giovedì 30 settembre 2010

Dopo Silvio il diluvio

Ammettiamo pure che si vada al voto in primavera.

Supponiamo che Berlusconi non si candidi: chi può sostituirlo?
Cerchiamo di ragionare e guardiamo oltre il nostro naso. Confidare nel voto può essere un modo per uscire dallo stallo in cui siamo finiti, ma dobbiamo pensare alle conseguenze e al dopo.
Berlusconi, lo ripeto, potrebbe decidere di non ricandidarsi per mettere in difficoltà l'opposizione, che vive solo ed esclusivamente di antiberlusconismo, e per tentare la scalata del Quirinale.
Potrebbe decidere di gettare la spugna e mandare tutti a quel paese.
Se si presentasse alle elezioni, il Cav dovrebbe fare i conti con i suoi 74 anni + 5 di legislatura che non sono pochi, anche per chi si ritiene quasi eterno.

Il sogno del Cavaliere è di chiudere in bellezza con la Presidenza della Repubblica, carica di prestigio, ma molto meno stressante e impegnativa della Presidenza del Consiglio.

Perché costringerlo ad una chiusura anticipata di legislatura?
Perché impedirgli di portare a termine il programma?

Ci pensino gli amici della Lega ed i seguaci di Fini: non ci sono alternative valide all'orizzonte, mancano candidati all'altezza della situazione sia nel centrodestra che nelle file dell'opposizione.
Soprattutto gli elettori non sono pronti, non capiscono e non approvano le trame di palazzo, i ribaltoni ed i voltafaccia.
Il rischio astensione è altissimo e movimenti come quello di Grillo e Di Pietro sono pronti a raccogliere il voto dei delusi, degli estremisti e degli arrabbiati impedendo il formarsi di schieramenti solidi e omogenei.

Meditate gente, meditate...

martedì 28 settembre 2010

Sfregi e dimissioni. Davide Giacalone

Se Gianfranco Fini volesse far politica, quella vera, non quella di mera sopravvivenza, non avrebbe che da dimettersi. Le conseguenze sarebbero notevoli. Ma deve farlo subito, perché è ovvio che prima o dopo se ne andrà, ma il dopo si colloca nel tempo dell’inabissamento.

Gli errori che si stanno commettendo sono colossali, destinati a lasciare cicatrici profonde. Sul volto delle istituzioni, non solo sulla faccia dei litiganti. Alla fine sarà messa in dubbio l’autorevolezza, forse anche la legittimità, necessaria affinché una classe politica si rivolga al Paese e parli degli interessi collettivi. Senza far ridere o provocare reazioni scomposte.

Quando i duellanti saranno esangui oltre alla salute avranno perso, loro e il pubblico che assiste, memoria del perché cominciarono. Fini non intendeva assecondare la nascita del Popolo delle Libertà, definendola una “comica finale”, poi entrò, anzi: cofondò. Da quando le elezioni hanno decretato il successo del centro destra e gli hanno consentito di sedere dove si trova non ha perso una sola occasione per distinguersi e sfilarsi. Poi ha posto il tema della democrazia interna al suo stesso partito, auspicando dibattito e confronto. Lo scrissi allora e lo ripeto oggi: ha ragione. Il fatto è che il dibattito senza contenuti è come il brodo senza pollo: acqua tiepida. Mi fa un sacco piacere che Fini sia passato dal voler cacciare i docenti omosessuali all’auspicare che possano sposarsi fra di loro, ma il Paese non campa di nozze, di nessun tipo. Bella la posizione sul fine vita, ma è il durante che lascia a desiderare. Guarda caso, infatti, sui tempi che non servono alle distinzioni parolaie, dove si gioca la carne degli interessi pubblici, le posizioni di Fini sono ancora retrograde, datate e sbagliate. Esempi? La separazione delle carriere e la cancellazione dell’obbligatorietà dell’azione penale, cui si oppone, o il sostegno al corporativismo statalista.

Il dibattito è bello, la democrazia essenziale, ma anche quando riguardano le posizioni che si ricoprono. Fini insiste sul fatto che il presidente della Camera non può, in nessun caso, essere mandato via. Trovo vergognoso il silenzio delle cattedre, l’avallo ad una tesi pazzesca: la Costituzione prevede il sistema per mandare via chi occupa la prima carica dello Stato, come si può credere che la seconda e la terza siano intoccabili? Non è prevista alcuna procedura particolare sol perché non ci sono particolarità da tutelare. Certo, non ci sono precedenti. Non è mai successo che qualcuno si sia asserragliato in quell’ufficio. Ma l’assenza di precedente non dimostra l’assenza di diritto. L’articolo 62 della Costituzione, oltre tutto, prevede espressamente la sollevazione dei presidenti d’Aula dalle loro funzioni, assegnando a quello della Repubblica il compito di convocare il Parlamento. Attenzione: non sto dicendo che deve essere mandato via (deve dimettersi), ma che è pericoloso e deviante sostenerne l’inamovibilità.

Detestabile anche la confusione fra etica pubblica e questione penale. Quando Fini dice che si dimetterebbe ove emergesse con certezza che il mattone monegasco gli è rimasto in famiglia, quando ribadisce di avere fiducia nelle indagini penali (che non lo coinvolgono, o no?), sbaglia. Di grosso. A forza di assistere alla trasposizione penale di ogni conflitto politico o sociale, di trovare il reato adatto a qualsiasi comportamento e di delegare alla magistratura compiti che non le spettano, è andata a finire che se il reato non c’è, o non viene contestato, tutto è da considerarsi ammirevole. Neanche per idea! Che educazione diamo, ai ragazzi? Uno scopre che il figlio ha mentito, non è andato a scuola e si droga, e quello risponde: non è reato. Scusa, figliuolo. L’etica pubblica condanna i bugiardi, come i profittatori, ed esclude che ci si faccia governare da quanti siano facilmente raggirabili. Gli anglosassoni diffidano anche di quelli che hanno l’amante, non per moralismo, ma perché se non riesci a tenere a bada la patta non vedo perché affidarti le chiappe. Non basta che non ci sia il reato, posto che, in casi diversi, si trova sempre un procuratore disposto a sostenere che lo sia anche starnutire al teatro.

L’effetto paradossale, però, è che gli inquisiti dovrebbero essere protetti dalla presunzione d’innocenza, mentre i bugiardi essere affidati al pubblico giudizio. Paradossale perché il processo dura un decennio, mentre la bugia si copre in fretta. Di questo Fini avrebbe fatto bene ad occuparsi nel mentre, invece, ce la metteva tutta per blandire la corporazione togata e la sua cronica inefficienza.

Infine, come ha osservato anche Piero Ostellino, Fini dovrebbe dimettersi non per case cognati e via pasticciando, ma perché il suo ruolo di garanzia è, da un bel pezzo, andato a farsi benedire. E Ostellino cita la lettera di un lettore, giustamente, perché l’evidenza è tale per tutti.

“Fermiamoci tutti”, invoca Fini al termine del suo messaggio. Tregua. Sensato? No. Somiglia ad una richiesta di connivenza. Si fermano per far cosa? Per salvarsi o per agire? Non si tratta di far volare i falchi o le colombe, ma di non immaginare che si possa andare avanti strisciando. Dimettendosi il confronto non sarebbe più immobiliare, ma politico, e al presidente del Consiglio potrebbe chiedere come e per far cosa pensa d’andare avanti, ponendo una questione ineludibile e cercando di costruire una posizione che guardi al futuro. Invece Fini fa dire che le sue dimissioni spontanee sono “pura fantasia”. Vuol dire che era fantasiosa anche la richiesta di democrazia interna, che il vero scopo, chiuso il sipario della sceneggiata, non era il dibattito, ma il buffet.

venerdì 24 settembre 2010

L'Italia immaginaria della sinistra. Luca Ricolfi

Una settimana fa Walter Veltroni ha scritto un manifesto, firmato da 75 parlamentari del Partito democratico, in cui analizza la società italiana, solleva severe critiche alla gestione Bersani del partito, indica una via alternativa per il futuro. Il documento ha provocato una grave lacerazione nel partito, che ieri la Direzione del Pd è riuscita in qualche modo a ricucire con uno dei soliti riti della vita interna dei partiti (voto a favore della relazione del segretario, con astensione delle minoranze dissidenti).

I giornali non hanno riportato gran che dei contenuti del documento, quindi sono andato a leggermelo su Internet (l’ho trovato subito con Google, ma ho faticato molto a «ripescarlo» dal sito del Pd, dove si trova, per così dire, un po’ acquattato). Lì ho scoperto che tra i firmatari del manifesto ci sono parecchie persone di cui ho la massima stima, come Pietro Ichino, Maria Leddi, Nicola Rossi, Enrico Morando. Una ragione di più per leggerlo attentamente.

Però alla fine, letto il documento e il corredo di interviste che l’ha circondato, ne sono uscito perplesso. Credo di aver capito, e persino di condividere, le preoccupazioni strettamente politiche del documento.

Anche se non lo dicono in modo esplicito, i veltroniani hanno due timori grossi come una casa, che riassumerei così. Primo timore: Bersani «gna fa», per dirla alla Funari. E non ce la può fare, a battere Berlusconi, non solo per mancanza di carisma, ma perché quel che il leader del Pd sembra avere in mente - un’alleanza che va da Vendola e Di Pietro fino a Casini - non potrebbe non rievocare la fallimentare esperienza del governo Prodi, che Veltroni vede (giustamente, secondo me) come il macigno che alle elezioni politiche del 2008 sbarrò la strada al «suo» Partito democratico. Secondo timore: la fine del bipolarismo, attraverso la nascita di un «centro» del 15-20%, il cosiddetto Terzo polo, arbitro dei giochi politici.

Quel che non mi convince, invece, è l’analisi della società italiana che il documento delinea. Un’analisi che, in molti passaggi, non è diversa da quella che abbiamo sentito in tutti questi anni, o quantomeno non ne prende a sufficienza le distanze. Perché, a mio parere, il problema di fondo del Pd non è che non riesce a proporre soluzioni convincenti alla crisi italiana, ma che ha un’idea errata, ovvero distorta e tendenziosa, della società italiana. Il problema, in breve, è innanzitutto la diagnosi, prima ancora della terapia.

