lunedì 24 agosto 2009

Le falsità dei moralisti da pantano. Vittorio Feltri

Addirittura due pezzi in prima pagina su altrettanti quotidiani, la Repubblica e il Manifesto, dedicati alla mia trascurabile persona colpevole di essere tornata alla direzione del Giornale che ha un difetto imperdonabile: appartiene alla famiglia Berlusconi. Il noto moralista dell’ultima ora, Giuseppe D’Avanzo, sul quotidiano di San Carlo De Benedetti sfodera nell’occasione una figura retorica per lui nuova: l’ironia. Dimenticandosi che questa è un’arma pericolosa se maneggiata senza perizia; può uccidere chi la usa e non chi dovrebbe esserne colpito. Il lettore frettoloso, come la maggioranza dei lettori, bevendosi la prosa di D’Avanzo non capisce se è di fronte a un paradosso, cioè a una verità acrobatica, o a qualcosa da prendersi alla lettera. Intendiamoci, lungi da me il desiderio di criticare lo stile dell’insigne editorialista: semmai voglio segnalare che il mio censore, nell’impegno del suo esercizio, perde di vista la realtà e mi attribuisce concetti mai espressi nel fondo d’esordio. Un esempio.

Nel riportare una mia frase allo scopo di sottolineare quanto sono cretino, sbaglia. O imbroglia?

Io avevo battuto: «Fosse dimostrato che l’Avvocato Agnelli non era quel gran signore lodato, imitato, indicato da tutti quale modello, ma un furfante...». D’Avanzo invece modifica e virgoletta: «Questo furfante di un Agnelli, scrive Feltri, ha sottratto soldi al fisco...».

Vi sembra un modo corretto di polemizzare o non piuttosto la manipolazione di un testo, la distorsione del pensiero altrui a fini speculativi?

Un altro punto prova la malafede dell’articolista progressista.

Nel mio pezzo osservavo: non è giusto condannare un personaggio prima della sentenza. Peccato che mentre per Agnelli questo principio è stato rispettato, per Berlusconi no. Ebbene, secondo D’Avanzo, Feltri «decide di liberarsi di quell’inutile fardello che è il garantismo, favola buona soltanto per il Capo e gli amici del Capo, e picchia duro, durissimo» (su Agnelli). Esattamente il contrario di quanto ho affermato.

È incredibile come la Repubblica pur di attaccare un avversario arrivi a stravolgerne completamente le idee, falsificando con spudoratezza perfino le sue parole stampate. Come si fa ad aver fiducia di giornali così? Tra l’altro, per criticare me non c’è bisogno di inventare, caro D’Avanzo; non occorre spremersi la fantasia, basta un po’ di intelligenza. Coraggio, puoi farcela anche tu. Ma non devi più elencare tutte le presunte malefatte di Berlusconi; non serve perché da quindici anni voi non parlate d’altro e la giustizia milanese non fa che organizzare in proposito inchieste e processi dall’esito nullo. Già, nullo. E non dire che ciò è dipeso e dipende dal lodo Alfano, in vigore da un anno soltanto.

Quanto alle presunte menzogne del Cavaliere, finché riguardano corna e similari non ne tengo conto: non ho i titoli né la fedina sessuale adatta per impancarmi a giudice. Lascio a te, che sei puro come un giglio, questo compito.

E veniamo al Manifesto. Che ieri ha pubblicato un corsivo dal titolo: «Feltri, a Papi serve l’Avvocato», nel quale fra una spiritosaggine e un’altra, difende come si conviene a un giornale comunista la memoria offesa del capitalista Gianni Agnelli. Il pezzo si conclude con una trovata geniale: «... prendersela col padrone morto per salvare l’utilizzatore finale vivo. Ma senza megafono, mi raccomando».

Manca un particolare: il padrone è morto, ma i suoi soldi sono vivi e gli eredi si scannano per intascarli, fisco permettendo.

Per concludere, una carezza, anzi due, a Travaglio che firma per la trecentesima volta lo stesso articolo su di me. Lo sfido a pescare nella mia non esigua produzione giornalistica una frase con la quale abbia chiesto scusa a Di Pietro.

Seconda carezza. Se è vero che la questione fiscale relativa al patrimonio dell’Avvocato è già stata appianata a metà degli anni Novanta, perché Margherita Agnelli l’ha scoperta solo adesso? E perché l’Agenzia delle entrate se ne interessa tanto?

