Guido Rossi è stato chiamato alla presidenza di Telecom Italia da Marco Tronchetti Provera, oramai al culmine dei suoi errori e quando le ruote non rispondevano più allo sterzo. Quel giorno ho previsto una futura rottura fra i due, ma mettendo nel conto le dimissioni di Rossi, non il suo licenziamento.
Insediato alla presidenza Rossi tenne con sé il gruppo dirigente ereditato da Tronchetti, limitandosi a chiedere a Buora di scegliere fra Telecom e Pirelli. La dottrina Tronchetti venne, però, ribaltata. Un esempio per tutti: Tim Brasile era in vendita, acquirente America Movil, e si decise invece di conservarla. I contrasti crebbero quando il socio di riferimento ha tentato e ritentato di vendere la baracca senza neanche consultarne gli amministratori, ed all'ultimo consiglio d'amministrazione fu la proprietà ad essere messa in minoranza. Ma poi accadde che gli stessi che avevano votato per la linea Rossi ci abbiano ripensato, inviandogli una lettera di sfiducia. A quel punto si era all'inedita situazione di una società quotata con in minoranza sia il presidente che il socio di maggioranza relativa.
Adesso che Tronchetti ha scaricato Rossi qualcuno dirà, con il solito cinismo artefatto, che “i quattrini contano” e la proprietà reclama i suoi diritti. Si dirà che questo è il mercato. Ma è qui che sta l'errore ed il trucco: Olimpia, quindi Pirelli e Benetton, non sono affatto i proprietari di Telecom, ma i depositari di una rendita di posizione resa possibile dall'inconsistenza delle autorità di controllo, Consob in testa, e dall'insipienza della politica. Tronchetti continua a trattare Telecom come se fosse roba sua, mentre Olimpia, stracarica di debiti, ne possiede meno del diciotto per cento. Ai diritti del rimanente ottantadue, in tutti questi anni, non ha provveduto nessuno. Con l'aggravante che tanta impunità rende oggi possibile un passaggio all'estero del controllo senza che neanche Telecom sia venduta. Non è allo straniero che ci si deve ribellare, ma agli italiani che hanno consentito questa roba.
Non è un mistero che Rossi, dalla presidenza, ha lavorato e lavora ad una cordata alternativa ad Olimpia. Il che, ancora una volta, non risponde alle regole del mercato, ma alle sue storture, agli sgorbi che si edificano quando le fondamenta sono sbilenche. Ora Rossi, che resterà al suo posto almeno fino all'assemblea, rifletta sul fatto che lui è cancellato dalla lista di Olimpia mentre Buora e Ruggero sono confermati, rifletta, come segnalavamo appena tre giorni fa, sul fatto che l'unico estraneo a quel vecchio gruppo dirigente, responsabile di non pochi guai e quanto meno incapace di vigilare sulle devianze interne, è accompagnato alla porta, e ci dica se non avevamo ragione a ripetere che, se le regole avessero ancora cittadinanza, sarebbe stato giusto e saggio promuovere un'azione di responsabilità nei confronti della passata (in gran parte presente e forse anche futura) dirigenza.
Leggo di diversi esponenti della sinistra, anche uomini di governo, che ricordano, adesso, che ci sono inchieste penali assai gravi che pendono sul capo di chi ha diretto Telecom, al punto da sconsigliare agli stranieri di comprare (sempre Olimpia) e da ipotizzare un improponibile ritiro della concessione (che neanche esiste più). Eccola, avvocato Rossi, la patologia penale di un Paese dove si vive, e si muore, d'inchieste senza processi. Ma è proprio l'incapacità delle società di mettere in circolazione gli anticorpi a far sì che l'infezione dilaghi. Lei lo ha scritto, in passato, ma ha perso una bella occasione per dar corpo a quelle pagine.
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"Adesso posso dirlo: mi sento sollevato, mi sono tolto un peso. Da metà settembre fino a martedì scorso ho passato sei mesi d'inferno. Alla mia età è giunta l'ora di rinunciare alle illusioni: il sogno di salvare la Telecom, come quello di risanare il calcio italiano. Erano le illusioni di un vecchio signore che ancora pensa di fare il riformista. E' tempo che mi passino dalla testa". Il giorno dopo l'ultimo scontro con Marco Tronchetti Provera, Guido Rossi pronuncia giudizi severi e lapidari ma con il tono sereno, di chi davvero è convinto di aver chiuso una pagina.