Facciamo qualche esempio. Nel documento si dice che la disuguaglianza è «crescente», e che la frattura Nord-Sud «è tornata ad accentuarsi» (la tesi è decisamente audace, diversi indicatori suggeriscono il contrario, almeno dal 1998 a oggi). Si riconduce l’aumento del debito pubblico alla presenza del centro-destra al governo, come se il balzo degli ultimi anni non dipendesse essenzialmente dalla crisi economica internazionale. Si parla di riforme nel settore pubblico come se Brunetta - e Ichino! - non avessero fatto nulla.

Si parla della «battaglia per la legalità nel Mezzogiorno» come se fosse perduta, senza una parola per lo straordinario lavoro di questi anni contro la criminalità organizzata. Si fanno proposte di investimento e di spesa (in istruzione, ricerca, ammortizzatori sociali) che costerebbero miliardi e miliardi, come se ci fossero le risorse per portarle avanti, o come se trovare tali risorse non comportasse sacrifici enormi e di lunga durata.

Soprattutto non si esplicita il fatto che alcune idee dei veltroniani, solo accennate nel documento ma molto chiare in vari interventi pubblici, sono indigeribili per il centro-sinistra com’è oggi. Mi riferisco, ad esempio, al finanziamento selettivo degli atenei e delle scuole, con conseguente penalizzazione degli atenei inefficienti e dei docenti poco produttivi. O alla neutralizzazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per i nuovi assunti, con l’istituzionalizzazione di forme di «flessibilità tutelata» (flexsecurity). Per tacere del federalismo, su cui il documento non spende nemmeno una parola ma che - se attuato seriamente - susciterebbe vivaci resistenze in una parte del Pd, specie nel Mezzogiorno.

Insomma, mi pare che il manifesto veltroniano, a dispetto del riformismo radicale di alcuni suoi firmatari, non ci fornisca una diagnosi dei mali del Paese poi tanto diversa da quella che - con malinconica monotonia - il centro-sinistra ripete dal 2001, e il Pd di Bersani continua meccanicamente a fare propria. Eppure, se quella diagnosi è giusta, se la maggior parte dei nostri mali discendono dalla disastrosa conduzione del governo da parte di Berlusconi e Tremonti, allora il problema numero uno dell’Italia è togliere il tappo del berlusconismo, e la linea sostanzialmente frontista di Bersani, alleanze le più larghe possibile per liberarci del tiranno, è la linea che logicamente ne consegue.

Ma se invece si ritiene che Bersani sbagli, allora forse bisogna avere il coraggio di riconoscere un’altra immagine dell’Italia, di esplicitare un’altra diagnosi dei nostri mali. Una diagnosi in cui, ad esempio, non si abbia timore di indicare i lussi che non possiamo più permetterci: andare in pensione a 60 anni, spendere 100 per servizi che potremmo produrre con 70, stabilizzare centinaia di migliaia di precari per mantenere il consenso politico ai governanti, di destra o di sinistra che siano. Il problema è che una diagnosi più realistica, che non riconducesse tutti i mali economico-sociali del Paese alla devastazione del berlusconismo, avrebbe sì il pregio di rendere evidente il semplicismo della linea attuale del Pd, ma renderebbe anche molto più difficile tenere unito il partito. Dopo vent’anni di analisi a senso unico, ci sono verità che al popolo di sinistra non si possono dire, e infatti non vengono dette. E ci sono terapie che si possono sussurrare nei seminari, nei convegni, nelle commissioni parlamentari, ma non si possono proporre nei comizi, nelle piazze, nelle feste di partito. Quali verità e quali terapie?

Ad esempio, che la spesa pubblica va ridotta ancora di più di quanto abbia fatto Tremonti, altrimenti non abbasseremo mai le tasse sui produttori. Che il lavoro che fanno Brunetta e Gelmini in materia di pubblico impiego può essere fatto meglio, forse molto meglio, ma comunque va fatto. Che il Mezzogiorno non può continuare ad assorbire risorse che non produce, se non altro perché i quattrini sono finiti. E che, sulla mafia, quel che ci auguriamo è che un futuro governo di centro-sinistra non faccia rimpiangere Maroni. (la Stampa)

martedì 21 settembre 2010

Generatori di razzismo. Davide Giacalone

Da una parte c’è il vaniloquio perbenista e ipocrita di quelli che si sentono buoni, giusti e colti, che scrivono sui giornali (a corto di lettori) o siedono nella Commissione Europea, sempre pronti a impartire lezioni sull’accoglienza degli immigrati e la fratellanza con i nomadi. Dall’altra ci sono le lezioni della realtà, c’è un’opinione pubblica europea che la pensa in modo opposto e che rischia di scivolare sui ghiacci della xenofobia, solidificati dai venti gelidi che arrivano dall’Olanda, dal Belgio, dall’Austria e, da ultimo, dalla Svezia. Nella nostra Europa è ovunque in crisi il modello di welfare state, divenuto troppo costoso e troppo inefficiente, e ovunque ci sono problemi relativi all’immigrazione. Negare l’una e l’altra cosa, pensare di poter rimediare inutilmente aggrappandosi al passato o ridicolmente sermoneggiando d’accoglienza, propizia disastri politici. Mentre l’assenza d’idee spendibili spinge al cortocircuito: siccome gli immigrati vengono per pesare sul nostro welfare ecco che il nostro bel paradiso s’azzoppa. Inutile stupirsi, allora, se crescono le formazioni politiche estremiste, che se non dispongono di una soluzione positiva forniscono, almeno, una bella spiegazione negativa.

Se si restasse sul piano della razionalità, le cose non sarebbero (dal punto di vista teorico) così complicate: a. gli immigrati sono utili e creano ricchezza, ma il Paese che accoglie ha diritto a regolarne il flusso, facendo valere le proprie condizioni; b. il rispetto della legalità vale per tutti, cittadini propri, comunitari o provenienti da ogni altra parte del mondo, ma se a delinquere è un ospite il Paese ospitante ha il diritto di punirlo e/o cacciarlo, impedendogli di tornare; c. gli immigrati non sono dei rifugiati, e tutte queste associazioni che fanno confusione sembrano essere state inventate apposta per favorire l’ascesa dei razzisti.

Il caso francese è assai istruttivo, e segnala un pericolo collettivo. E’ evidente che il presidente francese ha scelto di aprire il fronte dei Rom anche per indurre i francesi a non parlare solo degli affari e degli affaracci suoi. E’ evidente che ha scelto quel tema perché sa di raccogliere un consenso quasi unanime. Com’è evidente che la reazione della Commisione Europea e della pretesa intelligenza scrivana è stata cieca, violenta e dissennata, tipica di gente che non solo vive fuori dalla realtà, ma si ostina a credere che i propri pregiudizi siano il giusto e la realtà la loro corruzione. Dei matti, insomma. Fra i due schieranti preferisco, di molto, Sarkozy, ma non al punto di credere che egli abbia proposto una qualche soluzione. Ha solo messo in atto un’azione dimostrativa.

Occorre essere cretini assai per parlare di “deportazioni”, ed occorre avere una coscienza piallata dall’ignoranza per far paralleli con le persecuzioni naziste. Ma i rimpatri disposti dai francesi sono pochi e su base consensuale, per giunta pagati dallo Stato. Sono una pezza, non un modello.

Che fare, allora? Ripeto, dal punto di vista teorico è meno complicato di quel che sembra. Io cittadino italiano non posso starmene senza fissa dimora, non vedo perché dovrebbe essere consentito ad uno zingaro. Se abbandono mio figlio o lo riduco all’accattonaggio m’arrestano, non vedo perché i nomadi dovrebbero essere compresi e aiutati. Se assegno mia figlia in sposa torno in galera, o vado al manicomio, non si capisce perché dovremmo consentirlo ad altri. Se mi laureo negli Stati Uniti, dopo aver pagato salatissime rette a università private, ma poi non trovo un lavoro e non riesco a prolungare il permesso di soggiorno me ne devo andare, anche se ho contribuito alla ricchezza di quel Paese, così non c’è motivo che da noi rimangano quelli che non dichiarano un tallero di guadagni. Questo banalissimo buon senso minaccia la fratellanza fra i popoli? Temo che la minaccia venga dai forsennati che negano la realtà e parlano a vanvera.

Facciano accomodare la zingara corpacciuta al lindo tavolo del loro ristorante preferito e ne gustino l’insopportabile tanfo, così come già si ha occasione di fare sui mezzi pubblici (dove non pagano) e alle casse dei supermercati (dove la fila si ferma nel mentre la commessa conta monetine). Io sono favorevole a che la signora resti, se si trova un lavoro onesto, una casa e una doccia. Loro, invece, pretendono che rimanga a carico delle narici e delle tasche altrui. Chi è, allora, il razzista e lo xenofobo?

Ecco, prima che il vento gelido soffi (più forte) anche da noi, propongono di andare presso tutte queste associazione di accoglitori in casa e nei quartieri altrui, affiggendo un avviso all’ingresso: qui operano i produttori di razzismo.

lunedì 20 settembre 2010

Mafiosi in attività. Davide Giacalone

Voi italiani per bene, gente normale che ha la colpa di non coltivare la memoria, leggete che Giovanni Brusca (l’uomo che fece saltare in aria Giovanni Falcone e che fece sciogliere nell’acido un bambino, dopo averlo ridotto ad una larva ed averlo fatto strangolare con la faccia rivolta verso il muro) è oggi indagato perché, nella sua posizione di pentito e potendo muoversi e operare, ha comodamente ripreso la sua attività di criminale. Lo leggete e vi meravigliate, forse anche vi scandalizzate. Leggete quel che segue, e spero vi venga la nausea, che vi sentiate male. Sarebbe un segno di buona salute, mentale e morale.

