mercoledì 30 aprile 2008

San Silvio

Allora siamo d'accordo che Silvio Berlusconi è un grande statista?
Per un personaggio che quindici anni fa era politicamente inesistente essere, oggi, leader del più grande partito di maggioranza, non è un traguardo da grandi campioni?
La sinistra massimalista non è più in Parlamento, Alleanza nazionale confluirà nel Pdl, la Lega è un fedele alleato e per Berlusconi si spalancano le porte di Palazzo Chigi con una maggioranza solida e coesa.
Certo la sinistra non ha brillato per comprensione e intuito contribuendo fattivamente alla vittoria del centrodestra, ma è innegabile che il fondatore di Forza Italia non ha sbagliato una mossa ed ha capito prima di tutti, e quasi unico, le esigenze dell'elettorato.

Ma perché Berlusconi piace e vince?
Personalmente ritengo che un suo punto di forza sia la credibilità: imprenditore di successo, self made man, ricco da non dover vivere con la politica, capace di circondarsi di esperti e professionisti di grande livello che non hanno bisogno di farsi eleggere, e sinceramente convinto di fare il bene dell'Italia.
Non per niente la sinistra ha sempre cercato in tutti i modi di screditarlo.
Un altro punto a favore è la sua grande capacità di coinvolgimento e l'entusiasmo che riesce a trasmettere.
Una dote riconosciuta è l'attitudine al lavoro: non si ferma mai ed i suoi obiettivi sono alti e ambiziosi.
Come ben sappiamo il prossimo Presidente del Consiglio è amato e odiato, non esistono nei suoi confronti mezze misure: chi gli crede ne apprezza la grande affidabilità che ispira e la serenità che ne scaturisce.
Pensare che sarà lui a governare il nostro Paese è rassicurante e quando guardo al futuro mi sento soddisfatto e fiducioso: sinceramente prima della sua discesa in campo mi entusiasmavano certi ideali, ma non mi convincevano gli uomini che li portavano avanti.
Oggi posso finalmente affidare le mie aspettative ad un politico che la pensa come me, che presenta programmi che condivido e che farà di tutto per metterli in pratica: non è poco!
Sono certo che la grande iniezione di fiducia che il popolo della libertà ha ricevuto dalla completa vittoria del centrodestra, farà da spinta propulsiva per il ritorno alla speranza nel futuro ed alla ripresa della nostra economia.
La XVI legislatura passerà alla storia.

La sinistra torni in questo mondo. Davide Giacalone

Stiano a sentire, i signori della sinistra: oscillando fra depressione e prosopopea si rendono ridicoli, la sconfitta consegna nelle loro mani la possibilità di far nascere una sinistra sana, democratica ed occidentale. Già c’è chi affila le lame del regolamento dei conti, ma se pensano di rifare una coalizione sventolando le bandiere rosse con su la faccia di Casini, o quelle arcobaleno con la faccia di Vendola, non hanno capito un bel niente. Sono fuori dal mondo.
La sconfitta romana è limpida, chiarissima: basta con i bellimbusti che non sanno cosa dire, ma lo dicono bene; con l’apparenza a dispetto della sostanza; con professionisti della politica che si vestono facendo il verso ai miliardari; con l’imitazione degli americani senza sapere una sega dell’America. L’elettore di sinistra si è strarotto di votare succedanei di quel che della destra detesta. La borghesia agiata ed annoiata se ne frega delle cravatte chiare su botton down, resta al ristorante e non va a votare (mitica la previsione di Vanzina!), mentre quelli che fanno la fila all’ipermercato (e che a sinistra chiamano “borgatari”, perché neanche sanno più cosa e dove sono le borgate) s’arrabbiano a vedere che c’è chi paga l’ombrellone quanto loro pagano d’affitto. Detto in breve: la sinistra è guidata da una classe dirigente vuota d’idee e composta da mantenuti della politica. E tale disastro capita per due ragioni: a. perché la sinistra che fu comunista si ostina a non volere fare i conti con il proprio ieri, condannandosi a non avere idee e valori per il domani; b. perché nel vuoto di coerenza ed ideali si selezionano arrampicatori, cercatori di rendite, tendenzialmente nullafacenti dalla nascita.
Bene! la strasconfitta, l’essere stati infilzati da un avversario per niente centrista o buonista, dovrebbe aiutarli a cambiare musica. Comincino dal comunismo e terminino con il moralismo, non tralasciando nessuno dei loro orrori. Provino, magari per gioco, a campare una settimana con il salario medio di un mese. Facciano la fila, non dico per la pensione, ma almeno per il cinema, la domenica. Scopriranno un mondo, quello reale, che non si vede dalle ville degli amichetti loro, arricchitisi con municipalizzate e sottogoverno. E’ un’occasione preziosa, almeno quanto le loro scarpe. Non la sprechino.

Il loft e il Paese. Luca Ricolfi

La cosa che più colpisce, in questi giorni, non è quel che si dice sulle cause della doppia disfatta Veltroni-Rutelli, ma lo stupore con cui se ne parla. Non si può dire che la sconfitta fosse perfettamente prevedibile, ma sembra che le sue dimensioni abbiano preso un po’ tutti alla sprovvista, come se politici, giornalisti, commentatori, studiosi non si fossero accorti di quel che passava per la testa della gente.

Tale stato d’animo degli osservatori rischia di portare fuori strada nella ricerca delle ragioni di questo improvviso ribaltamento degli orientamenti politici dei cittadini. Chi è stupito va a caccia di cause nascoste, sottili, difficilmente visibili a occhio nudo. C’è chi dice che Veltroni avrebbe copiato Berlusconi, inducendo gli elettori a snobbare la copia e preferire l’originale. C’è chi dice che Rutelli avrebbe strizzato l’occhio ai preti, e troppo disdegnato i temi laici: il consiglio è di fare come Zapatero. C’è chi invoca l’effetto band wagon: da sempre gli italiani hanno il vizio di saltare sul carro del vincitore. C’è chi, in modo vagamente tautologico, invoca un generico «vento di destra»: l’Italia va a destra perché così soffia il vento. C’è chi, infine, si rammarica che solo Berlusconi sappia «interpretare la pancia del Paese»: a quanto pare quando vince la destra è la pancia che parla, quando vince la sinistra è la testa che ragiona.

Ma forse, più semplicemente, abbiamo trascurato due fatti macroscopici, che non hanno attirato su di sé l’attenzione proprio per la loro ovvietà ed evidenza. Il primo fatto macroscopico è il discredito del governo Prodi, legato all’indulto, all’esplosione della criminalità, agli aggravi fiscali e burocratici, al drammatico aumento delle famiglie in difficoltà (+57% negli ultimi 12 mesi). A quanto pare i dirigenti del Pd non si sono resi conto di quel che la gente ha passato negli ultimi due anni. Naturalmente gli sbagli del governo non sono l’unica causa delle sofferenze e delle paure degli italiani, ma ignorarne la portata è stato una imperdonabile leggerezza politica. Giusto o sbagliato che fosse, dopo due anni di governo dell’Unione gli italiani sentivano il bisogno di voltar pagina: come si poteva pensare che si affidassero a chi instancabilmente ripeteva che quel governo aveva ben operato?

Il secondo fatto macroscopico è in realtà un non fatto, ovvero una clamorosa omissione. La sinistra italiana, a differenza della sinistra inglese a metà degli Anni 90, non ha ancora voluto compiere la sua rivoluzione antisnob, ossia quel percorso di rottura con il mondo dei salotti che - secondo Klaus Davi - fu una delle carte vincenti con cui Tony Blair riuscì a resuscitare il consunto Labour Party, riavvicinandolo alla gente comune e riportandolo al governo del Paese dopo il lungo regno della Thatcher (Di’ qualcosa di sinistra, Marsilio, 2004). Omissione curiosa, visto che - sul piano comunicativo - il primo problema della sinistra italiana è la sua immagine elitaria e anti-popolare, il suo presentarsi come una squadra di autocrati illuminati, di seriosi e impermeabili custodi del bene.

Di questa drammatica distanza dalla sensibilità popolare, di questo deficit di radici sociali, Veltroni è parso del tutto ignaro. Cercando di conciliare tutto e tutti, nascondendo sistematicamente le difficoltà in cui il governo uscente aveva cacciato il Paese, pensando di maneggiare con semplici esercizi verbali la protesta delle regioni più operose, Veltroni ha mostrato di non aver capito né quanto profondamente il governo Prodi avesse diviso l’Italia, né quanto i simboli del Palazzo e della politica romana siano invisi alla gente comune (era proprio il caso di chiamare Loft la nuova sede del Partito democratico? E di chiamare «caminetti» le riunioni dei dirigenti che contano?).

Con l’immagine salottiera e poco ruspante che la sinistra post-berlingueriana si ritrova addosso, con la sua mancanza di radicamento nel territorio, con la sua distanza culturale dalle regioni del Nord, presentarsi alle elezioni con un candidato premier che è la quintessenza del bel mondo di Roma, delle sue terrazze e dei suoi salotti, era già un azzardo notevole. Non rendersi conto dell’azzardo, e non prendere alcuna contromisura compensatrice, è stata un’incomprensibile follia.

Qualcuno, già me lo sento, dirà che la politica seria è un’altra cosa, e che è da qualunquisti rimproverare a Bertinotti le frequentazioni mondane, o ai dirigenti del Pd di riunirsi davanti a un caminetto, in un appartamento che amano chiamare il Loft. È vero, quel che conta è capire la realtà, e se ti riesce meglio davanti a un caminetto non c’è niente di male. Il punto, però, è che questi signori il contatto con la realtà sembrano averlo perso completamente. A forza di parlarsi tra loro non sanno più in che Paese vivono. Se la gente li vede come una casta, non è tanto per i loro privilegi, ma perché i loro simboli sono quelli di un mondo inarrivabile e separato, lontano mille miglia dal mondo di tutti noi. (la Stampa)

lunedì 28 aprile 2008

Lo specchio di Scalfari. (l'Occidentale)

Le sconfitte della sinistra cominciano male e finiscono peggio, accompagnate dalle analisi omissive dei suoi cosiddetti maestri del pensiero. Se si vuole comprendere appieno perché la sinistra è votata alla sconfitta, non bisogna mai perdere “Repubblica”, soprattutto la domenica mattina, giorno in cui il suo noto fondatore discende dal cielo e spezza il pane della sapienza.

Domenica scorsa, preso dallo sconforto, ci ha comunicato che lo specchio d’Italia è sempre più rotto: "La nazione italiana è più sconnessa che mai, vive soltanto nella mente d'una minoranza e la speranza di recuperarne l'unità è diventata un pallido e lontano miraggio”.

La nazione italiana, ovviamente, si è sconnessa dal 14 aprile quando i suoi elettori, brutta razza, hanno premiato ancora una volta il “caimano”, per giunta prigioniero del secessionista Bossi. La minoranza (Repubblica e altri grandi quotidiani, qualche Banca e un esercito di illuminati) ha perso ogni speranza. Perché gli italiani li hanno premiati ancora una volta? Non è dato sapere.

Continua Scalfari: ”Le rauche invettive di Beppe Grillo completano il quadro d'una società che sembra avere smarrito ogni bussola, ogni orientamento, ogni immagine di sé, ogni memoria del suo passato ed ogni progettualità del suo futuro. Si va avanti alla giornata senza timone e senza stelle”.

Ma Grillo perché è nato? E’ costola di chi? Le sue rauche invettive perché sono indirizzate soprattutto verso coloro che rappresentano la tanto cara minoranza scalfariana? Non è dato sapere.

Questo Paese è come la “nave sanza nocchiero in gran tempesta”, ma sempre dal 14 aprile. E prima? Non è dato sapere.

Ce n’è anche per Veronica Lario. Scrive Scalfari: "Che la politica fosse solo imbroglio poteva tranquillamente impararlo in famiglia, gli esempi domestici erano ampiamente sufficienti”. Quali? Non è dato sapere.

Ce n’è anche per Emma Marcegaglia: "Il suo dirimpettaio Bonanni, segretario della Cisl, la pensa allo stesso modo. Quelli della Fiom anche. Epifani sembra di no, lui un'idea di Paese ce l'ha come tutti i suoi predecessori da Di Vittorio a Trentin a Lama e a Cofferati. Ma anche la Cgil sta diventando una minoranza, la sua gente nel Nord le preferisce Maroni e Calderoli”.

Perché la Cgil sta diventando una minoranza? Perché la sua gente nel Nord le preferisce Maroni e Calderoli? E se l’idea di Paese di Epifani e dei suoi predecessori fosse sbagliata? Non è dato sapere.

Fidatevi, lo specchio si è rotto. Ma non quello di casa Italia. Si è rotto lo specchio di casa Scalfari, che da decenni riflette la boria, l’altezzosità, la presunzione e, inesorabilmente, la sconfitta.