Può parlare in libertà, può dare la sua versione, può fare un bilancio di questi sei mesi (poco più) che lo hanno visto tornare alla testa del gruppo che lui stesso aveva guidato nella privatizzazione. Il giurista, ex presidente della Consob, promotore della legislazione antitrust in Italia, da questa vicenda trae la conferma di una diagnosi spietata sui mali profondi del capitalismo italiano, sulla sua incapacità di cambiare. Tronchetti; il vizio antico delle scatole cinesi; le banche; la politica; nessuno si salva: e se questo è lo stato del paese allora ben vengano gli stranieri, è la sua lezione finale.
Professor Rossi, cominciamo dall'inizio, cioè da settembre. Visto com'è andata a finire, non era una missione impossibile la sua? E perché Tronchetti venne a cercare proprio lei, se stava scritto che i vostri disegni sarebbero risultati incompatibili?
"Perché è venuto a cercarmi? Perché era troppo nei guai, perché era alle strette sia con l'Antitrust che con l'Authority delle Comunicazioni, perché la sua situazione sembrava irrecuperabile, perché aveva bisogno di credibilità. Io mi sono fatto carico di questa responsabilità nell'interesse dell'azienda, l'ultima grande impresa tecnologica italiana, un gruppo al quale mi sentivo legato dalla storia della sua privatizzazione. Ma quando ho cercato di fare pulizia nel conflitto d'interessi fra Tronchetti e la Telecom, per il bene dell'azienda, del mercato e del paese, siamo entrati in rotta di collisione. Sono diventato pericoloso per lui, andavo eliminato. Naturalmente anche negli scontri c'è modo e modo di comportarsi. Che mancanza di stile, avvertirmi solo la sera prima che Olimpia non mi avrebbe ricandidato per il rinnovo del consiglio d'amministrazione...".
Ma già prima di questa resa dei conti finale, c'erano stati scontri strategici. Si è detto che lei ha fatto saltare un primo accordo, quello che Tronchetti stava negoziando con la spagnola Telefonica. Sarebbe stato, dopotutto, se non una soluzione italiana almeno un esito europeo.
"Ma chi ha messo in giro questa fandonia? Ho l'impressione che mentre io mi occupavo dell'azienda, c'è chi passava più tempo a parlare con i giornali per accreditare queste tesi. Quella che io avrei ostacolato il dialogo con Telefonica è una menzogna. Al contrario, da un certo momento sono stato l'unico a tenere i rapporti con Cesar Alierta. Il presidente di Telefonica era scandalizzato per la tracotanza di Tronchetti. Venne a trovarmi a casa, passò un'intera domenica pomeriggio a parlarmi. Aveva capito che Tronchetti voleva incassare tutto il premio di controllo, per un controllo che non ha. Telefonica è una public company, mi disse Alierta, certe cose non può farle. Ecco come si parla quando si ha rispetto per il mercato".
Si è detto anche che lei con il suo ostruzionismo di fatto stava spianando la strada all'ingresso della Fininvest di Silvio Berlusconi, l'unico gruppo italiano con i mezzi per subentrare nel controllo di Telecom.
"E' un'accusa ignobile. Purtroppo in questo paese sembra non sia facile trovare persone libere, non condizionate da logiche d'appartenenza. E così le dietrologie sfidano anche le regole della verosimiglianza. Io appoggerei Berlusconi? Guardi, ho vissuto altri momenti drammatici per l'economia italiana, e basti ricordare il crac Ferruzzi-Montedison, ne ho viste tante ma questa è davvero la vicenda peggiore. Al conflitto d'interessi di Tronchetti si sono mescolate le grandi manovre del risiko bancario, le eterne tentazioni di commistione della politica. Non so se gli stranieri che si affacciano hanno capito con quale paese hanno a che fare".
Questa volta però il presidente del Consiglio ha deciso di non intervenire sul caso Telecom.
"Sì, ma il risiko bancario è ancora e sempre impregnato di politica, è percorso da tensioni fra Prodi e i Ds. Tronchetti si sente appoggiato da Banca Intesa. Prodi forse pensa di condizionare la vicenda, di garantire un ancoraggio italiano, attraverso le banche. In tutto questo si perde di vista l'unica questione seria: nonostante gli anni di difficoltà, i ridimensionamenti, le occasioni perdute, la Telecom è l'ultima grande impresa italiana che è ancora in grado di fare ricerca tecnologica, e la fa. Nel 2006 ha investito più di 3 miliardi di euro in ricerca, innovazione e sviluppo, per l'Italia sono volumi importanti. E' un patrimonio del paese. Il suo indebitamento è dovuto solo a quelli che l'hanno scalata, a chi sta ai piani superiori. L'azienda è sana, ha un cash flow straordinario, genera utili. Non merita di essere al centro di un gioco al massacro".