Brusca fu arrestato nel maggio del 1996. Non ci mise molto a decidere che gli conveniva collaborare, perché il quadro accusatorio era tale che lo attendeva la morte dietro le sbarre, dopo lunga e meritatissima detenzione. Quest’essere, che non definiremo animale per rispetto verso le bestie, debuttò avvertendo i pubblici ministeri che un altro “pentito”, Baldassarre Di Maggio, era tornato comodamente a mafiare. Per la precisione, Di Maggio ebbe modo di ammazzare un paio di persone, con armi comprate a spese dello Stato, visto che erano le casse pubbliche, in quel momento, a finanziarlo. Ebbene, la procura di Palermo, allora diretta da Giancarlo Caselli, minacciò Brusca di calunnia. Di Maggio non si toccava, visto che era l’uomo che reggeva il processo a Giulio Andreotti, il testimone che sosteneva di averlo visto baciare Totò Riina.

Brusca diceva la verità. L’attività criminale di Di Maggio s’era fatta così intensa che la procura stessa decise di intercettare le telefonate del padre. Così fu raccolta una conversazione straordinaria: il genitore si mostrava preoccupato, riferiva al figlio le voci che correvano, e questi gli rispose: “padre mio”, non ti preoccupare “tengo i cani attaccati”. Ho il dominio della situazione. Al processo Andreotti gli fu domandato: chi sono i cani che lei teneva attaccati? E lui rispose indicando i tre pubblici ministeri. Vi gira la testa? Aspettate a crollare.

Quando un collaboratore di giustizia indica delle complicità o riferisce fatti criminali è giusto indagare. Se accusa una persona è giusto indagarla. Se quella persona, però, viene assolta, se i fatti riferiti sono falsi, è giusto che quel “pentito” sia processato a sua volta. Non è mai successo. Forse perché vale la teoria dei “cani attaccati”, c’è sempre il rischio che se si chiede a un “pentito” il perché delle bugie egli risponda indicando i suggeritori.

Sentite questa. Ricorrono i venticinque anni dalla condanna, in primo grado, di Enzo Tortora. Un innocente massacrato, un uomo civile che tentò di fare del suo calvario una lezione per tutti. Un illuso. Ebbene, ad accusare Tortora fu Giovanni Melluso, detto “il bello”, o “cha cha cha”. Prima creduto, da un tribunale, poi sbugiardato. Quando l’assoluzione di Tortora fu definitiva, quando la sua innocenza fu conclamata e certificata Melluso rilasciò un’intervista sostenendo che, comunque, Tortora era uno spacciatore di droga e un affiliato alla camorra. Le due figlie (l’interessato era morto, nel frattempo) sporsero querela. Furono condannate loro, al pagamento delle spese processuali, perché il giudice (Clementina Forleo, frugate nella memoria) sostenne che una cosa è la verità giudiziaria altra quella reale, sicché un cittadino onesto, e assolto, poteva continuare ad essere infamato da un infame che lo aveva accuato.

Se avete coscienza, dovrebbe esservi tornata a gola. Se vivete da incoscienti immaginatevi di fronte a simili toghe. E tremate. Ricordate, inoltre, che è assai più facile che sia io a dovere pagare, per le cose che ho appena scritto, piuttosto che un falso pentito per le sue calunnie o un magistrato per avergli consentito di delinquere, o un giudice per avere sentenziato fuori dalla logica e dal diritto.

Siccome l’unico nostro potere è quello della parola, cominciamo con l’introdurre un pizzico di civiltà e con il cancellare la definizione di “pentiti”. Non credo al pentimento di nessuno di loro, così come non credo alle crisi mistiche degli Spatuzza. Questi sono dei disonorati e restano dei disonorati. Spesso mercenari che parlano a pagamento. Depistatori che usano il verbale al posto del mitra. Macellai degni del più totale e inappellabile disprezzo. Mi sta bene, però, che siano premiati, che abbiano facilitazioni e sconti di pena se collaborano con la giustizia e contribuiscono alla cattura di loro colleghi. Mi sta bene, non ho obiezioni morali fondate sulla loro abiezione morale. Ma a una condizione: alla prima cretinata che mi dici, alla prima volta che ti trovo in divieto di sosta, ti risbatto in galera e sconti la pena di prima moltiplicata per tre.

Tornerò a parlarvi dei Ciancimino, di cosa bolle in quell’olezzante pentolone, ma ho l’impressione che sia tutto inutile. Come si può parlare di civiltà in un Paese in cui Totò Riina incontra in carcere il figlio Giovanni, tutti e due ergastolani, tutti e due in regime di massima sicurezza, tenuti separati per quattordici anni, e le loro parole finiscono su un settimanale. Il quale così introduce lo scoop: Riina sapeva di essere intercettato e lancia messaggi. Riina sapeva d’essere intercettato (mica è scemo), ne approfitta per lanciare messaggi, c’è chi fa uscire il testo della conversazione, non necessariamente completo, e qualcuno pubblica il tutto per fare un piacere al lanciatore di messaggi o a chi ha interesse a diffonderli storpiati? Ma in che razza di Paese viviamo? Con l’aggravante che tutto avviene senza che le solite autorità, i soliti sindacati corporativi, le solite toghe associate e politicizzate si rizzino in piedi a dire che trattasi di un’infamia.

Niente, tutto tace. I cani sono attaccati. C’è Brusca che viene accusato di riciclaggio, falsa intestazioni di beni e tentata estorsione. Dove quel “tentata” è l’unica lesione alla sua onorabilità.

venerdì 17 settembre 2010

Ai nostri figli lasceremo troppo in eredità. Luca Ricolfi

Che l’Italia abbia il record dei «bamboccioni» si sa. In nessun paese del mondo i ragazzi e le ragazze restano così a lungo nella casa dei genitori. In nessun paese sviluppato la percentuale di giovani che non lavorano e non studiano è alta come da noi. E sospetto (perché dati comparabili non ce ne sono) che da nessuna parte succeda quel che non di rado succede da noi, ossia che una sentenza obblighi i genitori a mantenere una figlia che impiega 10 anni a prendere una laurea in filosofia, o a versare un assegno a un figlio ultratrentenne che un lavoro l’ha trovato, ma non lo ritiene adeguato alla formazione che ha ricevuto.

Di questo problema si discute ormai da anni, e i pareri sono abbastanza discordi. Secondo alcuni è innanzitutto un fatto culturale, legato alla nostra cultura cattolica, mediterranea e «mammocentrica». Per altri è colpa del mercato del lavoro che offre quasi esclusivamente posizioni precarie e sottopagate. Per altri è colpa del mercato degli affitti, che rende proibitivo mettere su casa. Per altri è colpa della scarsità di servizi sociali, che scoraggia la formazione di nuove famiglie.

C’è però anche un’altra spiegazione, secondo me. Una spiegazione al tempo stesso psicologica ed economica. Da qualche decennio l’Italia si sta trasformando in un paese di ereditieri. Ereditieri non certo di grandi fortune, ma pur sempre ereditieri, ossia giovani che sanno di poter contare, nella vita, non solo sul reddito che guadagneranno con il loro lavoro, ma anche sul patrimonio messo da parte da padri e nonni. E questa consapevolezza, la tranquillità di avere comunque un appoggio, una sponda, un’ancora di salvezza, li condiziona profondamente. Proprio perché sanno di avere le spalle coperte i giovani italiani possono permettersi di rifiutare i lavori meno gratificanti, rimandare l’inizio di una professione o di una carriera, accontentarsi di occupazioni saltuarie o a tempo parziale. È come se, a livello più o meno inconscio, sapessero che nella loro vita, oltre al reddito che si saranno sudati sul mercato, esisterà sempre un reddito supplementare proveniente dalla famiglia, un reddito che oggi consiste nell’aiuto di genitori e nonni, domani sarà dato dalle loro eredità.

Ma perché mai, direte voi, questo dovrebbe valere solo o soprattutto per i giovani italiani? Per due motivi almeno. Tra i paesi avanzati l’Italia è uno fra i più patrimonializzati: fatto 100 il reddito annuo disponibile delle famiglie, la ricchezza netta è 857, una delle più alte del mondo. Inoltre, in Italia si fanno pochi figli: questo significa che il patrimonio familiare si spalma su un piccolo insieme di eredi (1,38 figli per ogni donna in età fertile). La combinazione di questi due fattori, molto patrimonio, pochi figli, colloca l’Italia al vertice di questa singolare «graduatoria della speranza». Dove quel che colpisce è che i paesi in cui l’eredità attesa è alta (Italia e Giappone) sono anche quelli che crescono di meno, mentre i paesi dove l’eredità attesa è bassa (Stati Uniti e Canada) sono quelli che crescono di più. (Panorama)

giovedì 16 settembre 2010

L'umanità non è mai stata meglio. Chicco Testa

Anti-catastrofismo. Su Repubblica uno studio conferma ciò che avevamo sempre sospettato.

Ieri c’erano due ottime notizie. La prima, meravigliosa, era su Repubblica, in un bell’articolo di prima pagina firmato da Maurizio Ricci. Titolo: “2000-2010, i migliori anni della nostra vita”. L’umanità, nel suo complesso, non è mai stata così bene. A discapito del mood catastrofista dominante, ci dice Ricci, riprendendo uno studio di Charles Kenny: “Getting better” .

La popolazione mondiale è aumentata, è più ricca, istruita e vive più a lungo. «Il reddito pro-capite è cresciuto fino a 10.600 dollari l’anno, se trent’anni fa la metà della popolazione viveva con meno di un dollaro l’anno, oggi (a popolazione raddoppiata, ndr) è solo un quarto. Quarant’anni fa il 34% della popolazione veniva classificato come malnutrito. Oggi solo il 17%». Ancora: «Nell’arco di 8 anni la mortalità infantile è caduta del 17% e, in media, l’aspettativa di vita è cresciuta di due anni. Nel 2000 46.000 persone erano state uccise in battaglia. Nel 2008, solo 6.000. Siamo anche più istruiti: nel mondo 4 persone su 5 sanno leggere»... «Miliardi di persone non solo stanno meglio, ma sono anche in grado di dirselo al telefono». E i disastri ambientali, in aumento, fanno però un numero inferiore di vittime. «La capacità delle società di far fronte ai disastri naturali è cresciuta, grazie a i progressi tecnologici, a una maggiore ricchezza, a una migliore preparazione». E infine l’ultimo bel colpo: «L’indice di sviluppo umano, che l’Onu calcola ogni anno, è un indicatore che tiene conto, contemporaneamente, della ricchezza pro-capite, dell’aspettativa di vita, dell’alfabetizzazione, dell’istruzione, è in costante ascesa da 35 anni, in ogni parte del mondo».