Un quadro sconnesso, frammentato perché privo di analisi e di onestà intellettuale. Lo capirà mai il tribuno di piazza Indipendenza? Non è dato sapere.
(D. D’A.)

domenica 27 aprile 2008

Gli intellettuali e il comunismo: il grande inganno. Emiliano Stornelli

Roma è davvero la “capitale della cultura”. Non solo mostre, rappresentazioni teatrali e concerti; Roma oggi può vantare ben due Festival, uno del Cinema e l’altro della Filosofia: dai tappeti rossi per le star del grande schermo di tutto il mondo alla novella scuola di Atene che l’amministrazione capitolina ha ricreato anche quest’anno nelle sale dell’Auditorium. A quarant’anni dal suo avvento, il Festival della Filosofia 2008 non poteva non essere dedicato al “Sessantotto. Tra pensiero e azione”. E così, dal 17 al 20 aprile, con la sapiente direzione scientifica di Paolo Flores D’Arcais e l’alto patronato dell'uomo ovunque di Walter Veltroni, Goffredo Bettini, l’eccellenza del pensiero contemporaneo ha “esplorato” nel corso di “tavole rotonde”, “lectio magistralis”, “incontri straordinari”, “caffè filosofici” e persino “contrappunti”, i “temi più strettamente connessi a quegli anni come la rivolta studentesca, la scelta della violenza, il confronto tra le diverse etiche della rivolta nel 1968 e nel 1989” e via dicendo, “evitando qualsiasi caduta celebrativa o nostalgica” e “con particolare attenzione ai giovani”. Tra i grandi maestri, il fondatore della Repubblica Eugenio Scalfari, Antonio Negri, professore di eversione armata contro lo Stato nazionale e imperialista, e il “filosofo e psicoanalista sloveno” Slavoj Žižek, “fra i protagonisti indiscussi del panorama filosofico e teorico internazionale”, della cui illuminante prolusione, dal titolo “Nel 1968 le strutture sono scese in piazza. Lo faranno ancora?”, vale la pena riportare brevemente la traccia pubblicata sul sito internet di questo grande evento culturale: “Se, come sostiene Alain Badiou, il Maggio 68 è stato la fine di un’epoca, segnalando (insieme alla Rivoluzione Culturale Cinese) l’esaurimento definitivo della grandiosa serie politico-rivoluzionaria che è iniziata con la Rivoluzione d’Ottobre, dove siamo oggi? Noi che ancora contiamo su un’alternativa radicale al capitalismo democratico-parlamentare, siamo costretti a ritirarci e ad agire da differenti siti di resistenza o possiamo ancora immaginare un intervento politico più radicale?”.

Guarda caso, in quegli stessi giorni si trovava a Roma anche Paul Hollander, storico e sociologo nato settantasei anni fa in Ungheria, da tempo negli Stati Uniti dove insegna all’Università del Massachussets. Già scampato alla persecuzione nazista, dopo un iniziale accostamento il comunismo lo costrinse alla fuga nel fatidico 1956, anno in cui Budapest fu occupata dall’Armata Rossa. Riparato a Londra, Hollander rimase profondamente colpito dalla fascinazione acritica che l’intellettualismo occidentale nutriva per il comunismo. Ne rimase così colpito da dedicare successivamente la sua attività di studio alla comprensione dell’inganno psicologico e culturale che aveva indotto poeti, artisti, filosofi e letterati a schierarsi attivamente con l’Unione Sovietica, la Cina di Mao, la Cuba di Castro e Che Guevara contro la civiltà occidentale e gli Stati Uniti che ne rappresentavano l’avanguardia. Un inganno che è sopravvissuto alla storia, al fallimento di quei regimi sanguinari e domina ancora le menti e i cuori di quanti oggi, pur beneficiando dei vantaggi delle tanto vituperate democrazie liberali, in primo luogo della libertà d’espressione, all’Occidente preferiscono l’islam radicale, a George W. Bush Bin Laden. Dove sta l’inganno?

Nell’incontro del 21 aprile ospitato dalla Fondazione Magna Carta, Hollander ha illustrato i risultati della sua lunga indagine e delle sue opere fondamentali: Political Pilgrims (1988, tradotto in italiano con il titolo Pellegrini politici. Intellettuali occidentali in Unione Sovietica, Cina e Cuba), Anti-Americanism: irrational & rational (1995) e The end of Commitment. Intellectuals, revolutionaries and political morality (2006).

Spiega Hollander che la ricerca di modelli alternativi a quello occidentale “è solo in minima parte dovuta a motivazioni di ordine sociale ed economico”. Se è vero che la modernità offre grandi benefici in termini materiali e di libertà, essa “porta anche conseguenze negative. L’eccessivo individualismo, la perdita del sentimento religioso e dei valori tradizionali, hanno spinto alla ricerca di nuovi significati”.Il comunismo ha così potuto sfruttare al meglio la sua emozionale capacità attrattiva, fornendo un nuovo senso d’identità e giustizia e contemporaneamente un’alternativa al modello occidentale. “Gli intellettuali - dice Hollander - sono spesso ostili nei confronti delle società capitalistiche perché queste non sono in grado di soddisfare i loro bisogni di senso e di realizzazione nella vita. E ciò accade perché le loro aspettative sono irrealistiche rispetto a quanto è possibile effettivamente tradurre in realtà”. E’ questa frustrazione a scatenare la loro reazione “non lo sfruttamento o altre forme d’ingiustizia sociale”, anche se è sempre più facile “attribuire la responsabilità all’ambiente sociale”. Il forte “senso di colpa” per i difetti, o presunti tali, del modello occidentale genera quindi “un rifiuto assoluto della modernità e degli Stati Uniti che più la rappresentano”. Questa suggestione culturale e politica “ha addormentato la ragione di molti intellettuali, ha spento la loro capacità critica e di discernimento della realtà”, fino a sviluppare una pericolosa “propensione a farsi ingannare”. Gli intellettuali occidentali, guidati dalla fantasia al potere e dalla presunzione fatale di costruire una società perfetta, il paradiso sulla terra, in realtà “volevano farsi ingannare”, erano predisposti psicologicamente a cadere nell’inganno. Inganno di cui si servì con grande abilità la propaganda delle organizzazioni e dei partiti comunisti disseminati ovunque in Occidente per radicarsi, fare proseliti e prendere il potere per via democratica o rivoluzionaria (terroristica) a seconda della strategia adottata. E l'Italia ne sa qualcosa più di ogni altro paese.

“Il comunismo - nota Hollander - oggi è meno attraente rispetto alla guerra fredda, non ha più l’appeal sulle masse che aveva un tempo, anche se in Sud America il populismo nazionalista di sinistra, come quello di Chavez, è chiaramente ispirato al marxismo e ai suoi derivati”. Ciononostante, dopo il collasso dell’Unione Sovietica, in Occidente l’odio verso gli Stati Uniti è cresciuto. Questo perché “sono rimasti soltanto gli Usa a far da calamita del dissenso internazionale. Anche la politica più assertiva militarmente cui sono stati costretti dopo l’11 settembre, ha fornito nuovi pretesti a quanti già avevano un’inclinazione antiamericana”. Il paradosso è che “l’antiamericanismo è divenuto più forte proprio negli Stati Uniti. Il guru dell’antiamericanismo mondiale, Noam Chomsky, è americano, con il risultato che l’antiamericanismo interno agli Usa e quello internazionale si legittimano e si rafforzano reciprocamente”. Sono ancora molti, pertanto, gli intellettuali occidentali che “si sforzano di cercare un modello alternativo a quello in cui vivono, cioè alternativo al capitalismo e alla globalizzazione”, finendo puntualmente per abbracciare la causa dei nemici di turno degli Stati Uniti e dell’Occidente. Di qui, “il flirt della sinistra con il radicalismo islamico”. Ma attenzione, gli estremisti islamici, dice Hollander, “sono più pericolosi dei comunisti. I comunisti sono da sempre più pragmatici, attenti agli equilibri e soprattutto non hanno mai compiuto attentati suicidi; gli estremisti islamici sono spinti da fanatismo religioso, hanno il culto della morte e del martirio, e ciò li rende più violenti e una minaccia maggiore per la sicurezza". In ogni caso, vanno considerate "le responsabilità morali degli intellettuali occidentali", che non solo "non hanno mai rinnegato la loro adesione al comunismo, ma ancora oggi fanno dell'odio assoluto contro gli Stati Uniti il loro credo, e con ciò - volontariamente o involontariamente - mettono in pericolo l'esistenza delle libere società occidentali in cui continuano a vivere malgrado il loro odio". Non ci risulta, infatti, "d'intellettuali occidentali sostenitori dei movimenti radicali islamici che si siano convertiti all'islam" - e qualora ce ne fossero si tratterebbe di una percentuale trascurabile, l'eccezione che conferma la regola - “e d'intellettuali occidentali che pur continuando a fantasticare su nuove forme di liberazione e realizzazione collettive" abbiano coerentemente scelto di “vivere sotto un regime radicale islamico dove le donne vengono discriminate, gli orientamenti sessuali non convenzionali repressi e dove sono praticati i più barbari sistemi di politica criminale". Dal comunismo all'islam radicale, "l'incoerenza tra l'ideologia professata e quella vissuta" resta.

Il Festival della Filosofia di Roma dà esattamente la misura di questa incoerenza come dell’influsso che il comunismo, grazie alle sue camaleontiche isomorfosi, continua a esercitare in Italia e in Occidente. Quei giovani che entusiasti si sono recati all’Auditorium per apprendere il verbo sono le vittime di oggi, ma saranno anche i cattivi maestri di domani. (l'Occidentale)

giovedì 24 aprile 2008

Lo stizzoso D'Alema non sa perdere e spera nel fallimento di Alitalia per pura isteria antiberlusconiana. Carlo Panella

Ieri D'Alema ha accusato Berlusconi di avere procurato il fallimento di Alitalia col suo comportamento sconsiderato. Accusa demenziale, che dà il segno della isteria antiberlusconiana di un D'Alema incapace di perdere esattamente quanto incapace di governare. Tutto il ragionamento del Nostro si basa infatti sull'assunto che la cordata italiana non ci sia. E non ci deve essere perché se no Prodi e D'Alema che non si sono dati da fare per organizzarla fanno la figura degli incapaci (o dei prezzolati da Air France, come qualcuno dice sottovoce).
Il punto però è che la cordatata italiana c'é, che Berlusconi l'ha proprio messa in piedi, che la sua non era propaganda elettorale e che ci ha messo solo 20 giorni per farlo, grazie a Bruno Ermolli. La garanzia l'ha data, pochi minuti dopo le accuse stizzose di D'Alema, proprio Ligresti, che ha affermato che Fondiaria Sai è della partita, mentre Intesa e Tronchetti Provera lanciano chiari segnali di adesione.
Dunque Berlusconi non ha fatto fallire Alitalia, ma al contrario la farà rinascere e D'Alema dovrà impiegare i lunghi anni di opposizione per prendere ripetizioni su come si governa.

martedì 22 aprile 2008

Gli ex

Adesso non pensiate che la mia sia perfidia, però è ragionevole definirla piccola cattiveria.
Vorrei farvi l'elenco dei parlamentari appartenenti alla sinistra cosiddetta radicale che non sono stati eletti o non si sono candidati.
Mi limito ad elencare i più noti e vi garantisco che la lista è succulenta e appagante: comincio a rendermi conto della svolta epocale di queste elezioni e sono certo che le soddisfazioni, per noi emarginati e sbeffeggiati dalla sinistra, non sono finite.
E' una lettura che consiglio di assaporare lentamente con la soddisfazione di sapere che questa è solo una selezione.

Eccoli:
Fausto Bertinotti, Francesco Giordano, Oliviero Diliberto, Alfonso e Marco Pecoraro Scanio, Armando Cossutta, Paolo Cento, Marco Rizzo, Francesco Caruso, Vladimir Luxuria, Tana De Zulueta, Grazia Francescato, Angelo Bonelli, Katia Bellillo, Gennaro Migliore, Pietro Folena, Ramon Mantovani, Manuela Palermi, Giovanni Russo Spena, Cesare Salvi, Fabio Mussi, Franco Turigliatto, Fernando Rossi, Marco Ferrando, Lidia Menapace, Haidi Giuliani, Alessandro Bianchi, Paolo Cacciari, Elettra Deiana, Paolo Ferrero.