Chiedo scusa ai lettori per aver inflitto loro questo pistolotto, ma è bene si sappia che il Giornale non è uno zerbino per le scarpe sporche di chi cammina nel pantano. (il Giornale)

21 commenti:

Anonimo ha detto...

I guai di De Benedetti: le televisioni in rosso



La favola di Carlo De Benedetti editore televisivo si sta trasformando, giorno dopo giorno, in una piccola grande tragedia. Deficit in crescita, licenziamenti, proteste del personale. Le emittenti del Gruppo Espresso, da All Music a Deejay Television a Repubblica.tv, che avrebbero dovuto rivoluzionare il sistema televisivo italiano, sono in piena crisi economica e di contenuti. E l’Ingegnere senza macchia non sa più come disfarsi dell’ingombrante fardello, una zavorra da quasi dieci milioni di deficit l’anno. Mediobanca è da diversi mesi alla ricerca di un compratore per quei canali di musica, news e interviste. Ma finora non si è fatto avanti nessuno. E i solitamente agguerriti manager della Banca d’affari si passano le mani tra i capelli, sempre più scoraggiati. Lo stesso scoramento che serpeggia negli uffici del Gruppo Espresso.

Tutto era cominciato con grandi ambizioni nel dicembre 2004 quando, grazie alla bistrattata legge Gasparri, De Benedetti aveva acquistato dall’editore Alberto Peruzzo per 115 milioni le frequenze di Rete A. Entriamo nel grande business della Tv, era stato il manifesto debenedettiano, e mostriamo a tutti come si fa una televisione moderna, pluralista, soprattutto democratica. Obiettivo: realizzare in tre anni un utile operativo del 30 per cento. Entusiasmo e ottimismo andavano a braccetto nelle stanze del Gruppo in grado di fornire le sinergie giuste grazie alla redazione di Repubblica e al know how di Radio Deejay capeggiata da Linus. Sarebbe stato uno scherzo da ragazzi, o quasi.

I dirigenti meno ragazzi, avrebbero potuto ricordare com’era andata vent’anni prima quando, dopo aver voluto sfidare Canale 5 con Retequattro, Formenton e Leonardo Mondadori avevano dovuto venderla in tutta fretta alla Fininvest, prima che trascinasse nel baratro il resto della Mondadori. Cosa accaduta un paio di anni prima con l’Italia 1 targata Rusconi. Invece no, la lezione di democrazia incombeva e quella della storia veniva obliterata.

Anonimo ha detto...

A dirigere All Music viene chiamata Elisa Ambanelli, un passato in Mediaset e Endemol, che trasforma la vecchia Rete A in una tv giovanile, lanciando nuovi personaggi. Il palinsesto schiera al mattino da Deejay chiama Italia con Linus e Nicola Savino ripresi dalla telecamera (come avviene tuttora), all’ora di pranzo i servizi di Repubblica.tv e al pomeriggio-sera i video e le interviste rivolti al pubblico più giovane. Poi, sebbene la famigerata bolla di Wall Street fosse ancora fantascienza, pian piano, le risorse iniziano a scarseggiare, i budget a ridursi, le innovazioni a diminuire. E ci si accorge di soprassalto che la Rete A di Peruzzo aveva un fatturato pubblicitario superiore a quello della gestione targata Espresso. Così, chi chiacchiera con l’Ingegnere senza macchia della sua fresca avventura televisiva comincia a trovarlo perplesso, se non contrariato. Fosse per me - si sfoga - Repubblica a parte, mi disferei di tutto e salverei solo le radio, le uniche che danno utili veri. Nel luglio 2008 la Ambanelli dà le dimissioni e, mentre viene incaricata Mediobanca di trovare un nuovo editore, iniziano i primi tagli del personale, una trentina di addetti alla produzione lasciati a casa e non, come loro auspicano, riciclati nel grande gruppo editoriale. Ora, con il progressivo passaggio al digitale terrestre, l’affare si complica ulteriormente. E ci si trova di fronte a un dilemma. Vendere o investire ancora per essere competitivi in un business più sofisticato che già ha prodotto pesanti bilanci in rosso? Con lo switch off - che sarà completato nel 2012, ma è già stato avviato in Sardegna, Piemonte Val d’Aosta e Trentino Alto Adige - la frequenza di una rete analogica si trasformerà in un multiplex di cinque canali digitali. Nelle regioni dove il passaggio è già avvenuto, All Music ospita Repubblica.tv, mentre altri due canali sono stati affittati agli editori stranieri di France 24 e Second Tv. Una volta completata l’operazione digitale terrestre, saranno disponibili molti più canali multiplex e i 150 milioni di euro che, in partenza, l’Ingegnere senza macchia avrebbe voluto incassare dalla vendita delle sue tv, stanno diventando un miraggio. Così, i manager di Mediobanca continuano a lavorare alacremente. Qualcuno vocifera che siano stati contattati i vertici della News Corp di Murdoch. Qualcun altro fa il nome di Francesco Nespega, editore dei canali per ragazzi Jetix e Gxt. Sembra che, nonostante la Gasparri lo impedisca, siano stati contattati anche gli uomini di Mediaset. Ipotesi, sussurri. Come quello che vorrebbe anche Silvio Berlusconi piuttosto tiepido alle insistenti richieste di De Benedetti di aiutarlo a risolvere la grana delle sue televisioni in passiv

