martedì 3 febbraio 2009

Quelli che ... in toga. Davide Giacalone

Affliggo spesso i lettori con considerazioni sulla nostra ingiustissima giustizia, poi si apre l’anno giudiziario, la cosa è su tutte le prime pagine e non ne scrivo una riga. Me ne hanno chiesto il perché, eccolo: è un rito inutile, che andrebbe cancellato. Inutile anche il commento. Quest’anno, poi, il protagonista occulto era Enzo Jannacci. Un suo pezzo, metà monologo e metà musica (1975), puntava il dito contro le ipocrisie ed i luogocomunismi di “quelli che…”, ed in un passaggio diceva: “quelli che, peggio che da noi solo in Uganda”. La realtà ha superato l’ironia: la giustizia ugandese funziona meglio della nostra.Ci sono cose che si possono leggere solo pensando ad autori comici. Ad esempio le parole del procuratore generale presso la cassazione, secondo cui è ora di finirla con i “giudici narcisi e tribuni”, avvertendo che i magistrati non devono cercare il consenso delle piazze. Meravigliosamente giusto, ma mi domando dove fossero, certuni, mentre mi facevo processare per avere sostenuto l’inciviltà di magistrati che parlavano e scrivevano di “momenti magici”, legati agli arresti, o erano tronfi del fatto che “il processo pubblico” era già stato fatto in piazza. Avranno imparato a leggere e scrivere grazie ad Alberto Manzi, la cui trasmissione s’intitolava “non è mai troppo tardi”, ma spiace osservare che, in effetti, sono largamente fuori tempo massimo ed i barbari dilagano. Si sono svegliati, guarda un po’ i casi della vita, quando le piazze si rivoltano contro i provvedimenti della magistratura.
In quanto al desiderio di visibilità mediatica, non è molto significativo prendersela con qualche esibizionista di provincia quando, come solo qui si è rilevato con ruvida chiarezza, la Costituzione è stata piegata all’insano desiderio di far fare a tutti un giro come presidente della Corte Costituzionale, accettando sì l’umiliazione di svolgere la funzione solo per qualche settimana, ma incassando le foto sui giornali e la presenza teleripresa a convegni, nel corso dei quali si ha il superbo coraggio di navigare nell’ovvio.
Quindi mi astengo, senza rinunciare a nessuna delle cose scritte. L’Italia ha un drammatico problema di classe dirigente. In politica, certo, ma anche nella cultura e nella produzione. In quanto alla giustizia … dell’Uganda già si disse.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

La saga delle intercettazioni -

di Bruno Tinti, ex Procuratore aggiunto della Procura di Torino


Non credo restino molti dubbi sullo scopo che la nostra classe politica intende perseguire quanto alle intercettazione telefoniche: non si debbono fare. Punto e a capo.

In un primo tempo il metodo da utilizzare sembrava dovesse essere quello di ridurre all’osso i reati per i quali le intercettazioni sarebbero state consentite: solo quelli puniti con pene superiori a 10 anni di reclusione. Restavano fuori un sacco di reati gravi ma pazienza, quello che importava era che, tra quelli per cui non si poteva intercettare c’erano tutti i reati contro la Pubblica Amministrazione; cioè tutti i reati abitualmente commessi dalla classe politica. Che infatti proprio in vista di questo obbiettivo si dava da fare per riformare la disciplina relativa.

Poi qualche politico più attento di altri alle reazioni dell’opinione pubblica deve aver pensato che a tutto c’è un limite e che forse i cittadini non avrebbero apprezzato, e magari la prossima volta avrebbero votato “male”. E così hanno studiato un sistema diverso per ottenere lo stesso risultato; sistema che ha il pregio di non disgustare troppo i futuri elettori che, naturalmente, masticando poco di diritto, non dovrebbero essere in grado di capire fino in fondo i trucchi utilizzati per garantire comunque l’impunità alla casta e ai suoi fiancheggiatori.

Questa considerazione può essere facilmente condivisa leggendo quella parte del DDL che modifica modalità di richiesta, presupposti e termini di durata delle intercettazioni; la trascrivo qui di seguito.

