sui giornali, che egli abbia dovuto lasciare il posto che occupava e che il processo arriverà, nel caso sia rinviato a giudizio, quando la pena pubblica è già stata scontata. Ove mai, poi, non fosse mandato a processo o fosse assolto sarebbe una ulteriore beffa, perché sui giornali e nelle radio e televisioni sarà stato ulteriormente dipinto come delinquente: oggi, per la fine delle indagini, poi per l’inizio dell’udienza preliminare, quindi per quando l’accusa parlerà, e così via massacrando.

Peccato, inoltre, che gli viene imputato quel che era nella natura degli appalti pubblici in condizioni d’emergenza, disposta non da lui, ma da governi di diverso colore. L’inchiesta, insomma, è stata prudenzialmente tenuta lontana dalla causa del male.

Ma c’è un altro aspetto, nell’orrore della malagiustizia, che sprofonda nel grottesco: ora che le indagini sono chiuse e si passa alla fase processuale il cittadino Scaiola Claudio non risulta essere stato indagato e, quindi, neanche lo si vuole imputato. Salvo il fatto che il ministro Scaiola si dimise esattamente a causa di qesta inchiesta. Ci mise del suo, con la surreale dichiarazione circa la vendicativa speranza di trovare chi gli aveva pagato la casa. Ma ammise che i conti non tornavano e lasciò l’incarico. Insomma, fece quel “passo indietro” che viene chiesto, a furor di giornali, a tutti quelli che finiscono nelle inchieste. Era lecito, a quel punto, coltivare la speranza che gli implacabili inquirenti avrebbero almeno soddisfatto quella curiosità. Invece, niente. Scaiola è immacolato. Ma anche giubilato. C’è qualcuno in grado di spiegarmi che senso ha?

Oramai è l’intero rito giudiziario ad avere imboccato una via non codificata, ma largamente collaudata: a. si fanno le indagini, naturalmente con ampio uso delle intercettazioni; b. se ne depositano le più clamorose risultanze in redazione, anziché in cancelleria, dimostrando che gli indagati sono degli scellerati, se non dei criminali; c. s’istruisce il processo pubblico, senza neanche l’uso del televoto, per il quale ci stiamo attrezzando; d. si emette la condanna, meglio ancora se l’interessato si condanna per i fatti suoi; e. quindi, conclusa la mattanza, si offrono i resti documentali al processo tribunalizio, che, con comodo, si svolge nei prossimi anni; f. l’esito, naturalmente, non interesserà a nessuno.

In caso di rimpasto, quindi, non sarebbe male se Scaiola tornasse al suo posto, o in altra collocazione ministeriale. Da parte dei colleghi sarebbe una dimostrazione di prudenziale solidarietà, mentre, in questo modo, la procura tornerebbe ad avere un buon motivo per aiutarlo a risolvere il dilemma: chi gli pagò quell’ammezzato, con improvvido affaccio sul Colosseo?

N.B. Ho una mia personale tesi sulle intercettazioni che hanno incastrato Bertolaso: chi parlava al telefono dicendo di togliere dalla stanza dei massaggi lo champagne e di gettare i preservativi, sapeva di essere intercettato e voleva incastrare il capo della protezione civile.
Può sembrare una spy story, ma purtroppo succede anche di peggio in Italia. (maurom)

Italia libera

C'è bisogno di liberare l'Italia da giustizialisti manettari, politici che disprezzano il voto popolare (quando non è a loro favore) da amministratori della cosa pubblica ipocriti, incapaci e ladri e da una magistratura che, facendo politica attiva in un'unica direzione, calpesta le regole e se ne infischia delle leggi.
L'aria che si respira nel nostro Paese da quando Berlusconi è entrato in politica, è ammorbata, irrespirabile e soffocante.
Sembra di vivere in un incubo dove la realtà è distorta e nessuno se ne accorge; dove i fatti non sono quelli che accadono, ma l'interpretazione che ne viene data; dove la parola di qualcuno è verità, quella di altri è menzogna a prescindere; dove c'è chi ti dice cosa e come pensare; dove il rispetto, la presunzione di innocenza, la tolleranza e i principi morali sono calpestati.
Basta!
Italia liberati ed esci dall'incubo!
Nel 1994, con grande coraggio e lungimiranza, Berlusconi volle chiamare il suo movimento "Forza Italia": era un'esortazione, una speranza e un invito all'azione.
Vorrei provare a suggerire il nome che pare debba sostituire la denominazione "Popolo delle Libertà".
Propongo: "Italia libera".
Libera dalle ideologie totalitarie, dalla criminalità, dal malcostume, dalla povertà, dal malaffare, dalla malagiustizia, dalla guerra, dalle malattie, dalla cattiveria, dall'inciviltà, dall'ipocrisia ....
Voglio un'Italia bella, libera, pulita, accogliente e generosa come siamo noi italiani.
Liberiamo l'Italia e facciamo l'Italia libera.

Fra la tonaca e la toga. Davide Giacalone

L’idea di un governo con il centro destra e senza Silvio Berlusconi è una speranza cui si uniscono in molti, fra politici, giornalisti e palazzi romani, anche se non sanno descriverne né i contorni né la legittimità. Mi stupisce quanta brava gente non comprenda il punto che consente a Berlusconi, nonostante tutto, di mantenere un vantaggio elettorale: la resistenza agli attacchi giudiziari. Il calore polemico offusca la mente e molti non si rendono conto di quanto alto sia il discredito della nostra giustizia. Pochi numeri, di una ricerca effettuata da Ferrari Nasi & Associati, la dicono lunga: il 54% degli italiani hanno poca o nessuna fiducia nella magistratura, collocandosi sopra la media europea; per il 56 i magistrati agiscono a fini politici; per l’86 un magistrato che sbaglia deve pagare, contrariamente a quel che avviene oggi; e per il 68% i magistrati dovrebbero essere controllati da un organismo indipendente, non composto da loro colleghi. E non si dica che gli italiani sono troppo severi, perché sono assai più generosi dei giudici che siedono alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ci considerano direttamente incivili.
Gli italiani si sono fatti idee personali su quale possa essere il grado di responsabilità di Berlusconi, per ciascuna delle mille cose che gli sono imputate. E’ escluso che lo considerino un santo, ma gli riconoscono il miracolo di non avere ceduto. Una fetta consistente degli elettori ha continuato e continuerà a votarlo proprio per questo, perché sente che un nuovo colpo giustizialista, nuove condanne senza processi, incarnerebbe l’incubo della Repubblica giudiziaria. Del resto, diciassette atti d’inchieste penali offrono pezze d’appoggio per considerarle una persecuzione, anche prima che la commissione parlamentare considerasse tali le intercettazioni disposte dalla procura di Milano.

C’è di più: finché accusano Berlusconi d’essere il mandante delle stragi mafiose c’è chi reagisce con disinteressata incredulità e chi ricorda che la presunta contropartita la pagarono Ciampi e Conso, ma quando le accuse si spostano sul terreno delle personali debolezze, della sessualità compulsiva, allora in molti riconoscono il mondo che li circonda, e se non ci trovano nulla in comune con la propria vita avvertono, comunque, che si tratta di una vita, e allora l’inquietudine cresce. Chi si salva, se il peccato diventa reato? Allora, deducono in molti, meglio tenersi Berlusconi, che resiste e attira i fulmini.

Detto in altre parole, visto che certuni sono duri di comprendonio: la forza elettorale di Berlusconi è in buona parte dovuta alla cieca rabbia dei suoi avversari, al moralismo senza etica e all’uso strumentale della giustizia, che convincono gli italiani di quanto sarebbe pericoloso subirne le attenzioni.

Sollecitare Berlusconi a fare un “passo indietro”, dunque, significa non avere capito la persona (e passi), ma neanche l’Italia. Quel pentolone melmoso che sobbolle da quando la democrazia fu violentata per via giudiziaria (da quando un’intera classe politica fece il passo indietro, e fu decapitata). E’ vero, il popolo applaudì. Ma fu svelto a capire il seguito e interrompere la scena, consegnandosi nelle mani del più schietto prodotto del manipulitismo: Berlusconi. Sono gli intellettualoidi idioti a non capirlo, in compagnia degli speculatori manettari.

Pertanto, ove mai si trovi il tempo e la lucidità per pensare all’Italia e a chi ci abita, la si smetta con questa solfa deprimente, che in nome di un’avversione antropologica contro l’italiano più italiano pretende che l’intera collettività rinneghi la laicizzazione e la libertà nel disporre di sé. E’ vero, Berlusconi manca di rispetto per la gravitas della pubblica funzione. Ora che l’ho ripetuto posso pure sentirmi sollevato, ma per niente gratificato dall’avere detto una cosa significativa. La via d’uscita non consiste nel convocare al capezzale il parroco e il giudice, ma nel chiamare la politica ai suoi doveri.

Il governo ha un programma, se ne controlli l’attuazione, senza lasciare alla logorrea ministeriale l’elencazione delle “cose fatte”. Serve misurare i cambiamenti reali, mica i bolli apposti. E serve richiamare le opposizioni alla realtà: piantatela di misurarvi fra di voi calcolando la rispettiva distanza da Berlusconi, sembrate matti. Quando vi farà lo scherzo d’abbandonarvi non saprete più che cavolo esistete a fare. Piantatela con le primarie senza regole, che riuscite anche a violare: tanto a Napoli vincono i bassoliniani, come prima vincevano i gavianei e prima ancora i laurini. E’ inutile che vi attacchiate a Bagnasco, perché gli elettori guarderanno l’alternativa ed eviteranno di finire stritolati fra la tonaca e la toga. Finché voi sarete quel che siete Berlusconi sarà forte, a dispetto di tutto.

Gli chiedono un passo indietro e dovrebbero esigerne dieci in avanti, mentre un Paese fermo continua a tenerselo, per non ritrovarsi esposto sulla prima linea della maniacalità inquisitoria.

mercoledì 26 gennaio 2011

Federalismo interessato

Dietro il federalismo si combatte una dura battaglia politica come dimostrano le parole rilasciate da Enrico Letta del Partito democratico e indirizzate alla Lega: il federalismo interessa anche a noi, ma se resta Berlusconi la riforma è a rischio.

Parole che dimostrano come nel Pd l’obiettivo di eliminare Berlusconi dalla scena politica prevalga sugli interessi del Paese.

martedì 25 gennaio 2011

C'era una volta un Re: amava pupe e sollazzi... Marcello Veneziani

C'era una volta un Re che regnava a distanza su una repubblica di parti­ti, mafie e conventicole. Non voleva fare il premier o sporcarsi con la politica e il voto popolare; preferiva restare sempli­cemente il Padrone. Per lui le plebi puz­zavano, interessavano solo come consu­matori e sudditi, mica come cittadini ed elettori sovrani. Nessuno osava sparlare di lui e dei suoi prodotti che inondavano il Paese e mezzo mondo.