Privatizzazioni sì, ma col permesso dei sindacati. Vittorio Mathieu

Quando ero all’Università avevo uno studio a pochi passi da quello di Francesco Forte, e spesso facevo quei pochi passi per rifornirmi di libri nella biblioteca di Economia, perché scrivevo la Filosofia del denaro. Ora Forte ha fatto molti passi verso il luogo ideale dove mi trovo tuttora, il liberismo, e mi è gradito seguirlo su Libero. Ma voglio eccepire a una frase, al n. 16 del 6 aprile: “Non era mai accaduto che le privatizzazioni dei beni pubblici, anziché da funzionari governativi (…) fossero gestite dai sindacati”. Ricordo una privatizzazione – promossa, manco a dirlo, da Prodi – che fu gestita direttamente di sindacati, con l’appoggio determinato del WWF.

Si tratta delle tenute del Maccarese, che una società privata si offriva di comprare e di far rendere. L’idea mi pareva così buona che la lodai sul Il Giornale, dicendo che Prodi si dimostrava capace, non solo d’intendere, ma perfino di volere. Illusione: i sindacati si opposero, ed ebbero partita vinta presso il Tar, dicendo che in mano privata la gestione del Maccarese avrebbe danneggiato l’ambiente. Gli acquirenti, così minacciosi per l’ecologia, subirono una forte perdita finanziaria.

Nessuna meraviglia, dunque, se Spinetta si siede al tavolo direttamente con i sindacati e si alza quando questi mostrano di non abbassare la guardia. Alitalia era già gestita dai sindacati, era la loro compagnia di bandiera; lo Stato era solo chiamato a ripianare le perdite. (Ideazione)

Una volta. Jena

E’ proprio vero che gli immigrati fanno i lavori che noi italiani facevamo una volta ma che ora consideriamo troppo faticosi e umilianti: puliscono i cessi, lavano i vetri, costruiscono i palazzi, accudiscono i vecchi, cucinano, servono a tavola, stuprano... (la Stampa)

domenica 20 aprile 2008

Una bella gatta da pelare

Adda passà 'a nuttata, come dice Eduardo di "Napoli milionaria".

Possiamo trarre delle conclusioni ad una settimana dalle elezioni?
La portata del voto è storica e, come sempre accade in questi casi, è troppo presto per un bilancio completo: però le ovvietà sono inoppugnabili.

La Lega di Bossi è la rivelazione, per i politologi da scrivania, di questa tornata elettorale: ha sottratto voti a tutti i partiti ed è stata premiata per la vicinanza al popolo, per la sua "reperibilità"e per aver intercettato esigenze pratiche.
Chi non frequenta solo i salotti televisivi si era accorto da un pezzo che la Lega aveva fatto breccia tra gli operai e le classi meno protette: i sindacati, che oramai rappresentano quasi esclusivamente i pensionati, non sono stati capaci di tutelare nemmeno questi ultimi.
Il voto ideologico non regge quando manca la pagnotta: il sol dell'avvenir non accende il riscaldamento e la falce&martello non ti difendono da scippi, furti e aggressioni.

Il successo di Bossi è simmetrico alla disfatta della sinistra arcobaleno, dato che molti elettori hanno preferito non disperdere il voto, qualcuno si è spostato all'estrema sinistra, altri si sono astenuti e non pochi hanno dato fiducia alla Lega.

Il Pdl rafforza la sua posizione egemonica anche se, a mio avviso, ha perso qualche punto confluito nella Lega, guarda caso.
L'emorragia di consensi dall'ex-Cdl verso l'Udc è stata contenuta anche perché una fetta del partito non ha seguito Casini.
Ma è proprio il movimento di Pierferdy a suscitare l'interesse degli studiosi di flussi elettorali.
Infatti nessuno avrebbe scommesso sul raggiungimento del quorum, invece ha centrato il doppio obiettivo.
Casini aveva fiutato l'aria, adesso si spiegano certi suoi atteggiamenti dell'ultima ora, e si era reso conto che avrebbe potuto "imbarcare" i voti dei "margheritini" avversi alla fusione nel Pd: non ha avuto torto, ed ha fatto incetta di voti a sinistra.
Ora il Presidente emerito della Camera si ritrova con un partito spaccato in due: una parte che guarda a destra e l'altra che pende a sinistra. La prova: le amministrative a Roma; il partito ha dovuto dare libertà di voto, altrimenti scoppiava il finimondo.
Nei prossimi giorni ci sarà pane per i denti dei politologi con un partito in mezzo al guado dove l'equilibrismo sarà pratica quotidiana e senza sapere esattamente qual è l'elettorato di riferimento prevalente.

Una bella gatta da pelare.

sabato 19 aprile 2008

Montezemolo-Maramaldo osa parlar male dei sindacati solo dopo che hanno perso le elezioni. Carlo Panella

Tanto dure e giuste sono state le parole di Luca di Montezemolo contro la logica dei boiardi sindacali, quanto è indecente che le abbia dette solo dopo il voto.
Nei suoi quattro anni di presidenza di Confindustria è stato tutto un ''cencertiamoci'', dicutiamoci, contrattiamoci, dialoghiamoci. Pappa e ciccia con il governo Prodi, ha lasciato che Visco dissanguasse indisturbato la piccola e media industria con le sue finanziarie, perché lui, intanto, aveva ottenuto per la Fiat e le banche tutti gli aiuti possibili e immaginabili.
Poi, ha sognato un pareggio alle elezioni per presentarsi come salvatore della patria e nel suo ultimo discorso a maggio 2007 all'assemblea annuale ha attaccato a testa bassa partiti e istituzioni, ma si è ben guardato dall'attaccare il sindacato.
Ora che Berlusconi e Bossi hanno stravinto le elezioni, mentre lui se ne stava a contare i propri dividendi privati, ecco che il bel Luca si accorge che in realtà l'economia italiana è bloccata da una casta sindacale, ben più forte e potente di quella politica -perché non si sottopone mai al voto popolare, che può distruggere interi partiti e centinaia di carriere, come si è appena visto- e che taglieggia non solo il paese, ma anche e soprattutto i lavoratori.
Un sindacato verboso, che punta a far durare artatamente le contrattazioni per giustificare se stesso, un sindacatao costoso. Un sindacato, soprattutto, privo di qualsiasi strategia, di visione per il paese. Un sindacato di pensionati --un incredibile 54% degli iscritti- che è la vera palla al piede dell'Italia.
Tutto vero. Le parole di Montezemolo nel denunciarlo, però, non sono state coraggiose, ma vili, perché ha avuto il coraggio di pronunciarle solo dopo che il voto ha dimostrato che i lavoratori del Nord, come quelli del Sud, non si fidano più dei partiti che con questi sindacati vivono in sinergia, in primis il Pd, ma di quei partiti che questi sindacato contrastano, il Pdl e la Lega.
Montezemolo ha così dimostrato, non per la prima volta, di essere un piccolo Maramaldo.

venerdì 18 aprile 2008

Intellighenzia senza intelletto

Ho sempre meno rispetto di certi cosiddetti intellettuali.

Anche se non si dichiarano di sinistra, sono solo dei portatori d'acqua di quella parte politica: schierati in modo acritico, senza il coraggio di un acuto fuori dal coro, senza palle e senza cervello, convinti di essere i soli dalla parte giusta e i depositari della ragione.

In questi giorni mi stanno disgustando in modo particolare: non soltanto hanno completamente sbagliato le previsioni elettorali, ma si ostinano persino ad ignorare e sottovalutare la portata storica della vittoria del Pdl e della Lega.
Per loro non è successo niente, Berlusconi è un'anomalia a cui non si riconosce non già il rango di statista, ma nemmeno il ruolo di politico. Crollano i muri e loro non fanno una piega, sparisce dal Parlamento la genia comunista e loro non ne comprendono la portata convinti che il partito di plastica, destinato all'estinzione, sia quello di Berlusconi.
Purtroppo, temo, molti di loro si esprimono in buona fede: sono talmente impregnati di ideologia che il cervello si è atrofizzato, le reazioni sono automatiche e le conclusioni scontate.
Sembra che vivano in un altro Paese: non si accorgono dei mutamenti della Società, delle richieste della gente, del cambiamento dei costumi e, soprattutto, della metamorfosi dell'elettorato. O fingono di non accorgersi. Il che è anche peggio.

Ascoltare i dibattiti del dopo voto in questi giorni è un'esperienza che consiglio: sembra veramente di ascoltare degli studiosi che vivono di pura teoria avulsa dalla realtà.
In fin dei conti gli intellettuali di sinistra (cioè quasi tutti) non concepiscono un elettorato che non sia di centrosinistra e il fatto che oggi in Italia prevalga di gran lunga il centrodestra, li manda in crisi. La rivoluzione copernicana di Berlusconi e Bossi è difficile da metabolizzare per chi ha creduto unicamente nell'astro del centrosinistra.

Presto il loro opportunismo li porterà a prendere atto dello stato delle cose, ma stiamo attenti alle conversioni tardive ed ai ripensamenti interessati: il loro Dna rimane di sinistra e prima o poi riemerge.
Niente sconti, niente buonismi, nessuna apertura, nessun posto di comando o di favore a chi vorrà salire sul carro dei vincitori: troppe volte il centrodestra si è dovuto pentite di certe concessioni.

giovedì 17 aprile 2008

Sondaggi e "partiti maledetti". Luca Ricolfi

Il risultato elettorale ha preso alla sprovvista un po’ tutti, ma fra i cosiddetti osservatori - giornalisti, commentatori, studiosi, sondaggisti - lo sgomento è particolarmente acuto. Possibile che nessuno avesse intuito che cosa bolliva nella pentola della società italiana? Come mai, a due soli anni dalla catastrofe del 2006, la maggior parte degli exit-poll e dei sondaggi non sono riusciti a prevedere il risultato finale?

Ma soprattutto: perché, nelle previsioni, la sinistra è spesso sopravvalutata e la destra sottovalutata? Nel 2006 i sondaggi prevedevano una comoda vittoria di Prodi, mentre il risultato è stato un pareggio quasi perfetto. Nel 2008 i sondaggi degli ultimi giorni prevedevano una vittoria risicata di Berlusconi, o addirittura un pareggio, mentre il risultato finale è stato un trionfo della destra. Perché?

La risposta più onesta è che non lo sappiamo, e possiamo solo fare delle congetture. Fra le molte ragioni che possono aver determinato questi due scacchi consecutivi, tuttavia, ve n’è una che a me pare più importante delle altre. Gli psicologi sociali la chiamano «desiderabilità sociale», Marcello Veneziani parecchi anni fa parlò - più crudamente - di «razzismo etico». In breve si tratta di questo: quando una persona viene intervistata le sue risposte non sono influenzate solo da quel che l’intervistato pensa, ma anche da quel che l’ambiente intorno a lui gli suggerisce di pensare. Proprio così. La società, il gruppo di riferimento, i media definiscono continuamente ciò che è bene, ciò che è appropriato, ciò che è corretto, ciò che è «in». Simmetricamente definiscono ciò che è male, ciò che è inappropriato, ciò che è scorretto, ciò che è «out». Se in una società le istituzioni richiamano continuamente determinati valori (ad esempio la solidarietà) e stigmatizzano sistematicamente determinati atteggiamenti (ad esempio l’ostilità verso gli immigrati), una parte degli intervistati preferisce non rivelare le proprie preferenze se esse sembrano confliggere con ciò che è considerato socialmente desiderabile.

Che centra tutto questo con il voto di domenica?C’entra, ma bisogna far intervenire nel discorso il razzismo etico. Una parte della società italiana è afflitta da razzismo etico, nel senso che considera moralmente inferiore chi vota per forze politiche cui essa - la parte sana del Paese - non riconosce piena legittimità democratica. Specie fra coloro che esercitano professioni artistiche o intellettuali dichiararsi di destra, o peggio votare un partito come la Lega, o Forza Italia, o la Destra provoca imbarazzo, sdegno, costernazione, incredulità. Di fronte a certe persone, confessare di aver insidiato una bambina è meno imbarazzante che confessare di aver votato per il partito di Calderoli.

Questo sentimento di disapprovazione non è quasi mai esplicito, ma genera un clima che definirei di intimidazione dolce. Tutti possono dire e fare quel che vogliono, ma sanno anche che - in molti contesti - saranno giudicati severamente se confesseranno di aver votato determinati partiti. In breve, c’è una parte del Paese che si sente nella posizione di giudicare gli altri, e c’è una parte del Paese che - proprio per questo - si sente permanentemente sotto esame. In questo diabolico meccanismo è caduto persino Veltroni, che pure aveva fatto del rispetto dell’avversario una delle novità fondamentali della sua campagna elettorale: qualche giorno prima del voto, sfidando Berlusconi a sottoscrivere quattro principi di «lealtà repubblicana», si è posto nella posizione di chi, in quanto depositario del bene, si sente autorizzato a fornire patenti di legittimità democratica all’avversario politico (da questo punto di vista le posizioni girotondine appaiono molto più coerenti, o meno insincere: chi pensa che Bossi e Berlusconi siano due pericoli mortali per la democrazia, giustamente considera un errore politico la linea del pieno rispetto dell’avversario).