Uno studio di parte? No, perché è stato sottoposto a verifica da un altro istituto indipendente e la risposta , pubblicata dalla rivista Bioscience, ne conferma i risultati. La stessa rivista definisce tutto questo «il paradosso dell’ambientalista». Ed è facile capire perché.

Dopodiché la risposta al paradosso appare un po' sconcertante. O come la scoperta dell’acqua calda. Per esempio, che nonostante il deterioramento del pianeta la disponibilità di cibo è aumentata. «Globalmente, la produzione di cereali, carne e pesce ha più che tenuto il passo con la crescita della popolazione». Ma come, non eravamo vicini a vedere pescato l’ultimo povero pesce, ormai solitario? E perché? Probabilmente perché «i progressi della tecnologia stanno aiutando l’umanità a sganciarsi dalla dipendenza dell'ecosistema». Che è come dire che grazie al cielo abbiamo gli antibiotici, i fertilizzanti, anche gli Ogm, il motore a scoppio, il riscaldamento e i computer. E chissà quali altre diavolerie avremo in futuro: dalle nanotecnologie alle biotecnologie genetiche, dalla fusione all’energia solare a basso costo, dai super-super computer ai robot. Se si aggiunge che questo trend non riguarda solo gli ultimi 10 anni, ma un uguale progresso si era avuto nell’ultimo ventennio del secolo scorso e prima ancora in tutto il dopoguerra possiamo dire, un po’ all’ingrosso, che sono ormai 60 anni che il mondo continua a migliorare. E che la maledetta globalizzazione sta facendo per bene il suo lavoro. Creare ricchezza in tutte le diverse parti del mondo e aprire opportunità prima sconosciute.

Naturalmente Ricci ci mette in guardia su ciò che potrebbe succedere nei prossimi decenni. Una crisi può sempre innestarsi per i motivi più diversi, ma per il momento, un momento molto lungo come si è detto, le cose non vanno poi così malaccio. Che non possano durare così per l’eternità è probabile. Mi pare di ricordare per esempio che il Sole ha “solo” altri 4 miliardi di anni di vita. Ma forse per quando sarà scomparso avremmo imparato a crearne uno artificiale: il tempo ci sarebbe. Ma per il momento tutte le previsioni catastrofiste, sociali, economiche, ambientali, sembrano smentite. E se mi permettete c’è una bella differenza fra una crisi che scoppia domani e una che scoppia fra 50 anni. Come campare 80 anni o morire d’infarto a 50. In fondo l’umanità cerca proprio questo: migliorare per il più lungo tempo possibile. Come fa ogni singolo essere umano pur sapendo che la sua vita non è eterna. E sono pronto a scommettere che quando si farà il bilancio dei prossimi 10 anni i miglioramenti ottenuti in gran parte del mondo bilanceranno abbondantemente le difficoltà dell’altra parte.

Rimane da spiegare come mai si sia creata una così profonda differenza fra realtà (positiva) e percezione (negativa). Almeno in questa parte del mondo, dove siamo travolti ogni giorno da messaggi pessimistici o addirittura millenaristici.

Una spiegazione può forse avere a che fare con le diverse età delle differenti parti del mondo. L’ Europa invecchia, non solo anagraficamente, ma anche psicologicamente. E come tutti i vecchi vede all’orizzonte la propria fine e rimpiange il buon tempo passato. Quando i pomodori sapevano di pomodoro e le stagioni erano le stagioni di una volta. Ma per cinesi, indiani, indonesiani, brasiliani, africani... che fanno ben più della metà della popolazione, il mondo è ancora nuovo. Anzi è agli inizi e ancora tutto da godere. E di questa negativa psicologia europea fa parte anche l’insoddisfazione di sé, come direbbe uno psicanalista. Un senso di colpa, forse giustificato dalla propria ignavia, che vuole a tutti i costi far star male chi invece sta meglio e vuole identificare la propria fine e le proprie ubbie con la fine del mondo.

Rimane un’ultima cosa da dire. Siamo pieni di inconsapevoli reazionari che con tutte le loro forze cercano di ostacolare questo progresso. Che odiano, perché mette in discussione i loro privilegi. E come luddisti redivivi cercano di distruggerlo. Per esempio? Il movimento no-global e tutti i suoi profeti, che scambiano il loro nichilismo infantile per un sentimento condiviso. Meglio rimpiangere la Cina di Mao-Tse-Tung che riconoscere che quella attuale, troppo simile in tante cose all’ America, ha strappato dalla fame centinaia di milioni di persone.

Dimenticavo la seconda buona notizia. Che Repubblica abbia pubblicato tutto ciò. Anche l’orizzonte più nero, evidentemente, qualche volta viene squarciato da un’improvvisa illuminazione. Ma da domani, non ne dubito, si ricomincia con le catastrofi prossime venture. Certe, certissime, anzi probabili. O forse no. (il Riformista)

Onorevoli colleghi... Davide Giacalone

In una fresca mattina di settembre Silvio Berlusconi si accinge a pronunciare il discorso sul quale chiederà la fiducia. Esce da Palazzo Chigi a piedi, si sofferma a salutare gli accorsi, si complimenta con una coppia di freschi sposi alludendo, compiaciuto con lei e compartecipe con lui, all’imminente consumazione. Entra alla Camera dei Deputati, si dirige all’emiciclo e prende posto nei banchi del governo. Presiede la seduta Gianfranco Fini, che, dopo le formalità di rito, dice: ha chiesto di parlare il presidente del Consiglio, ne ha facoltà. Berlusconi si gira, vorrebbe dirgli di badare alle sue, di facoltà. Ma passa oltre. Solo non si trattiene dal rivolgersi al deputati, dimenticando il presidente. E dice loro quanto segue.
Onorevoli colleghi, mi rivolgo a voi perché è in quest’Aula che la maggioranza di governo è stata messa in forse, ma mi rivolgo anche agli italiani tutti, giacché non è possibile andare avanti in questo modo. Da sedici anni la maggioranza relativa degli elettori mi esprime la sua fiducia. Le forze politiche che ho fondato e sfondato non c’entrano nulla. Molti italiani credono in me, molti altri credono che sia migliore degli avversari. E questo è un fatto. Cui se ne aggiunge un altro: nel 1994 inventai un trucco, con il quale sventai la sciagura di un governo di sinistra schiavizzato dal giustizialismo e asservito agli interessi economici stranieri, il trucco consisteva nel mettere assieme tutti quelli che non stavano dall’altra parte. Vinsi, come ricorderete. La sinistra copiò il trucco e, al giro successivo, mi fregò. Da allora andiamo avanti così, senza che il governo riesca a governare e senza che vinca mai le elezioni. E’ ora di smetterla.Torno sul punto cardine: ho la maggioranza relativa dei voti. Si deve proprio essere zucconi per non capire che non si può farmi fuori se non dando un calcio alla democrazia. Eppure ci provano in tutti i modi, a cominciare dall’uso delle inchieste giudiziarie. Colleghi dell’opposizione, ma vi siete bevuti il cervello? Le accuse verosimili, fra quelle che mi vengono rivolte, sono robetta. Volete sapere se tutte le fatture del mio gruppo sono state sempre a posto? E che ne so? Quel che so non ve lo dico, tanto lo sapete. E allora? Ma mi ci vedete, assieme a Fedele Confalonieri, a trattare con la mafia? Fedele neanche capisce quel che dicono, perché non abla l’idioma, mentre io non mi tengo un cecio in bocca! Piantiamola lì, con questa roba non mi fregate, resisterò oltre la morte e continuerò a vincere, perché si vede da lontano che è un’arma sudicia. Lo dico per voi, smettetela.
Così io la smetto di accattare parlamentari. All’inizio è divertente, poi la cosa deprime. Questi hanno famiglie numerose e mi fracassano gli zebedei con richieste d’ogni tipo. La smetto anche perché non sono fesso, ho capito il giochetto: io prendo quelli che si prestano e faccio finta d’essere autonomo dalla scissione finiana, che è pure inutile visto che oggi mi voteranno anche loro, poi mi si fa cadere in un tempo successivo e si sostiene che siccome io cambiai la maggioranza chiunque altro è autorizzato a metterne assieme una raffazzonata, non votata dagli italiani. Non ci casco: chi vuol votare la fiducia la voti, spero siate tanti, ma siccome noi abbiamo un sistema elettorale con il premio di maggioranza (non maggioritario, non ciurlate nel manico, ma con il premio di maggioranza) per cambiare la cosa si deve tornare dagli elettori.
Messa così, però, cari colleghi, non andiamo da nessuna parte. Serve un patto, che unisca quelli fra noi che hanno idee diverse ma conservano un cervello. Il patto deve essere finalizzato a smontare il trucco che inventai. Ve lo dico io: con quel trucco affondiamo. Basta con le coalizioni arlecchinesche, contenenti un Parlamento nel Parlamento, quindi un’opposizione nel governo. Eleggiamo, con il proporzionale, un’Assemblea Costituente. Nel frattempo governiamo Giulio Tremonti ed io. Rassegnatevi. Io mi sono già rassegnato. Se dall’Assemblea uscirà, come credo sarebbe utile, un sistema presidenziale, allora approveremo una legge elettorale maggioritaria, se, invece, si opterà per una sistema parlamentocentrico, allora faremo una legge che lo accompagni. Quel che conta è che ci sia coerenza fra il modello costituzionale e quello elettorale. Attualmente sono scoppiati, in tutti i sensi.
Parlo sul serio: costruiamo assieme la terza Repubblica. Così, in attesa di sapere di chi è la casa monegasca, ci prendiamo uno spazio nei libri di storia, nella sezione dedicata all’evoluzione dello Stato. Non siamo capaci di far le cose minute, per portar via la spazzatura o costruire case ai terremotati siamo costretti a derogare dalle norme generali, potremmo essere capaci di fare quelle grandi. Io ci credo, e voi?
Onorevoli colleghi, chiedo la vostra fiducia su un programma in cinque punti, che non ho esposto per non farvi perdere tempo. Li riassumo nel modo più significativo: uno, due, tre, quattro e cinque. Votate come vi pare, ma ficcatevi in testa che non mi tolgo da torno, che la maggioranza relativa dei voti non è una mia fissazione, ma un paletto imprescindibile, sappiate che non mi farò processare, non mi farò condannare, non mi farò stroncare, e se ci proverete resisterò, accidenti se resisterò, mentre voi vi spappolerete in un assalto destinato all’insuccesso, perché gli italiani sanno già benissimo chi sono, e mi votano. Quindi, fate i bravi, prendete in considerazione l’ipotesi che si possano mettere i tarantolati miei e i tarantolati vostri a prendere il fresco sul balcone, impegnandoci a fare qualche cosa di utile.Terminato il discorso, ricevute le felicitazioni, Berlusconi resta in attesa. Il presidente Fini, dopo aver scampanellato, annuncia: apro il dibattito. Berlusconi rivolge gli occhi al cielo: questo, proprio, non vuole capire.

