giovedì 2 maggio 2013

Due illusioni. Davide Giacalone

In tanti si chiedono dove Enrico Letta troverà i soldi per dare quel che ha promesso. La risposta è: nella minore spesa per il debito pubblico, data dal calo dei tassi; nelle obbligazioni legate a un fondo pubblico patrimoniale; e nei maggiori margini rosicabili in sede europea. Il punto delicato è un altro: se non si taglia e ristruttura radicalmente la spesa pubblica corrente quei soldi (ammesso che ci siano) saranno buttati via. E di tagli non ha parlato. Questo fa paura, anche in considerazione del quadro europeo.

Sarà bene stamparsi nella testa la scena del Parlamento greco che vota un taglio di 15 mila posti nel pubblico impiego. Serva da monito per quanti alimentano due terribili equivoci, o l’idea che si possa tirare il fiato, magari assumere i precari, e attendere che la marea dei mercati rialzi le nostre barche. Nulla di più sbagliato: la marea ha continuato a crescere, se i nostri vascelli non galleggiano al livello più alto è perché nessuno ha riparato le falle e abbiamo imbarcato tanta acqua.

I due equivoci sono legati, paradossalmente, a due elementi positivi: a. gli spread (tutti, non solo il nostro) sono scesi; b. si allarga la consapevolezza che le politiche di austerity bilancistica non risolvono i problemi, e in qualche caso li aggravano. Vedo il pericolo che da questi elementi reali si deducano conseguenze irreali, costruendoci politiche inutili.

La discesa degli spread deriva dal successo degli strumenti messi in campo dalla Banca centrale europea. Che sono ancora messi in dubbio dai tedeschi. A parte ciò, pure rilevante, resta che non hanno alcuna utilità sul mercato reale. Pagare meno per il mantenimento del debito pubblico è una gran bella cosa, ma se persiste la differenza nella speranza e nel costo dell’accesso al credito il nostro sistema produttivo è comunque condannato a indebolirsi ulteriormente, fino a soccombere. Ho scritto che dopo le elezioni tedesche si aprirà una finestra positiva, ma ciò non significa che basta attendere, perché rischiamo d’arrivarci con le ginocchia piegate.

Noi continuiamo a non avere alcuna politica di abbattimento del debito e, come osservano quelli di Moody’s, che vedono nero nel nostro futuro, finché ce lo teniamo al 130%, per giunta crescente, anche a causa della discesa del prodotto interno lordo, non ci sono margini per serie politiche espansive. Siamo come il naufrago che ha trovato il salvagente Bce cui attaccarsi, ma che continua a essere mozzicato dagli squali. Difficile dire che si possa andare avanti così. Quindi ci servono due cose: 1. dismissioni di patrimonio per abbattere il debito e trovare risorse da destinare a investimenti pubblici e sgravi fiscali; 2. forza per aprire la strada a un vero sistema bancario europeo, che cancelli il nostro indebito svantaggio, come anche l’indebito vantaggio tedesco (a proposito, Deutche Bank ha varato un aumento di capitale pari a 2,8 miliardi, il che, pur essendo ancora poco, conferma quel che scrivevamo: ci son magagne, da quelle parti). La seconda cosa possiamo costruirla in un rapporto con i francesi, che hanno finalmente capito quanto li porti alla rovina legarsi al carro della Merkel.

Il governo socialista s’è rimangiato la politica di aggravi fiscali sulle imprese, mentre quella sui “ricchi” è solo fuffa propagandistica. Inoltre da quel partito fioccano quotidianamente prese di posizione contro la politica del governo tedesco e, su questa base, si preparano alla grande coalizione. I francesi, insomma, hanno sbagliato molto e a lungo, ma ora sono pronti a cambiare rotta. Approfittiamone.

Veniamo all’austerity: tagliando e tassando si accresce la recessione. Il fatto che se ne diffonda la consapevolezza è positivo. Ma se oggi l’Unione europea abbracciasse la dottrina opposta noi rischieremmo di vedere crescere lo svantaggio relativo (nel senso che ne avremmo conseguenze positive, ma meno di altri), perché la nostra spesa pubblica è per la quasi totalità corrente e improduttiva. Ciò significa che lo spazio da qui all’apertura della finestra non deve essere intestato all’attesa, ma all’operosa rimozione degli ostacoli interni, in gran parte legati alla difesa di rendite e protezioni. Solo rimuovendo questi macigni ci si mette nelle condizioni per approfittare delle opportunità.

Il centro destra danza attorno al totem dell’Imu (cantando frettolosamente vittoria). E’ una bandiera, ed è giusto che la casa degli italiani non sia la manna del fiscalismo satanico. Ma guai a credere che la faccenda si limiti all’Imu, che, sull’insieme del gettito, è robetta. E, del resto, esentando (ammesso che lo si faccia) la prima casa si lasciano soldi nelle tasche dei consumatori, ma continuando a tassare capannoni e impianti aziendali li si toglie dalle tasche dei produttori. Gli stessi che non trovano credito e i cui crediti nei confronti della pubblica amministrazione continuano a non essere onorati. Il sistema produttivo ha bisogno di ben altro. E ne ha bisogno in fretta.

Sarebbe sciocco chiedere subito tutto al governo appena insediato. Il problema, però, non è la pazienza del commentatore, bensì il tempo corto del sistema produttivo.

Pubblicato da Libero

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