Può sembrare incredibile, ma le ricerche degli studiosi dimostrano che - quando è intervistata - la gente si vergogna di un sacco di cose, comprese le più innocenti (ad esempio guardare parecchia televisione). Del resto ce l’aveva già spiegato Altan molti anni fa, con la famosa vignetta in cui il militante di sinistra confessa a se stesso: «A volte mi vengono delle idee che non condivido». Se le cose stanno così, il fallimento dei sondaggi diventa meno inspiegabile. Nella cultura italiana i luoghi comuni della sinistra «politicamente corretta» sono diffusi in modo leggero ma capillare. Per molti cittadini progressisti o illuminati se voti Forza Italia come minimo sei un affarista, un mafioso, o un abbindolato. Se voti Lega sei una persona rozza, egoista e intollerante. Se voti i post-fascisti non hai diritto di sedere al desco dei veri democratici. Se sei di sinistra e ti capita di comprare il Giornale ti guardano come se avessi acquistato un rotocalco pornografico (è successo a me).

Insomma, non è sempre e ovunque così ma lo è spesso, specie nei luoghi che contano. Molti elettori di destra se ne infischiano, ma una parte non trascurabile di essi preferisce tenere coperte le proprie carte. Sul lavoro, nelle cene, al bar, ma anche nei sondaggi. Se pensi di votare un partito «democratico» o pienamente sdoganato non hai seri timori a rivelare la tua scelta, ma se hai in animo di votare un «partito maledetto» - ossia un partito di cui i «sinceri democratici» dicono tutto il male possibile - puoi essere tentato di non scoprirti, magari dichiarandoti indeciso, o astensionista, o sostenitore di un partito né carne né pesce (è per questo che, in passato, i Verdi erano sempre sopravvalutati nei sondaggi). Qualche anno fa mi è capitato di scrivere, anche sulla base di una analisi degli atteggiamenti dell’elettorato italiano, che il «complesso dei migliori» era una delle grandi malattie della cultura di sinistra. Il fatto che ancor oggi tante persone preferiscano non rivelare il loro voto quando esso si indirizza verso i «partiti maledetti» mi fa pensare che, nonostante Veltroni (o grazie a lui?), da quella malattia l’Italia non sia ancora uscita. (la Stampa)

mercoledì 16 aprile 2008

La rivoluzione culturale. Gianni Baget Bozzo

Il fatto è semplice: la sinistra ha tentato il governo di tutte le sinistre unite, dai «cattolici adulti» di Prodi, alla sinistra di base di De Mita, al Ds di D’Alema, di Veltroni e di Fassino sino al giustiziere Di Pietro, sino a Bertinotti e a Pecoraro Scanio, tutti per uno e uno per tutti. Ed è stato il disastro. La sinistra italiana non si è dimostrata forza di governo, pur avendone avuto l’occasione, per una ragione grande: essere estranea all’Italia del 2008 e vivere il Novecento come se fosse oggi. L’utopia del passato uccide più dell’utopia del futuro.
Berlusconi ha vinto: e in principio ha vinto Berlusconi solo, perché An e la Lega non hanno valenza autonoma perché hanno avuto questo successo in quanto fusi nella persona del leader. Come mai un uomo solo può tanto? È il problema che ci ha sempre meravigliato; sia noi che lo vedevamo con gioia, che quelli che lo vedevano come la figura dell’orribile. È ben chiaro che attorno a Berlusconi hanno giocato non delle politiche ma delle culture, non delle differenze sui fatti ma delle differenze sui valori. Per questo la vittoria di Berlusconi esprime la fedeltà dell’elettorato italiano ai principi di libertà e di democrazia, ma visti al di fuori del grande mito della storia d’Italia del Novecento costruita dai comunisti. Questo mito parte dal popolo italiano come immaturo, capace solo di reazione, di fascismo e di clericalismo. A questo popolo si deve imporre una direzione sapiente che gli faccia scegliere solo ciò che la società colta, che esprime stampa, banche, finanza, sindacati ecc., vuole. Qual è la storia italiana secondo il mito comunista? C’era una volta il fascismo, grande, grosso e cattivo, il popolo si riunì attorno alla guida comunista che associò altri partiti a lei subordinati culturalmente. Fece la resistenza partigiana, scrisse la Costituzione con concetti derivati dallo statalismo fascista e rovesciati nell’antifascismo. Ciò che era nero divenne rosso rimanendo eguale. Questa è la nostra Costituzione. Lo Stato dirige la società, l’élites guidano la gente, la classe intellettualmente alta domina con l’informazione la classe bassa che vive della sua esperienza. Contro il mito comunista venne Berlusconi, il vero tribuno della plebe che parlò al popolo una lingua diversa da quella dei comunisti, disse al popolo che non era nulla e che poteva essere tutto, come Mirabeau al Terzo Stato nella riunione di Versailles del 1789. Quando Eugenio Scalfari paragonò Berlusconi a Masaniello, aveva capito che Berlusconi delegittimava il potere del partito intellettuale e rappresentava da solo la seconda Repubblica. Questa storia d’Italia raccontata da tutti i giornali e in tutte le scuole non offre appigli alla vita vissuta, ma giustifica la legittimità della sinistra al potere. E si scagliò contro Berlusconi. Ed è da questa lotta furibonda dei giornali e dei poteri forti che è nato il rapporto tra il popolo e un volto di uomo capace di costruire un’altra legittimità e quindi un’altra cultura politica. Ora Scalfari dovrà dire o che la democrazia è una menzogna o che l’Italia non è una democrazia. Ambedue le cose sono le prove del suo fallimento di maestro.
E ci voleva Bossi. Il fatto che la Lega abbia vinto accanto a Berlusconi rafforza la nuova legittimità e crea un’altra storia.In nessun Paese europeo è esistito un mito come quello creato dai comunisti in Italia con la complicità di laici e di cattolici, nessun Paese si è dato una lettura della propria storia come critica totale della propria realtà. Berlusconi ha delegittimato il partito come il soggetto che dà forma alla democrazia, il popolo è la democrazia in se stesso e un volto basta a farlo esistere. Il partito non è un redentore salvatore come nella concezione comunista, ma solo uno strumento del popolo. È una rivoluzione culturale che è avvenuta attraverso l’opera di Berlusconi. Oggi il Paese si legittima da se stesso e crea una classe politica diversa da quella comunista e democristiana. I poteri forti che dominano il sistema culturale devono ora capire che la realtà incomincia da Berlusconi e che la sinistra è il sogno del passato di cui rimangono resti cancerogeni in tutto il Paese a cominciare dalla triplice sindacale storicamente fondata da comunisti, socialisti e democristiani.
Il corpo elettorale ha liquidato gli antagonisti e il partito cattolico, lasciando addirittura la sinistra arcobaleno senza parlamentari, un addio che incide su tutta la sinistra.
Se pensiamo all’agitarsi di anime belle, tra cui il direttore di Avvenire, Dino Boffo, in favore dell’Udc, notiamo che l’ironia della realtà è molto grande: i senatori Udc vengono tutti dalla Sicilia, li manda Cuffaro. Il partito cattolico è morto, anche Ruini deve prenderne atto e riformare Avvenire. Casini è ormai un annesso al gruppo Caltagirone.
Veltroni, chi è costui? Non può fare più opposizione di principio perché il mito della sinistra come lettura della storia d’Italia ormai è morto. Veltroni ha dinanzi fatti nudi e la loro testa dura. Si pensava alle larghe intese, le pensava la cultura dominante legata al mito comunista ma non si sono realizzate. Veltroni farà un’opposizione soave perché ha perso la terra da cui nasceva la sua forza.

Quel che di Silvio nessuno capisce.Filippo Facci

La maggioranza degli osservatori seguita a scrutare Silvio Berlusconi come se la sua immagine palese ne contenesse anche una occulta, qualcosa che sfugge loro costantemente e che li sfida a decifrarlo, una profondità nascosta alla superficie: è per questo che sfugge loro, infine, anche la superficie, sfugge la semplice assonanza di questo leader con il popolo italiano (il popolo, sì) e presto con i libri di Storia.
Di fronte alle sue vittorie, ogni volta, gli osservatori tendono a oscillare tra incredulità e rassegnazione: è incredula, per quanto desueta, la tendenza a cercare retroscena extra-democratici che rispondano a plagiature mediatiche e corruzioni delle coscienze, quando non addirittura corruzioni e basta; è invece rassegnata, ma ancora prevalente tra gli intellettuali, la tendenza ad ascrivere la predilezione degli elettori per Berlusconi all’inguaribile cialtroneria del popolo italiano: sentenza inappellabile e ogni volta speranzosamente appellata. Se Berlusconi viene eletto, in altre parole, o c’è un inganno o gli italiani sono stupidi. Entrambe le tendenze, piccolo problema, sono ancora ben presenti nel modernizzato e pur depurato Partito democratico. Senza fare stucchevoli esempi, potremmo parlare di tendenza Furio Colombo nel primo caso e di tendenza Scalfari nel secondo. Liquidando il primo caso come una paranoia residuale, è la seconda tendenza a interessarci di più. Le analisi di questi giorni, infatti, partono dal principio che il popolo sia quello che sia (provinciale, clericale, padronale, incolto), sicché a Berlusconi viene riconosciuta una genialità soprattutto tecnica nel saperlo intercettare: il Cavaliere è un venditore e il popolo è un target. In un sol colpo ha destrutturato due partiti e ha saputo erigersi a cavallo tra politica e antipolitica; di fronte alla crisi ha saputo sedurre le debolezze popolari mischiando una visione ottimistica nel futuro (come nel ’94) alle conoscenze e competenze che frattanto ha maturato. Questo, quando va bene, dicono i giornali, al di là della millesima analisi sulla semplificazione del quadro politico.
Ma manca qualcosa, per certi versi tutto. Ne ha fatto leggero cenno, ieri, il direttore di Europa Stefano Menichini: «Il rapporto fra Berlusconi e l’Italia, a questo punto, assume effettivamente una dimensione storica», occorre «tornare pazientemente a rivolgersi all’altra Italia, a quell’Italia, certo non popolata da mascalzoni, evasori fiscali o creduloni, che ancora stavolta non s’è fidata del centrosinistra». Ne aveva parlato anche Paolo Mieli in un’intervista rilasciata a marzo: «Berlusconi ha fondato un centrodestra che resisterà anche quando lui non ci sarà più. Se dovesse vincere le elezioni per la terza volta, lo spazio a lui dedicato nei libri di storia non sarà limitato alle formulette che usiamo oggi. Ci vorrà una riflessione profonda su quest’uomo che ha segnato nel bene e nel male la storia recente di questo Paese: il male è stato ampiamente dibattuto, ma il bene merita di essere anch’esso esaminato». Ecco: che questo «bene» possa contemplare anche quella larga parte di Italia che ha votato Berlusconi, e che magari in altre circostanze potrebbe votare altrimenti, è la rivoluzionaria ovvietà che non riesce a farsi largo nel ceto intellettuale. Non è chiaro che il sodalizio ormai storico e pluriennale tra Berlusconi e gli italiani non è dato solo dalla somma delle capacità tecniche e persuasive del primo sui secondi, ma dal fatto che gli italiani, dopo quindici anni, si fidano evidentemente di lui, gli credono, talvolta lo amano, e lo amano, incredibile a dirsi, per quello che è, per quello che fa, per una sua spiccata antropologia che viene enfatizzata come suo punto debole ed è invece parte inscindibile del personaggio irripetibile che è. Nella storia, e pur nell’era della televisione, non è ancora esistito un leader che abbia conquistato un popolo spingendolo a leggere il proprio programma. Nel sostegno incondizionato che un popolo sa dare a un leader c’è qualcosa che persino a noi, classe informata, talvolta sfugge, ma alla gente, l’orribile gente, no. (il Giornale)

martedì 15 aprile 2008

Erano tutti veri comunisti?

Devo ammettere che non avevo preventivato la scomparsa della sinistra arcobaleno e pensavo che Casini avrebbe preso meno voti.
Non sono un esperto di flussi elettorali, ma di sicuro queste votazioni faranno lavorare gli studiosi del settore.
A posteriori mi sento autorizzato, visto che poi non sono andato tanto lontano nelle previsioni, a fare qualche considerazione.

La prima: ancora una volta Berlusconi ha avuto ragione. Ha avuto ragione a lanciare la proposta del popolo della libertà, a lasciare a piedi Casini e rimanere alleato di Bossi.
Ha sempre sostenuto di avere la vittoria in tasca e aveva ragione.

La seconda: ha "scongiurato" gli elettori di non disperdere il voto indicando l'Udc come probabile collettore di voti dell'ex Cdl; infatti Casini si è portato via una fetta di elettori di centrodestra.