Anonimo ha detto...

GIANNI AGNELLI ERA DAVVERO UN TIPINO ELEGANTE? COME NO, ERA ‘ESTERO-VESTITO’… - dal patrimonio dichiarato all’estero I controlli del Fisco sui redditi di MR. FIAT - Punto chiave (da scardinare) la fondazione Alkyone con sede in Lichtenstein - “MI OFFENDONO”: Il carteggio INFUOCATO Tra MARGHERITA E GABETTI E GRANDE STEVENS - CHI è L’EREDE dELL’AVV.? Gabetti glissa - Grande Stevens tassativo su John Elkann


Mario Sechi per Libero

C'è lo scudo e anche lo spadone. Il Fisco è armato di tutto punto per combattere l'evasione, il problema semmai è quello di scendere sul campo di battaglia. Il governo punta a far rientrare i capitali e nello stesso tempo colpire chi quei capitali li ha tenuti all'estero per non pagare le tasse in patria.


L'eredità Agnelli rischia di diventare un caso da manuale perché è finita sotto la lente dell'Agenzia delle Entrate dopo che la guerra in famiglia ha acceso un faro sui beni all'estero dell'Avvocato, che non erano compresi nel testamento.

Una sorpresa non solo per Margherita Agnelli, la figlia di Gianni, definita da Umberto «l'unica erede», ma anche per il Fisco. Due miliardi di euro detenuti oltreconfine sono una cifra enorme, una valanga di soldi che probabilmente senza la disputa familiare sarebbe rimasta nei caveau segreti di qualche paradiso fiscale e nelle scatole cinesi che l'ingegneria finanziaria progetta proprio a questo scopo. Ma così non è stato e oggi la macchina del fisco lavora a pieno regime per ricostruire i passaggi patrimoniali e reddituali dell'Avvocato e delle sue società.

La storia
Gianni Agnelli prima, e dopo la sua morte i suoi fedelissimi collaboratori Franzo Grande Stevens e Gianluigi Gabetti, curavano il patrimonio di una fondazione con sede a Vaduz, in Lichtenstein, la ormai celeberrima Alkyone. Il primo punto da appurare è se la fondazione sia un semplice castello di carte, tipico delle "estero-vestizioni".
agnelli suni e gianni

Il Fisco dovrà accertare preliminarmente questo punto. Agnelli non risiedeva certo all'estero, ma sulla verdeggiante collina torinese, era pure senatore a vita. Marella risiedeva in Svizzera, ma dalle carte dei professionisti la preoccupazione - come rivelato da Libero - era grande visto che si scrivevano memorie tecnico-giuridiche perfino sulla presenza in Italia dei cani e della servitù.

Dalla lettura delle carte e dalle dichiarazioni di Margherita Agnelli, dai memoriali, emerge che il patrimonio di Alkyone è nella piena disponibilità dell'Avvocato e dei suoi collaboratori italiani. La fondazione dunque non è autonoma, continua a dipendere dalle volontà degli stessi soggetti che l'hanno creata. Soggetti italiani.

È chiaro che il Fisco di fronte a una situazione di questo tipo ha il dovere di indagare e cercare la prova. Se l'Agenzia delle Entrate accerterà che siamo di fronte a un caso di "estero-vestizione" e dunque smonterà il castello di carta, a quel punto il passaggio sul Modello Unico dell'Avvocato e in particolare sul temutissimo quadro RW sarà automatico.