mercoledì 15 settembre 2010

Spingarde puntate. Davide Giacalone

E’ bastato che il tempo del governo, e della legislatura, s’allungasse che, immancabile, è subito ripartita la corrida giudiziaria. L’allungamento, con ogni probabilità, è più illusorio che reale, ma le soffiate e le anticipazioni sulle inchieste sono fra le poche cose sicure di questo disgraziato Paese. Così, dalla sera alla mattina, l’inchiesta sulla “cricca” ha ripreso quota, dotandosi anche di un apposito “pentito” e ravanando sul più inutile dei dilemmi, ovvero l’identità di “Cesare”.

Segnalo che i giornali sono tornati ad attingere alle carte della procura dopo che la Corte di cassazione aveva provveduto a bocciarne le posizioni, com’è avvenuto nel caso di Flavio Carboni. Il quale, agli occhi di noi estranei a quale che sia cricca, ma anche a qualsivoglia forma di giustizialismo, continua ad apparire come un maestro di millanteria finito in una classe differenziale, ricolma di scolaretti pretenziosi, ma incapaci. E segnalo una seconda cosa, che dimostra quanto si sia smarrito il senso dell’orrore: non solo le parole del novello “pentito” sono finite direttamente in tipografia, ma anche la sua richiesta di scarcerazione, quale suggello del patto scellerato, da venti anni tollerato: ti arresto non perché ricorra anche una sola delle tre ragioni previste dalla legge, ma perché ti spingo a parlare, tu lo fai e mi chiedi di tornare a casa. Il che avviene sotto gli occhi di una stampa compiacente, riproducente e non scandalizzata.

La posta, manco a dirlo, è Silvio Berlusconi. Il quale forse pensa sul serio d’essere Cesare, ma che, nel caso specifico, sarebbe l’imperatore della bufala, ovvero il referente di un gruppo d’assortiti sbruffoni che andavano vendendosi per piaceri non resi e non rendibili.

Alla ripresa giudiziaria non poteva mancare qualche carta di Vito Ciancimino, dato che ne escono con un ritmo e una gettata che insospettirebbe il più allocco degli osservatori e che, invece, da noi entusiasma gli astanti, pronti a tutto pur di trovare una dannata pezza d’appoggio ad una criminalità di cui non hanno mai dubitato. La carta, questa volta, è la matrice di un assegno staccato da Berlusconi e incassato dal mafioso panormense. Perché lo sanno tutti, specialmente i milanesi cerebrolesi, che i mafiosi si pagano con assegni, in modo da agevolare il lavoro degli storici.

Oramai, in procura, non va più Massimo Ciancimino, l’uomo che si considerava minorenne a trenta anni, vittima del padre e che, adesso, campa grazie a quattrini e fama ereditati. Ora va anche la vedova, la quale sembrerebbe raccontare che sapeva di un incontro a Milano, naturalmente con Berlusconi. Perché, vedete, la cosa più semplice e naturale, per un siciliano che passa la vita a far da servo ai mafiosi, che accumula soldi illeciti e intesta immobili al povero figliolo subornato, la cosa che più gli viene spontanea è tornare la sera a casa e mettere la mogliera al corrente di tutti i dettagli. Specie se si tratta della stessa consorte che ha più corna di un cesto di lumache, la stessa donna che veniva picchiata se solo s’azzardava a sostenere che l’andazzo non era poi il massimo della vita.

L’assegno rinvenuto, poi, si trovava a casa della figlia di Ciancimino, sorella del ciarliero e depistante Massimo. E noi, che siam povera gente, ci chiediamo: ma le case dei mafiosi e dei loro congiunti, considerato che per questa genia di disonorati la famiglia è una cellula criminale, le perquisicono o le spolverano? Le carte di Ciancimino, a voler credere alle cose che leggiamo, sono delle camionate. Che facciamo: intimiamo a chi ne dispone di consegnarle tutte, in un sol botto, pena la galera, oppure ci mettiamo comodi e le leggiamo come un romanzo d’appendice? Siccome a ciò ci accingiamo, sarà bene ricordare che Vito Ciancimino non era un intellettuale, non uno scrittore, non una coscienza turbata, ma un ricattatore che ha lasciato degli eredi.

L’assegno di Berlusconi sarebbe giunto a Ciancimino per il tramite degli uomini di Giulio Andreotti, e sarebbe servito per pagare le tessere del partito (lo si legge ovunque, ma nessuno spiega: i congressi si facevano sulla base del numero delle tessere, tutti i partiti avevano tessere false, come anche iscritti veri, e siccome ciascun iscritto doveva versare una quota, si doveva saldare il conto per morti, fantasmi e ignari, ecco perché servivano i soldi). Non ho idea se sia vero. Se l’assegno fosse direttamente intestato a Ciancimino sarebbe grave. Se era dato ad Andreotti (ovviamente a mano di qualcun altro) saremmo nella normalità, priva d’interesse penale. Mi entusiasma, però, il commento che suscita in taluni, i quali s’interrogano: ma Berlusconi non era craxiano? C’è gente che prima dice delle sciocchezze, poi le ripete ossessivamente, quindi le legge riprese da altri e per ciò stesso le considera verità. Nella realtà, e lo scrivo da venti anni, non di rado deriso, Berlusconi non è mai stato né socialista né craxiano.

Comunue, signore e signori, questo è il clima: se l’appuntamento elettorale s’allontana quello processuale s’avvicina e, oramai, si picchia nel buio e si spara a casaccio. Dopo quindici anni d’assalti infruttuosi anche le baionette giudiziarie si sono arrugginite. Ma sono sempre puntute, possono sempre ammazzare, ed è questa la ragione per cui la legislatura andrà avanti solo se la merce di scambio sarà l’impunità (almeno temporanea). Così, in questa sudicia battaglia, non avremo né una sinistra capace di far politica senza andare a rimorchio del giustizialismo, né una destra capace di ragionare di giustizia e non dei procedimenti e processi le cui spingarde puntano alle mura governative.

Anche l'Islam ha tanti reverendi Jones. Vittorio Emanuele Parsi

Ma quanti «reverendi Jones» ci sono nel mondo islamico e quanto grande è il loro seguito? La sconsiderata minaccia di questo oscuro pastore di un’ancor più sconosciuta chiesa evangelica della Florida, peraltro neppure attuata, di bruciare il Corano ha offerto il pretesto per l’ennesima strage di cristiani nel subcontinente indiano. Tutto ampiamente e drammaticamente previsto, ma oggi, mentre contiamo le vittime innocenti di una violenza inaccettabile, è impossibile fare a meno di sottolineare che, se bruciare i libri è esecrabile, ammazzare persone innocenti è peggio. Perentorie, in tal senso, le parole del vescovo di Jammur & Kashmir nell’intervista rilasciata a La Stampa di ieri, «non si può giustificare con una proposta offensiva la soppressione di vite innocenti», e neppure di quella del «colpevole» autore della proposta, mi sentirei di aggiungere. Non dovrebbe mai essere dimenticato del resto che, per quanto non sia condivisibile dar fuoco ai simboli e alle effigi che non ci piacciono, una simile pratica rientra pur sempre nella libertà d’espressione, la quale nelle democrazie gode della massima tutela, perché se la prima vacilla trascina nella sua caduta anche le seconde. Non per caso, una trentina d’anni fa, la Corte Suprema riconobbe il diritto di bruciare la bandiera degli Stati Uniti come un esercizio, per quanto detestabile, di tale libertà, dichiarando incostituzionali le norme che ben 48 Stati dell’Unione su 50 avevano adottato a difesa del vessillo a stelle e strisce. È del tutto evidente che «l’amor di Patria» e il «timor di Dio» sono sentimenti in sé rispettabili e sacri per i rispettivi credenti, ma sarebbe una deroga inammissibile al principio della libertà di espressione pretendere che ciò che per gli uni o gli altri è «sacro e inviolabile» venisse sottratto all’esercizio di una delle principali libertà, sia pure in forme, lo ripetiamo, assai discutibili.

La «prevedibilità» della violenza scatenata in India contro cristiani colpevoli solo di essere tali, non toglie niente alla sua inaccettabilità e pretestuosità. È solo l’ennesima manifestazione della dilagante e crescente intolleranza nell’Islam, una vera e propria malattia che sta soffocando le società dove l’Islam è religione maggioritaria, e che rischia di restringere gli spazi di libertà anche nelle nostre società. Che siano le vignette danesi, le provocazioni di un idiota o più sofisticate polemiche culturali, quando un qualunque imam leva la voce per scatenare la violenza è sicuro di trovare seguito e, troppo spesso, anche la connivenza delle autorità (basti pensare ai cristiani impiccati in Pakistan per blasfemia dopo «regolare processo»). Come ha sottolineato ieri Angelo Panebianco con l’abituale franchezza sul Corriere, «la “loro” malattia dovrebbe essere, ma non è, il nostro primo argomento di discussione».

