venerdì 18 gennaio 2013

La vergogna italiana di una giustizia lumaca. Valter Vecellio

 

Una piccola notizia di cronaca, fa pensare a uno di quei bozzetti in cui era maestro Ferenc Kormendi. Invece che a Budapest, siamo però a Genova. I protagonisti di questa storia a cavallo tra il ridicolo e il patetico sono un pizzaiolo e il suo fornitore. Per qualche ragione che qui poco importa conoscere, il pizzaiolo non paga il fornitore. Il fornitore le tenta tutte, per vedersi saldato il debito, compreso il ricorso a metodi non proprio ortodossi. Scatta così una denuncia, per estorsione. I fatti accadono nel 2003, dieci anni fa. Il magistrato che si occupa della vicenda dopo un po’ si trasferisce in un’altra sede. Il successore che eredita il caso è oberato da decine, centinaia di altri procedimenti tutti più urgenti. Il tempo passa. Debitore e creditore giocoforza si convincono che la storia è finita lì; anche gli avvocati dopo un po’, presi probabilmente da altre cause, finiscono con il perdere i contatti con i loro assistiti. Una storia, finora, come tante, di giustizia denegata, dove tutti perdono, e nessuno ha soddisfazione. Trascorrono gli anni.

Dieci, per l’appunto. Ed ecco che, inaspettatamente, il Tribunale fissa l’udienza preliminare; per l’8 gennaio, una settimana fa. Dieci anni per l’udienza preliminare sono già di per sé una beffa; ma la cosa va molto al di là della beffa, perché viene fuori che nessuno si era accorto che sia il debitore che il creditore nel frattempo erano morti. Caso limite, si dirà; e chissà se anche questa vicenda rientra tra “i temi molto tecnici”, formula usata dalla signora ministro della Giustizia, Paola Severino, nell’auspicare che i partiti considerino il tema della giustizia centrale. È davvero una perla, quel “temi molto tecnici”, per definire la giustizia e la sua situazione di collasso e paralisi, espressione rivelatrice, illuminante. Si parla molto della situazione delle carceri, ed è giusto che si faccia. Le carceri però sono solo la punta dell’iceberg del più generale sfascio della giustizia italiana. Ogni giorno nei tribunali si verificano casi come quello di Genova; e di pari passo si consuma quella che si può ben definire amnistia strisciante, clandestina e di classe: l’amnistia delle prescrizioni, di cui beneficia solo chi si può permettere un buon avvocato e ha “buone amicizie”; sono circa 150mila i processi che ogni anno vengono chiusi per scadenza dei termini. Ogni giorno almeno 410 processi vanno in fumo, ogni mese 12.500 casi finiscono in nulla.

I tempi del processo sono surreali: in Cassazione si è passati dai 239 giorni del 2006 ai 266 del 2008; in tribunale da 261 giorni a 288; in procura da 458 a 475 giorni. Spesso ci vogliono nove mesi perché un fascicolo passi dal tribunale alla corte d’appello. Una situazione, a parte gli irrisarcibili costi umani, che grava pesantemente sui conti dello stato. L’esasperante lentezza dei processi penali e civili italiani costano all’Italia qualcosa come 96 milioni di euro l’anno di mancata ricchezza. Confindustria stima che smaltire l’enorme mole di arretrato comporterebbe automaticamente per la nostra economia un balzo del 4,9 per cento del PIL, e anche solo l’abbattere del 10 per cento i tempi degli attuali processi, procurerebbe un aumento dello 0,8 per cento del PIL. Grazie al cattivo funzionamento della giustizia le imprese ci rimettono oltre 2 miliardi di euro l’anno, e il costo medio sopportato dalle imprese italiane rappresenta circa il 30 per cento del valore della controversia stessa, a fronte del 19 per cento nella media degli altri paesi europei. Ecco perché ha ragione chi, come Marco Pannella, chiede e si batte per l’amnistia. Per mettere in moto quel meccanismo virtuoso che altrimenti resterà, come è rimasto finora, inceppato.

C’è bisogno, come si dice ora, di un’agenda “politica” sulla Giustizia, altro che “temi tecnici”, come dice il ministro della Giustizia Severino. I Pierluigi Bersani e i Nichi Vendola, gli Antonio Ingroia, gli Antonio Di Pietro e i Beppe Grillo, quanti si preparano alla scalata di Palazzo Chigi e del Quirinale, i compilatori di programmi elettorali e di governo, su questo non dicono e non propongono nulla; e c’è da capirli: non ci sono poltrone o postazioni di potere da occupare e spartire.

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