Non esiste una tassazione che possa lasciare il ceto medio estraneo alla raccolta di quattrini destinati a comprimere il debito pubblico. Sia che ci si rivolga ai redditi, ai patrimoni o ai consumi, la borghesia è comunque candidata a pagare. Ciò perché di ceto medio, di borghesia, è fatta l’Italia, come ogni altra società democratica e sviluppata. Prendersela con il governo perché incapace di una fiscalità che salvi il ceto generale, come anche invocare tasse per ricconi e grandi patrimoni, è ozioso e demagogico. Lascia il tempo che trova e non fa fare una gran figura a chi usa questi argomenti. Dal che, però, non discende affatto l’inesistenza d’alternative.
Tre cose indispettiscono, predisponendo al peggio l’umore collettivo. La prima è la fotografia fiscale dei redditi e dei patrimoni: falsa. Ciò lo si deve al fatto che la propensione all’evasione fiscale è alta, il che non depone a favore delle qualità civiche dei cittadini. Da noi paga tutto solo chi non può evadere, più qualche fesso che s’ostina ad essere onesto (con sé stesso). Ma è anche colpa di governi che non hanno saputo far altro che lanciare gran proclami contro l’evasione fiscale, incattivirsi con ingiunzioni che sfociano in contenziosi infruttiferi (ma per il contribuente dolorosi), per poi varare condoni. (A proposito di condoni, va di moda voler tassare ulteriormente i capitali rientrati con lo scudo, nel presupposto che trattasi d’evasori e profittatori, salvo il fatto che lo Stato vendette la regolarizzazione e se quella diviene inefficace o richiede altri soldi ne deriva che lo Stato racconta palle, il che sollecita i capitali ad andare via. Ed è facilissimo).
La seconda cosa che dà sui nervi è la retorica classista e buonista, che mescolate assieme sono l’essenza del cattocomunismo. Le tasse non sono mai “contributi di solidarietà”, perché vengono imposte anche a chi è contrario. I ricchi non sono quelli che guadagnano 90 o 150 mila euro l’anno, ma quelli che guadagnano dieci volte tanto e lo nascondono. Il fatto che a tale matrice culturale s’allinei il centro destra, ufficialmente nato per far valere l’opposto, dimostra la sconfitta di chi non è stato capace d’opporre nulla al ritorno del sempre uguale.
La terza è la sostanza del problema: pensare alla sola tassazione è di per sé un errore, perché non è mancato il tempo per tagliare la spesa e ridurre il patrimonio pubblico. E non sarebbe stato impopolare, se una classe dirigente degna di questo nome ne avesse saputo spiegare i benefici generali. Siamo ancora in tempo. Quel che scarseggia sono le idee e la lucidità.
E’ per queste tre ragioni che ritengo improponibile la manovra governativa: non (solo) per le tasse che impone, ma per l’assenza di contropartite. E, del resto, quando leggo che esponenti della maggioranza ripetono ancora, come ripeterono in occasione della manovra scorsa, immemmori della propria inutilità, che le norme si possono cambiare, ma “a saldi invariati”, è chiaro che annaspano e non sanno dire altro che quel che non sanno fare.
Se si guarda il mercato e i contribuenti non come un limone da spremere, ma come un albero da far crescere, raccogliendone più copiosi frutti, si potrà rinfacciare la follia populista di chi ha voluto e votato referendum contro la privatizzazione della gestione (della sola gestione!) dei servizi pubblici locali, di chi volle l’abbassamento dell’età pensionabile, come di chi scioperava contro la flessibilità contrattuale. Se, invece, si perde la bussola e la testa, riducendo qualsiasi governo a far comunque le stesse cose, l’umore cupo che monta si scaricherà contro la politica tutta. Non sarebbe la prima volta, posto che le esperienze passate sono pessime.
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