Il suo Paese fu disegnato a immagine e somiglianza dei suoi interessi. Il Re si oc­cupava di mezzi di comunicazione in va­ri sensi; anche lui aveva i suoi giocattoli per la ricreazione e lo sport. Faceva affari anche lui con i cattivi del pianeta e del Paese, ma nessuno fiatava. I suoi interessi aziendali e familiari con­dizionavano pesantemente il suo Paese che si caricava i suoi debiti, ma non intac­cava i suoi privilegi. Vendeva armi e pro­dotti ritenuti cancerogeni, ma non si po­teva dire in pubblico. Se i suoi prodotti erano peggiori di quelli della concorren­za nessuno osava pubblicare un’inchie­sta sulla loro qualità, anche perché i prin­cipali giornali per vie dirette e indirette erano controllati da lui; e gli altri erano condizionati da banche e pubblicità del suo gruppo o controllate. Dissero una volta a un giovane che fondò un settima­nale: sparla di tutti, attacca pure la mafia, ma non toccare lui e il suo regno. Finisci male, ti fanno chiudere.

Il Padrone amava divertirsi in modo as­sai pesante: donnine, cocaina e tanto al­tro ancora. Ma nessuno mai vide una fo­to hard sui suoi sollazzi e le sue pupe, mai un’intercettazione sconveniente, mai un’inchiesta,mai un giudice che osò varcare i cancelli della sua sacra privacy. Quel che era servile omertà passava per sua signorile sobrietà. I direttori andava­no in ginocchio da lui, gli baciavano i pie­di e se sapevano dei giochini o di qualche brutta storia della sua famiglia, in pubbli­co mettevano a tacere e al suo cospetto facevano le fusa per compiacerlo. Di quel Re permane il devoto ricordo dei be­­neficiati e il pietoso silenzio di tutti. Auto­dafè. Per fortuna questa è una favola; quel Re, quei servi e quel Paese non sono mai esistiti... (il Giornale)

Cari compagni, per il nostro bene, fermatevi

Lettera aperta di un blog di sinistra contro l'eccesso di giustizialismo

Care compagne e cari compagni, per carità, per il nostro bene, fermatevi.

Il nostro avvenire, la libertà, i nostri diritti e quelli delle persone colpite dalla crisi e dall’ingiustizia sociale, non possono essere affidati alla legge e alla violenza dello Stato. Ai tribunali. Alla repressione. In passato ci è capitato, qualche volta, di pensarlo. Poi abbiamo capito che sbagliavamo.

Non possiamo sperare nel carcere, nell’arresto dell’avversario più detestato, nei sistemi di intercettazione a tappeto, nella logica dei corpi separati e persino nell’intervento del Vaticano per ottenere ciò che non abbiamo ottenuto con il consenso.

Nel giustizialismo non c’è meno oscurità che nel comportamento arrogante della politica di potere.

Rischiamo di trasformare il popolo della sinistra, dei democratici, in tricoteuses compiacute e senza idee, che se ne stanno lì davanti alla ghigliottina e assistono al Terrore rivoluzionario mediatico e alle controffensive della Vandea. Oppure in castigatori moralisti dei comportamenti privati e sessuali di chicchessia, fino ad invocare l’ingerenza della Chiesa sulla politica, e a scagliarci contro le donne poco castigate, contro i libertini, contro gli eccessi sessuali, o contro il peccato.

Certo, cari compagni, nel nostro passato abbiamo qualcosa che non va. Vi ricordate quando pensavamo che la “celere” e le leggi speciali e le carceri e le proibizioni fossero il modo giusto per risolvere il disagio sociale o la ribellione dei giovani? E mettere in salvo la linea del partito? Vogliamo liberarci di quel passato, oppure vogliamo riprodurlo tale e quale, ma senza avere più il partito, né la linea, e senza esserci accorti di quanto sono cambiate le cose?

Che vuol dire per noi essere di sinistra? Più o meno significa questo: indicare una missione e obbiettivi per la crescita dell’equità, della giustizia, della libertà. Giusto? Ma qualcuno ci dice: “D’accordo, avete ragione, ma per ora c’è una emergenza più grande della giustizia sociale o della libertà. Questa emergenza è la lotta contro la corruzione e contro il malcostume”.

Giusto, la corruzione va perseguita. Ma non è l’emergenza delle emergenze. E la corruzione va perseguita, ma non, come fu nel ’92-’94, decapitando una classe politica, o esercitando la pressione della carcerazione preventiva, a volte abusiva. E’ troppo lunga la lista di errori, di vittime, di interferenze nella vita politica dovute a processi mediatici o sbagliati. Dobbiamo difendere il sistema dei diritti dell’imputato la cui salvaguardia risale a prima della stessa Rivoluzione francese. E la corruzione va combattuta sì con le indagini, ma soprattutto con l’efficienza e la trasparenza delle funzioni pubbliche, come dicono i rapporti dell’Ocse sull’argomento: perchè una società in cui lo Stato non funziona finisce per avere bisogno di corrotti o servi per funzionare.

L’esercizio della giustizia deve essere efficace, ma esemplare nel rispetto delle regole e nella sobrietà dei comportamenti, più di quanto non spetti agli imputati. Il braccio della legge deve esercitarsi senza ossessioni di protagonismo. I poteri di indagine non devono ridurre i cittadini, testimoni o sospettati, a numeri di telefono intercettabili e a condannati molto prima del giudizio, né a quei poteri debbono sommarsi considerazioni moralistiche, né va utilizzato in modo devastante il circuito mediatico come prima ed ultima sede di sentenza.

Non lo credevamo, ma oggi la sinistra rischia una involuzione autoritaria, rischia di abituarsi a pratiche liberticide.

E per di più questa involuzione si realizza circondata da una sorta di consenso totalitario, che si somma alla paura del dissenso per meschine finalità politiche o elettorali. E’ una doppiezza che abbiamo allontanato da tempo, e che non renderà più credibili i propositi di riscatto sociale, non sanerà le divisioni, ma renderà la società meno libera e più ingiusta.

Cari compagni, evitiamo di trasformare la sinistra in una nuova destra, pulita e reazionaria, bigotta e illiberale, antifemminsita, moderata e populista. Siamo ancora in tempo. L’Italia ha bisogno della sinistra. Non ha bisogno di manette né di intellettuali o di politici che giocano a fare gli sbirri. (http://www.thefrontpage.it/)

Piero Sansonetti
Fabrizio Rondolino
Ottaviano Del Turco
Claudio Velardi
Massimo Micucci
Enza Bruno Bossio

lunedì 24 gennaio 2011

Caro Cav., c'è un’unica risposta al golpe: il contro-golpe. Milton

Il circo dei giannizzeri dell’antiberlusconismo sta godendo di un periodo di rinnovato fulgore, grazie all’inverosimile atto di spionaggio costruito ai danni di una delle più alte cariche dello Stato (ma i Servizi, da che parte stanno?), l’invasione nella vita personale di un privato cittadino e l’illegittima procedura d’indagine nei confronti di un parlamentare della Repubblica.
Golpisti, sciacalli, turbati e falsi moralisti fanno a gara nelle TV e sui giornali, con gli occhi intrisi di sangue e la bava alla bocca, illusi che questa sia la volta buona per mandare a casa il Caimano famelico nell’unico modo del quale sono capaci: sovvertendo il voto popolare con un atto di eversione.

A dire la verità ci aveva già provato il povero Fini, inconsapevole dei suoi limiti intellettuali e di leadership. Caso più unico che raro, la terza carica dello Stato, abituato a interloquire con procuratori, a microfoni spenti, sulle caratteristiche autoritarie di Berlusconi, ha tentato negli ultimi due anni di logorare il governo e il Premier, bloccando, tra l’altro, ogni provvedimento sulla giustizia (ma guarda un po’!), per poi orchestrare un miserrimo gruppuscolo di traditori eletti nel PdL e convergere nel cosiddetto Terzo Polo, una specie di ricettacolo di “numeri due” ormai tristemente avviati alla soglia dei sessant’anni, senza aver combinato nulla. La disfatta del 14 Dicembre, con il Governo che raccoglie la quarta fiducia in tre mesi, ha poi dimostrato la pochezza e l’inconsistenza di Fini e dei suoi sodali.

Qualche giorno dopo (che coincidenza), la procura di Milano, iscrive Silvio Berlusconi nel registro degli indagati e all’indomani della decisione della Corte Costituzionale sul legittimo impedimento (che coincidenza), scoppia il caso Ruby.
Sull’intento golpista dei magistrati inquirenti della Procura di Milano, amici di quelli che stappavano bottiglie di spumante all’indomani della bocciatura del Lodo Alfano, non c’è dubbio alcuno. La tempistica puntigliosamente precisa, il metodo, uno spiegamento per le indagini di forze, mezzi e denaro pubblico senza precedenti, il merito, la non competenza e il fatto che non ci sia né la vittima dello sfruttamento né il concusso della concussione.
E così, famelici, arrivano gli sciacalli, con a capo sempre Fini, che si avventano sulla preda intervenendo ogni giorno a sostegno dei magistrati e della legalità (che normalmente per loro si ferma a Montecarlo o all’ufficio programmi RAI), pur di affossare colui che li ha tirati fuori dalle fogne, ripuliti ed eletti.
Ci sono poi i turbati, che fanno riferimento all’inquilino del Colle. I turbati, ovviamente, si turbano, il Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana è spiato nella sua residenza privata dai magistrati della procura di Milano e il Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura cha fa? si turba, e di turbamento in turbamento, i golpisti minano, ormai irrimediabilmente, l’ordine democratico.

Ci sono poi i turbati moderati, ex-amici tra i quali si staglia l’ex Presidente di Confindustria Montezemolo, che notoriamente avvezzo alla vita monastica, si mostra anch’esso enormemente turbato del fatto che Silvio Berlusconi dia feste nella sua residenza privata.

Infine ci sono i moralisti, i sepolcri imbiancati che sono costretti a fare i calvinisti anglosassoni e che preferiscono evidentemente una fellatio nello studio ovale della Casa Bianca a una ragazza scosciata nella residenza privata di Berlusconi, che preferiscono lasciar morire di fame e sete Eluana Englaro nei giorni feriali e baciare i piedi del Cardinal Bertone la domenica.

