martedì 6 gennaio 2009

La carta della fiducia. Luca Ricolfi

Se ripensiamo alle notizie economiche delle ultime settimane c'è da restare sconcertati. La maggior parte dei mezzi di informazione ha prima annunciato un crollo dei consumi (-20% a Natale) e un aumento della povertà (il 15% della famiglie «non ha i soldi per mangiare»), per poi accorgersi che i consumi erano sostanzialmente stabili e le notizie sulla crescita della povertà erano un po’ vecchiotte, visto che risalivano al biennio 2006-2007, ossia alla scorsa legislatura. Prima l’idea sconsolata del Natale povero, poi le immagini delle fiumane di gente in coda per le strade davanti ai negozi, pronta a spendere centinaia di euro a testa in saldi.

Ma non si tratta solo di dati detti e contraddetti. Quando non è il dato ad essere controverso, è la sua interpretazione che diventa ballerina. Nei giorni scorsi abbiamo appreso che il deficit dello Stato nel 2008, il cosiddetto fabbisogno, è risultato di quasi 8 miliardi superiore al previsto. Per alcuni è l’ennesima conferma che Tremonti sa solo sfasciare i conti pubblici, per altri è segno che il governo ha già fatto quello che l’opposizione da tempo gli chiede di fare, ossia allargare i cordoni della borsa per combattere la crisi.

Questa altalena di fatti e contro-fatti, interpretazioni e contro-interpretazioni, rende estremamente difficile orientarsi per capire quel che realmente sta succedendo nel nostro Paese. A mio parere, in questo momento, l’errore di prospettiva più grande che stiamo commettendo è quello di proiettare le nostre paure per eventuali guai futuri sulla realtà, più modesta e meno allarmante, dei segnali che attualmente ci stanno arrivando. Il fatto che nei prossimi mesi possa esserci qualche nuovo crack (come Lehman Brothers), o una crisi di panico dei risparmiatori, o una guerra nucleare fra Israele e Iran, non autorizza a pensare che già ci siamo dentro, né a ignorare i segnali positivi che continuano ad affiancare quelli negativi.

I segnali negativi sono ben noti e ribaditi ad ogni piè sospinto: aumento dei disoccupati e delle ore di cassa integrazione, difficoltà di accesso al credito, crollo della borsa, caduta della produzione industriale e più in generale dell’attività economica. A questi segnali, tuttavia, si affiancano anche parecchi segnali di segno opposto, che tendiamo a ignorare ma su cui sarebbe invece opportuno riflettere.

Primo, e più importante: negli ultimi 6 mesi, soprattutto grazie alla diminuzione dei prezzi (confermata giusto ieri dall’Istat), il numero di famiglie che non riescono a quadrare il bilancio si è ridotto di circa il 30% (indagini Isae di luglio-dicembre 2008), riportandosi al livello del 2006, ossia dell’anno migliore dai tempi dell’introduzione dell’euro (2002). Secondo: finora, le domande per la social card sono poco più di 1/3 del previsto, un fatto che è difficile spiegare solo con i ritardi delle istituzioni e la «vergogna» dei potenziali beneficiari. Terzo: nel corso del 2008 i bandi di gara per le grandi opere hanno avuto un incremento record, pari al 26,9% (dati Crem diffusi pochi giorni fa). Quarto: nonostante la crisi, fra il 2007 e il 2008 l'occupazione dipendente è aumentata di oltre 300 mila unità (ultima indagine Istat, 18 dicembre). Quinto: benzina, gasolio, energia elettrica, mutui, case stanno diminuendo di prezzo. Sesto: a dicembre, per la prima volta da 9 mesi, l'indice Pmi del settore manifatturiero, che misura le aspettative dei responsabili acquisti delle imprese, è salito anziché continuare la sua corsa verso il basso.