“Il pubblico ministero richiede l'autorizzazione a disporre le operazioni previste dall'articolo 266 al tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente, che decide in composizione collegiale. L'autorizzazione è data con decreto motivato, contestuale e non successivamente modificabile o sostituibile, quando vi sono gravi indizi di colpevolezza e l'intercettazione è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini e sussistono specifiche e inderogabili esigenze relative ai fatti per i quali si procede, fondate su elementi espressamente e analiticamente indicati nel provvedimento, non limitati ai soli contenuti di conversazioni telefoniche intercettate nel medesimo procedimento e frutto di un'autonoma valutazione da parte del giudice;
Il pubblico ministero, insieme alla richiesta di autorizzazione, trasmette al giudice il fascicolo con tutti gli atti di indagine fino a quel momento compiuti;
Nei procedimenti contro ignoti, l'autorizzazione a disporre le operazioni previste dall'articolo 266 è data, su richiesta della persona offesa, sulle utenze o nei luoghi nella disponibilità della stessa, al solo fine di identificare l'autore del reato;
Nei procedimenti contro ignoti, è sempre consentita l'acquisizione della documentazione del traffico delle conversazioni o comunicazioni, al solo fine di identificare le persone presenti sul luogo del reato o nelle immediate vicinanze di esso.
Il decreto del pubblico ministero che dispone l'intercettazione indica le modalità e la durata delle operazioni per un periodo massimo di trenta giorni, anche non continuativo. Il pubblico ministero da immediata comunicazione al tribunale della sospensione delle operazioni e della loro ripresa. Su richiesta motivata del pubblico ministero, contenente l'indicazione dei risultati acquisiti, la durata delle operazioni può essere prorogata dal tribunale fino a quindici giorni, anche non continuativi. Una ulteriore proroga delle operazioni fino a quindici giorni, anche non continuativi, può essere autorizzata qualora siano emersi nuovi elementi, specificamente indicati nel provvedimento di proroga unitamente ai presupposti di cui al comma 1”.

Chi di mestiere non fa il giudice o l’avvocato o il poliziotto (o il politico-delinquente) certamente sarà sorpreso leggendo le precisazioni che seguono.

Dunque, Il pubblico ministero richiede l'autorizzazione a disporre le operazioni previste dall'articolo 266 al tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente, che decide in composizione collegiale.
Questo vuol dire che tutte le Procure di un Distretto giudiziario (che equivale grosso modo a una Regione, in Piemonte addirittura a due Regioni, Piemonte e Valle d’Aosta), quando debbono intercettare un’utenza telefonica lo debbono chiedere al Tribunale che ha sede nel capoluogo; insomma, in Piemonte e Valle d’Aosta, 19 Procure (tante sono) non possono rivolgersi al loro Tribunale ma debbono far capo al Tribunale di Torino.

Beh, si potrebbe dire, si tratterà di inviare le richieste dei vari Sostituti via fax o via e-mail alla competente Sezione di questo Tribunale capoluogo di Distretto (che sarà certamente costituita in tempi brevissimi, utilizzando quella decina di giudici che, come noto, essendo in soprannumero, non hanno niente da fare e rubano lo stipendio). La competente Sezione del Tribunale leggerà e provvederà in tempi brevissimi.

Peccato, prima di tutto, che di giudici disponibili per svolgere questo lavoro non ce n’é. Come tutti sanno (meno il nostro legislatore) i giudici sono in numero largamente insufficiente per far fronte al lavoro che già hanno; trovarne qualcuno che possa occuparsi di intercettazioni sarà del tutto impossibile.