Presidente Berlusconi, c’è una sola risposta a un golpe: un contro-golpe. Lei deve a coloro che l’hanno eletta e a chi in questi giorni è irriso e sbeffeggiato dai numerosi servi sciocchi che albergano in TV e sui giornali, una riforma della giustizia dura e senza sconti, a cominciare dalla responsabilità civile dei magistrati (per la quale il popolo italiano si è già per la verità espresso) fino alla separazione delle carriere, dall’abrogazione dell’obbligatorietà dell’azione penale alla reintroduzione dell’immunità parlamentare, per finire con una legge che limiti lo stillicidio delle intercettazioni e la loro pubblicazione sui media. Il tutto va fatto senza indugio e a colpi di maggioranza (se veramente c’è), mobilitando il popolo del PdL pronto a circondare, se serve, la Procura di Milano.
E poi dritti alle elezioni. (l'Occidentale)

L'Albania non è un'altra Tunisia. Carlo Panella

Tre morti e una sessantina di feriti in piazza (tra questi molti poliziotti) ed ecco che, inaspettatamente, la rivolta tunisina pare contagiare la riva settentrionale del Mediterraneo e sconvolgere una Albania che pareva tanto assestata da essere divenuta nel 2009 membro della Nato, Come sempre, i “democratici” di Sali Berisha accusano i “socialisti” –oggi guidati da Edi Rama- di ogni nefandezza e sta di fatto che mentre Berisha nega addirittura che la polizia possieda le armi che hanno ucciso e ferito i manifestanti socialisti, la Procura generale ha emesso 6 ordini di cattura contro militi della Guardia Repubblicana a smentita della tesi dello stesso premier che negava che la polizia possedesse le armi che hanno sparato e ferito (anche un filmato conferma che a sparare sono stati membri della Gr). Ma è ben difficile che la dinamica albanese segua quella tunisina, anche perché quello di Berisha non è affatto un regime rigido e autoritario come quello di Ben Ali (pur essendo molto corrotto), non fosse altro perché il suo governo è frutto di regolari elezioni nel 2009. Ma Edi Rama, un fantasioso architetto che ha reso più piacevole Tirana e che ha sostituito lo storico leader socialista Fatos Nano, contesta proprio la regolarità di quel voto, accusa Berisha di brogli e forse non ha la coscienza tanto pulita quanto alle violenze scoppiate in piazza. Non è infatti questa la prima volta che il sangue scorre nelle strade albanesi, per responsabilità vuoi degli uni, vuoi degli altri, tanto che nel 1998, dopo l’uccisione in un attentato del deputato Azem Hajdari, vi fu una sorte di golpe, per iniziativa di alcuni “democratici”, che fece ben 2.000 morti. La realtà vera, di fondo, è che l’Albania paga tutt’oggi il prezzo drammatico ai 44 anni di dittatura comunista di quel folle satrapo orientale che era Enver Hoxa, che distrusse l’economia del paese, terrorizzò gli albanesi con una ferocia spietata (la sua Albania era l’unico “Stato ateo del mondo”, sacerdoti e suore vennero perseguitati e massacrati) e arrivò addirittura a schiantare il nucleo base della società, la famiglia (le migliaia di bimbi che scapparono da soli in Italia da Durazzo nel 1991 dimostrarono una incredibile assenza di vincoli e affetti familiari indotta dal comunismo). Ma dopo i primi anni caratterizzati da una illegalità totale (il sud in cui i socialisti sono maggioritari era in mano agli “scafisti” di Valona che traghettavano in Italia migliaia di clandestini e controllavano il traffico della prostituzione, il nord in cu i socialisti sono maggioritari, pullulava di traffici di ogni tipo -in testa la droga- al centro, Tirana, era e in parte è ancora sentina di ogni traffico e di molta corruzione). Ma, nonostante tutto questa, va detto che nel corso degli anni, lentamente, si è innescato uno sviluppo virtuoso: molte aziende italiane hanno fatto consistenti investimenti e creato lavoro, il paese ha iniziato a produrre e a darsi istituzioni e scuole più che decenti e la stessa vita politica ha iniziato a strutturarsi. C’è stato sì lo scandalo delle “piramidi finanziarie” che ha travolto il governo Berisha nel 1997, una anteprima dei trucchi di Bob Madoff e della peggiore Wall Street, ma poi il paese ha assorbito il colpo e il suo ingresso nella Nato è stato il suggello di una normalità non ancora acquisita, ma alle viste. Ora, una nuova, grave, scossa di assestamento, che potrà anche drammatizzarsi, ma che difficilmente produrrà un “regime change” come a Tunisi, non fosse altro perché quello di Berisha non è affatto un regime. (Libero)

A sinistra scocca l'ora dei devoti "papagliacci". Marcello Veneziani

Ma con che faccia invocate il Papa, il ritorno ai principi morali e tifate per i Vescovi riuniti da oggi ad Ancona? Io vi ricordo, uno per uno, voi laici, radical e di sinistra quando prendevate in giro i bac­chettoni e giudicavate i richiami alla mo­rale come un'ipocrisia di preti e conformisti. E non parlo di preistoria, non mi rifac­cio al '68, mi riferisco a cose più recenti, per esempio quando Clinton abusava sessualmente di una stagista ma per voi il sesso non poteva far cadere un presiden­te... O quando difendevate i due gay che facevano sesso al Colosseo e censuravate i repressori e non chi dava pubblico spet­tacolo ed esempio. Vi ricorderete di difen­dere il Papa e i Vescovi quando torneran­no a condannare il disordine sessuale e omosessuale, l'oscenità, l'aborto, i pecca­ti? O tornerete a considerarle un'ingeren­za indebita, dopo aver tirato per la tonaca Papa e Vescovi perché entrassero nei let­ti d'Arcore a dannare il satiro infedele? Che aspettate a invocare la Santa Inquisi­zione ad personam, solo per Berlusconi e i suoi, e il rogo per le escort, le streghette del terzo millennio?

La Chiesa fa bene a deprecare il degra­do morale d'Italia, dai Palazzi del Potere ai sobborghi. È la sua missione. Ma la mo­rale è una cosa seria, discende da una tra­dizione, comporta il rispetto di un ordine e il senso del limite. C'è il piano morale per la coscienza, c'è il piano etico per il costume, c'è il piano giudiziario per i rea­ti, c'è il piano politico per le leggi. Se unifi­cate i piani, voi convertiti stagionali alla Morale, date ragione agli Ayatollah, invo­cate il ritorno alla teocrazia medievale.

Trovo indecente il vostro richiamo ai principi morali, al pudore e alla vergo­gna. Siete la caricatura della moral majo­­rity, della destra antica e tradizionalista, perbenista e moralista. Caricatura per­ché fuori tempo e fuori luogo, cioè fuori dal contesto in cui assumono coerenza quelle posizioni. Da uomo di destra qua­le fui e - per quel che può valere oggi ­sono ancora, detesto questa destra acefa­la, falsa e opportunista che rivive in ma­schera a sinistra. La libertà sessuale, a cui avete istigato per una vita, è andata al po­tere. Di che vi lagnate, papagliacci? (il Giornale)

venerdì 21 gennaio 2011

La squadra del Pdl per l'attacco mediatico.

E' divenuto insopportabile lo strazio di esponenti, anche importanti, del Pdl fatti a pezzi da scafati e spesso prepotenti rappresentanti dell'opposizione con il determinante aiuto di conduttori faziosi,  nel corso di trasmissioni televisive o radiofoniche.
L'arroganza, la protervia e spessisssimo la malafede degli interlocutori mettono in seria difficoltà i componenti della maggioranza o del governo, intervenuti in trasmissione, che non sono aggressivi e navigati come certi professionisti della prevaricazione.
Il risultato è che i nostri passano per impreparati, dalla parte del torto e fanno perdere voti.
Mi permetto di fare un elenco, di cui mi assumo la responsabilità e che non considero esaustivo, di deputati e senatori del Pdl che possono ben figurare e che sanno rintuzzare gli attacchi dei professionisti del contraddittorio radio-televisivo.
Mi limito alla segnalazione di coloro che almeno qualche volta si sono visti in dibattiti televisivi o sentiti in trasmissioni radiofoniche: sicuramente avrò tralasciato qualcuno, ma l'elenco che segue mi pare sufficientemente numeroso.

Deputati del Pdl (in ordine alfabetico):
Alfano Angelino, Bernini Anna Maria, Brunetta Renato, Carfagna Mara, Carlucci Gabriella, Cazzola Giuliano, Crosetto Guido, Frattini Franco, Gelmini Mariastella, Ghedini Niccolò, La Russa Ignazio, Lorenzin Beatrice, Lupi Maurizio, Mantovano Alfredo, Mussolini Alessandra, Nirenstein Fiamma, Pecorella Gaetano, Prestigiacomo Stefania, Ravetto Laura, Romani Paolo, Rotondi Gianfranco, Santelli Jole, Stracquadanio Giorgio,Tremonti Giulio, Vito Elio.
Altri onorevoli che si difendono bene nel loro ruolo, ma non sempre prevalgono nei contraddittori:
Bertolini Isabella, Bonaiuti Paolo, Boniver Margherita, Cicchitto Fabrizio, Craxi Stefania, Farina Renato, La Loggia Enrico, Landolfi Mario, Meloni Giorgia.

Senatori:
Berselli Filippo, Bondi Sandro, Cantoni Gianpiero, Colli Ombretta, Dell'Utri Marcello, Gasparri Maurizio, Giovanardi Carlo, Quagliariello Gaetano, Sacconi Maurizio, Schifani Renato, Vizzini Carlo.

Ci sono poi tre fuori quota che sono anche fuoriclasse:
Daniele Capezzone, Daniela Santanché e Vittorio Sgarbi.

giovedì 20 gennaio 2011

Silvio, sei tutti noi

Berlusconi non fa bene ad attaccare i magistrati, fa benissimo!
L'ultracasta deve rendersi conto che non deve permettersi l'impunità assoluta: la legge è uguale per tutti e quindi anche i magistrati devono sottostare alle regole.
L'azione penale è obbligatoria? Allora che "aprano un fascicolo" a carico di ignoti per la fuga di atti istruttori.
Indaghino su chi ha autorizzato la montagna di intercettazioni senza la notizia di reato.
Verifichino che gli interrogatori e le perquisizioni di TESTIMONI siano state fatte nel rispetto della procedura.
Certamente i magistrati politicizzati sono una minima parte della magistratura e proprio per questo il bubbone deve e può essere estirpato al più presto.
La riforma è urgentissima.
Altra considerazione: è invalso l'uso di considerare la magistratura un potere dello Stato. Niente di più scorretto. La magistratura è un ordine che espleta il potere giudiziario, ovvero applica le leggi che, invece, sono approvate dal Parlamento, titolare del potere legislativo.
Berlusconi, cari amici sinistri, è l'unico che ha il coraggio di dire quello che pensano milioni di italiani perché non ha scheletri da nascondere. Questo, certi magistrati lo hanno capito e gli scheletri glieli mettono loro nel metaforico armadio.
Perché la riforma della giustizia non riesce a vedere la luce? Perché molti magistrati sono in Parlamento e certi parlamentari, evidentemente, non se la sentono di inimicarsi l'ultracasta.
Volete un esempio: per l'indagine relativa all'appartamento di Montecarlo si è saputo dell'iscrizione nel registro degli indagati di Gianfranco Fini solo ad archiviazione avvenuta, per Berlusconi non c'è mai stato il minimo rispetto e gli avvisi di garanzia ( per reati insussistenti) gli arrivano con il quotidiano del mattino assieme alla trascrizione delle sue telefonate.
E poi non dovrebbe attaccare?