La terza: considerando che il Cavalier Berlusconi è "sceso" in politica quando i governanti della cosiddetta prima Repubblica erano già quasi tutti in età da pensione, ha certamente saputo cogliere le istanze, le tendenze, i desideri e le aspirazioni degli elettori, visto che il Pdl è il primo partito in Italia.

La quarta: si sta profilando il tanto invocato bipartitismo. Il catalizzatore è sempre lui; la categoria che per decenni ha funzionato come spartiacque: fascismo-antifascismo, si è trasformata in berlusconismo-antiberlusconismo.
Nel nostro Paese c'è una fetta rilevantissima della popolazione che vota contro Berlusconi a prescindere: potrebbe fare qualsiasi promessa e dimostrare di poterla mantenere, ma ci sarà sempre chi non lo voterà mai.
Come esiste una buona parte che lo voterà sempre.

La quinta: dopo dodici anni dalla sconfitta della famosa "gioiosa macchina da guerra" di Occhetto, Silvio Berlusconi imprenditore "prestato" alla politica è riuscito dove nemmeno il crollo del muro di Berlino arrivò: la fisica eliminazione dei comunisti dal Parlamento.
Se vi pare poco!
Credo che le conseguenze di tale rivoluzione non si siano ancora colte appieno data la botta ancora calda, ma sono persuaso che le ricadute politiche saranno devastanti per i compagni e di enorme beneficio per la governabilità.

Anzi, mi chiedo, erano tutti veri comunisti?

La sesta: credo che saranno sempre più numerosi coloro che si renderanno conto che il Cav. è uno statista a tutto tondo. Ha ampiamente dimostrato le sue doti politiche con le sue campagne elettorali strepitose, ha già dimostrato le sue capacità di governante e di scopritore di talenti ed è imbattibile nel cogliere l'umore della gente e nel realizzare i programmi.

In bocca al lupo, Silvio!

sabato 12 aprile 2008

La ciliegina sulla torta

Berlusconi bello tonico, pimpante, ironico e in vena di battute, Veltroni che fa il buono, inappuntabile, faccia da bravo ragazzo, che non risparmia stoccate all'esponenteprincipaledelloschieramentoavversario.

Ieri un'abbuffata di politici e di politica: oggi ci fermiamo a riflettere, meno male perché la campagna elettorale è stata comunque poco brillante e piuttosto noiosa.

Proprio riflettendo sulle dichiarazioni dell'ultima ora, sono sempre più convinto che il Cavaliere porterà a casa l'intera posta: non può esserci partita con chi non ha proposte e quello che promette è pura utopia.

Ieri sera da Mentana si capiva che l'ex sindaco di Roma recitava per l'ultima volta la sua parte nella commedia del partito del rinnovamento e del cambiamento: trasudava rancore e disprezzo nonostante la sua espressione da primo della classe, gli occhioni spalancati di chi finge di ascoltare, ma pensa alla risposta più velenosa per l'avversario politico.

Walter non ci crede, sa che ci vorrebbe un miracolo per vincere, non ha la "bomba" dell'ultimo minuto ed è arrivato senza più argomenti al traguardo; quel volpone del Cavaliere aveva ancora un colpo in canna: "stiamo studiando l'abolizione progressiva del bollo auto". Pd affondato!
Nel 2006 la promessa di abolire l'Ici, fatta all'ultimo minuto, aveva senza dubbio portato una larga fetta di indecisi dalla parte della Cdl, ma non fu sufficiente; questa volta la scossa del bollo auto è stata la ciliegina sulla torta, la sicurezza matematica della vittoria.

Ciò detto, vorrei soffermarmi a riflettere sulla prossima composizione del Parlamento che sarà molto diverso dall'attuale e senza molti uomini politici che sembravano inamovibili.
A parte Prodi, Violante e Mastella-i primi che mi vengono in mente-che non si sono presentati, è molto probabile che non verranno rieletti i socialisti Angius, Boselli e Grillini, i "destri" Buontempo, Storace e Santanché, i vari dissidenti dell'estrema sinistra: Rossi, Turigliatto e Ferrando.
Non è detto che Casini, Buttiglione, Cesa e udicini vari raggiungano il quattro per cento alla Camera ed è utopistico pensare all'otto per cento per il Senato in una regione.

Lo scenario che si presenta è tutto da studiare e sono convinto che questa volta ci sarà chi "cambia pagina"e non sarà il partito del "nuovo che avanza", ma il popolo della libertà.

Avvertenze per chiarire la lettura dei risultati elettorali. Peppino Calderisi

In vista del voto e del momento dello spoglio delle schede, è bene esaminare alcune questioni rilevanti ai fini della valutazione e del commento dei risultati elettorali, un momento della comunicazione politica che ha una parte non secondaria sulla definizione degli stessi assetti politico-istituzionali della nuova legislatura.

Anche se è molto improbabile, considerate le tendenze in atto, è bene approfondire l’eventualità del cosiddetto “pareggio”, sfatando alcuni luoghi comuni e leggende e rivelando alcuni fatti e dati (quasi) sconosciuti.

La riforma elettorale e la missione del tentativo Marini: rendere ingovernabile anche la Camera, non assicurare la governabilità al Senato.

La favola raccontata dal Pd che Berlusconi avrebbe impedito, dicendo no alla nascita del governo Marini, l’approvazione di una riforma elettorale capace di assicurare la governabilità è del tutto priva di fondamento.

Il Pd aveva abbandonato l’originaria proposta del “Vassallum”, un sistema dagli effetti moderatamente maggioritari, sposando la bozza Bianco, un sistema addirittura più proporzionale del sistema tedesco. Con questo sistema non sarebbe stata assicurata la governabilità al Senato, come già avviene alla Camera ma, al contrario, resa ingovernabile anche la Camera. Ed era questo il vero obiettivo del Pd (oltre che dell’Udc): sapendo di perdere le elezioni, il Pd voleva un sistema che non consentisse a Berlusconi di vincerle. Infatti, con un sistema proporzionale puro senza premio di maggioranza o altri meccanismi maggioritari, nessuno schieramento sarebbe in grado di ottenere la maggioranza assoluta dei seggi. Il governo non sarebbe più scelto dagli elettori, ma dai partiti attraverso le loro alchimie e i loro giochi di palazzo. Pertanto Berlusconi, opponendosi alla bozza Bianco, ha semplicemente evitato una sciagura per il Paese.

La riforma della legge elettorale dovrà essere realizzata - si spera in modo bipartisan - dopo il voto. Ma dovrà andare nella direzione opposta rispetto alla bozza Bianco.

Si è detto: Berlusconi vince alla Camera ma al Senato…

Per tutta la campagna elettorale è stato detto da tutti i mezzi di informazione che i sondaggi danno un vantaggio alla Camera a favore della coalizione di Berlusconi di vari punti percentuali, pari a oltre 2 milioni di voti, mentre invece al Senato…c’è il rischio del pareggio. La prima questione da chiarire è che la coalizione di Berlusconi ha questo vantaggio di circa 2 milioni di voti anche al Senato e che, anzi, per questo ramo del Parlamento, esso è leggermente più consistente (anche nel 2006 la Cdl prese 250 mila voti in più al Senato e 24 mila voti in meno alla Camera). Pertanto la coalizione di Berlusconi, in termini di voti, vince tanto alla Camera quanto al Senato. Che questa vittoria possa non tradursi in una ampia maggioranza di seggi al Senato è un’altra questione che dipende solo dall’assurdo e paradossale sistema di voto imposto dal Presidente della Repubblica Ciampi con la sua opposizione - assolutamente ingiustificata sul piano costituzionale - al premio di maggioranza nazionale per il Senato. E’ vero che Ciampi non suggerì il sistema basato sui premi regionali, ma una volta escluso il premio di maggioranza nazionale e quindi l’omogeneità dei sistemi elettorali per i due rami del Parlamento, qualunque altra legge elettorale, dalla proporzionale pura al mantenimento del Mattarellum, avrebbe accentuato il rischio di maggioranze diverse nelle due Camere.

Ma anche qualora la coalizione di Berlusconi (Pdl + Lega + Mpa) non ottenesse la maggioranza assoluta dei seggi, conseguirebbe comunque (salvo un improbabile, completo capovolgimento delle previsioni) più seggi rispetto alla coalizione di Veltroni (Pd + Idv). Pertanto, avrebbe la maggioranza assoluta alla Camera e la maggioranza relativa dei seggi al Senato. A chi altri potrebbe spettare il compito di formare l’esecutivo ?

Zapatero ha ottenuto la maggioranza relativa, ma nessuno ha detto che ha pareggiato e che non spetta a lui governare.

Il 9 marzo scorso in Spagna Zapatero ha ottenuto il 43,8% dei voti e 169 seggi su 350 del Congresso, 7 in meno della maggioranza assoluta di 176 seggi. Ma tutti hanno detto che ha vinto le elezioni. Nessuno, né in Spagna né in Italia, si è azzardato a dire che ha pareggiato. Nessuno ha messo in dubbio che il Re dovesse proporlo alla Presidenza del governo e che spettasse a lui il diritto di governare anche con la maggioranza relativa dei seggi… Perché ? Semplicemente perché non si chiama Berlusconi…

Perchè l’articolo 57, comma 3, della Costituzione penalizza la coalizione di Berlusconi di 10-12 seggi al Senato.

Non è solo la lotteria dei premi regionali che può penalizzare la coalizione di Berlusconi al Senato, ma anche la norma di cui al terzo comma dell’articolo 57 della Costituzione che prevede un numero minimo di 7 senatori per regione (eccetto Valle d’Aosta e Molise). Perché questa norma penalizza la coalizione di Berlusconi ? E’ presto detto. Le regioni con un numero minore di abitanti (come Basilicata, Umbria, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Abruzzo, Marche) risultano sovrarappresentate (ad esempio, la Basilicata con 597.768 abitanti ha un senatore ogni 85.395 abitanti) mentre le regioni con un maggior numero di abitanti (come Lombardia, Campania, Lazio, Sicilia, Veneto, Piemonte, Puglia) sono sottorappresentate (ad esempio, la Lombardia con 9.032.554 abitanti ha solo 47 senatori, uno ogni 192.182 abitanti). Il fatto è che gran parte delle regioni meno popolose registrano la prevalenza della coalizione di Veltroni, mentre tutte o quasi tutte le regioni più popolose registrano la prevalenza della coalizione di Berlusconi. Se il riparto dei seggi del Senato fosse in proporzione alla popolazione, come alla Camera, la coalizione di Berlusconi non subirebbe una penalizzazione di circa 5-6 seggi (corrispondente ad una differenza di 10-12 seggi) rispetto alla coalizione di Veltroni e non vi sarebbe alcun rischio di “pareggio”.

Fino a 18 contrassegni sulla scheda elettorale: la proliferazione delle liste è responsabilità del Presidente della Repubblica Napolitano.

Se sulle schede elettorali abbiamo fino a 18 contrassegni, in gran parte del tutto sconosciuti, con altrettanti sconosciuti candidati alla carica di Presidente del Consiglio, lo dobbiamo all’articolo 4 del recente decreto legge n. 24/2008 (convertito nella legge n. 30/2008) che ha esonerato dalla raccolta delle sottoscrizioni le liste sostenute dalla firma di due soli parlamentari nazionali o europei. Questa norma è stata imposta dal Presidente della Repubblica che ha fatto cambiare la norma inizialmente predisposta dal governo (con il consenso dell’opposizione) la quale prevedeva l’esenzione solo per le liste sostenute da un gruppo parlamentare. Almeno 11 liste si sono presentate solo grazie alla firma di due parlamentari. Senza questa norma avremmo avuto al massimo 6 o 7 contrassegni sulla scheda elettorale, in televisione non avremmo avuto (anche grazie alla “par condicio”) la lunga e ridicola sfilata di 18 candidati premier, gli elettori non avrebbero avuto la sensazione di una complicazione anziché di una semplificazione del sistema politico.

Addirittura, si è dovuto combattere una battaglia per evitare che fosse sufficiente la firma di un solo parlamentare. E solo per un miracolo i simboli sulla scheda sono solo 18 anziché 100 o 200, come sarebbe potuto accadere se tutti i parlamentari uscenti non ricandidati avessero “contraccambiato” la loro esclusione con la presentazione di una lista più o meno di fantasia (più o meno alla ricerca di un rimborso elettorale o di un contributo per l’editoria di partito…) Evviva il Presidente Napolitano e la lotta alla frammentazione del sistema politico ! Tanto la moltiplicazione delle liste, così come il pasticcio della scheda elettorale predisposta dal Ministro dell’interno, può solo favorire la dispersione del voto, confondere gli elettori, accrescere il numero dei voti non validi e il contenzioso nei seggi…Tanto, se tutto questo favorisce il c.d. “pareggio”, si potrà dire che la responsabilità è di Berlusconi che non ha voluto approvare la riforma elettorale prima di tornare alle urne… (l'Occidentale)

Berlusconi: verificare la laurea. Di Pietro, è un bugiardo.