Ma c’è anche un altro problemuccio che forse avrebbe dovuto essere considerato. Perché il DDL prevede anche che Il pubblico ministero, insieme alla richiesta di autorizzazione, trasmetta al giudice il fascicolo con tutti gli atti di indagine fino a quel momento compiuti.
E qui si tratta di far viaggiare tra una città e un’altra i fascicoli processuali. E chi li porterà? Gli autisti, per la verità, ci sono; erano stati assunti quando gli uffici giudiziari disponevano di un accettabile parco macchine, qualcuna blindata e qualcuna no. Ma adesso, in tempi di vacche magre, le macchine non ci sono più; le poche residue sono destinate al trasporto dei magistrati sotto tutela (le blindate) e al ritiro della posta presso gli uffici postali; attività che spesso non si riesce a fare perché, siccome sono dei rottami, passano più tempo in officina che in strada. E allora, come si farà a trasportare i fascicoli? Senza i quali, si noti, il Tribunale non potrà provvedere sulla richiesta di intercettazione del PM. Tenete conto che si tratta di far viaggiare, avanti e indietro, per centinaia di chilometri (penso al Piemonte, da Aosta o Verbania a Torino, per citare solo le città più lontane) decine ma anche centinaia di faldoni (sarebbero quelle grosse cartelline di cartone, tenute chiuse da lacci di stoffa in genere rotti e riannodati); e che si tratta di farlo tutti i giorni e, forse, anche più volte in un giorno. E attenzione, tutta questa procedura deve essere ripetuta per ogni richiesta di intercettazione. Immaginate che un PM chieda l’autorizzazione ad intercettare l’utenza fissa posta nell’abitazione di Calogero Ammazzatutti; dopo un paio di giorni scopre che questo telefono viene utilizzato dalla moglie di Calogero per ordinare la spesa; ma che, sempre a quel telefono, arrivano numerosi squilli a vuoto provenienti da un cellulare finora ignoto che, ovviamente, viene subito dopo richiamato da Calogero utilizzando un altro apparecchio. Quindi bisogna intercettare questo cellulare nuovo. Altra richiesta, altro viaggio avanti e indietro fino al Tribunale capoluogo di Regione. Poi, da questo cellulare, si risale al cellulare utilizzato personalmente da Calogero e poi a quello del suo amico Giusepe Appaltifacili e poi magari a quello dell’amico di Giuseppe, il senatore Benedetto Dal Popolo. E, almeno per i primi due cellulari (quello di Benedetto è sacro, che scherziamo) bisogna fare altre richieste, altri trasferimenti di fascicoli, altri ritorni di fascicoli e via così.

Ma non facevano prima a dire che le intercettazioni telefoniche ce le dovevamo scordare?
In realtà tutto questo calvario non dovrebbe essere molto frequente; anzi, per la verità, potrebbe non verificarsi mai. Perché il legislatore (ma si può onorare di un titolo simile una o più persone che fanno di questi trucchi?) ha stabilito che le intercettazioni telefoniche si possono fare per tutti i reati per i quali si sono fatte fino ad ora (visto, cari cittadini, che non è vero che noi vogliamo impedire le indagini?). Solo che ci va una piccola condizione: occorrono gravi indizi di colpevolezza.

E questa è proprio una finezza. Dovete sapere che, fino ad ora, i telefoni si potevano intercettare quando c’erano gravi indizi di reato. La distinzione è sottile ma non troppo. Gravi indizi di reato significa che ci sono buone ragioni per pensare che un reato sia stato commesso; da chi ancora non si sa e per questo motivo si fanno le intercettazioni, si cerca di capire chi sia stato a commetterlo. Gravi indizi di colpevolezza significa che ci sono buone ragioni per ritenere che una certa persona abbia commesso un certo reato. Da qui in avanti dunque si potranno intercettare i telefoni solo quando si saprà con pratica certezza che Calogero Ammazzatutti ha in effetti ammazzato Peppino Animapia.

Alla domanda: ma se già sappiamo che Calogero ha ammazzato Peppino, perché dovremmo fare intercettazioni? Attenzione, non le possiamo fare per scoprire se, quando Calogero ha ammazzato Peppino, insieme con lui c’era anche Giuseppe Appaltifacili perché, nei confronti di questo qui ancora non abbiamo gravi indizi di colpevolezza. E mica possiamo usare le intercettazioni per scoprire se è colpevole davvero!