Ascoltate "Stampa e Regime"

Per chi non la conoscesse, vorrei segnalare la rassegna stampa di Radio Radicale http://www.radioradicale.it/dirette curata per buona parte della settimana da Massimo Bordin.
Dalle 7,30 alle 8,30 con replica dopo una mezz'ora, "Stampa e Regime" è la più imparziale rassegna stampa che si possa ascoltare.
Massimo Bordin, direttore emerito di Radio Radicale, è stato definito da il Foglio il conduttore che con un colpo di tosse e una schiarita di gola commenta da vent'anni la politica italiana meglio di cento editoriali.
Non fa male ascoltare questa emittente anche per le numerose dirette che, in convenzione con lo Stato, trasmette dal Parlamento, dai congressi di partito e dai convegni di interesse socio-politico, nonché per le dirette con gli ascoltatori senza filtri o censure.

martedì 18 gennaio 2011

L'attacco alle libertà individuali. Piero Ostellino

Se la magistratura volesse intercettare il presidente del Consiglio dovrebbe chiederne l'autorizzazione al Parlamento; che (probabilmente) non la concederebbe. Così, gli inquirenti del «caso Ruby» - non potendo intercettare il presidente del Consiglio - hanno monitorato in vari modi le persone che ne frequentavano le abitazioni private e che perciò stesso sono finite sui giornali. Uomini che, nell'immaginario collettivo, sono, ora, l'archetipo del vecchio porcaccione; ragazze che una certa opinione pubblica immagina - diciamo così - disposte a concedersi a chiunque in cambio di una raccomandazione.

Qui, le (supposte) «distrazioni» di Berlusconi - delle quali, se passibili di sanzione giudiziaria, risponderà eventualmente in Tribunale - non c'entrano; qui sono in gioco persone le cui libertà individuali, fra le quali quella alla privatezza e alla dignità, sono state violate due volte: innanzi tutto, per essere state monitorate solo perché avevano frequentato le abitazioni private del presidente del Consiglio; in secondo luogo, per essere, adesso, segnate con un marchio morale di infamia agli occhi dell'opinione pubblica. Diciamola tutta: da che mondo è mondo, se si dovessero pubblicare le generalità di uomini e di donne dediti a certi esercizi non basterebbero le pagine degli elenchi telefonici, altro che le pruriginose cronache dei giornali! E, poi, a che pro? Mettiamola, allora, per un momento, sul paradosso. Personalmente, non ho alcuna familiarità con Silvio Berlusconi, non sono mai stato invitato in una della sue abitazioni; tanto meno in compagnia di ragazze di bella presenza. Ma, dopo quanto ho letto sui media, dico subito che se, per una qualsiasi ragione, il presidente del Consiglio mi volesse vedere, lo pregherei di incontrarci a Palazzo Chigi, magari in presenza del mio vecchio collega e amico Gianni Letta, o lo inviterei io stesso in qualche ristorante milanese dove vado con mia moglie e i miei nipotini. La prospettiva di finire sui giornali, dopo un incontro ad Arcore, come partecipe di un rito «bunga bunga» - che, a dire la verità, non ho neppure ancora capito che diavolo voglia dire; i lettori mi perdoneranno, sono un uomo all'antica - la trovo francamente surreale e inaccettabile.

Per essere ancora più chiaro. Di fronte a un'ipotesi di reato - e soprattutto un'ipotesi di reato che riguardi la prostituzione di una minorenne - è legittimo che la magistratura chiami Berlusconi a risponderne ed è, altresì, sperabile che lui vada a difendersi in un'aula di tribunale (invece di farne una questione politica) come ogni altro cittadino, fatte salve le prerogative proprie del suo ruolo, come ha riconosciuto la stessa Corte costituzionale. Non mi pare, invece, né consono a uno Stato di diritto né, tanto meno, a un Paese di democrazia liberale, diciamo pure, civile, che - per suffragare le accuse nei suoi confronti - si siano monitorate centinaia di altre persone, finendo con infangarne la reputazione, quale essa sia o si presuma che sia. L'idea che, d'ora in poi, sul bavero delle giacche di un certo numero di cittadini sia stato applicato, ancorché metaforicamente, un marchio quasi razzistico - ai maschi, il distintivo delle proprie senili debolezze; alle donne, quello della propria (supposta) disponibilità a soddisfarle - per il solo fatto di aver frequentato certe abitazioni, dovrebbe essere, per la coscienza di ciascun italiano, una mostruosità non solo giuridica, ma morale. Il Paese dovrebbe rifletterci se non vuole precipitare definitivamente nella barbarie.

L'agenzia inglese Reuters - si badi, inglese, un Paese dove la presunzione di innocenza è scritta nella tradizione, nel costume, nella storia, prima che nella legge - nel dare la notizia delle accuse a Berlusconi, ha rivelato anche la fonte dalla quale le aveva apprese: ambienti vicini agli stessi inquirenti. Anche qui non voglio entrare nel merito delle accuse. Mi limito a segnalare che, per ora, in attesa che la magistratura ne precisi la natura attraverso una serie di prove fattuali in sede di giudizio, tutto ciò che appare dai media è che anche al bavero della giacca dell'«inquisito» Silvio Berlusconi è stato applicato un marchio di infamia morale e che ciò, quale sia poi l'esito di un eventuale processo, è già sufficiente ad averne infangato l'immagine e la reputazione.

Questa non è una difesa del capo del governo, cui già provvedono lui stesso e i suoi avvocati, ma di alcuni principi che dovrebbero presiedere a ogni inchiesta giudiziaria e al giudizio di ciascuno di noi. Berlusconi ne risponda in un'aula di tribunale, dove, i suoi legali - che, finora, non hanno di certo goduto degli stessi mezzi di indagine, per non dire della complicità di certi media, di cui ha goduto la magistratura inquirente - sarebbero finalmente su un piano di parità con l'accusa.

Contemporaneamente, però, la domanda alla quale forze politiche, media, opinione pubblica, perché no, la stessa magistratura, mi piacerebbe volessero rispondere è se lo spettacolo cui stiamo assistendo sia quello di cui andare fieri come cittadini di un Paese appena normale. Tanto dovevo, non a Berlusconi, ma a quello straccio di verità cui dovrebbe sempre tendere ogni spirito libero. (il Corriere della Sera)

Un "sì" che umilia la sinistra

Vince chi prende più voti. Accade e viene riconosciuto non soltanto in tutte le democrazie del mondo, ma anche in ogni libera associazione, perfino nelle bocciofile emiliane tanto care a Bersani. A Mirafiori il 54% dei dipendenti ha detto sì all’accordo per nuovi investimenti e il 46% ha detto no. Eppure larga parte della sinistra ha festeggiato e brindato. Sindacalisti, politici, intellettuali e giornalisti hanno raccontato perché e per come ha perso chi ha vinto, con un singolare rovesciamento del significato del voto e quindi della stessa regola principe della democrazia partecipata. Si è parlato di risultato “sul filo del rasoio” (otto punti di differenza non sono proprio niente), si è ragionato di lavoratori, quelli del sì, privi di dignità e orgoglio (“uomini e no” il titolo del Fatto), si è scritto che “hanno detto no quasi tutti” (mandate le tabelline alla direttora dell’Unità), hanno insomma fotografato il referendum applicando il filtro rosso dell’ideologia salottiera di sinistra, grazie al quale il voto “amico” è “più responsabile” e come tale vale doppio.

Silvio, fatti da parte

Chi non vorrebbe avere tra le mani il corpo di quella faccia da schiaffi di Ruby?
Alzi la mano chi avrebbe rifiutato di toccarla.
Quella sfrontata figlia del Marocco ha un corpo prepotentemente provocante e lei ne è ben consapevole: difficile tenere le mani a posto, anche per la voglia di prenderla a schiaffi.
Silvio, lo sanno anche i sassi, ha un cuore tenero e particolarmente predisposto all'innamoramento: difficile sottrarsi al fascino perverso di certe femmine (lo scrivo con rispettosa consapevolezza).
Fatta questa premessa, che non piacerà ai soliti difensori del sesso debole (debole?) ed alle femministe in servizio effettivo permanente, entro nel merito della brutta faccenda che sta coinvolgendo il premier Berlusconi.
Ammesso, e non concesso, che il dopo cena a casa di Silvio non fosse solo chitarra e barzellette, quali reati sarebbero stati commessi? Quali sono le parti lese? Qualcuno avrebbe potuto pensare che quel pezzo di ragazza "rubacuori" fosse minorenne? Qualche ospite ha denunciato violenze o abusi?
Gli abusi, invece, a mio avviso vengono dagli inquirenti.
Intercettazioni fatte senza notizia di reato, aggiramento dell'immunità parlamentare, spiegamento di risorse sproporzionato rispetto al presunto crimine, chiaro fine politico-eversivo dell'indagine, fuga di notizie coperte da segreto istruttorio e abuso di mezzi di indagine.

Caro Sivio, il missile è partito e non puoi fermarlo: fatti da parte e scansalo! Come?
Prendi esempio da un illustre presidente della repubblica: Oscar Luigi Scalfaro.
Non occorre andare in televisione a reti unificate per dire: "NON CI STO".
Basta farlo sapere ai pubblici ministeri.