"Chiedo al ministro dell'Istruzione se puo' sottoporre a custodia sicura i documenti che ci sono presso l'universita' e che attestino che Di Pietro abbia preso laurea. E chiedo al ministro della Giustizia di verificare i documenti con cui Di Pietro si e' rivolto per sostenere il concorso". E' il duro attacco che Silvio Berlusconi fa ad Antonio Di Pietro a 'Porta a porta'. "Non ha mai - dice l'ex premier - presentato un diploma originale di laurea, ma solo certificati diversi. Diversi in un caso per il voto di un esame e in un altro caso per la data. Di Pietro non solo mi fa orrore, ma e' anche un bugiardo". (la Repubblica)

venerdì 11 aprile 2008

Il Cav. semina "scandali". E fa bene. Milton

Sono francamente stufo di queste préfiche al soldo della politica, professionisti d’attaco, imbonitori politicanti, che mentre il Paese è sull’orlo del baratro economico, sommerso dai rifiuti, perdono tempo ad interrogarsi, terrificati, sulle probabilità che le truppe padane valichino il Po’, minando l’integrità della nazione. Farneticano di attacchi alla democrazia, alle Istituzioni, rigurgiti di fascismo; insomma la solita cantilena.

Vediamo da dove nasce lo scandalo? Ripassiamo insieme i principali momenti di questa campagna elettorale, quelli che hanno scatenato i pruriti delle sacerdotesse dell’ordine costituito.

Si comincia con l’evasione fiscale. Il presidente Berlusconi ha detto che se uno Stato ti preleva più del cinquanta per cento di quello che guadagni, senza darti peraltro servizi adeguati, è giusto chiedersi se valga la pena pagare le tasse. Ed allora, e’ vero o non è vero che gran parte dei nostri soldi vengono sperperati da uno stato affamato corporativo ed inefficiente, da una casta dedita alla clientele e ai privilegi? E così scandaloso quindi affamare la bestia che ti divora e limita la tua libertà?

Si continua poi con la dichiarazione di guerra (sic) di Bossi, i fucili contro la carogna romana. Non ricordo mai di aver visto il leader del carroccio con un’arma in mano, né alcuno dei suoi spaccare vetrine od assaltare caserme della polizia. Mentre ricordo un ex presidente del Consiglio ed attuale Ministro degli Esteri esercitare il lancio della molotov (presumibilmente contro la Polizia) oppure, più recentemente, passeggiare beato con i terroristi libanesi in una Beirut devastata, come ricordo membri della coalizione a sostegno di Veltroni (ed ora di Rutelli) al Comune di Roma, assaltare proprietà private, devastare supermercati ed incendiare sedi di partito a loro non simpatiche, dopo avere ovviamente abbondantemente defecato. Bossi è lo stesso Bossi che D’Alema definì costola della sinistra, un animale politico che ha saputo lottare per la libertà e lo sviluppo della sua gente, che parlava di casta romana, quando gli autori del famoso libro frequentavano ancora la scuola di giornalismo e Grillo faceva il pagliaccio in TV.

Ma su questo punto il massimo del ridicolo si è raggiunto con la letterina scritta da Veltroni a Berlusconi, nella quale l’imbonitore senza passato, chiedeva garanzie sulla tenuta democratica del futuro governo di centro destra e sul rispetto della Costituzione. Veltroni, proprio lui, che si erge a santone di una carta costituzionale vecchia di 60 anni, scritta prevalentemente da chi sognava ancora il compagno Stalin e teneva i fucili (quelli veri) nascosti nelle cantine, mentre il week end lo passava all’hotel Lux a comporre liste di proscrizione per i gulag. Ebbene si, la Costituzione va cambiata, anche nella sua prima parte e i libri di storia vanno riscritti a cominciare dalla stantìa retorica sulla Resistenza (possibilmente con un provvedimento nel primo consiglio dei Ministri).

Infine, è proprio di questi giorni la polemica sul Capo dell Stato. Cosa avrà mai detto Berlusconi. Nel 2006 la sinistra ha vinto le elezioni per 24'000 voti e un seggio al Senato (dove ha preso 250.000 voti in meno). Nonostante questo sostanziale pareggio e molti dubbi sulla regolarità del voto in alcune area del Paese e all’estero, la delicatezza e la responsabilità istituzionale della sinistra ha generato il seguente assetto: alla sinistra stessa sono andati, il presidente del Senato, il presidente della Camera, una larga maggioranza alla Corte Costituzionale (nessuno degli sdegnati odierni ricorda il giudice Vaccarella “costretto” alle dimissioni) e per finire il Presidente della Repubblica, che al contrario di Bossi, che i fucili li annuncia soltanto, i carrarmati, quelli veri, che invasero l’Ungheria li appoggiava sentitamente, salvo poi pentirsene in tarda età. E vero, o non è vero quindi che, la sinistra occupa tutte le più alte cariche istituzionali e che per eventualmente dare una camera (personalmente non ne vedo la necessità) alla sinistra in caso di vittoria del centro destra, bisogna che si crei un equilibrato bilanciamento dellle cariche istituzionali?

E quindi dove sta lo scandalo? Continui Cavaliere, senza paura. (l'Occidentale)

giovedì 10 aprile 2008

I missili di Silvio. Oscar Giannino

È arrochito come un leone marino, Berlusconi, e sono solo le 11 del mattino. Ma ha già macinato due ore di Radio anch'io, quando ieri registra la puntata di Omnibus che va in onda stamane alle 7.45 su La7. E la giornata sarà ancora lunga, più tardi a Pescara si presenterà in piazza dicendo «ecco quel che resta di me», raccontando dell'otorinolaringoiatra che lo ha ammonito a smettere, perché il ritmo degli ultimi giorni è di 10-11 ore di comizi e interviste al giorno. Roco sì ma mogio no, il Cavaliere. Anzi, a Omnibus, condotto dal direttore del tg di LA7 Antonello Piroso, Berlusconi sfodera una zampata poderosa. Apparentemente un inciso, «un'ipotesi di scuola», dice sin da subito rispondendo alla domanda che gli viene dagli intervistatori (Antonio Polito e il sottoscritto) intorno all'ipotesi di lasciare, in caso di vittoria elettorale, la presidenza di una Camera al Pd di Veltroni. «Un'ipotesi di scuola», ripeterà nel pomeriggio, quando la polemica avvampa al calor bianco. Certo, certo. Ma intanto Berlusconi la butta li con nonchalance, sapendo bene che si tratta di benzina spruzzata sul fuoco. «Non possiamo cedere nulla», risponde serafico il Cavaliere. Perché dopo le elezioni del 2006 vinte per un soffio e per di più assai contestato, la sinistra li ha senza esitazioni voluti e presi tutte per sé, i vertici delle istituzioni, Camera dei deputati, Senato della Repubblica e anche il Quirinale. Di conseguenza, continua serafico e pacato Berlusconi, a fronte di un simile vulnus, se il 14 e 15 aprile vince il PdL la presidenza del Senato si può concedere alla sinistra nella sola «ipotesi di scuola» che il capo dello Stato Giorgio Napolitano dovesse decidere di dimettersi. Bum. Fantastico. Mai un periodo ipotetico del quarto tipo - Napolitano non si dimetterà, ovvio, Berlusconi lo sa benissimo - ha espresso meglio di così uno stato d'animo reale, quello del Berlusca alla fine della cavalcata elettorale. Pensa che la vittoria sarà netta. Silvio non tratta. Con nessuno.
Nel giro di poche ore dacché le agenzie rilanciano le parole del leader del PdL, al Quirinale fioccano solidarietà e sostegni, dai vertici della sinistra. Ma l'interpretazione autentica dell'ipotesi di Berlusconi non è affatto un attacco diretto a Napolitano. Il Cavaliere dice e ripete con il più catodico dei sorrisi che «non c'è mai stato un solo minuto di polemica con il Presidente della Repubblica, mai». Il missile è diretto a una tesi politica che pure ha retto gran parte delle interpretazioni di questa singolare campagna elettorale. A lungo criticata per essere moscia e troppo reciprocamente rispettosa tra Berlusconi e Veltroni, dopo che per 14 anni gli stessi critici odierni scrivevano che le campagne di Berlusconi erano troppo aggressive verso la sinistra, e che la sinistra troppo demonizzava il Cavaliere. «La verità è che sinché sarò io in campo non andrà mai bene quel che faccio, comunque», chiosa Silvio. Il bersaglio semiaffondato - non affonda mai niente del tutto, nella politica italiana, non illudiamoci - è il grande accordo post elettorale, conseguenza di un eventuale pareggio tra Camera e Senato. Con quest'ultimo, per via della lotteria dei premi di maggioranza attribuiti su base regionale, privo di una maggioranza di seggi a favore del PdL significativa numericamente al punto tale da appenderci la governabilità di una legislatura. Si vedrà chi ha ragione. Intanto però Berlusconi chiude la campagna assolutamente convinto che il vantaggio iniziale sul Pd di Veltroni sia rimasto così netto da scongiurare ragionevolmente ogni ipotesi di stallo, e dunque ogni successivo accordo necessario. Per questo non si concede una presidenza delle Camere, almeno non oggi che la campagna elettorale è ancora in corso. Per questo Berlusconi sta attento a non dare visibilità polemica alle forze che considera ormai fuori dal gioco dei tetti elettorali da raggiungere. «Sulla destra non rispondo e non raccolgo», dice a noi che gliene chiediamo, a proposito della polemica animata da Daniela Santanché su come il Cavaliere si rivolge alle donne in campagna elettorale. «Non rispondo perché la grande visibilità alla Destra serve solo a dirottare voti dal PdL, è il gioco della sinistra», ribadisce. Picchia e ripicchia invece sull'Udc e su Casini, Berlusconi. Ed è un piccolo ma significativo segnale che rivela come, nel gioco dei sondaggi riservati dell’ultimora, l'Udc venga ancora considerato nella possibilità di superare il tetto dell'8% in qualche Regione. Persino il professor Buttiglione, a un certo punto, è indicato insieme a Follini dal Cavaliere come uno dei più tenaci frenatori nell'attuazione del programma di governo, nel governo Berlusconi 2001 -2006. È a Gianni Letta e ai suoi sforzi di varare un 'intesa istituzionale bipartisan, all'inizio della legislatura appena conclusa, che la sinistra disse no sposando la linea di Romano Prodi, per il quale nessun accordo andava sottoscritto e nessuna concessione fatta al centrodestra, malgrado al Senato il centrosinistra avesse un margine di maggioranza tanto esile che alla fine gli è stato fatale. Ed è a Gianni Letta e alla sua tenace e convinta riproposizione di un'eventuale intesa istituzionale all'inizio della prossima legislatura, che la sinistra dice un'altra volta no, se attacca il Cavaliere a testa bassa in quest'ultima fase della campagna elettorale. Berlusconi lo sa. E nel lanciare l'ipotesi del Napolitano dimissionario e nel mettere in conto la sdegnata levata di scudi della sinistra, è come se allargasse le braccia sorridendo, rivolgendosi proprio a Letta. Come a dire: «Caro Gianni non è colpa mia, tu sei bravo e hai pure ragione, ma come vedi sono loro che restano sempre eguali». Per il resto, il Cavaliere che vedrete a Omnibus stamattina presto è di un buonumore che attesta la sua fiducia. Nega di aver mai varato leggi ad personam. Smentisce di aver mai ordinato alcun allontanamento di giornalista dalla Rai, nel mentre sferza la trasmissione di Santoro e «quel che Santoro fa fare a Travaglio ad Anno Zero, senza mai contraddittorio di coloro che vengono demoliti». Recita e ripete tutti i temi della campagna elettorale, il Cavaliere, dai giovani ai pensionati, dalle tasse alla defiscalizzazione dello straordinario, dall'Alitalia all'Expo Milano 2015, sul quale riconosce che esaminerà con attenzione la nostra proposta di attribuire a Letizia Moratti un vero e proprio ministero speciale ad hoc, per evitare bastoni tra le ruote. È così allegro ma vigile, Berlusconi, che non si fa sorprendere e mi nega educatamente la mano di sua figlia, che gli chiedo a sorpresa parafrasando la nota giovane precaria, scusandomi tra me e me con l'ombra di donna che mi è cara. Ma Berlusconi si riscatta subito. È severo ma generoso, lui. Per questo si offre di pagarmi due interventi di chirurgia estetica dal suo medico, per rendermi meno inadatto al matrimonio cui ambisco. «Due trapianti di capelli, via quella barba e baffi, e vedrà come la servo». Accetto al volo. Cavolo, almeno la campagna elettorale a me porta qualcosa. (Libero)

Dopo il voto. Luca Ricolfi

Salvo imprevisti, lunedì notte sapremo chi ha vinto le elezioni, sempre ammesso che ci sia un vincitore (potrebbe anche succedere che chi vince alla Camera perda o pareggi al Senato).