Il 16 aprile è convocata l'assemblea della Telecom. Lei fino a quell'assemblea è ancora il presidente. Che farà?
"Non credo proprio che mi presenterò. Che cosa farei, in mezzo a una lista di amministratori designati per obbedire a chi di suo ha investito lo 0,6% del capitale, e pretende di controllare la società? Qui vengono a galla problemi strutturali del nostro capitalismo, che ho denunciato da decenni. Si paga il prezzo delle riforme mai fatte, delle opportunità sprecate anche quando il centro-sinistra era al governo. Di recente è diventato di moda scoprire il sistema dualistico di governance d'impresa, il modello tedesco: lo scopriamo noi proprio quando la Germania per modernizzarsi prende le distanze da una formula vecchia di settant'anni. Ci si trastulla con questi inutili diversivi, nessuno invece osa toccare le anomalie patologiche del nostro sistema: le scatole cinesi, i patti di sindacato. Questa vicenda Telecom passa tutta sopra la testa del mercato, ecco l'unica certezza: i piccoli azionisti sono resi impotenti, e saranno beffati come sempre. E un paese che soffre di una così grave mancanza di regole naturalmente è il terreno ideale per chi vuole approfittarne, per chi pensa a portar via più soldi che può. Invece del fare, c'è l'arraffare. Questa sembra la Chicago degli anni Venti, sembra il capitalismo selvaggio dei Baroni Ladri nell'America del primo Novecento. Ma almeno in America un secolo non è passato invano. Là semmai con la Sarbanes-Oxley oggi hanno addirittura il problema opposto, quello di un sistema iper-regolato".
Tronchetti ha aperto ufficialmente un tavolo di trattativa per la cessione del controllo di Telecom all'americana AT&T associata coi messicani di America Movil. The Wall Street Journal sostiene che si sono rimessi in moto altri due contendenti stranieri, France Télécom e Telefonica. Alla fine sono tutti gruppi esteri, con eventuali soci bancari italiani nella funzione di comprimari. Una parte della sinistra preme su Prodi perché difenda l'italianità della Telecom. Lei che ne pensa?
"Ma ben vengano gli stranieri! Il nostro sistema paese sta dando il peggio di sé. In questa situazione mi par di vedere dei ricorsi storici, torniamo a un'epoca in cui un pezzo d'Italia era sotto gli austriaci, un altro sotto gli spagnoli... Fuor d'ironia, non sono mai stato un nemico della globalizzazione. Se veramente si hanno a cuore gli interessi dell'Italia, vanno difesi in altri modi. Bisogna creare le condizioni ambientali, dalla formazione dei giovani nelle università alla ricerca scientifica, perché questo sia un paese dove è comunque vantaggioso mantenere attività ad alto valore aggiunto, centri d'innovazione. Chi predica la difesa dell'italianità, dov'era quando occorreva costruire le fondamenta di un mercato dei capitali moderno, cos'ha fatto per definire regole serie in difesa degli azionisti? Questo è un paese disperante per chi ha creduto nelle riforme. E' un paese dove ormai o si muove la magistratura - e lei stessa è sempre più paralizzata dalle inefficienze - oppure non succede più niente".
Mercoledì lei è stato a Mediobanca, dove il polo bancario alternativo a quello di Banca Intesa ha chiesto il suo parere su un eventuale contropiano da opporre a quello di Tronchetti.
"Ho risposto che ho già dato. Ora sono fatti loro, tra azionisti, che trovino qualcun altro".
A sei mesi di distanza, le sembra di rivivere un film già visto con lo scandalo del calcio?
"La trama è diversa, il finale è lo stesso: il trionfo della restaurazione".
E adesso cosa farà il professor Rossi?
"Quello che per fortuna non ho mai smesso di fare. Mi dedicherò ai miei studenti universitari. Finirò il ciclo di lezioni sulla pena di morte e i diritti umani. L'unico terreno su cui l'Europa è rimasta all'avanguardia nel mondo, e l'America farebbe bene a imparare da noi. Il tema del mio prossimo libro".
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