P.S. Prima di andare a costruire ospedali per il mondo, come hai detto di voler fare dopo questa legislatura, vedi di mettere in piedi una riforma della giustizia degna di questo nome.

lunedì 17 gennaio 2011

Andrea's Version

Buttando un’occhiata superficiale, proprio distratta, a volo d’uccello, sulla grande mostra romana che celebra i 90 anni dalla nascita del Pci (“Avanti popolo. Il Pci nella storia d’Italia”), e “che intende rimettere a posto i fondamentali della memoria”. Potenti le gigantografie di Gramsci. Rimarchevoli quelle di Berlinguer. Toccanti le grandi foto sulla resistenza. Significative quelle di Bobo-Staino e dell’ombrello di Altan ficcato in un sedere, non ricordo al momento di chi. Non pare di aver notato gigantografie con la falce e il martello, nemmeno una foto di Lenin, un ritratto di Stalin, un’istantanea di Zdanov, una di Bordiga, o di Pietro Secchia, o di un Di Vittorio, e tantomeno di Umberto Terracini, di Luigi Longo, oppure della Camilla Ravera e di Leonetti, ma neanche di Amendola, o men che meno di Budapest, magari di Nagy, e vedi mai del muro di Berlino. Non c’era una gigantografia neppure di Togliatti. E sarà giusto così. Questo senz’altro. Ma era un po’ come vedere la grande mostra sul 40° anniversario della pornografia italiana con Tina Pica e senza Cicciolina. (il Foglio)

Il Toga party si aggrappa alle donnine. Filippo Facci

No, scusate, Silvio Berlusconi fu inquisito per la prima volta nel 1994, quando aveva 58 anni ed era presidente del Consiglio; Ilda Boccassini in quel 1994 aveva 45 anni, era reduce da esperienze importanti in Sicilia - sulle orme degli assassini di Falcone e Borsellino - e stava appunto per coinvolgere Berlusconi in inchieste pesantissime su corruzioni giudiziarie e sul porto delle nebbie eccetera; un terzo soggetto, Karima el Mahroug, detta Ruby, in quel 1994 si limitava a ciucciare soltanto il biberon, perché aveva un anno. Potremmo aggiungere che Pietro Forno, il pm che condivide con la Boccassini la nuova indagine su Berlusconi, nel 1994 aveva 50 anni e aveva appena fondato un suo pool sui reati sessuali, questo dopo essersi occupato per anni di terrorismo (da Prima Linea ai Nar fino ai Proletari armati per il comunismo) e ancora del plagio di Armando Verdiglione, della setta Scientology e degli aborti alla Mangiagalli; i colleghi si fidavano di lui al punto che nascosero in un suo fascicolo la lista degli affiliati alla P2. Questo era Forno. E questa era la Boccassini.
Ora, diciassette anni dopo, Silvio Berlusconi ha 75 anni, è ancora presidente del Consiglio ed è ancora inquisito dalla Procura di Milano; a inquisirlo è ancora Ilda Boccassini, che ora ha 60 anni (Pietro Forno ne ha 66) e si occupa di un filone ormai ridotto a un’improbabile concussione nonché a un reato da 5.164 euro, cioè sfruttamento della prostituzione ai danni della citata Ruby. la quale, intanto, è diventata maggiorenne e sarebbe la sfruttata. Le foto le avete viste tutti, Ruby è la classica sfruttata, la tipica vittima ingenua e priva di malizia.
Vogliamo esagerare? Allora aggiungiamo che altri importanti inquisitori di Berlusconi, frattanto, hanno fatto il loro corso: Antonio Di Pietro ha 60 anni ed è in politica da 15; Gherardo Colombo ne ha 64 e ha lasciato la magistratura da 4; Piercamillo Davigo ha 60 anni ed è giudice in Cassazione, Francesco Saverio Borrelli è in pensione. Eccetera.
Cioè, cominciate a capire? Lo capite come siamo messi? Ci sono cronisti che scrissero del celebre invito a comparire del 1994 (quello di Napoli, quello che affossò un governo e fece eco in tutto il mondo) e che adesso sono ancora lì, a scrivere dell’invitino a comparire per il caso Ruby: neppure noi che ne scriviamo da vent’anni ce ne rendiamo più conto, ormai. Ci limitiamo a registrare ogni singola puntata ma abbiamo smarrito il senso della storia, e non perché adesso sia diventata una farsa: è da almeno un decennio che è già una farsa. Siamo oltre. Non è neanche più una persecuzione giudiziaria, guardandola a cannocchiale rovesciato: è una comica che non ci fa neanche più ridere, una parodia, uno di quei sequel a basso costo in cui vedi vecchi attori macilenti che si prestano a ogni cosa, perché è sempre meglio che finire ai giardinetti.
Non fate finta di non aver capito: è chiaro che l’azione penale è obbligatoria, è ovvio che nessuno si è propriamente inventato niente (questo fermandosi ai fatti e agli attori: i reati sono un altro discorso) ed è pacifico che nel caso di Ruby l’apparenza non inganna, anche se una differenza tra una presenza e una prestazione esiste ancora, ed è appunto da stabilire. È il classico caso, questo, in cui si può dire che gli italiani - che spesso non capiscono assolutamente nulla - hanno capito tutto, e da un pezzo, e hanno anche già deciso quanto in definitiva gliene importa. Ora ci saranno strascichi politici, conflitti di competenza, polemiche infinite, schermaglie giudiziarie, attività di governo rallentate, voci di crisi e di elezioni: la situazione è classicamente grave ma non seria. Paradossalmente ha ragione Pier Luigi Bersani: «Per favore ci vengano risparmiati ulteriori mesi di avvitamento dell’Italia sui problemi di Berlusconi». E ha ragione anche Luca Barbareschi: «Perché dedicare tutto questo spazio, invece che parlare dei quattro o cinque argomenti a cui dedicherei le prime pagine dei giornali?».
Azzardiamo una risposta. Gli effetti dell’anti-berlusconismo giudiziario si sono ormai permeati nella falda civile di questo Paese, ne hanno inquinato la capacità di giudizio, mentre il pregiudizio viceversa è stato elevato a definitiva forma di (non) comunicazione politica, a target di un mercato editoriale e culturale. Tante persone anche perbene, ormai esauste, per anni hanno obiettato che in fondo i magistrati fanno solo il loro lavoro, che è andato tutto bene, che Berlusconi è ancora incensurato, che se i processi sono caduti tutti come birilli - complici le leggi ad personam - è anche perché la giustizia a suo modo funziona, e i tribunali cioè hanno il coraggio di porre tutti i distinguo del caso. L’hanno detto per anni, ora sono cose che non dice più nessuno: non in buonafede. Dopo diciassette anni di politica - e di magistratura - Silvio Berlusconi è ancora presidente del Consiglio ed è sottoposto a un’indagine per sfruttamento della prostituzione. Significa soltanto che ha vinto.(Libero)

Pecoreccio giudiziario. Davide Giacalone

L’idea di dover subire un nuovo capitolo della telenovela politico-giudiziaria è sconfortante. Fra le cose di cui l’Italia ha bisogno non c’è un’ennesima inquisizione, con l’ennesima accusa di strumentalizzazione. Basta. Tutte le persone intelligenti sanno che si tratta di una patologia pericolosa, sebbene tutti restino prigionieri di una faziosità dissennata, talché le inchieste su Silvio Berlusconi portano a tutto, tranne che a ragionamenti razionali. Si passa dalla mafia al pecoreccio, senza in nulla scalfire le contrapposte tifoserie. Forse si crede che la materia, proprio perché licenziosa, intrighi il pubblico ed ecciti la fantasia. Credo, all’opposto, che annoi e ammosci. E’ tutto inutile, già scritto, scontato. Anche deprimente.

Dal punto di vista formale e istituzionale esiste un solo modo serio di affrontare la questione: a. nessun cittadino può mai essere considerato colpevole di niente, fino ad una sentenza definitiva che lo condanni, e un’inchiesta non somiglia, neanche minimamente, a un verdetto; b. la magistratura indaga laddove ritiene esista una notizia di reato, essendo a questo tenuta dall’obbligatorietà dell’azione penale. Ma neanche la correttezza formale ha più senso, perché quindici anni d’inquisizione inutile, inconcludente o pretestuosa stroncano qualsiasi fiducia nella giustizia. Sul caso specifico, sull’ultimo grido dell’indagine inutile, noi peripatetici da strada sappiamo già quel che c’è da sapere: 1. un presidente del Consiglio non può consentirsi una condotta così priva di rispetto per il decoro; 2. una magistratura seria non spreca tempo e denaro per indagare debolezze privatissime, che solo l’incubo inquisitorio può considerare reato. Il resto sono solo settimane e mesi di masochismo nazionale.

E’ scontato che si scateneranno nuove polemiche, tendenti a negare le due evidenze che abbiamo appena riassunto. Ma se si solleva la testa dal caos e dal vociare non può non essere evidente che la radice del problema sta nel biennio 1992-1994, quando l’azione delle procure si sostituì alla volontà popolare e una classe politica fu cancellata senza che abbia mai perso le elezioni. Se non si torna a esaminare e onestamente descrivere quegli eventi, se si continua nella contrapposta finzione del presupporre infondate tutte le accuse o cospiratori gli inquisitori, si resterà ad annaspare in una pozza melmosa, ove l’Italia ha disperso e continua a disperdere molte energie.

La condotta privata di un governante può, e per certi aspetti deve, essere oggetto di pubblica discussione. Ma la pretesa che sia l’ordine giudiziario a utilizzare quel tema per cancellare o ribaltare i giudizi elettorali è fuori da ogni logica del diritto. Se una tale demolizione dell’ordinamento continua a esistere è perché l’Italia continua ad essere inzuppata di cultura antidemocratica, quella, per intenderci, secondo cui il “giusto” e il “vero” devono sempre trionfare, anche contro la volontà della maggioranza. Dottrina dispotica e liberticida, perché trascura un dettaglio: chi stabilisce cosa siano il giusto e il vero? Se la risposta è: un pubblico ministero, la controrisposta può lecitamente essere una pernacchia.