Ma c’è un’altra cosa di cui, a partire da martedì, verremo poco per volta informati, ed è lo stato effettivo dell’Italia. Solo allora, infatti, i partiti potranno alleggerire la pressione che li induce a rappresentare la situazione dell’Italia in modo tendenzioso, evasivo, parziale. E solo allora, finalmente, i vincitori saranno costretti a suddividere le rispettive promesse in due gruppi: quelle che si possono mantenere subito e quelle che, «vista la situazione», non si possono che spalmare lungo i cinque anni della legislatura. Che cosa ci diranno, dunque?

Quanto alla situazione, dopo aver sottolineato la gravità della congiuntura economica internazionale, credo non potranno esimersi dal rivelarci almeno tre cose strettamente italiane. Primo: non c’è un euro. È vero, siamo rientrati nei parametri di Maastricht ma il deficit del 2008, previsto al 2,4% del Pil, rischia di risalire pericolosamente verso il tetto del 3%.

Rischia di risalire per l’effetto congiunto di spese non messe a bilancio (7 miliardi secondo una stima del Sole - 24 Ore) e di una crescita del Pil molto minore del previsto, se non addirittura nulla. In poche parole, non c’è alcun extragettito da distribuire né sotto forma di nuove spese né sotto forma di alleggerimenti fiscali. Secondo: il numero delle famiglie in difficoltà è enorme (oltre 4,5 milioni su 24), ed è aumentato in modo drammatico negli ultimi 12 mesi. Secondo l’Isae fra il primo trimestre del 2007 e il primo trimestre di quest’anno, ossia nel giro di un solo anno, il numero di famiglie che a fine mese sono costrette a ricorrere ai risparmi o a fare debiti è aumentato del 57% (non era mai successo dacché esiste l’indagine, ossia dal 1999).

Terzo: le carceri scoppiano. A meno di due anni dall’indulto il numero di detenuti è tornato abbondantemente al di sopra della capienza regolamentare, senza che nulla di significativo sia stato fatto per evitare il ripetersi dell’emergenza dell’estate 2006: l’estate 2008 si profila turbolenta come quella di allora.

Di questo, più o meno, si ricorderanno i partiti dopo il voto. Ma che conseguenze ne trarranno?

Ovviamente non lo so, ma provo a fare un’ipotesi, o forse un auspicio. Potrebbe succedere che, non potendo aumentare ulteriormente le entrate (cresciute di quasi 100 miliardi fra il 2005 e il 2007), ed essendo impossibile dismettere in poco tempo quote rilevanti del patrimonio pubblico, ci si decida finalmente a porre mano agli sprechi della Pubblica amministrazione. Finché l’economia non riparte, è l’unico modo per trovare le risorse necessarie per mantenere almeno qualcuna delle innumerevoli promesse dei due schieramenti. La riduzione degli sprechi c’è nel programma del centro-destra, che pensa di tagliare a un ritmo di circa 5 miliardi l’anno, e c’è nel programma del centro-sinistra, che pensa di tagliare a un ritmo triplo (circa 15 miliardi l’anno). Il materiale su cui agire non manca, perché le stime più prudenti suggeriscono che le risorse «bruciate» dall’inefficienza della Pubblica amministrazione siano pari ad almeno 80 miliardi di euro l’anno, con tassi di spreco compresi - a seconda dei settori - fra il 15% e il 40% (secondo le stime dell'Osservatorio del Nord-Ovest: sanità 18%, scuola 25%, false pensioni di invalidità 32%, giustizia civile 35%).

Avranno i due partiti principali il coraggio di fare quel che va fatto? A giudicare da ciò che dicono i protagonisti, si direbbe che il centro-sinistra sia più ambizioso e determinato (vuol tagliare il triplo del centro-destra), ma il centro-destra sia maggiormente consapevole dell’enorme difficoltà del compito, ovvero delle resistenze che sindacati, corporazioni, lobby, categorie, gruppetti, singoli individui opporrebbero a un’azione di progressiva riduzione degli sprechi (non a caso Giulio Tremonti ha parlato della necessità di «abrogare il ’68»). È difficile prevedere che cosa effettivamente faranno il Pdl e il Pd, e se quel che faranno proveranno a farlo insieme o divisi. Quel che sembra innegabile, tuttavia, è che - al momento - la riduzione della spesa pubblica è l’unica via attraverso la quale la politica può ritrovare i gradi di libertà che aspira ad avere.

Si possono avere le idee più diverse sulla destinazione delle risorse così liberate. Alcuni pensano che la priorità siano le imprese, perché «solo così torneremo a crescere». Altri che la priorità siano le famiglie, perché troppe di esse sono entrate in povertà. Altri ancora che la priorità sia il nostro Stato sociale, che non è solo inefficiente ma è anche incompleto (mancano asili nido, ammortizzatori sociali, politiche per gli anziani e i non autosufficienti). Ma su un punto non dovremmo avere più dubbi: con un debito di 1600 miliardi di euro e un’economia che è diventata la più lenta e inefficiente d’Europa, 80 miliardi l’anno di sprechi non possiamo più permetterceli. (la Stampa)

mercoledì 9 aprile 2008

Endorsement di sciocchezze. Arturo Diaconale

Per i giornali è tempo di endorsement. Lo ha fatto “L’Economist” in favore di Walter Veltroni ad ulteriore e definitiva conferma che il settimanale conservatore della grande finanza anglosassone non capisce un beato tubo della politica italiana. Lo ha fatto “Il Riformista” ribadendo legittimamente la propria dichiarata e ripetuta scelta di campo ma non rinunciando, a futura memoria, a criticare la campagna elettorale del candidato Premier del Partito Democratico. E lo ha fatto l’intera grande stampa nazionale, quella dei giornali di proprietà dei grandi gruppi bancari, economici e finanziari, imitando “L’Economist” ed il “Riformista” e schierandosi al fianco di Walter Veltroni. Si dirà che non si è trattato di un endorsement esplicito. Almeno fino ad oggi, ad esempio, “Il Corriere della Sera” non ha ripetuto l’appello agli elettori a votare per il Pd che Paolo Mieli lanciò alla vigilia del voto del 2006 in favore del centro sinistra di Romano Prod. E “ La Stampa”, “la Repubblica” con la sua catena di quotidiani locali ed il “ Messaggero” con la filiera delle testate del gruppo Caltagirone, non si sono espressi apertamente contro il partito di Silvio Berlusconi e per il successo dell’ex sindaco di Roma. Il loro, però, è stato un endorsement addirittura più evidente di quello compiuto a suo tempo dal quotidiano di via Solferino.

Non è passato un solo giorno della campagna elettorale che le pagine dei grandi giornali dei cosiddetti “poteri forti” abbiano messo in bella luce il programma, le parole, gli atteggiamenti ed i comportamenti del leader del Pd e, contemporaneamente, non abbiano strumentalizzato in maniera critica il programma, le parole, gli atteggiamenti ed i comportamenti del Cavaliere. Il fenomeno è sotto gli occhi di tutti. Dalla battuta di spirito di Berlusconi sull’opportunità che le precarie sposino i milionari fino alla falsa polemica sul riferimento di Berlusconi alla malattia di Bossi, dalla faccenda dei fucili dello stesso Senatur alla scherzosa osservazione dell’incontinente candidato Premier del Pdl sulla superiore avvenenza delle donne del centro destra rispetto a quelle di centro sinistra, il solo impegno della grande stampa è stato quello di sputtanare Berlusconi ed esaltare Veltroni. Non si discute, ovviamente, sulla legittimità di questa scelta. In democrazia ogni opinione va rispettata. Si discute, semmai, sulla trasparenza della scelta in questione. E sulla sua motivazione più profonda e reale. L’endorsement di questi grandi giornali non è stato aperto, lineare, cristallino. Come quelli del “L’Economist” e del “Riformista”. E’ stato camuffato, mimetizzato, nascosto sotto una presunta completezza dell’informazione che si è risolta in una corsa ad esaltare le sciocchezze e le strumentalizzazioni delle sciocchezze stesse a scapito della discussione sui problemi effetti del paese. E questo comportamento, che ha trasformato la campagna elettorale nella sagra delle minchiate, non è dipeso dal tentativo di salvare il ruolo della stampa d’informazione che cerca di rimanere al di sopra delle parti.

E’ stato il frutto del tentativo dei “poteri forti”, attraverso i loro terminali mediatici, di pilotare il voto nella direzione di contenere il più possibile la prevedibile vittoria del Pdl arrivando, possibilmente, ad una situazione di pareggio al Senato. Apparentemente sembrerebbe che in questo modo i “poteri forti” vogliano favorire le “larghe intese” nella prossima legislatura per fare le riforme e dare un governo stabile al paese. Nei fatti è più facile che chi ha prosperato in questi anni grazie alla precarietà del sistema politico punti a perpetuare questa instabilità per non perdere i propri privilegi. Questo non significa compiere un endorsement preventivo contro l’ipotesi che dopo le elezioni Pdl e Pd possano trovare un accordo per governare il paese. Significa mettere in guardia contro il pericolo che si arrivi alle larghe intese non per fare gli interessi di tutti ma solo quelli dei soliti noti delle banche e della finanza. (l'Opinione)

Il centrodestra rivoluzionerà la politica estera. Fiamma Nirenstein

La politica estera, questa misconosciuta. In questa campagna quasi non se ne è parlato. Eppure, è un tema rivoluzionario, e se vincerà il centrodestra cambierà subito, perché su di essa i due schieramenti sono lontani un oceano. Un sussulto tellurico lo si è avvertito ieri a Savona, con una decisa incursione di Berlusconi in questo campo: «Israele sarà la prima tappa dei miei viaggi nel mondo da premier - ha detto - per festeggiare il sessantesimo anniversario dell’unica democrazia del Medio Oriente, la sua valorosa battaglia di sopravvivenza, il suo spirito morale». Una sola incursione in politica estera, proprio là dove la sinistra da anni piccona e destruttura fino alla delegittimazione di Israele. La gente in piazza ha reagito con entusiasmo alla scelta di affrontare il più controverso fra i temi: appena si restituisce alla politica estera un valore morale, questa scelta coinvolge e accende un riflettore sulla nostra stessa identità; appena si rovescia la stantia, ottusa divisione terzinternazionalista fra buoni anti capitalisti e cattivi amici degli americani, la gente è pronta a capire che oggi il mondo si trova di fronte a conflitti totalmente nuovi, in cui i buoni sono quelli che stanno dalla parte della democrazia, delle società in cui la donna non è schiava e dove non si torturano i dissidenti. L’esperienza di questi anni, per chi non è cieco, ha mostrato che nel bruciare le bandiere americana e israeliana c’è soprattutto una forma di disprezzo inconsulto verso noi stessi. Quindi, peccato che si sia parlato poco di politica estera: parlarne significa vincere la paura di difendere la nostra civiltà democratica.Dal Medio Oriente ho visto per due anni impallidire e avvizzire l’immagine dell’Italia: il modo esitante con cui ha gestito le missioni internazionali; la fretta di ritirarsi dall’Irak; la passeggiata con gli hezbollah a cui il ministro D’Alema può dedicare un’alzata di spalle solo se pretende di ignorare la storia di questo gruppo terrorista; le accuse a Israele di usare una «forza sproporzionata»; il vituperio incessante del recinto di sicurezza che ha fatto calare il terrorismo suicida del 90 per cento; l’illusione di rabbonire Ahmadinejad che prepara l’atomica; la continua accusa di responsabilità esclusiva di Israele e mai dei palestinesi; il vantato rapporto con la Siria, Paese così estremista da essere contestato persino da molti membri della Lega Araba. Ma l’Europa ha già cambiato strada: l’identità di contrapposizione agli Stati Uniti basata sull’asse Chirac-Schroeder è stata superata. Sarkozy e Merkel rappresentano un’Europa che può accordarsi con gli Usa sul controverso ombrello antimissile senza irritare troppo Putin. L’Iran nucleare e la ripresa di Al Qaida sono un problema di sicurezza comune a tutti. Anche i Paesi arabi sono impauriti di fronte alla strategia iraniana, e dodici fra di loro ora stanno mostrando interesse per il nucleare: un’Europa che dia più sicurezza nella difesa contro il terrorismo internazionale può creare una frontiera più protetta ed evitare l’incerto scenario dell’escalation mediorientale. L’aver ignorato il significato e il pericolo dell’islamismo aggressivo e aver preferito dare addosso all’America e a Israele, ha indotto in Italia, in questi ultimi due anni, un’ottusità morale che ci ha impedito di capire dove sta il bene e il male. La prossima politica estera italiana, se il Popolo della libertà vincerà, dovrà riprendere il filo dei diritti umani per collegarlo a una politica di sicurezza che richiederà uno sforzo militare europeo: sarà una novità non da poco. Fronteggerà, si può sperare, con fermezza la cultura dell’odio; boicotterà i leader che se ne fanno portavoce; chiederà conto a tutti i regimi della sorte dei dissidenti; e speriamo anche che agirà alle Nazioni Unite come un Paese consapevole che l’Onu è drogato dall’inflazione di condanne (un terzo di tutte quante) contro Israele mentre per il Darfur si fa poco o niente. Insomma, un’organizzazione che non difende più la pace e i diritti umani. Soltanto con questo spirito potremo educare i nostri figli e scegliere gli amici giusti, che ci sono e ci aspettano. Una autentica rivoluzione. (il Giornale)

martedì 8 aprile 2008

Perché Veltroni non nomina mai il Cav.