Anonimo ha detto...

La svolta
Uno snodo fondamentale di questa intricatissima matassa diventerà appunto il Modello Unico, l'evoluzione del 740, il tirannosaurus rex del Jurassic Park fiscale. Perché il quadro RW è così temuto? Fondamentalmente perché costringe il contribuente a esporre in pubblico - cioè allo Stato - i suoi beni e movimenti di capitali all'estero. Figlio del patto di Maastricht e della globalizzazione dei mercati finanziari, il quadro è un semplice elenco che condensa il patrimonio e i redditi oltreconfine.

La sua finalità teorica è chiara: serve a evitare occultamenti di ricchezza e di imponibile oltre che a scoraggiare l'esportazione di valuta. Se gli elementi indicati non corrispondono alla realtà, scatta l'accertamento, con tanto di sanzioni e interessi.
Ecco l'undicesima domanda di Libero: Agnelli quel quadro l'ha mai compilato?


Le lettere di Margherita: «Mi offendono»
Il carteggio fra la figlia dell'Avvocato e i due manager di famiglia. Lei si lamenta: mi hanno trattato male e non ho ricevuto risposte chiare sulla volontà di mio padre, Gabetti glissa e delega la seccatura, Grande Stevens tassativo sulla designazione di John Elkann

Dal libro (mai pubblicato da Longanesi) di Gigi Moncalvo - da Libero

Margherita e Gabetti si sono incontrati per la prima volta nel 1972, qualche tempo prima che l'Avvocato gli affidasse un ruolo nel gruppo. Lei aveva quasi diciassette anni, Gabetti era andato a casa Agnelli a colazione con la moglie. Doveva prendere il posto di Bobbio all'IFI come amministratore.


«Si è infilato a poco a poco in tutti gli interstizi che individuava o che si aprivano per una ragione o per l'altra. Ai tempi del lungo regno di Cesare Romiti penso che lui e Gabetti si odiassero e ancora si odino. Gabetti era pià addentro agli affari di Famiglia, mentre Romiti ha sempre creato un muro invalicabile tra la Fiat e la Famiglia.

Gabetti per più di venticinque anni si è occupato di affari di famiglia, non ci sono dubbi. Ricordo un episodio. Nel '96-'97 chiesi a mio padre: "Forse sarebbe il caso che io sapessi come stanno le cose nella nostra famiglia dal punto di vista patrimoniale. Papà, non sarebbe utile se potessi avere qualche informazione?".

"Va' a parlarne con Gianluigi, con Gabriele (Galateri di Genola), con Franzo (Grande Stevens)", mi rispose. "Sono loro ad occuparsi di questi affari. Cerca di vederli uno alla volta, fai i confronti con quello che ognuno di loro ti dice, e ri torna da me che ne parliamo"».


Torniamo ai momenti successivi all'infuocata seduta dal notaio. Due giorni dopo Margherita scrive una lettera a Gabetti e Grande Stevens. Usa un sistema che irrita molto i due "grandi vecchi". Indirizza la lettera al notaio Morone, affinché ne abbia una copia e la trasmetta ai due destinatari.

Scrive al notaio
"Questa lettera è per me il modo di dirvi tutto il mio stupore dinnanzi a tanta incomunicabilità. Prima di venire alla riunione del 24 febbraio scorso presso il notaio Marone, espressi chiaramente al dottor Gabetti la necessità di comprendere appieno ogni aspetto del testamento di mio padre, e che non avrei voluto firmare alcun documento o prendere atto formale di qualsiasi cosa sinquando questa chiarezza non fosse serenamente presente.
JAKY ELKANN - copyright Pizzi

Anonimo ha detto...

Come prevedevo, alcuni aspetti non mi erano chiari. La lettera scritta a Monaco non è stata qualificata come testamento per delle ragioni che non so. Le disposizioni spiegatemi telefonicamente non erano le stesse che furono applicate successivamente. Quando mi sono azzardata a ribadire che, proprio per evitare confusione, avevo bisogno di quel minimo di tempo per poter capire, a quel momento mi sono trovata di fronte ad una tale violenza che per me è andata al di là dell'accettabile.

Ho saputo poi che voi vi eravate parlati, avete avuto il modo e il tempo con mia madre e con John di spiegarvi del perché e del percome di queste modifiche. Per di più, dottor Gabetti, lei si è permesso di offendere quel che in me è stato ed è il sentimento più sacro: l'amore per mio padre. In nome di questo le ho chiesto più volte di darmi gli elementi attendibili affinché io fossi in misura di comprendere, ma questo lei non me lo ha mai concesso nemmeno ieri.