E’ non solo normale, ma doveroso, che il governo si difenda da questo genere d’assalti. Ferma restando la necessità di condotte meno indifferenti al ruolo che si ricopre. Non è normale e non è giusto che si continui a farlo senza andare al cuore istituzionale del problema, ponendo rimedio al dilagare della malagiustizia, della giustizia negata, di quella politicizzata. Nell’interesse di tutti.

venerdì 14 gennaio 2011

Onnipotenti. Filippo Facci

I giudici hanno deciso che saranno i giudici a decidere se il presidente del Consiglio sarà impedito a recarsi dai giudici. I giudici hanno deciso che la legge sul biotestamento praticamente già esiste. I giudici hanno deciso che una bambina di Varese chiamata Andrea, nome maschile tedesco, non potrà chiamarsi Andrea, ma dovrà chiamarsi - hanno deciso - Sara. I giudici hanno deciso se una persona sia un uomo o una donna. I giudici arrestano o no, sequestrano conti bancari, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se un bambino possa vedere il padre. I giudici rappresentano l’unico potere non riformato di questo Paese e sono palesemente corresponsabili della propria invasività nella vita pubblica, indisposti tuttavia ad ammettere un benché minimo ruolo nei malfunzionamenti che li coinvolgono. I giudici sono in grado di neutralizzare, svuotare, piegare qualsiasi legge che li riguardi e che riguardi le velleità originarie del legislatore su qualsiasi problema. Cambiare la magistratura con l’aiuto di certa magistratura è impossibile, concertare una riforma «ampiamente condivisa» è impraticabile. Non ci sarà nessuna riforma, seria, senza cambiare la Costituzione e senza scatenare l’inferno. Un uomo solo poteva farcela: Silvio Berlusconi. Non ce la sta facendo, sta solo riuscendo a sopravvivere. (Libero)

Barbara Spinelli trova il Corano ''gentile'', perché non l'ha letto. Carlo Panella

Barbara Spinelli su Repubblica non si è sottratta al vizio di tanti intellettuali politically correct: invita a leggere il Corano, ma, quando ne scrive, si capisce che… lei non l’ha letto! Meglio, lo ha letto a spizzichi e bocconi, solo quel che le serve a sostenere la tesi ideologica di una “tolleranza” coranica che –purtroppo- non corrisponde affatto al vero. Tesi che così enuclea: “Il Corano è contrario agli anatemi, alle scomuniche, il giudizio di miscredenza viene solo da Dio. La gentilezza ha ampio spazio nel Libro…” Date queste premesse, Barbara Spinelli non si capacita di come i violenti trovino ispirazione nel Corano: “Che cosa guida allora, se non stupidità, ignoranza e una vendetta ripetutamente scoraggiata nel Libro la mano degli assassini o la mente degli indifferenti musulmani…?
La risposta a questa domanda è ben diversa dalla tesi buonista della Spinelli ed è nota a chi abbia una minima conoscenza del Corano ed è nel versetto 29 della nona sura: “ Combattete coloro che non credono in Dio e nel Giorno Estremo, e che non ritengono illecito quel che Dio e il Suo Messaggero hanno dichiarato illecito, e coloro fra quelli cui fu data la Scrittura, che non s’attengono alla Religione della Verità. Combatteteli finché non pagano il tributo, uno per uno umiliati”. E’ questo solo un esempio di quella “gentilezza” coranica che la Spinelli ignora, così come ignora la chiusa del versetto 64 della quinta sura: “Ogni volta che i giudei accendono il fuoco di guerra, Allah lo spegne. Gareggiano nel seminare il disordine sulla Terra, ma Allah non ama i corruttori.” “Gentilezza coranica” che peraltro ispira anche gli Hadith (raccolta di detti e comportamenti di Maometto), di cui uno citato nello Statuto di Hamas, codificato da al Bukhari e da Muslim, così recita: “L’ultimo giorno non verrà fino a quando i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno e fino a quando gli ebrei non si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra e l’albero diranno: “O musulmano, o servo di Dio, c’è un ebreo nascosto dietro di me, vieni e uccidilo!” Ma l’albero di Gharquad non lo dirà, perché è l’albero degli ebrei”. Dunque, il fine stesso della storia umana, per un libro che è sacro ai musulmani come il Corano, è segnato dall’obbligo dello sterminio degli ebrei. Non basta: se Barbara Spinelli avesse la minima conoscenza dell’Islam contemporaneo (ma dimostra di non averla), saprebbe che il 18 gennaio 1985 Mohammed Taha, il “Gandhi musulmano”, fu impiccato a Khartoum, col pieno benestare della moderata e “gentile” università coranica di al Azhar. Il grande teologo musulmano fu appeso per “apostasia”, per aver proposto nel suo libro “Il secondo messaggio dell’Islam” (Emi Editore), di distinguere e di considerare Rivelazione solo le cosiddette “sure meccane”, e di relativizzare e non considerare Rivelazione quelle palesemente legate all’esperienza politica del Profeta, le cosiddette “sure medinensi”, intrise delle polemiche feroci nei confronti degli ebrei e dei cristiani, avvolte dallo spirito epico del jihad, guerra di spade e di teste mozzate, segnate dalla strategia sviluppata da Maometto per riconquistare la Mecca dopo la fuga (Egira) del 622 alla Medina. La Riforma dell’Islam, proposta da Taha, per cui fu impiccato, si basa sul principio della interpretazione del Verbo –negata dall’Islam contemporaneo- ed é dunque di piena apertura nei confronti delle altre fedi e soprattutto rifiuta le basi stesse della cultura del jihad di conquista e di proselitismo, a cui ovviamente associa il rifiuto della “autorità tutoria dell’uomo sulla donna”, della poligamia, del ripudio, della schiavitù (spesso praticata ancora oggi, prevista e codificata nel Corano). Olivier Carré, nel suo “Islam laico” (il Mulino) dà ampio conto del ruolo dirompente che la Riforma di Taha avrebbe potuto aver nel corpo dell’Islam (e quindi delle ragioni per cui fu impiccato da un tribunale islamico). Ma Taha non è il solo intellettuale islamico che Barbara Spinelli dovrebbe consultare prima di scrivere a sproposito del Corano. Hamid al Ansari, ex preside della facoltà della sharia dell’Università del Qatar, nel corso di un’intervista ad Al Raya, del 4 ottobre 2004, si chiese:“Perché di fatto, noi musulmani siamo i soli a farsi incantare dalla teoria di una cospirazione ebraica dietro ogni vicenda? Perché l’albero della cospirazione fiorisce sul nostro suolo? E perché siamo ancora prigionieri di teorie cospirative la cui falsità è stata provata?” E così si rispose: “Tra le ragioni della teoria della cospirazione ebraica vi sono: Le parole del Corano sull’inganno dei figli di Israele contro i loro profeti e contro le altre nazioni. Le parole della Sira (la biografia di Maometto) a proposito del pericoloso ruolo cospirativo degli ebrei, sin dai primi giorni, contro l’Islam, il Profeta Maometto, i musulmani e il loro nuovo Stato. Le parole che la nostra cultura radica nelle anime e nelle menti dei musulmani, ossia che gli ebrei sono la fonte dei mali del mondo.” Inequivocabile. (Libero)

giovedì 13 gennaio 2011

Sinistra divisa anche sulla Fiat

Il sindaco di Firenze, il rottamatore Renzi, è esplicito: “Io sono dalla parte di Marchionne”. D’Alema non si sa da che parte sia. Dice di non volere dare consigli (e chi glieli ha chiesti?) ma ribadisce che rispetta gli operai. A proposito di governo Bersani insiste: “Il governo è nelle nebbie”. Ci spieghi il leader del Pd perché l’esecutivo dovrebbe intervenire, visto che la Fiat è azienda privata e da tempo non usufruisce di soldi pubblici.

Nessuno a sinistra che abbia il coraggio di sottolineare che in tempo di crisi internazionale Marchionne vuole investire quando le aziende chiudono, vuole mettere tanti quattrini per agganciare Mirafiori alla locomotiva statunitense, là dove l’accordo coi sindacati è stato siglato in poche ore e senza drammi, scioperi, lacrime e sangue.

mercoledì 12 gennaio 2011

Non solo referendum. Davide Giacalone

Al referendum di Mirafiori, i prossimi 13 e 14 gennaio, vinceranno i Sì. Non servono a nulla le intimidazioni estremistiche, oggi come allora i lavoratori non si lasceranno trascinare dai matti. Esprimeranno consenso all’accordo firmato da alcuni sindacati (Fim, Uilm, Fismic e Ugl) e lasceranno in minoranza quanti lo avversano (Fiom). Tutti i commenti si concentrano sulla spaccatura interna alla sinistra e alla Cgil, che è certamente gravida di conseguenze, ma non esattamente il centro del mondo. Esiste una realtà, economica e del lavoro, non necessariamente al servizio dei giochi politici. Anzi: esistono manovratori politici e sindacali che la realtà se la sono scordata, ammesso l’abbiano mai conosciuta.

Il Sì agli accordi non è il trionfo di Sergio Marchionne, ma il più semplice affermarsi del realismo. Ho scritto che l’amministratore di Fiat meriterebbe il premio quale miglior sindacalista, e confermo: le vendite delle auto diminuiscono ma i contratti prevedono possibili aumenti del salario. Sulla carta, un gran risultato. Ma nella realtà? Gli accordi di Pomigliano e Mirafiori sono necessari alla sopravvivenza di quegli stabilimenti, ma non sufficienti, perché occorre che il mercato si riprenda e che l’azienda sia in grado (con la rete commerciale, l’innovazione e gli accordi internazionali) di non perderne e se possibile guadagnarne quote. Quanti credono che i nuovi contratti siano il prezzo pagato il quale tutto torna come prima sono degli illusi.

Se le cose dovessero andare male la colpa non sarà dei sindacati che hanno firmato (e dei lavoratori che hanno approvato), mentre se fosse prevalso il punto di vista degli oppositori si sarebbe solo anticipato il fallimento. Noi tutti, naturalmente, speriamo che le cose vadano bene. Che il recupero di produttività dia una spinta alla competitività e che questa consolidi la posizione della casa automobilistica. Che oltre a far meglio e più convenientemente le vetture, insomma, riescano poi a venderle. In questo caso, il migliore, comunque ci sarebbero conseguenze sociali e politiche. Per dirne una: gli operai che si apprestano a votare Sì, come quelli che lo hanno già fatto, accettano di barattare minori rigidità e garanzie in cambio della continuità lavorativa e di un salario variabile, perché il prelievo fiscale operato su di loro deve andare a finanziare quanti non rinunciano mai a nulla? E’ vero che il sindacato (tutti i sindacati) sono sempre meno rappresentativi dei lavoratori, ma la condizione di chi si trova realmente esposto alla globalizzazione del mercato ha perso anche rappresentanza politica.

I capi delle tute rosse, sia che mettano l’orecchino sia che marcino a fianco del giustizialismo, hanno sbagliato secolo, sono interessati a dimostrare la loro influenza sulla Cigil e sulla sinistra, ma del resto non si occupano. Il loro format classista è fuori dal mondo: oggi un operaio Fiat ha pochi interessi da condividere con un dipendente pubblico e molto da dirsi con un professionista privato, con una delle tante, decantate e neglette, partite iva. I protetti possono accettare carichi fiscali elevati: non godono, ma neanche rischiano. I non protetti non possono essere egualmente generosi, perché la loro sicurezza futura dipende anche dalla capacità di risparmio, resa impossibile da un fisco depredante. Se proprio si vuol ragionare in termini di “classi” (non ne avverto il minimo bisogno), la divisione passa fra quanti campano di spesa pubblica e quanti producono per finanziarla, come passa fra chi s’è giovato della spesa pubblica e chi vivrà per pagarne i debiti, vale a dire i giovani.