Walter Veltroni si è imposto il vezzo di non pronunciare mai il nome di Berlusconi in campagna elettorale. Ricorre a tutte le parafrasi possibili, ma ostentatamente evita il nome proprio. Vorrebbe che questa scelta fosse intesa come una svolta positiva: la fine dell’anti-berlusconismo insultante che caratterizzava la retorica di sinistra.
Ma non è così: si tratta invece di una scelta odiosa e tracotante, tesa a deumanizzare l’avversario, a cancellarne identità e caratteristiche personali. E’ una trovata da bassifondi della psico-politica, indegna dell’immagine cristallina che Veltroni vuole trasmettere di sé e rivelatrice invece della sua vera indole fatta di piccole e grandi cattiverie, di calcoli e di astuzie.
Veltroni si illude che nel vuoto creato dall’assenza del nome dell’avversario gli italiani possano riversare i loro odi e le loro paure: ognuno le sue, ognuno le peggiori, risparmiando a lui la fatica di sporcarsi le mani. Ma non funziona così.
Quello che spaventa gli italiani è che possono sentirsi ripetere il nome di Veltroni anche cento volte al giorno, ma il vuoto resta lo stesso. (l'Occidentale)

lunedì 7 aprile 2008

Il carisma non si compra alla Coop.

Ma lo avete analizzato il linguaggio dei leader?
Le ascoltate le parole, sentite l'enfasi, la foga e la passione?
Come si pongono i candidati premier dei due schieramenti principali?
Veltroni non vi pare il docente che spiega ai discepoli quello che è bene per loro, come va il mondo e cosa è necessario che pensino? I suoi "vedete", "sapete", "capite"e "guardate" sono il tipico atteggiamento di chi si ritiene superiore e deve indottrinare la gente.
Walter ricorre ad un eloquio "sereno e pacato", da padre e precettore, ma sotto sotto si sente disprezzo, rabbia e rancore per l'avversario oppure insofferenza, arroganza e fastidio per chi intralcia il suo progetto.
Veltroni è finto, studiato, artefatto e insincero: non crede a quello che dice, ma è abile nel dissimularlo.
Silvio è spontaneo, convinto, irrefrenabile, spesso imprevedibile e qualche volta incauto.
Si percepisce la sua convinzione ed il suo entusiasmo.
Ci crede fino in fondo, non bleffa ed è conscio di portare a termine il programma e onorare le promesse.
La folla che partecipa ai suoi comizi è entusiasta, persuasa, fiduciosa e in piena sintonia ideologica con Berlusconi.
Dal punto di vista comunicativo tra i due non c'è partita: Veltroni non ha credibilità, anche se vende bene promesse e illusioni; Berlusconi rappresenta ancora l'antipolitico che capisce la politica più di chiunque altro, rappresenta ancora il nuovo, ma, soprattutto, è il solo attendibile quando promette di voler porre lo Stato al servizio del cittadino.
Il carisma che Silvio esercita sulle donne elettrici deriva dal fatto che il sesto senso femminile intercetta in lui la sincerità, la buona fede e l'autenticità dei comportamenti; Walter non ha lo stesso ascendente sulle elettrici perché -a sensazione- è meno affidabile.
Per concludere: se il voto dipendesse solo dal carisma del leader, Berlusconi vincerebbe a mani basse; ma, siccome contano molto le promesse, gli slogan, le lusinghe e le chimere, non dobbiamo illuderci di vincere senza fatica.
Raccomandazione dell'ultima ora: attenzione a non fare croci troppo grandi sulla scheda e a non invadere i simboli vicini, né, tanto meno, barrare a cavallo della coalizione.
Sono voti persi perché nulli.

Gratis. Jena

Ma come faccio a votare Veltroni se non ha nemmeno promesso la felicità gratis per tutti? Tranquillo, manca ancora una settimana. (la Stampa)

venerdì 4 aprile 2008

Il giorno nero del sindacato. Piero Ostellino

L’ abbandono, da parte di Air France-Klm, della trattativa per Alitalia, a causa del massimalismo dei sindacati, è la plastica rappresentazione del fallimento del nostro sistema di relazioni industriali. È stato il giorno nero dei sindacati. Per anni, in nome dell’occupazione, avevano retto la coda al malcostume politico di gonfiare gli organici della compagnia di bandiera per ragioni clientelari.

Il malcostume politico aveva retto la coda ai sindacati pompando soldi dei contribuenti nell’azienda per tenerli buoni. Una volta al tavolo delle trattative, i sindacati non solo hanno mantenuto la linea di sempre; hanno offerto lo spettacolo di un tasso di litigiosità e di un livello di divisioni fra loro, nonché di inadeguata capacità decisionale, davvero mortificante. Ma se la variabile occupazione non ubbidisce alle logiche di impresa, le aziende falliscono. Jean-Cyril Spinetta, l’amministratore delegato della compagnia francese, ha detto ai suoi: «Lo so cosa vorrebbero i sindacati: sostituire allo Stato italiano, che finora li ha accuditi come un padre, l’aiuto di Air France. Io non posso».

Ora, si parla di un commissariamento di Alitalia. Metterà a terra la flotta e taglierà il personale più di quanto prospettato da Spinetta. Il fallimento della compagnia comporterebbe la dispersione dell’intero patrimonio. Dai «valori di avviamento » (l’Italia primaria destinazione del turismo mondiale, le reciprocità con i vettori stranieri che arrivano negli aeroporti italiani e quant’altro) ai «valori patrimoniali» (i vettori, anche se vecchi, le competenze operative di una—ex—primaria aerolinea mondiale, le specifiche rotte di volo e quant’altro). Ma la sola proposta del sindacato alternativa al fallimento, è un aumento di capitale, a spese del contribuente italiano; il riassorbimento della manodopera già liquidata nel 2005, a spese dell’acquirente franco- olandese. Soluzioni non praticabili.

Nessuna delle molte sigle sindacali ha affrontato il caso dal lato del mercato, pur nel rispetto della propria legittima funzione di difesa dei livelli occupazionali possibili. Eppure, la contemporanea assegnazione a Milano dell’Expo 2015 avrebbe almeno dovuto suggerire la separazione fra il destino di Alitalia e il futuro di Malpensa. Anche se l’aeroporto parigino Charles de Gaulle avrebbe molto da guadagnare dal ridimensionamento dell’hub milanese, una soluzione ragionevole avrebbe potuto essere quella di sollecitare Alitalia a dismettere i suoi diritti di atterraggio e Malpensa a metterli sul mercato. Già accade che qualche grande compagnia faccia partire i suoi aerei anche da scali non nazionali. È il lato incoraggiante della globalizzazione. (Corriere della Sera)

Schede bianche, l'ultima truffa del centrosinistra. Felice Manti

Le elezioni sono numeri. E i numeri, a volte, raccontano una verità diversa da quella che ciascuno di noi si immagina. C’è un dato che conosciamo già. Tre schede bianche su quattro, nelle elezioni del 2006, sono svanite nel nulla. Scomparse. Non è chiaro se per scelta dell’elettore o se per qualche «manina» che in fase di spoglio le ha magicamente trasformate in schede valide, con tanto di voto. La certificazione del crollo, dopo il contestato risultato favorevole all’Unione, arrivò direttamente dalla Giunta per le elezioni 2006 di Camera e Senato: le schede bianche nelle ultime politiche furono il 74,2% in meno rispetto al 2001. E anche le schede nulle magicamente si dimezzarono: -44,2%. C’è un altro dato che la dice lunga: alle politiche del 2001, ogni regione aveva una «sua» percentuale di bianche compresa tra il 2 e l’8%. Questa volta, quasi ovunque, il dato medio è crollato intorno all’1,2%.

Ma c’è un dato sul quale forse non si è indagato a sufficienza. Il rapporto tra le bianche di Camera e Senato. Che non ha una spiegazione logica. Lo dicono i dati, campionati dal bolognese Maurizio Montanarini, un esperto in statistica con una laurea di Sociologia in tasca. Ma sono così chiari che li capirebbe anche un bambino. Le schede bianche votate al Senato in Italia sono state circa 458mila (l’1,34% del totale delle schede) mentre alla Camera 439mila (l’1,12%); pur essendo i votanti alla Camera più numerosi, circa 4 milioni in più, mancano più di 19mila schede bianche rispetto al Senato. Il 4,28% del totale. Strano, stranissimo. «È statisticamente impossibile che aumentino i votanti e calino le bianche», spiega lo studioso.

Ed è forse sintomatico che la maggiore variazione tra le schede bianche di Camera e Senato, nello studio realizzato da Montanarini, si trovi ad esempio nella città di Bologna, cuore della rossa Emilia-Romagna. Tra Camera e Senato, nel capoluogo emiliano, si sono registrate 1.662 schede bianche alla Camera e 1.898 schede bianche al Senato. La differenza è di 236 schede, pari al 12,43% del totale. A Castel Maggiore il dato aumenta al 16%, nel seggio di Pieve Centro sale al 22,6%, nel piccolo comune emiliano di Anzola dell’Emilia sale al 24,3%. In pratica, un dato cinque volte maggiore rispetto alla media nazionale. Molto lontano da quello di altre città «rosse» come Roma (7,72%), Imola (9,25%) e Napoli (9,56%), dove il dato è pari al doppio di quello nazionale. Al contrario, numeri alla mano, in altre città italiane prese in esame da Montanarini, il dato si ribalta. Le schede bianche tra Camera e Senato coincidono in proporzione, come nelle città più a destra come Verona, Vicenza o Catania.

Non basta. Visto che il voto alla Camera è più «giovane» di quello del Senato (solo chi ha compiuto 25 anni riceve la scheda per Palazzo Madama, ndr) è mai possibile che tra i ragazzi di età compresa tra i 18 e i 24 anni pochissimi, se non nessuno, abbia votato scheda bianca alla Camera? E ancora: è mai possibile che quei 19mila elettori abbiano votato scheda bianca al Senato e scelto un partito alla Camera? Improbabile, se non impossibile. E ancora: se la percentuale di schede bianche tra gli elettori delle due Camere fosse identica, cioè all’1,34%, le schede bianche alla Camera sarebbero 511mila. All’appello ne mancherebbero circa 72mila. Qui il Montanarini matematico si «trasforma» in sociologo e ragiona: «Non è possibile sostenere che tutte le bianche che mancano all’appello siano state «trasformate» in voti validi, anche in considerazione della differenza di età, istruzione e censo. È però ragionevole ipotizzare che almeno la metà, circa 35mila schede bianche, siano diventate voti validi alla Camera».

Alla Camera, già. Quella risultata decisiva per il premio di maggioranza dell’Unione, per appena 24mila voti. Lo 0,0047%. Quella che, secondo la legge, viene «spogliata» per ultima, dopo il Senato. E quella dove, a causa del premio di maggioranza previsto dalla legge elettorale, si scatenano i maggiori appetiti delle coalizioni. È lo spoglio il momento clou, come ha detto più volte l’onorevole Mario Mantovani, che guida l’esercito dei 120mila difensori del voto del Pdl. Nella stragrande maggioranza dei casi, nei seggi le schede vengono rovesciate sul tavolo, divise a mucchietti in base alla tipologia (valida, bianca e nulla) e poi riconteggiate successivamente. Una procedura irregolare, visto che la legge prevede che uno scrutatore venga sorteggiato per lo spoglio, che lo stesso avvenga «una scheda alla volta», e che contestualmente l’esito venga verbalizzato, sia dagli scrutatori che da tutti i rappresentanti di lista. Perché è in questo momento che qualsiasi black-out nel conteggio, qualsiasi intervento esterno di uno scrutatore abile, qualsiasi errore nella verbalizzazione modifica l’esito del voto. Basta solo un voto, moltiplicato per 61mila seggi sparsi in tutta Italia, per far vincere chi ha perso. È allora che la democrazia di un Paese dipende dalle scelte di quattro scrutatori. È un lusso che va difeso. (il Giornale)