Nei giorni scorsi i media sono stati accusati di aver «creato il mostro», facendo del reverendo Jones un personaggio planetario. La verità è che l’attenzione che i media occidentali hanno dedicato a Jones semplicemente obbedisce a un vecchio adagio della professione: «un cane che morde un uomo non fa notizia, un uomo che morde un cane è una notizia». Proprio perché viviamo in società laiche e liberali, ci fa specie e desta il nostro sdegno ogni deriva della versione del sentimento religioso oggi prevalente in Occidente. Secoli di guerre civili di religione intra-occidentali ci hanno dolorosamente vaccinato rispetto ai rischi dell’uso politico e violento delle religioni e insegnato i vantaggi della tolleranza.

Diversamente stanno le cose in gran parte del mondo islamico, nel quale l’utilizzo politico del movente religioso gode di un successo tanto maggiore quanto più è estremo e dove anche i media, troppo spesso, giocano un ruolo diverso. Non è un caso che, a scatenare i professionisti della violenza religiosa in Kashmir sia stata la diffusione di immagini della «profanazione» del Corano da parte dell’iraniana Press Tv, cioè della televisione di un Paese la cui legislazione considera normale la lapidazione delle adultere... (la Stampa)

lunedì 13 settembre 2010

Ultima chiamata per Silvio

Scongiurate le elezioni e finite le chiacchiere estive, è giunto il momento di fare sul serio.

Per Berlusconi è l'ultima chiamata: nel 2013 non si ripresenterà per logoramento politico, perché fisicamente è convinto di avere trent'anni di meno.

Quindi al via subito le tanto promesse e agognate riforme.

Bisogna avere il coraggio di andare avanti e di mettere alla prova la fedeltà al programma dei "finiani", non possiamo aspettare ripensamenti e cambi di maggioranza: si presentino in Aula le riforme e si proceda alla svelta senza paura.

Le elezioni, l'abbiamo ormai capito, non le vuole nessuno.

Ma Berlusconi dovrebbe anche curare di più la comunicazione sia istituzionale che di partito, perché non si possono lasciar passare articoli o trasmissioni che non hanno contraddittorio, che non hanno risposta, che non hanno smentita o chiarificazione e che lasciano il popolo della libertà nel dubbio e nell'incertezza.

L'opposizione fa il proprio mestiere ed i giornalisti pure, è normale che ci siano forzature nel dare le notizie, qualche veniale omissione ci sta, come pure l'enfasi nel messaggio e lo strillo del titolo.

Non è normale, invece, che il Governo e i partiti che lo compongono non abbiano le antenne dritte e non facciano il loro mestiere che è quello di rassicurare, spiegare, rintuzzare e dare la propria versione dei fatti.

Il Governo ha fatto, non è stato inerte, non ha dormito sugli allori. Benissimo, allora vogliamo fatti, dati, numeri, progetti e risultati.

Credo sia un diritto di ogni elettore essere informato e possibilmente essere anche ascoltato.

Nel nostro piccolo, da questo blog, proviamo a farci sentire: ci auguriamo che altri si aggiungano e che le nostre voci diventino un coro ben intonato.

venerdì 10 settembre 2010

Farsi fare la festa. Davide Giacalone

C’è chi scherza con il fuoco e chi assiste al rogo immaginando che le fiamme siano controllabili. Invece tira un’aria insidiosa, che le alimenta e diffonde. Il segretario del Partito Democratico, Pierluigi Bersani, ha fatto bene a definire “squadristi” quanti hanno impedito a Raffele Bonanni di parlare. Ma è la seconda volta che accade, in quella stessa festa di partito, e quando fu costretto al silenzio il presidente del Senato, Renato Schifani, il capo dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, disse: “sto con i contestatori, che sono difensori della legalità e onesti cittadini”. Leoluca Orlando Cascio, esponente di molti partiti e, al momento, italovalorista, aggiunse che non era grave la contestazione, ma il silenzio di Schifani sulle accuse che gli vengono rivolte (non dalla magistratura). Sicché Bersani dovrebbe stare attento, quando dice di non volere controllare la gente che assiste agli incontri, perché il problema politico è relativo a quelli con cui è alleato.

I due atti squadristi (due, non uno) non hanno danneggiato Schifani e Bonanni, invitati a parlare ad una platea che non era la loro, chiamati a esporre le loro idee e discuterle, senza pensare di convertire i presenti, hanno colpito il Pd. Ed è vero che il controllo dell’ordine pubblico è compito della questura, ma è anche vero che la politica non può delegare l’agibilità democratica, ivi compresa la tutela degli invitati. I servizi d’ordine, di cui i comunisti d’un tempo erano maestri (se ne vergognano?), esistono anche nei convegni più sereni. Ma servono a tutelare da estranei male intenzionati, non da fazioni interne sopraggiunte per contestare, prima di tutto, gli organizzatori della manifestazione. La sinistra, quindi, faccia molta attenzione a non sottovalutare il dato evidente: la propria festa è stata sabotata non da estremisti di destra, ma da loro alleati.

Faccia attenzione anche il fronte opposto, il centro destra, perché sedici anni di politica dell’odio hanno distillato veleni potenti. Sedici anni passati a far propaganda non sostenendo le proprie ragioni programmatiche, ma dipingendo l’avversario come il diavolo, il criminale, l’usurpatore, hanno creato fazioni cieche, nelle quali c’è sempre qualcuno che si sente più puro degli altri e che, quindi, sfoga la propria rabbia sui compagni ritenuti non abbastanza duri.

La nostra classe politica frequenta poco l’Italia non raccontata dai media. Ieri mi hanno rubato la moto, cose che capitano alle persone normali. Sono andato a fare la denuncia e dall’altra parte della scrivania c’era un poliziotto che imprecava contro una città insicura, non controllata, con delinquenti liberi e non contrastati, sudicia, buia, affidata a pochi uomini, sempre più vecchi. Con che animo esce, da un simile incontro, un cittadino, derubato per giunta? I nostri politici parlano dei Rom come di un romanzo, che manco hanno letto. Noi proviamo a dire cose che ci paiono sensate e rispettose, ma veniamo sommersi da messaggi che c’invitano a dire chiaramente che questa gente va cacciata. Meglio se cancellata. C’è tanta paglia, in giro, e troppa gente con il cerino in mano. I nostri politici dicono delle minchionerie imbarazzanti, coadiuvati da giornalisti coristi, del tipo: Niki Vendola ha superato Silvio Berlusconi in quanto ad amici su Facebook. Notiziona! E chi se ne frega. Ma avete mai letto i forum aperti sulla rete? Avete mai frequentato tante di quelle pagine? Si respira odio, che trasuda anche nei siti dei quotidiani blasonati. E’ vero, non si deve esagerare, sono sempre gli stessi, che non hanno di meglio da fare. E’ vero. Ma sono comunque più numerosi di quelli che mandavano minacce anonime.

Non si parla più di politica, neanche negli sconti interni alle coalizioni. Se si citano i problemi è solo per farne companatico del vero piatto forte: una contrapposizione antropologica, tutta giocata su categorie che dipingono l’“altro” come venduto, servo, traffichino. Una volgarità che promana dall’alto e si diffonde nelle retrovie, che esala dal basso e contamina le istituzioni.

Bersani ha fatto bene a definire “squadristi” i teppisti convenuti, ma non ha trovato parole politiche, non ha trovato modo di fare il mestiere che spetta alla classe dirigente: indicare idee, temi, prospettive. Bonanni è stato bengalato perché rappresenta un sindacato non corrivo alla Fiom. La cosa di cui si deve parlare è quella: delle relazioni industriali, del diritto del lavoro e della rappresentatività dei sindacati. Difendere con il proprio corpo l’incolumità di chi la pensa diversamente e difendere con il cervello quello in cui si crede. La politica d’oggi non ha corpi che suscitino timore e non ha cervelli che sollecitino il rispetto.

Noi, qui, abbiamo ragionato di Pomigliano, di Melfi, della Fiat e del nostro sistema industriale, sostenendo che i posti di lavoro devono essere mobili e contendibili, ma anche le aziende, che la globalizzazione deve essere messa sul groppone di tutti, non solo di alcuni, vissuta come opportunità, non come calamità. Ma parlavamo al deserto, a politici che ripetono slogan, a sindacati che rappresentano a malapena se stessi, in un clima fazioso in cui sono gli estremisti a farla da padrone. Che deve accadere perché la sinistra s’accorga che questa è una macchina infernale, non dominabile, che li rende prigionieri? Che c’imprigiona tutti.

Ma, vedrete, già domani riprenderemo a parlare di scandali, ruberie, avversari da condannare, tiranni da abbattere, consegnando la vita collettiva ai suoi prodotti peggiori, arruolati per battere i moderati della parte avversa. L’Italia moderata e riformista non ha saputo opporsi alla degradazione del linguaggio, condannadosi a soccombere sotto il peso del travaglismo valorista. Se il giubbotto di Bonanni aiutasse ad aprire gli occhi, potremmo farne una reliquia repubblicana.

martedì 7 settembre 2010

Bussola istituzionale. Davide Giacalone

C’è chi, specialmente commentatori tradizionalmente schierati a sinistra, ha colto nelle parole di Gianfranco Fini un’encomiabile tensione istituzionale, una giusta preoccupazione per gli equilibri costituzionali. A me sembra l’esatto contrario: le sue tesi sono politicamente legittime, la sua denuncia di scarsa dialettica e democrazia interna al partito che lo ha eletto è fondata (magari poteva accorgersene prima, magari poteva considerare che egli stesso dirigeva in quel modo il suo partito), ma il ruolo che ricopre non è quello dell’agitatore politico, perché la maggioranza elettorale lo ha portato a presiedere la Camera dei Deputati, ovvero a svolgere una funzione di garanzia istituzionale. So che, da diversi anni a questa parte, è invalsa la comica abitudine di sostenere che una persona può parlare dalle 9 alle 12 come libero pensatore, dalle 16 (dopo la pausa pranzo) alle 20 come ministro o presidente e, dopo le 23, come capo politico. Ma sono casi umani, sia quanti lo sostengono che quanti ci credono.