Vi porgo i miei migliori saluti grata per l'attenzione e l'effetto che mi dismotrate nel ricordo di mio padre.
Margherita Agnelli de Pahlen".

La lettera è durissima. La tesi di Margherita si scontra con la assoluta contrarietà di Gabetti. Margherita aveva manifestato questo suo dissenso e ora lo ribadisce. E' ancor più sospettosa. Vuole chiarezza anche sulla volontà di Gabetti di ignorare la lettera a fini successori, e si chiede: come è possibile che prevalga la volontà di Gabetti su quella espressa, nero su bianco, dall'Avvocato? Ma che cosa è stato modificato e perché? Quali sono i motivi per cui Margherita on viene informata né consultata prima di apportare queste "modifiche"?Dopo 15 giorni
solo il 9 marzo, quindi ben undici giorni dopo, il diretto interessato risponde con quella che è la sua unica e ultima lettera a Margherita. La risposta di Gabetti è scritta col computer su carta intestata personale. Nel corso della lettera per ben cinque volte, parlando di Margherita, Gabetti usa l'abbreviazione "M.A.d.P.", come se si trattasse della sigla o del logo di una società.


Con grande dolore ho letto il messaggio datato 26 febbraio pervenutomi soltanto la sera del 6 marzo. Al dolore si unisce lo sgradevole ricordo della riunione del 24 febbraio, che si era peraltro svolta nel rispetto scrupoloso delle procedure notarili nonché delle norme dello Staturo della Scoeità Dicembre.

In conclusione della riunione si prese atto che il contenuto del documento olografo redatto a Monaco dall'Avvocato, pur manifestando una volontà precisa, non poteva avere esecuzione testamentaria. D'altro canto Donna Marella, nell'intento di rispettare le volontà espresse in quel documento, e più volte ribadite dall'Avvocato sia all'Avv. Grande Stevens che al sottoscritto, decise di donare al nipote John a carico della propria quota personale, una quota della Società Dicembre quasi equivalente alle quote già di pertinenza dell'Avvocato stesso.


In quel momento, credendo, forse ingenuamente, di interpretare il pensiero di tutti i presenti, dissi che potevamo prendere atto con soddisfazione che venivano in tal modo ad essere rispettate per intero tutte le volontà dell'Avvocato in questa materia.
Ricordo benissimo che, avendo riscontrato qualche perplessità da parte di M.A.d.P., spiegai attentamente alla stessa come l'intervento di Donna Marella non ledesse minimamente gli interessi di M.A.d.P..

Anonimo ha detto...

Come tutta risposta M.A.d.P. passò da un atteggiamento di perplessità alla aperta dichiarazione di avere dei sospetti. E poiché non posso accettare di essere oggetto di sospetti mi sentii profondamente offeso e umiliato, anche di fronte al Notaio (che è Pubblico Ufficiale), colpito proprio nei valori ai quali ho uniformato la mia vita personale e professionale.

Non dissi nulla di tutto ciò e mi limitai a dichiarare che da parte mia intendevo con la mia firma dare atto che le volontà dell'Avvocato erano state adempiute. Non feci commento alcuno e lasciai la riunione fortemente turbato. E' addirittura inconcepibile che io intendessi in qualsiasi modo offendere i sentimenti di M.A.d.P. per il proprio Padre (un Uomo al quale, per parte mia, ho dedicato per oltre trent'anni qualcosa in più di un semplice rapporto di lavoro). Se il mio atteggiamento è stato interpretato diversamente da M.A.d.P.me ne dolgo sinceramente.

Alla luce di questa sorprendente esperienza non mi rimane che sperare che i più giovani collaboratori (Siegfried Maron e Gianluca Ferrero) che si occupano di questa pratica possano riscuotere miglior riguardo di quello riservato al sottoscritto e diventare un presidio prezioso di tutela degli interessi della Famiglia Agnelli.
In silenzio, se necessario, la mia lealtà non verrà mai meno, nel ricordo indelebile dell'Avvocato.
Gianluigi"Le sue squadre
Margherita capisce che ormai la sua famiglia è divisa in due spezoni: da una parte c'è lei sola e dall'altra il quartetto Gabetti-Stevens-Marella-John.
Questa lettera di Gabetti è molto importante anche da altri punti di vista, soprattutto perché continua a non portare quella chiarezza tanto invocata da Margherita.
agnelli umberto e suni

Le risposte, anche in questo caso, non vengono date. Per esempio, sulla "Dicembre" Gabetti evita di dare spiegazioni e mette invece dei punti fermi dando per acquisite e immodificabili decisioni che sarebbero state prese e che Margherita seppure attenta e tutt'altro che sprovveduta, non si è accorta siano state assunte. Gabetti peraltro non nega di sapere che Margherita era contraria, ma sembra che non ne fosse preventivamente informato.