Insomma, secondo il nostro legislatore le intercettazioni le possiamo fare solo quando non ci servono più, perché già abbiamo scoperto il colpevole. Voi direte che non è possibile che qualcuno abbia pensato una bestialità del genere. E invece è possibilissimo. Tanto è vero che l’esistenza di “gravi indizi di colpevolezza” è il presupposto, pensate un po’, per mettere in galera l’imputato. Dice infatti l’art. 273 del codice di procedura penale, che "Nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi di colpevolezza".
Dunque, ripeto, perché diavolo dovremmo sottoporre ad intercettazione i telefoni di Calogero Ammazzatutti visto che lo abbiamo già arrestato perché è incastrato da gravi indizi di colpevolezza?
Adesso il problema è che tutto questo non vale solo per un banale omicidio. Pur di assicurarsi l’impunità per i reati suoi (pensate ad una bella corruzione con turbativa d’asta e abuso d’ufficio, quelle fantasie di alcuni magistrati politicizzati, quelle poche centinaia di casi isolati che non possono giustificare la barbarie della persecuzione giudiziaria etc. etc.), la casta ha assicurato l’impunità a tutti i delinquenti, anche a gente come Calogero Ammazzatutti che vive di omicidi. Niente di nuovo sotto il solo, naturalmente, ma qui c’è da preoccuparsi parecchio.

Andiamo avanti.
Supponiamo che, nonostante tutto, si riesca a intercettare l’utenza di Calogero Ammazzatutti. Lo si può fare solo per 30 giorni, prorogabili al massimo per altri 30.
E qui si apre un altro panorama ridicolo.
Prima di tutto Calogero Ammazzatutti non dice niente di utile per 59 giorni ma, al sessantesimo, telefona a Giuseppe Appaltifacili e gli dice che domani o dopodomani si troveranno al solito bar per scambiarsi la busta; magari, proprio perché vogliono essere chiari, Calogero dice a Giuseppe “dì all’onorevole Benedetto Dal Popolo che i soldi glieli facciamo avere tutti come lui ha chiesto”.
Beh, sulle intercettazioni a carico di Calogero ci possiamo mettere una croce perché 60 giorni ce li siamo già sparati tutti e non possiamo più intercettarlo.

Ma non possiamo nemmeno intercettare le utenze di Giuseppe (quelle di Benedetto, lo sappiamo, sono sacre). Perché, dice il DDL, le richieste di intercettazione debbono essere fondate
su elementi espressamente e analiticamente indicati nel provvedimento, non limitati ai soli contenuti di conversazioni telefoniche intercettate nel medesimo procedimento. Che vuol dire che non si può richiedere un’intercettazione sulla base di quanto accertato nel corso di un’altra intercettazione. Quindi, siccome i gravi indizi di colpevolezza a carico di Giuseppe e Benedetto derivano dall’intercettazione a carico di Calogero, niente intercettazioni su di loro, possono starsene tranquilli.

Un’ultima chicca.
Ci sono i procedimenti a carico di ignoti. Per esempio, Modestino Salumiere ha qualche problema con la mafia locale, non riesce a pagare il pizzo da qualche mese e questa un bel giorno gli incendia il locale. Modestino non denuncerebbe nemmeno il fatto ma i pompieri intervengono e così la Procura ne viene a conoscenza. Non ci vuole una scienza particolare per capire che l’incendio è doloso (i pompieri hanno trovato perfino il timer). Quindi indagine per estorsione a carico di ignoti.
Che si fa in questi casi? Si intercetta a tappeto: i telefoni di Modestino, quelli di sua moglie, dei suoi figli, degli amici, dell’amante. Presto o tardi la telefonata in cui si dice “hai visto che ti è successo? Adesso porta i soldi se no la prossima volta …..” la si ascolta. Si identifica da dove viene e da lì parte l‘indagine.

Bene. Adesso non si intercetta più nulla.

Dice il nostro legislatore che "Nei procedimenti contro ignoti, l'autorizzazione a disporre le operazioni previste dall'articolo 266 è data, su richiesta della persona offesa, sulle utenze o nei luoghi nella disponibilità della stessa, al solo fine di identificare l'autore del reato".
Quindi Modestino Salumiere deve, lui, proprio lui, chiedere al PM di sottoporre a controllo le sue utenze. Pensate un po’; gli hanno appena incendiato il negozio e lui dovrebbe fare alla mafia l’ulteriore sgarbo di chiedere le intercettazioni, cosa che la mafia saprebbe benissimo che è successa perché il nostro illuminato legislatore ha proprio previsto che, senza questa richiesta, le intercettazioni non si fanno.
Quindi, quando si andasse ad arrestare Calogero Ammazzatutti dicendo che le prove a suo carico sono costituite dalle intercettazioni compiute sulle utenze di Modestino Salumiere, Calogero saprebbe subito con chi prendersela.
Non bisogna essere dei veggenti per immaginare che richieste di intercettazione provenienti da parti offese ce ne saranno pochine.