I presidenti delle Aule parlamentari sono eletti dalla maggioranza, quale diretta espressione della stessa area che darà forma al governo. Questa è la lettera costituzionale (fu così anche quando vennero eletti due comunisti, espressione della cogestione parlamentare). L’auspicio, non sempre onorato, è che siano scelte persone capaci di offrire garanzie anche all’opposizione, divenendo interpreti non di neutralità, ma di lealtà istituzionale. Un presidente che, una volta eletto, scopra che la maggioranza fa pena, che i partiti che la compongono neanche esistono (o sono morti), che avalla la formazione di nuovi gruppi parlamentari, composti da suoi amici, perde tutte le caratteristiche costitutive dell’incarico. Con il che, ribadisco, la sua battaglia politica è assolutamente legittima, ma la sua collocazione non più.

Mi hanno colpito i commenti di segno opposto, come i politici subito messisi a rimorchio, perché sono il sintomo di un significativo decadimento della nostra vita civile e politica, per cui il possibile vantaggio sull’avversario, o lo sfruttamento di una sua debolezza (non c’è dubbio che Fini è parte stessa del centro destra), vengono prima d’ogni sensibilità istituzionale. Al punto di pretendere di cambiare le carte in tavola e capovolgere la realtà.

Sono fra i pochi che osservarono la non rilevanza penale (semmai fiscale, a stare a quel che conosciamo) dell’ormai celebre casa monegasca, e scrissi che la questione riguardava più i camerati di un tempo che non la collettività, cui non sarebbe stato sottratto nulla (se non, appunto, il fiscalmente dovuto). E non esito a dire, come qui ho già fatto, che i partiti devono avere una vita interna democratica, fatta di confronto fra idee diverse, naturalmente all’interno di un comune e condiviso indirizzo (altrimenti che ci si è entrati a fare?). Osservo, però, che parlando ai suoi Fini ha ritenuto che la faccenda della casa si debba dirimere in campo penale e che alla sua collocazione istituzionale neanche ritiene di dover far cenno. Due errori.

Sarebbe utile, in un Paese serio, in un mondo politico che non avesse smarrito la bussola istituzionale, che il rilievo sull’inopportunità di restare nel posto inadatto, di non utilizzare a terza carica dello Stato in modo difforme dalla sua natura, giungesse da quanti lo sostengono, come da quanti pur guardano con interessata partecipazione alla sua battaglia. Come la sinistra. Tutto, invece, s’è ridotto a tifoserie contrapposte e isteriche. Con grave danno per le istituzioni.

Così è affondato il sedicente capo. Marcello Veneziani

Dopo sedici anni di immersione subacquea negli abissi del berlusconismo, Fini riemerge a pelo d’acqua e dice: preferisco la montagna. O Gianfranco, non te ne sei accorto prima che non ti piaceva nulla di Berlusconi e del suo piglio da monarca, che detesti tutto della maggioranza in cui sei stato eletto presidente della Camera, dal partito-azienda al presidenzialismo, dalla legge elettorale alla tua legge sull’immigrazione, dal pacchetto giustizia alla scuola e al fisco? E, dopo aver coabitato per sedici anni ventimila leghe sotto i mari, scopri ora che la Lega tira troppo per il Nord e poco per l’Italia? Ma va, non te n’eri mai accorto che Bossi non era propriamente un patriota risorgimentale, un romanesco verace e un sudista convinto? E con che stomaco citi ora la destra che hai demolito in tutte le sue versioni?
Come prevedevo facilmente alla vigilia del discorso di Mirabello, Fini ha rotto gli indugi e ha detto con fermezza che vuol tenere il piede in due staffe. Fate schifo, amici, alleati e camerati di una vita - ha detto -, il partito non esiste, ma io resto con voi. Esempio mirabile di finambolismo, variante sleale del funambolismo. Soffermiamoci su quattro passaggi chiave.
1) Il pdl non esiste. Lo penso anch’io, che da tempo traduco Pdl in Partito del Leader, aggiungendo però che Pd è Partito del e non si sa di cosa. Il partito non esiste, però esiste un leader, esiste un governo ed esiste un grande popolo di centrodestra. Non esiste una leadership del partito che faccia da pendant al premier, è vero, ma questa carenza riguarda chi avrebbe dovuto occupare quello spazio: a cominciare dal cofondatore, Fini, che è sparito per anni e ora si riaffaccia alla politica. Non s’è visto nel Pdl l’accenno di un contenuto, di una linea, di una strategia culturale e politica che andasse al di là di Berlusconi. Ma se il Pdl è niente, come dice Fini, immaginate cosa sarà una particella ribelle del niente, denominata Fli? Se il Pdl non esiste, ci può essere la scissione dal nulla?
2) Il governo sotto schiaffo. L’Italia sognava da una vita un governo di legislatura in grado di governare e decidere. E questa volta ce l’aveva. Ma Fini ci offre di tornare alla concertazione, al ricattuccio permanente, alla mediazione di partiti e partitini. E dire che la destra aveva costruito la sua fortuna sul presidenzialismo e sul capo del governo decisionista. Ora Fini diventa il megafono della vecchia Italia che vuole governi deboli, poteri forti e convergenze larghe. Perciò piace ad avversari, procure, circoli di stampa e gruppi di affari. Il governo indebolito, sotto schiaffo, è una manna per loro.
3) Fini sogna una legge elettorale che sancisca la fine del bipolarismo. Se Fini fosse davvero il leader del futuro direbbe: la legge che abbiamo voluto, me compreso, offende la sovranità popolare, ridiamo agli italiani la possibilità di decidere gli eletti con preferenze o uninominale. Ma aggiungendo: però salviamo la governabilità e il rafforzamento dell’esecutivo, col premio di maggioranza e poi magari con l’elezione diretta del premier o del capo dello Stato. Invece no, Fini chiede di poter sfasciare il bipolarismo e restituire il Paese agli aghi della bilancia, ai terzisti e ai giochini di palazzo.
4) Infine, la destra. A Mirabello è davvero rinata An, come dice Maroni, è sorta un’altra destra, come scrive la Repubblica che si commuove perfino a sentir citare Almirante da Fini (che lo ha tradito trentatré volte)? No, la furbata di portarsi il santino nipotino di Tatarella e il santone fascistone di Tremaglia, di arruffianarsi la vecchia base con un paio di citazioni del vecchio repertorio missino, non sono la destra. E tanto meno sono la destra moderna, nuova e futurista di cui si eccitano i finiani. E poi «le radici della destra» non sono a Mirabello, come ha detto Fini. Sarebbe davvero poca roba una destra con quelle radici lì, così corte e contorte. No, le radici della destra sono in luoghi, storie, opere, pensieri, tradizioni che non si possono ridurre alla piccola storia del finianesimo, nel suo viaggio tra le rovine, dal Msi ad An, dal grande nulla del Pdl al piccolo nulla del Fli. La destra è un popolo e non una setta, è una cultura e non una citazione rubata, è un disegno civile e politico e non una carriera personale, è una comunità e non una musica da Camera, un progetto di riforma dello Stato e non una riforma elettorale per sfasciare un governo e scroccare un partito. E chi è di destra nutre amor patrio, cioè amore dei padri, mica dei cognati. Trovo ridicolo il titolo del Corsera: «A Mirabello Gianfranco batte Almirante» notando che la folla di domenica era maggiore di quella dei tempi di Almirante. Ma per forza, quella missina era la festa innocua di un piccolo partito ai margini della politica, questo è un evento mediatico e politico che ha riflessi sul governo e sul Paese. Anche Bruto, se avesse fatto una conferenza stampa dopo aver pugnalato Cesare, avrebbe avuto il pienone.
A proposito di titoli, ne ho trovato sul medesimo giornale un altro, favoloso e stucchevole: «Elisabetta e quel bacio dal palco: sono qui per lui»; ma per chi volete che fosse la Tulliani a Mirabello, per Donato La Morte, per i tortelli di zucca? Questo per dire che era stata una facile profezia la ola in favore di Fini dei grandi giornali: saranno anche loro asserviti a qualcuno come i tg e i giornali berlusconiani deprecati dal medesimo Fini?
Ma no, ma che dite...
Dopo Mirabello il bilancio dell’operazione finiana è il seguente: un governo e un partito azzoppati, elezioni alle porte, una destra decapitata e spaccata che piace così ridotta solo agli avversari. Complimenti. Un vero leader. (il Giornale)

venerdì 3 settembre 2010

Che barba i barbari di Scalfari e Baricco. Mario Sechi

Mentre Pier Luigi Bersani contribuisce alla civiltà del dibattito pubblico aprendo la sua aziendina di autospurgo democratico, i giganti del pensiero italico non fanno mancare il loro aulico appoggio per lanciare l’allarme sull’Italia, ma che scrivo, sul mondo. Dal transatlantico di Repubblica Eugenio Scalfari ieri ha riempito di senso la nostra giornata donandoci sprazzi di luce e saggezza di cui sentivamo gran bisogno. Incipit di enorme interesse: «Mi ha molto intrigato l’articolo di Alessandro Baricco pubblicato da Repubblica il 26 agosto con il titolo 2026 – la vittoria dei barbari». Ah sì? Accipicchia, com’è che noi non ci siamo accorti di nulla? Dannazione, ero distratto dal passaggio di Zlatan Ibrahimovic al Milan e mi sono perso tutto. Vabbè, provo a recuperare, andiamo avanti: «Mi ha intrigato fin dalle prime righe...».

Ok, Scalfari, questo l’abbiamo capito. Su, dai, vai con Baricco, ecco: «Quattro anni fa scrisse una serie di articoli sul nostro giornale e ne trasse poi un libro che ebbe molto successo intitolandolo I barbari. Da allora questo tema è stato al centro del dibattito sull’epoca che stiamo vivendo e sulle caratteristiche che la distinguono». Perbacco, diavolo di un Fondatore, c’è sempre da imparare da lui. Pensa un po’, ho una biblioteca di qualche migliaio di volumi, ma mai m’ero sognato di mettere Baricco al fianco di Melville, I barbari vicino a Gadda, o accanto a un Longanesi o a un Paul Auster. Devo proprio rimediare. Andiamo avanti, EuGenio: «Ne ho parlato anch’io nel mio ultimo libro Per l’alto mare aperto dove ho sostenuto la tesi che la modernità ha concluso il suo percorso culturale durato mezzo millennio ed ha aperto la strada ai nuovi barbari». Mammasantissima ed io dov’ero mentre Scalfari faceva tale rivelazione? Una così sublime autocitazione non può che introdurre a una sentenza capitale, inappellabile. Salto dalla prima alla quarantunesima pagina di Repubblica. San Ezio Mauro là ha deposto il pezzone che tutto spiega e tutto rivela.