Gabetti glissa ma non può evitare la risposta più difficile di fronte al passaggio più indignato e scabroso, per lui, della lettera di Margherita. Quello in cui lei chiede conto delle parole da lui pronunciate davanti al notaio: "Lei non è degna di essere la figlia di suo padre! Non essendo degna non può capire la volontà di suo padre. Ma io che la so, firmo".
Assistiamo al rovesciamento della situazione da parte di Gabetti: è lui piuttosto ad essere offeso e di dolersi.


Tuttavia "alla luce di questa sorprendente esperienza" non gli rimane che passare la patata bollente "ai più giovani collaboratori che si occupano questa pratica" nella speranza che "possano riscuotere miglior riguardo di quello riservato al sottoscritto e diventare un presidio prezioso di tutela degli interessi della Famiglia Agnelli".

L'altro protettore
La risposta di Grande Stevens arriva il giorno dopo quella di Gabetti.

"Gentile Margherita,
Gianluigi mi ha passato copia della Sua lettera datata 26 febbraio 2003 e pervenutagli il 6 marzo successivo, indirizzata anche a me.
Grazie, anzitutto, della Sua bella frase finale: Suo padre è stato (come per Gianluigi) una delle persone più importanti della mia vita e per la quale ho avuto ed avrò sempre un sentimento di affettuosa gratitudine.

La sua figura sarà accanto a me finché vivo così com'è stato in quarant'anni di consuetudine di lavoro e di sodalizio intellettuale.
Mi spiace che Lei abbia la sensazome che non Le sia stato detto tutto ed in modo da assicurarsi che Lei avesse ben compreso. Sono, naturalmente, a Sua disposizione (occorrendo, anche venendo da Lei) per rispondere ad ogni Sua richiesta.

Frattanto ricordo che Suo padre (seguendo il paradigma del nonno con Lui) aveva scelto John come il Suo successore, negli affari aziendali e nella famiglia, perché - sono le Sue parole - bisogna che a decidere e comandare sia uno solo alla volta.

Anonimo ha detto...

Per questa ragione, asuo tempo (il 10 aprile 1996) gli aveva attribuito per il 25% in nuda proprietà dela capitale della società Dicembre s.s. riservanto a sé stesso l'usufrutto, ed aveva manifestato a Gabetti ed a me che desiderava che la Sua quota (anch'essa del 25% circa) alla sua morte andasse a John.

Questo lo aveva scritto anche nella lettera di Monaco (17 luglio 1996) prima di sottoporsi ad un'operazione chirurgica.
Tuttavia questo Suo desiderio, ripetutamente e così chiaramente manifestato, non era vincolante giuridicamente perché:


a) una clausola dello statuto della società semplice (l'art.9) - introdotto per ragioni fiscali perché soltanto recentemente è stata abolita in Italia la tassa di successione - imponeva che la quota del socio defunto si consolidasse nella società statte (la quale aveva soltanto l'obbligo di rimborsare gli eredi - Sua mamma e Lei - del suo valore nominale e, pertanto il capitale della società Dicembre apparteneva per un terzo a ciascuno dei tre soci superstiti (Sua madre, Lei e John);

b) suo padre aveva successivamente deciso di lasciare la sua quota del 25% a Edoardo, se non fosse sopraggiunto il noto tragico evento.


Ciò premesso si sarebbe potuto - se si voleva dar corso ai desideri di Suo padre -
a) far donare da Sua madre e da Lei una parte delle loro quote a John;
b) lasciare invece - com'è apparso più giusto per Lei che è giovane ed ha una grande famiglia - che Lei incrementasse la Sua quota di capitale nella società Dicembre (dal 25 al 33% circa e ricevesse inoltre la metà di quanto la società deve versare alle due eredi per il consolidamento della quota di Suo padre);

c) lasciare che Sua madre decidesse a Suo piacimento - come ha fatto - una donazione di parte della sua quota a John.
Se non sono stato chiaro mi consideri a Sua disposizione per parlarne e darLe ogni spiegazione.

