giovedì 5 febbraio 2009

I due volti di Barack. Vittorio Emanuele Parsi

Sono almeno due le cose che colpiscono, e non certo positivamente, nell’apprendere la notizia che l’«America di Obama» continuerà con le «rendition», il programma che prevede la possibilità di arrestare ed eventualmente detenere segretamente all’estero i sospetti terroristi. La prima riguarda il Presidente e, in particolare, la coerenza tra le sue decisioni e i principi in nome dei quali è stato eletto e ai quali fa ampio ricorso nella sua comunicazione prima e dopo la vittoria; la seconda l’atteggiamento nei suoi confronti da parte degli osservatori, in particolar modo di quelli liberal. Potremmo definire l’una e l’altra come le due facce di una sorta di sindrome del «doppio standard», per cui il giudizio sull’accettabilità o meno di una qualunque pratica dipende esclusivamente o prevalentemente da chi la attua e non dalle caratteristiche proprie dell’azione.

E così, se ad arrestare l’imam di Milano Abu Omar, e a spedirlo in Egitto per «ammorbidirlo un po’», è la Cia di Bush si grida allo scandalo, ma se domani un’analoga operazione viene compiuta dal nuovo «potere intelligente» appena insediato alla Casa Bianca allora è tutta un’altra cosa. Certo, l’amministrazione assicura che queste operazioni saranno eseguite in «maniera diversa», che le detenzioni avranno durata limitata e che si chiederanno garanzie ai governi dei Paesi in cui i sospettati verranno inviati affinché essi non vengano torturati. Tutto ciò assomiglia però al massimo a una brutta «lettera di manleva morale», utile per scaricarsi la coscienza o, più prosaicamente, per evitare di dover mentire, con il rischio, magari, di finire nelle maglie di una possibile procedura di impeachment. In fondo l’attuale segretaria di Stato è pur sempre la moglie di quel Presidente che tali pratiche le ha autorizzate nel 1993 e che sotto impeachment c'è quasi finito.

Alla fine, almeno su questo punto, è stato più trasparente George W. Bush, che con la sua retorica dell’America sotto assedio e la sua logica di guerra giustificava le «rendition» e Guantanamo in nome dell’emergenza. Ma chi ha denunciato, opportunamente, quella logica e quella retorica, e ha impiegato ben diversi registri comunicazionali, invitando l’America e il mondo a credere in un cambiamento non solo di amministrazione e di stili o comportamenti, ma addirittura di un’epoca (l’epoca della responsabilità) dovrebbe andarci un po’ più cauto. O per lo meno evitare il ridicolo, ricordandosi che anche l’apertura di Guantanamo era stata concepita «su base transitoria».

Ma tra le tante qualità del virtuoso Obama e del suo staff sembra che l’autoironia e il senso dell’umorismo difettino un po’. Basti pensare all’involontaria comicità che oggi colpisce l’autocertificazione di «sana e robusta costituzione etica» che l’allora «Presidente eletto» aveva chiesto ai suoi futuri collaboratori di firmare, e che aveva procurato qualche imbarazzo a Hillary Clinton. Proprio lo staff si sta rivelando essere assai meno virtuoso di quanto era lecito aspettarsi: che nel «dream team» dell’era della responsabilità, ardentemente volto a ristabilire l'equità sociale, saltino fuori continuamente evasori fiscali e contributivi non è certo un bello spettacolo. Di questo passo finiremo per rimpiangere la moralità dei tempi di Bill Clinton, il quale in fondo si limitava a correr dietro a qualche sottana.

Chiudere Guantanamo e autorizzare la prosecuzione delle rendition e delle detenzioni segrete all’estero si direbbe davvero incoerente. A meno che non si consideri che, mentre è ormai ampiamente ostile a Guantanamo, il pubblico americano sembra invece molto meno interessato a procedure che riguardano innanzitutto cittadini stranieri e rapporti con i governi stranieri: alcuni dei quali (come l’Egitto) sono ben contenti di poter mettere le mani su potenziali dissidenti, mentre altri (come quelli europei) ritengono illegali le modalità di quegli arresti e di quelle detenzioni.

Che dire poi del fatto che la stessa Human Rights Watch, vero e proprio mastino dei diritti umani durante l’amministrazione Bush, si sia ora trasformata in un grazioso barboncino (come il Daily Mirror definì Blair ai tempi di un tempestoso G8 nel luglio 2006), ammansita al punto di prendere per oro colato le giustificazioni presentate dallo staff presidenziale. Il sospetto, che speriamo possa venire fugato al più presto, è che, in America come in Italia, il mondo liberal si consideri «antropologicamente superiore» ai cowboys della destra repubblicana, dimostrando di essere afflitto da quel pregiudizio (a proprio favore) così brillantemente descritto da Luca Ricolfi in alcuni lavori tanto documentati quanto micidiali sulla sinistra italiana.

I problemi che Obama deve affrontare sono tanti e complessi, a cominciare dalla crisi economica che rischia di far saltare il contratto sociale anche in America. Sarebbe quindi ingeneroso non concedergli il beneficio d’inventario, come a lungo venne riconosciuto a George W. Bush: che dovette misurarsi con l’«inaudito» dell’11 settembre, non riuscendo a dimostrarsi all’altezza di un compito così tremendo. Non possiamo che augurare a Barack Obama miglior fortuna del suo predecessore, confortati nella speranza dalle qualità che l’uomo sembra davvero possedere. Ma, proprio a fronte della gravità degli impegni, dell’enorme investimento emotivo che ha circondato la sua elezione e delle aspettative che il mondo nutre su di lui, l’ultima cosa di cui il Presidente ha bisogno è un coro di adulatori acritici. (la Stampa)

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