Dopo aver appreso che Scalfari si trova «in una curiosa condizione» (basta leggerlo per capirlo), che concorda «con Baricco ma nella sostanza no» (qui la faccenda è psicanalitica), che Eugenio «ha il doppio della sua età» (di Baricco) ma «è curioso quanto lui» (sempre Baricco) e «non è affatto un barbaro» (ancora Baricco), arriviamo come in una cronoscalata al nocciolo della faccenda. Eccolo: «In realtà Baricco non sta descrivendo i barbari, ma gli imbarbariti». E chi sono mai? Calma, la risposta è pronta: «Gli imbarbariti parlano ancora il nostro linguaggio ma lo deturpano; usano ancora le nostre istituzioni ma le corrompono; non vogliono affatto preservare il pianeta dalla guerra, dal consumismo, dall’inquinamento e dalla povertà, ma al contrario vogliono affermare privilegi, consorterie, interessi lobbistici, poteri corporativi, dissipazioni di risorse e disuguaglianze intollerabili». Pronto? È in linea? Parla Scalfari? Quale? Il giovane talento che scriveva su Roma Fascista? L’ex fondatore del Partito radicale? L’ex parlamentare del Partito socialista? L’ex direttore dell’Espresso? L’ex fondatore e direttore di Repubblica, il giornale-partito? L’uomo che meritatamente incassò una paccata di miliardi per cedere il controllo del giornale a Carlo De Benedetti? Il cavaliere di Gran Croce? L’ufficiale della Legion d’onore? Chi parla? Vi prego, fatelo rincontrare al più presto con Io. Il dialogo tra lo scrittore in camicia bianca e il vecchio saggio con la barba bianca è un distillato dell’Italia senza potenza narrativa, di moralismo da terrazza e sofisticazione da salotto. È l’Italia che produce gran copia di saggetti, romanzetti, filmetti, articoletti di giornale già letti prima ancora che siano scritti.

Scalfari ha molte vite, è un grande giornalista, l’unico ad aver pienamente realizzato con enorme successo il sogno che accarezzano in tanti tra noi: fondare un proprio giornale, portarlo in vetta e guadagnarci dei soldi. Ma nello stesso tempo è la punta di diamante del club che domina le nostre malandate istituzioni culturali, comprese quelle possedute da Silvio Berlusconi. Bariccheggiando e Scalfarizzando si giunge a concludere invariabilmente che c’è un’Italia (o un mondo, dipende dall’umore e soprattutto dall’ego) di migliori e poi ci sono gli altri, gli imbarbariti. C’è un gruppo di illuminati, poi ci sono i bifolchi inconsapevoli, meno dei barbari perché incapaci d’invasione che è sinonimo d’invenzione. Ogni cosa ha origine e si sviluppa nel segno del (pre)giudizio morale. Loro sono migliori, intelligenti, educati e dunque destinati al governo delle cose e se per caso accade che qualcuno rovini questo disegno divino, allora la democrazia è malata e il popolo sopraffatto dall’ignoranza. Questo procedimento di selezione e interpretazione della realtà è esteso a qualsiasi materia dello scibile. A tavolino si decide cosa è progresso e cosa conservazione, cosa è degno di entrare nel dibattito pubblico e cosa debba essere espulso, chi deve parlare e chi deve tacere, quali libri siano degni di attenzione e quali da ignorare, quali autori siano politicamente corretti e quali siano da indicare al pubblico ludibrio o peggio lasciar andare alla deriva dell’oblio. Scalfari assolve la sua missione culturale con tenacia.

Egli si definisce un «moderno consapevole» e rispetto ad altre ipocrite sagome che ombreggiano qua e là, non si nasconde dietro giri di parole, lo dice e scrive chiaramente: «Questa battaglia riguarda noi e soltanto noi possiamo e dobbiamo combatterla». Vi è in questa frase finale dell’articolo scalfariano un richiamo a un’impresa solitaria, quasi eroica. Peccato che in realtà lui sia la guida di un esercito che domina senza avversari il mondo della cultura italiana. Non è lui il solitario eroe di questa battaglia, ma i pochi che sono sopravvissuti al bombardamento dei guardiani della rivoluzione in carrozza. Dietro il discorso filosofico, il tono alto, le citazione dotte, sul fondale di uno scenario classico in cui compaiono Cicerone, Ovidio, Virgilio, Seneca e Boezio (così, tanto per essere modesti) in realtà emerge il ruggito feroce dell’antropologica consapevolezza di chi sente di essere un gradino più in alto e può concedersi di osservare con snobismo e superbia quello che un tempo era «il popolo delle taverne e delle suburre» e oggi per la vulgata degli intelligenti è il popolo della televisione appeso al telecomando, un popolo non barbaro ma imbarbarito. Scalfari va letto e in fondo amato perché ci indica, ogni giorno, quali sono le idee da combattere. Le sue. (il Tempo)

Bande e dossier. Davide Giacalone

Forse il Presidente della Repubblica ha ragione: il festival del cinema è il luogo più adatto per mettere in scena il logorio del tessuto istituzionale e gli sbreghi che lo attraversano. Sul rosso tappeto delle dive (o presunte tali) sfila anche una politica che è più rappresentazione di se stessa che non realtà, al punto da tollerare che lo spettacolo s’arricchisca di poliziotti che si mostrano al mondo accoltellati alle spalle mentre la più alta carica dello Stato, lungi dal cogliere la gravità del fatto, indulge a spiritosaggini che dimostrano più la freddezza dei rapporti istituzionali che non una vocazione alla freddura.

Sarebbe un errore, però, credere che lo spettacolo, poco commendevole, sia rappresentazione esclusiva di pochi uomini, gravati da storie non digerite, ambizioni non appagate, ripicche non controllate, vendette non consumate. La malattia, perché tale mi sembra essere, non coglie solo un pezzo del Paese, ma mostra i suoi sintomi per ogni dove. Ciascuno corre a portare il proprio contributo allo sfascio, nella speranza di ricavarne un vantaggio immediato. Forse è il caso di segnalare il pericolo, nella certezza di non ricavarne neanche un ascolto distratto.

Mi ha colpito la sorte che, in questi giorni, è toccata a Corrado Passera, amministratore delegato del gruppo Intesa San Paolo. Il 19 agosto è stata pubblicata, dal Corriere della Sera (quotidiano nella cui proprietà la banca stessa è coinvolta), una sua lunga intervista. Svolgeva ragionamenti interessanti, ciascuno meritevole di approfondimenti e ulteriori riflessioni. Erano parole pesanti, perché pensate, e non è sfuggito, naturalmente, che siano state pronunciate in un clima politicamente difficile. Il succo, se mi è consentita la brutale sintesi, era: l’Italia ha enormi potenzialità, ma si deve lavorare seriamente, mentre la classe dirigente fugge alle proprie responsabilità. Io credo che la citata classe dirigente sia, più che altro, in gran parte incapace e mal selezionata, ma, insomma, quello era il senso.

Come quando si spara una fucilata in un bosco affollato e rumoroso, immediatamente dopo c’è stato un attimo di silenzio. Dopo di che sono arrivate le notizie sui presunti intrallazzi di Passera e della sua famiglia: affari alberghieri, soldi e società all’estero, approfittando di paradisi fiscali, conflitti d’interesse nell’amministrazione della banca, prestiti ad amministratori, uso dello scudo fiscale e favoritismi al fratello. Probabilmente dimentico qualche cosa, ma cambia poco, tanto non ne so nulla. Tutto questo, vero o falso che sia, realistico o esagerato, non ne ho idea, preesisteva all’intervista, ma non era mai uscita una sola riga. Niente. Silenzio.

Posto che Passera smentisce, e posto che nessuno ha dimostrato niente in nessuna sede competente, che, quindi, le chiacchiere stanno a zero, l’impressione terrificante è che il nostro sia divenuto un Paese in cui ciascuno, a misura delle proprie possibilità e capacità, possa fare quel che gli pare, a condizione, però, di non proiettare la pipì fuori dal vaso. Non appena metti la capoccia fuori dal seminato, non appena approfitti del potere, della visibilità o, semplicemente, del diritto di parola fuori dal rispetto degli equilibri spartiti e nascosti, allora si scatena l’inferno. Evidentemente non determinato e finalizzato alla promozione dell’etica pubblica, ma, all’opposto, furioso perché s’è violata la regola della non intromissione. Che può anche essere chiamata: omertà.

L’ho scritto anche nel caso di Gianfranco Fini: se è vero quel che è emerso, e che lui non è stato in grado di smentire, la sua condotta è da considerarsi vergognosa, ma è non meno significativo che tutte queste storie siano emerse dopo una rottura politica, e non prima. Certo, i giornalisti pubblicano quel che hanno, semmai ritardano si tratta di qualche giorno, ma è come se in Italia ci fosse una centrale del fango (ad essere ottimisti ed olfattivamente prudenti), pronta a scattare nel momento opportuno. Il che non significa che taluni si possano descrivere come vittime, ma che noi tutti siamo vittime di un sistema senza controlli, senza giustizia, senza condanne, senza assoluzioni, dove s’è autorizzati a credere che il più pulito abbia la rogna, ma che la cosa emerge solo grazie alla guerra per bande.

Di Fini discussi l’indirizzo politico, senza attendere quello monegasco. Di Passera avrei voluto discutere le suggestioni, come anche le intenzioni, senza essere sommerso da faccende alberghiere e bancarie. E se quelle cose sono vere vorrei che i responsabili, quale che sia la loro funzione, fossero messi fuori gioco. Come vorrei che le persone oneste non debbano vedersela con la palta nel ventilatore. Ma questa è l’Italia costruita dal moralismo senza etica e dal giustizialismo senza giustizia. Che merita d’essere affondata. Anche a Venezia.