Ho ricevuto da Suo padre anche il gesto di fiducia della nomina ad esecutore testamentario ma, come Le dissi ed è già capitato in altre occasioni, non penso che sia necessario che io assuma questo ruolo quando in una famiglia vi sia armonia ed affetto e tutto si risolva in questo spirito tra i familiari.
Resto a disposizione e La saluto con grande cordialità.
Avv. Franzo Grande Stevens".


Anche qui, si deve registrare un nuovo aggiramento del cuore del problema. Ma Grande Stevens aggiunge qualcosa di molto importante: "Suo padre aveva deciso di lasciare la Sua quota del 25% a Edoardo, se non fosse sopraggiunto il noto tragico evento".

D'accordo è sopraggiunto il tragico evento, ma ciò che prevale, e viene continuamente invocata, è "la volontà dell'Avvocato". E dunque se egli, successivamente alla lettera di Monaco del 196, aveva deciso di lasciare il suo 25% a Edoardo, questo significa che Margherita e Marella, essendo le due uniche eredi, hanno diritto a questa quota, divisa a metà per ciascuna, cioè il 12,5% in aggiunta alla quota di cui già sono titolari.

Anonimo ha detto...

De Benedetti, la politica, gli affari
di Davide Giacalone
La Borsa torna a sentir parlare di Carlo De Benedetti, protagonista già di molte avventure. I risparmiatori superstiziosi fanno correre la mano agli amuleti, quelli razionali la dirigono verso il portafogli, visto che, in passato, si son già beccati delle solenni spazzolate. De Benedetti si fa gli affari suoi, il che, come si diceva una volta, nei limiti del lecito e del consentito è anche giusto. Sono quei limiti, semmai, ad essere piuttosto ondivaghi. Il caso che oggi agita le acque è quello di M&C, Management & Capitali. Non me ne interessano, qui, gli aspetti finanziari, ma la suggestione cui, con quello strumento, l’ingegnere tentò di dare corpo.
Occorre ricordare, infatti, che alla sua nascita egli offrì una quota del capitale a Silvio Berlusconi. Lo voleva come socio, in un contenitore che sarebbe dovuto essere destinato al salvataggio di aziende in crisi, sostituendosi al pregresso e fallimentare intervento pubblico, divenendo assai più dinamico delle banche e offrendo, appunto, due aiuti concreti: capacità dirigenziale e soldi. Una specie di unità nazionale finanziaria. Dopo di che fu M&C, ad andare in crisi. L’ingegnere ed il cavaliere, però, non divennero soci. Berlusconi era pronto a pagare il dovuto, che era anche il modo di togliersi una bella soddisfazione, e De Benedetti ad incassare la partnership, che era anche un modo per chiudere le ostilità e badare al sodo. Agli affari.
Le cose andarono diversamente, perché una delle creature di De Benedetti, ovvero il gruppo editoriale, si oppose. Da Repubblica spararono a palle incatenate, giacché Barbapapà, Eugenio Scalfari, che grazie a De Benedetti è divenuto miliardario (vendendo la testata creata discettando di giornalismo autonomo e senza padroni), proprio non intendeva restare a fare il giapponese in trincea, condannato alla guerra perpetua contro il despota intrallazzone di Arcore, nel mentre il suo amico, padrone e protettore se lo prendeva in società.

Anonimo ha detto...