La grandissima parte dei politici e dei sindacalisti appartiene, per biografia, reddito o convinzione, alla prima classe. Attaccata al mammellone statale, progressivamente avvizzito, ma sempre poderoso. Sono convinti che gli altri abbiano il dovere, direi quasi il piacere morale di alimentarlo. Sarà bene, per loro e per noi tutti, guardare attentamente dentro le urne referendarie, sforzarsi di capire, non accontentandosi degli sbandieramenti inutili. La realtà prima o dopo, potrebbe prendersi una vendetta sulle fantasticherie.

martedì 11 gennaio 2011

Un consiglio a chi vorrebbe la morte (politica) di Berlusconi. Giuliano Ferrara

Nessun uomo pubblico europeo ha mai realizzato un grado così alto di compenetrazione con il suo paese. È questo dato di fatto che rende innocua, litigiosa e inefficace l’opposizione politica e parlamentare, mentre eccita il golpismo costituzionale di una parte dell’establishment politicamente irresponsabile, legato alla cultura, alla chiacchiera, all’editoria e ai quattrini. La pervasività di Silvio Berlusconi è intollerabile per chi abbia un’idea liberal-conservatrice, invece che liberal-democratica, della politica moderna. Un simile leader politico non si può «battere» secondo le regole del gioco, perché è al di là delle regole del gioco, né sopra né sotto ma al di là, e dunque il partito della radicalizzazione e del rinfocolamento si esprime chiaramente in favore di un sovvertimento di tutte le regole, e intende liberarsi di Berlusconi, non sconfiggerlo in regolari elezioni. Lo hanno scritto a chiare lettere: buttiamolo giù con un ribaltone, escludiamolo per decreto dalla gara democratica, e solo dopo votiamo.
Il discorso dei dotti e dei savi diventa poi per un’immaginazione malata, come avvenne giusto un anno fa, lancio di un oggetto contundente contro la testa del tiranno. Oppure, su più vasta scala, degenerazione sociale e politica della piazza in violenza e retorica della società prigioniera, senza futuro.
Ma Berlusconi non cambia. È e resterà nel 2011 anche e soprattutto quello di questi due anni, con il terzo ritorno al governo sull’onda di una specie di selvaggio plebiscito nazionale, con la monumentalizzazione ideologica del discorso antifascista e liberale di Onna, con una politica estera spregiudicata e realista, con il risanamento dei conti e un tentativo di crescita sempre rintuzzato da errori, timidezze e circostanze avverse, e con la lunga campagna di destabilizzazione del governo partita dalla sua vita privata messa sotto l’occhio morboso del buco della serratura e del grande orecchio digitale intercettante.

Una campagna di cui il mostro si nutre, e che rovescia regolarmente contro i suoi avversari. Ci si deve augurare nel nuovo anno, perché il Paese che abitiamo sia accettabilmente soddisfatto delle cose buone che vi accadono, e costruttivamente inquieto per le cattive opere che non mancano, una generale resipiscenza. Una rassegnazione adulta e responsabile, senza resa né disperazione, da parte dei nemici del Cav, affinché si convincano della possibilità di batterlo producendo un’alternativa convincente e non assassinandolo in effigie ogni giorno o delegando il compito alla magistratura politicizzata e militante. E anche una condotta meno convulsa degli affari della maggioranza, e dintorni, con un’idea meno gladiatoria della politica.
Berlusconi in quanto fenomeno non è destinato a scomparire. Non si cambia carattere a settant’anni. Avremo ancora i suoi colori, le sue eccentricità, le sue follie, rabbie e pulsioni generose; anche le sue corrette decisioni, i suoi compromessi, il suo piacionismo universale. Speriamo di avere anche una riforma dello stato fiscale e la crescita che cura il debito pubblico e l’insicurezza del Paese. (Panorama)

In diplomazia vince sempre la comunicazione. Boris Biancheri

Se qualcuno dubita che la comunicazione sia diventata ormai il primo e fondamentale strumento di governo della politica estera e dei rapporti internazionali, mentre la diplomazia tradizionale ha spesso solo una funzione accessoria ad essa, la lunga intervista con l’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, David Thorne, apparsa ieri su queste pagine, dovrebbe aver fugato ogni dubbio. Avevamo tutti avuto una clamorosa dimostrazione della formidabile potenza della comunicazione quando è esploso l’affare Wikileaks: la maggior parte delle notizie diffuse da Wikileaks non ha avuto a tutt’oggi né un carattere dirompente né particolarmente innovativo. I giudizi formulati dai diplomatici americani su uomini di Stato e di governo stranieri e sulla loro politica erano spesso già cosa corrente tra gli addetti ai lavori e non di rado ripresa da pettegolezzi o da organi locali.

Quel che ha avuto carattere dirompente è invece che quei giudizi siano diventati pubblici, che ciò che fino a quel momento dicevano tra loro pochi eletti sia diventato da un momento all’altro una cosa nota a centinaia di milioni, a miliardi di persone.

Per quanto concerne i passaggi di Wikileaks che riguardano il nostro Paese - gli apprezzamenti dell’ambasciata di via Veneto nei confronti del presidente del Consiglio e delle sue «distrazioni», le riserve circa i suoi rapporti con Putin, certi giudizi sulla politica energetica italiana e così via - essi avevano già indotto la signora Clinton a incontrare separatamente Berlusconi nel Kazakhstan e ad affermare formalmente che i rapporti tra Stati Uniti e Italia erano e sono eccellenti. Sicuramente, da novembre in poi vi saranno stati altri discreti interventi con Palazzo Chigi, con la Farnesina, con altri membri del governo o con la nostra ambasciata a Washington per chiarire, appianare e cercare di rasserenare l’atmosfera. Ma anche questo non è parso sufficiente: non basta che si convinca la Farnesina o Palazzo Chigi, quel che è importante è che si convinca il pubblico. Ed ecco che scende in campo l’ambasciatore David Thorne e, da Washington, forse dopo essersi consultato con il Dipartimento di Stato, rilascia una inconsueta, franca ed esplicita intervista.

I rapporti tra Stati Uniti e Italia, dice Thorne, non potrebbero essere migliori. Se essi hanno avuto un momento di appannamento è per un errore, è per colpa di Wikileaks e non perché ciò corrisponda o abbia mai corrisposto alle intenzioni dei due governi; per Berlusconi c’è grande apprezzamento e le sue relazioni amichevoli con Putin non destano più preoccupazione; anche l’Eni non costituisce un problema, ora che ipotizza convergenze tra gli oleodotti South Stream e Nabucco. In particolare sul ruolo italiano in Afghanistan l’ambasciatore è stato caloroso, quasi enfatico.

Tutto questo, mi sembra, dimostra tre cose. Dimostra che una fase di appannamento nei rapporti Italia-Usa per certi aspetti c’era stata, che Wikileaks aveva in effetti lasciato molta amarezza nei nostri ambienti politici, ma che tale amarezza era dovuta non tanto ai giudizi in sé che erano stati formulati quanto alla strumentalizzazione che se ne era fatta nelle polemiche politiche di casa nostra. Dimostra anche, se ce n’era bisogno, che Wikileaks è stato davvero un brutto incidente nel tessuto di relazioni internazionali degli Stati Uniti. La diplomazia da sola fa fatica a sanarlo e l’opera di rammendo prende forma non nel negare ciò che è innegabile ma nell’assicurare all’esterno che le difficoltà sono ormai in via di essere superate. E infine dimostra, come si diceva all’inizio, che nel mondo di oggi, sia all’interno delle nostre democrazie sia nei rapporti tra loro, l’arma fatale, quella che può ferire o uccidere l’altro e che poi, all’occorrenza, si deve usare anche per guarirne le ferite, è costituita non da qualcosa di esclusivo o di remoto ma da ciò che è più vicino a tutti noi nella vita di ogni giorno: da ciò che chiamiamo, appunto, comunicazione. (la Stampa)

mercoledì 5 gennaio 2011

Berlusconi non tremonta. Mario Sechi

Berlusconi è cotto. Non ce la fa. Non ha i voti. Dovrà capitolare e passare la mano. Ho perso il conto delle volte in cui questo scenario è stato dipinto dai suoi amici e nemici. Ogni volta, puntualmente, la forza del Cavaliere viene sottovalutata, la sua presa sul Paese e il suo potere di presidente del Consiglio sottostimato. Prima del 14 dicembre ero uno dei pochi - sulla base di un’analisi realista e non sulle fantasie e i desideri - ad affermare che Berlusconi avrebbe conquistato la fiducia e messo Gianfranco Fini all’angolo. Quando tutto questo si è realizzato, a chi mi guardava stupito per il realizzarsi di quanto andavo raccontando ho risposto: la politica si giudica sui dati di fatto, non sulle pulsioni personali di questo o quel leader o, peggio, dei giornali. Ora ci risiamo.

Il primo Cavallo di Troia, Gianfranco Fini, è caduto, ma come si dice a Roma «nun ce vonno sta’» e allora si inventano un secondo kamikaze: Giulio Tremonti. Secondo la vulgata che circola da tempo nel Palazzo e in certi ambienti dell’establishment, Giulio sarebbe pronto a fare le scarpe al Cavaliere con l’appoggio della Lega. Ancora una volta i desideri vengono scambiati per realtà. Conosco il ministro dell’Economia da tanti anni, penso sia una risorsa del Paese, un uomo di rara intelligenza, un politico raffinato, pragmatico, un intellettuale che ha saputo misurarsi con la difficile e spietata arte del governo.

Stimo Tremonti perché nel 2008 ha dato con il suo libro La paura e la speranza una cornice culturale alla campagna elettorale del centrodestra. Giulio ha visto e previsto «l’età del ferro» che stiamo vivendo e si è trovato con l’economista Nouriel Roubini nel club dei pochi che hanno compreso le storture del turbocapitalismo e della globalizzazione. Quelli che danno a Tremonti, anche nel centrodestra, la patente del Bruto della situazione sottovalutano non solo Berlusconi, ma anche il ministro dell’Economia e soprattutto Umberto Bossi, uno dei pochi a poter dare del tu alla politica.