Infine (ma c’è tantissimo altro) una chicca.
In caso di reato commesso da ignoti le intercettazioni, se si fanno, debbono servire solo a
identificare l'autore del reato.
Come dire: se intercettando intercettando scopro che Calogero sta parlando con Giuseppe del senatore Benedetto dal Popolo e delle mazzette che gli hanno dato; beh di queste cose non si può tenere conto.

Che facce di bronzo, vero?"


Bruno Tinti

Anonimo ha detto...

Pubblico la mia intervista curata da Gianluca di Feo e apparsa su l'Espresso di questa settimana.
Bruno Tinti

La riforma della giustizia? È diventata una paradossale lotta di classe. Perché gran parte della classe politica si batte da almeno 15 anni per paralizzare procure e tribunali. Ma è soprattutto una "questione immorale", che ha perso qualunque decenza. Bruno Tinti, fino a tre mesi fa procuratore aggiunto di Torino, ama definirsi "un cantastorie, che scrive e racconta quello che ha imparato": con un linguaggio semplice e diretto spara a zero sui programmi del governo. Tinti non è una toga rossa: piuttosto è una 'toga rotta', per parafrasare il titolo della sua fortunata opera prima, che non risparmia critiche nemmeno ai magistrati. E il suo nuovo libro, 'La questione immorale', è destinato a irrompere nel dibattito sulla riforma della giustizia, demolendo uno a uno gli argomenti del ministro Angelino Alfano. "È dai tempi di Mani pulite che la classe politica, senza distinzioni di partito, lavora per lo stesso obiettivo: conquistare l'impunità. In questi giorni ho ripensato a quando andavo in carcere per interrogare un bandito che voleva collaborare, un rapinatore o un ladro che aveva deciso di fare i nomi dei complici. Assistevo sempre alla stessa scena: mentre il pentito veniva accompagnato al colloquio, tutti i detenuti, non solo quelli che lui avrebbe accusato, lo riempivano di insulti e di minacce. L'omertà era un bene che andava difeso da tutti i delinquenti che avevano un interesse comune: l''infame' va bloccato perché sennò il sistema salta. Ecco, gran parte della politica adotta la stessa logica: non ha importanza quali sono i guai occasionali di questo o quel politico, c'è un interesse comune: l'impunità. Le intercettazioni, ad esempio, non si devono fare perché oggi può toccare a me, domani a te".

Ogni riforma creata per aumentare lo scudo a protezione dei potenti non incide solo sui loro processi: aumenta l'inefficienza dell'intero sistema, fa lievitare la montagna di fascicoli arretrati e reati dimenticati. A leggere il libro nasce un sospetto: questa paralisi è un danno collaterale o c'è la volontà di creare un'impunità di massa? "È un effetto sicuramente voluto nella parte in cui fa riferimento a singoli interventi. La riforma dell'interesse privato in atti d'ufficio e dell'abuso d'ufficio ha reso praticamente impossibile punire i reati commessi dagli amministratori pubblici. La riforma delle intercettazioni renderà impossibile farle. In questi casi la volontà politica è evidente: il malaffare non deve essere scoperto. E, se proprio viene scoperto, non deve essere conosciuto dai cittadini. Insomma, l'inefficienza è cercata, perseguita e voluta. Ci sono poi altre situazioni in cui l'estensione dell'impunità è un effetto secondario. Come la riforma del falso in bilancio: ciò che interessava era fermare un singolo processo, poi la legge è rimasta lì e ora non c'è modo di punire condotte terribili per l'economia del paese". Di controriforma in controriforma, il rischio è quello di svuotare la Costituzione. Ma nell'elenco delle demolizioni in corso da parte del governo, c'è un progetto che lei considera più pericoloso per la democrazia? "Metterei sullo stesso piano la riforma delle intercettazioni e l'inasprimento delle pene per i giornalisti e gli editori: il pericolo più grande per la democrazia è il bavaglio all'informazione. In realtà, con le ultime novità, non ci sarà bisogno di imbavagliare l'informazione: semplicemente non si faranno più intercettazioni e alla fine non si faranno nemmeno i processi".