Bastano questi segnali a convertire il nostro pessimismo in ottimismo? No, e non solo perché in qualsiasi momento lo tsunami può piombarci addosso dall’esterno, ma perché vi sono rischi strettamente interni che, al momento, paiono sottovalutati dal governo. Il primo, ben noto, è il rischio di un aumento della disoccupazione dovuto al licenziamento di operai e impiegati non tutelati dalla legislazione e dai sindacati: non solo lavoratori atipici, ma anche semplicemente dipendenti in imprese medie e piccole. Il secondo rischio, assai meno noto, è che il rallentamento dell’attività economica costringa a chiudere centinaia di migliaia di artigiani e di piccole imprese, oltre alle più di 200 mila che hanno già chiuso nell’ultimo anno e di cui nessuno parla. Il terzo rischio, forse il più importante, è che anche chi non perderà il posto ma semplicemente teme di perderlo, sia indotto a comportamenti di consumo e di investimento eccessivamente prudenti, contribuendo così, senza volerlo, ad aggravare la recessione in corso. È paradossale, ma dal punto di vista macroeconomico, ovvero del sostegno della domanda, è più importante tranquillizzare i 20 milioni di occupati che si salveranno, che aiutare 1 milione di occupati che il posto lo perderanno davvero.

È dunque su questo versante, quello delle garanzie a chi rischia di perdere il lavoro, che i nostri governanti - ma anche un'opposizione costruttiva - hanno una grande responsabilità. I provvedimenti finora varati, a partire dall’estensione degli ammortizzatori sociali, vanno senz’altro nella direzione giusta, ma sono largamente insufficienti se il loro scopo non è semplicemente di tappare qualche falla futura, ma di creare fin da ora un clima di serenità e di fiducia generalizzato. Se si vuole che i comportamenti economici tendano a normalizzarsi, non basta invitare gli italiani a spendere e consumare come se nulla fosse, ma occorre dare un chiaro segnale di attenzione nei confronti di chi teme di perdere il lavoro, sia esso lavoratore atipico o normale, dipendente o indipendente. E l’unico segnale che può funzionare, lo sappiamo tutti, è che gli ammortizzatori sociali diventino automatici, permanenti e universali. Non a caso, nel giro di pochi mesi, il lavoro è divenuto di gran lunga la preoccupazione centrale degli italiani (vedi l’ultimo sondaggio pubblicato da Mannheimer sul Corriere della Sera).

Certo, un’operazione del genere avrà un costo elevato, né potrà essere condotta in pochi mesi o senza fare qualche sacrificio su altri versanti. Ma sono certo che, se il punto di arrivo sarà chiaro, per governo e opposizione sarà più facile trovare un ragionevole accordo, e a quel punto la fiducia, premessa cruciale della ripresa economica, lentamente ma inesorabilmente tornerà a scorrere nelle vene della società italiana. (Corriere della Sera)

4 commenti:

Anonimo ha detto...

la carta della fiducia... eh eh eh, sembra una battuta...come la carta dell'elemosina distribuita ai meno abbianeti, e che spesso non funziona...l'emblema, di questa fiducia...ma sono fiduciosa, sì si sì, siamo ben amministrati, i nostri politici sono onesti, non percepiscono gli stipendi più alti di tutta l'Europa, non vanno in pensione dopo due anni di mandato e non percepiscono una lauta pensiore per la loro inesistenza e inconsistenza politica e umana...no,no no,non mi chiedono sacrifici in termini di tassazione e di innalzamento dell'età pensionabile perché hanno prosciugato le casse dello Stato producendo il terzo debito pubblico al mondo, avallando corruzione e provvedimenti folli come la soppressione dell'ICI.
No, bisogna aver fiducia, dice il servo della gleba!
YES, I'M VERY HAPPY!

Irene

Anonimo ha detto...

certo per te era meglio una bella scaricata di tasse in perfetto stile Visco Prodi, in modo da reprimere per il prossimo decennio i consumi della classe media, vero?
E con quello che ci si ricava mica si colma il deficit, no per carità, ma si assume altra gente inutile nella pubblica amministrazione per fargli fare lavori che non servono a nessuno!!!

Anonimo ha detto...

Ma questo articolo è stato pubblicato su LA STAMPA non sul Corriere della Sera...

Anonimo ha detto...

quello che stavo cercando, grazie