Finché il leader della Lega avrà un rapporto chiuso a doppia mandata con il Cavaliere, ogni ipotesi di cambiamento alla guida del governo, ha il bollino dei marziani. Giulio Tremonti è un ottimo ministro dell'Economia e la sua ragionevole preoccupazione - condivisa con lo stesso Berlusconi, nonostante le differenti posizioni su alcuni punti dell'agenda del governo - è che per portare a termine la legislatura ci vuole una maggioranza autosufficiente.

É questo il punto su cui Tremonti è sensibile. Avendo in mano il portafoglio, non vuole correre alcun rischio. E se voltiamo lo sguardo al passato, è esattamente lo stesso tema dell'agenda di Berlusconi. Qualcuno obietta: questo è il motivo nobile, ma in realtà c'è un altro scenario. Quello per cui andando al voto anticipato, con una centrodestra zoppo (maggioranza certa alla Camera e in minoranza al Senato) alla fine della fiera, il presidente del Consiglio finirebbe per essere non Berlusconi ma Tremonti, ritenuto - a torto o a ragione - capace più del Cavaliere di aggregare altri partiti all'avventura di governo. É uno scenario che non conviene a nessuno, prima di tutto a Tremonti e per questo chi lo dipinge, soprattutto a destra, sbaglia di grosso. Provo a spiegare perché in dieci punti:

1. Tremonti non ha nessuna intenzione di seguire la parabola di Gianfranco Fini, sa benissimo che non si diventa leader contro Berlusconi, ma con Berlusconi;

2. Il ministro dell'Economia è un socialista liberale, non è un nemico del mercato, nè un uomo di sinistra né un centrista che ha preti e cardinali da schierare;

3. Tremonti con il Carroccio e Bossi ha un rapporto speciale, ma la politica per l'Umberto è Machiavelli sciacquato nel Po e non bisogna mai dimenticare che già una volta Tremonti fu costretto a dimettersi e la Lega non fece nulla per evitare la sua capitolazione per mano del subgoverno An-Udc impersonato da Fini e Casini;

4. Tremonti è un punto di riferimento del centrodestra, l'hardware e il software della politica economica, ma non è mai stato testato elettoralmente. Nessuno, nemmeno lui, sa quanto può valere dentro l'urna;

5. Tremonti a differenza di Fini è intelligente;

6. La magistratura è un potere fuori controllo per tutti, Tremonti compreso. E una sua discesa in campo sarebbe un boccone succulento per le toghe militanti che sognano la rivoluzione giudiziaria. Basta ascoltare le cose che raccontano Marco Travaglio e Milena Gabanelli per rendersi conto che il combinato-disposto informazione-pm è in fase di lancio;

7. Tremonti è un uomo con un carattere a tratti spigoloso, ma è leale e l'ha dimostrato;

8. Con Berlusconi e Letta, Tremonti è uno dei lati del triangolo che rappresenta il moderno centrodestra italiano;

9. Il ministro dell'Economia è stimato in patria e all'estero, ha un capitale personale da spendere bene e non ha alcuna intenzione di bruciarlo nel camino di quelli che sognano la caduta di Berlusconi hic et nunc. Tremonti è foderato d'amianto;

10. Tremonti sa che in Italia si governa con i voti e che i voti determinanti non li ha solo Bossi, ma anche e soprattutto Silvio Berlusconi. Chi immagina scenari da senato romano, pugnali sotto le tuniche e dialoghi da alto tradimento può mettersi l'animo in pace. Berlusconi ha il consenso e Bossi ha la consapevolezza che la forza della Lega e il controllo del Nord passano ancora attraverso la figura e i voti del Cavaliere. Questo significa una cosa molto semplice: se ci sono i voti la maggioranza va avanti, lo vuole la logica, lo vuole il Paese, lo comprende Bossi e lo sa benissimo anche Tremonti. Se invece i voti mancheranno, si andrà a votare e, state sicuri, Berlusconi, Bossi e Tremonti saranno, ancora una volta, dalla stessa parte. Per ora, Silvio non tremonta. (il Tempo)

L'attacco al Papa dimostra una volta per tutte cos'è l'islam "moderato". Carlo Panella

Le parole intollerabili e intolleranti pronunciate da Ahmed al Tayeb, la più alta carica islamica dell’Università di al Azhar, demoliscono senza pietà le facili tesi che attribuiscono ai terroristi di al Qaida la responsabilità delle violenze e del martirio di centinaia di cristiani in terra di Islam. Parole che esprimono astio, maleducazione addirittura, che non tollerano che un cristiano parli nemmeno di quanto accade nell territorio abitato dalla Umma. Parole intrise di falsità, perché il Papa, ovviamente non Benedetto XVI°, ma il suo predecessore Giovanni Paolo II, ha sempre avuto parole sentite di compassione e di pietà per i musulmani morti in Iraq ad opera di altri musulmani, sia per la guerra voluta da George W. Bush da lui inequivocabilmente condannata.

Chi nella chiesa, come il cardinale Fitzgerald (responsabile per anni del dialogo interreligioso e oggi nunzio apostolico proprio al Cairo), ha sempre dipinto al Azhar e il suo vertice come interlocutore moderato e affidabile, tanto da aver organizzato addirittura un incontro in Vaticano, poi sfumato, con l’allora rettore di al Tantawi, deve ora prendere atto di essersi sbagliato. Al Tayeb ha fama, meritata, di essere il più moderato tra i moderati, ma in questa sua inaccettabile polemica con Benedetto XVI° dimostra di essere anch’egli intollerante, fazioso, estremista e soprattutto inaffidabile. Perché le sue parole a favore di una convivenza pacifica tra cristiani e musulmani in Egitto, alla luce di queste critiche rivolte al Papa, significano solo che i cristiani devono accettare di sottomettersi ai musulmani. E’ questo quel che pensano ormai sempre di più i musulmani moderati, è in questo humus che cresce poi la mala pianta del terrorismo. Da anni in Egitto cristiani vengono uccisi da folle inferocite che intendono impedire loro di costruire nuove chiese, spesso anche di rparare quelle esistenti. Da anni, con ben più di cento cristiani copti massacrati da folle di musulmani o da kamikaze, gli autori e gli incitatori dei pogrom anticristiani in Egitto non vengono perseguiti dalle autorità giudiziarie, ma non vengono neanche colpiti da una dura e responsabile fatwa di al Azhar che si limita a blande esortazioni di pace.

Che la realtà sia quella di un Islam moderato che moderato non è che si dimostra sempre più aggressivo e intollerante verso i cristiani è dimostrato da quello che accade in tutto il mondo musulmano: in una Algeria “laica” in cui è stata da pochi anni introdotta una pena di due anni per i cristiani che tentino di convertire un musulmano, dalla legislazione che in quasi tutti i paesi musulmani condanna a morte i cristiani che facciano proselitismo, dai pogrom della Nigeria, e dell’Indonesia, dalle continue decapitazioni di filippini cristiani in Arabia saudita, dalla permanenza della Blasphemy Law in Pakistan che ha portato alla condanna di centinaia di cristiani per accuse pretestuose di avere offeso Allah o il Profeta, dalle impiccagioni eseguite in Iran di cristiani protestanti, dalle condanne a morte per apostasia emesse in Afganistan.

L’intolleranza, lo spirito jihadista, la risoluzione dei conflitti solo e unicamente attraverso la violenza stanno prendendo sempre più piede in un mondo musulmano che peraltro si dimostra sempre più incapace di modernizzarsi, di esprimere una propria cultura non declamatoria e capace di fertili innovazioni sono perfettamente rappresentate nelle parole d’odio verso il Pontefice pronunciate da Ahmed al Tayeb. Si prenda atto di questa realtà, ne prendano atto anche gli amici di Sant’Egidio che con al Tayeb hanno organizzato molti incontri, convinti della sua moderazione. Può darsi che abbia ragione Antonio Ferrari sul Corriere quando spiega che al Tayeb, effettivamente moderato e laureato alla Sorbona ha preso questa posizione per non rompere con la fortissima pressione estremista che sente anche dentro al Azhar. Ma è una spiegazione che non cambia nulla: al Tayeb, moderato o meno che sia ha espresso una posizione degna di un fondamentalista musulmano, ha eccitato gli animi dei musulmani contro il Pontefice di Roma. Questo è agli atti. Questo è da irresponsabile.

Una sorta di “isteria” islamica, di immotivato complesso di superiorità dell’Islam su tutte le altre fedi (ampiamente peraltro celebrato e descritto dal Corano), sta sempre più prendendo piede nella umma e vanifica tutte le illusioni sugli effetti del dialogo interreligioso. Da qui nasce e cresce la cristiano fobia di cui, finalmente, parla il pontefice tedesco, dopo che per anni la Chiesa aveva taciuto sulle persecuzioni dei cristiani nel nome di un mal interpretato dialogo interreligioso.

C’è sempre meno spazio nel mondo musulmano per fare riferimento allo spirito delle sure che Maometto dedicava alla pace con cristiani ed ebrei nella sua prima predicazione alla Mecca, che da anni ci sentiamo riproporre dai leader musulmani, che però mai hanno fatto gesti concreti perché venissero concretizzate. C’è solo spazio per aderire allo spirito delle invettive contro cristiani ed ebrei che Maometto ha dettato successivamente alla Medina, là dove agiva come un generale armato di spada e ordinava di massacrare ben 650 ebrei inermi di una tribù medinense che aveva accusato, ingiustamente, di tradimento: “ Combattete coloro che non credono in Dio e nel Giorno Estremo, e che non ritengono illecito quel che Dio e il Suo Messaggero hanno dichiarato illecito, e coloro fra quelli cui fu data la Scrittura, che non s’attengono alla Religione della Verità. Combatteteli finché non pagano il tributo, uno per uno umiliati”(Corano, IX 29)[1]

Il più schematico e dogmatico teologo islamico Ibn al Taymmyya, che nel tredicesimo secolo predicava l’obbligo di sottomettere i cristiani e di impedire loro di riparare le chiese, affinché crollassero, è ormai il riferimento diretto o indiretto di milioni e milioni di musulmani.

E non può essere altrimenti, perché l’Islam, questo Islam “moderato” non è minimamente in grado di contrastare neanche sotto il profilo ideale o teologico l’islam al qaidista o terrorista che ormai si spande a macchia d’olio dall’Indonesia alla Nigeria, riattizzando anche quella guerra civile tra sciiti e sunniti che pure lo aveva devastato nel settimo secolo, ma che da allora si era ricomposta. Migliaia sono i musulmani sterminati da musulmani nelle moschee della umma, ma al Azhar, a fronte di questo scempio, tace, al massimo sussurra. Ed è un pessimo spettacolo. (l'Occidentale)

1. Il Corano, op. cit., p. 135