E le riforme possibili? Ci sarà qualcosa che si può fare per rendere più rapidi i processi? "Sono riforme solo teoricamente possibili. Perché la politica non vuole che la giustizia funzioni". Ma mettiamo che all'improvviso l'Italia fosse obbligata ad adottare alcuni interventi, quali indicherebbe? Tinti mette al primo posto la razionalizzazione delle circoscrizioni: in pratica, eliminare i tribunali troppo piccoli e frazionare quelli troppo grandi. Seguita subito dalla riforma delle notifiche. Oggi gli imputati devono essere avvertiti di ogni fase del processo; se non lo sono, tutto nullo. Fino al 2005 se ne potevano occupare anche le forze dell'ordine, poi questo è stato vietato e il compito è stato riservato alle poste o agli ufficiali giudiziari. Risultato: il numero di udienze andate all'aria è moltiplicato. "Ma non è solo questo il problema: la vera riforma è concettuale. Un cittadino sottoposto ad indagine deve essere subito avvertito: 'Guarda che ti facciamo un processo', poi l'onere di informarsi di quello che accade dovrebbe essere suo. Non è possibile che lo Stato debba andarlo a cercare dappertutto. Occorre una inversione logica: una volta che l'imputato abbia nominato il suo difensore o ne abbia ricevuto uno d'ufficio, le notifiche dovrebbero essere fatte solo all'avvocato. E se il cliente si rende irreperibile peggio per lui. Ma questa riforma non si farà mai: le si oppongono sia l'ideologia delle garanzie, vere o finte che siano; sia l'interesse degli avvocati. Per gli avvocati le notifiche sono una manna: i processi si fanno saltare con le nullità delle notifiche; e così passa il tempo e si raggiunge la prescrizione".

E i magistrati? Il libro non li risparmia. "Certo, la magistratura ha molte responsabilità. Ma non c'è la volontà di opporsi alle riforme che farebbero funzionare il processo. La mia critica verso i magistrati riguarda le logiche con cui vengono gestite le nomine dei capi degli uffici. O la strumentalizzazione dei rapporti di potere interni che viene fatta da alcuni per garantirsi carriere parallele: i posti di prestigio accanto a ministri e deputati; l'elezione a parlamentare, il 'fuori ruolo' che da venti anni non fa il giudice ma sta in mezzo alla gente che conta. Logiche non trasparenti, talvolta inaccettabili e spesso anche immorali, con cui viene gestita la carriera dei magistrati".

Il volume ha una conclusione cupa. Tinti ammette di non essere riuscito a far nulla per migliorare la giustizia. "Dal punto di vista concreto hanno vinto loro. È illusorio sperare che una classe politica in gran parte fondata sul malaffare ponga mano a una riforma concreta. A loro interessa solo quello che porta acqua al mulino dell'impunità. Ma sono anche ottimista. Perché c'è sempre più gente che comincia a spiegare all'esterno: 'Guardate che vi stanno mentendo'. E c'è sempre più gente che sta rendendosi conto...". Piercamillo Davigo parla spesso della teoria del pendolo: ci sono momenti storici in cui fattori esterni, come la crisi economica o la congiuntura internazionale, determinano una richiesta di giustizia che non può più essere negata. A quel punto si torna a dare incisività all'azione penale. "Ma questo significherebbe che il Paese è arrivato alla bancarotta. Però è vero, forse quando avremo toccato il fondo ci sarà un ricambio". E infatti Tinti conclude ricordando il crollo dei Muro di Berlino: "Nessuno sa bene perché è crollato; però è successo e tutti cantavano ed erano felici. Un giorno anche la giustizia italiana cambierà; come è successo per il Muro".


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