De Benedetti finse di capitolare, in cuor suo sperando di aver preso due piccioni con una fava: aveva mostrato disponibilità a Berlusconi e lealtà ai giornalisti, cui, pertanto, poteva chiedere un trattamento conseguente.
De Benedetti, in passato, è stato uomo di grandi e accattivanti visioni. Capì prima di molti altri che il capitalismo dei salotti, con epicentro nella Mediobanca di Cuccia, era destinato a cedere il passo. Ma calcolò male i tempi. Fu straordinario nell’aprire a sinistra per portare i comunisti a difendere le ragioni del suo (nel senso di proprio) mercato. Ma calcolò male la tenuta. Oggi, la gran parte dei suoi giocattoli sono rotti, od hanno il fascino dei soldatini di piombo nell’era dei videogiochi.
Prendete la celeberrima tessera numero uno, quella che si diede da sé solo, per dimostrare l’ascendenza sul Partito Democratico. In quel momento credette davvero che il berlusconismo fosse sull’orlo della fine, che la coalizione di sinistra avrebbe vinto, che il veltronismo potesse trionfare con il nulla, lasciando largo spazio a chi, come De Benedetti, di idee ne ha, e molte. Anche in questo caso, il calcolo dei tempi è risultato illusorio. Così, adesso, non sa che farsene.
Accanto a quella tessera aveva messo anche i soldi per creare un movimento d’opinione, chiamato Libertà e Giustizia, affidandone le redini a Sandra Bonsanti, veterana di Repubblica, poi direttrice di altri giornali della scuderia, vestale ferrigna dell’antiberlusconismo. Risultato: di opinione se ne è creata poca, mentre il gruppo, a dispetto dell’origine resistenziale invertita (si faceva il verso alla “Giustizia e Libertà” di Carlo Rosselli), è scivolato su posizioni tristemente dipietriste, girotondinare, moralisteggianti. Il contrario esatto di quel che i padri pensanti della sinistra democratica ritenevano fosse la politica. Con quella roba si può, al più, ricattare, o, come più opportunamente si dice, condizionare la sinistra. Ma che ci si fa, se la sinistra perde e se, condizionandola a quel modo, la si condanna a perdere in eterno? Lasciamo perdere che la si condanna ad essere anche giustizialista e reazionaria, che sono finezze non apprezzate nel bel mondo delle tifoserie, ma toglie qualsiasi interesse al gioco.

Anonimo ha detto...

Lo stesso gruppo editoriale, in fondo, non riesce a mordere veramente il potere berlusconiano, limitandosi a rendere estremisti i suoi avversari, il che gli impedisce di allargare il mercato delle vendite, come quello dei voti. Si ha una sensazione di fine corsa, anche se dagli spalti i supporters si fanno sentire rumorosi, perché s’è persa la visione di quel che potrebbe essere una sinistra di governo. Ci si oppone agli altri, se si è all’opposizione, ed a se stessi se si è al governo. Non c’è altro. Idee, progetti, programmi, tutto sembra essere stato annegato nel fragore della pugna, puntualmente coronata da sconfitta o da vittoria autodistruttiva.
Morale: De Benedetti si fa gli affari suoi. Il mondo di cui fu indiscusso protagonista, in gran parte, non c’è più. Voleva come avversario da battere Agnelli, gli è invece toccato Berlusconi, vincente per giunta. Il vecchio condottiero non ha perso l’amore per il campo di battaglia, la passione per il clangore delle spade. Ma le rotea per far soldi. Che è anche una bella cosa, a patto di non essere quelli che devono rimetterceli.

Anonimo ha detto...

Perchè il signor D Avanzo, che fa finta di essere l Unico Giornalista vero e "indipendente" invece di difendere incredibilmente gli agnelli ,che portano tanta pubblicità e detengono quote azionarie del giornale Repubblica , non parla dei licenziamenti del suo padroncino De Benedetti...

troppa reverenza per lor signori

Anonimo ha detto...

Per concludere, una carezza, anzi due, a Travaglio che firma per la trecentesima volta lo stesso articolo su di me. Lo sfido a pescare nella mia non esigua produzione giornalistica una frase con la quale abbia chiesto scusa a Di Pietro.


Feltri se ne andò 12 anni fa dopo che il Cavaliere aveva definito “incidente gravissimo” il suo articolo di prima pagina in cui chiedeva scusa a Di Pietro per averlo calunniato per due anni con le fandonie su inesistenti tangenti di D’Adamo e Pacini Battaglia: “Caro Di Pietro, ti stimavo e non ho cambiato idea”. Seguivano due paginoni in cui il Giornale di Feltri si rimangiava quei due anni di campagne antidipietriste: “Dissolto il grande mistero: non c’è il tesoro di Di Pietro”, “Di Pietro è immacolato”, “dei famigerati miliardi di Pacini” non ha visto una lira, dunque la campagna del Giornale era tutta una “bufala”, una “ciofeca”, una “smarronata” perché la famosa “provvista” da 5 miliardi non è mai esistita. Insomma Feltri confessava di aver raccontato per ben due anni un sacco di balle ai suoi lettori. E lo faceva proprio alla vigilia delle elezioni suppletive nel collegio del Mugello, dove Di Pietro era candidato al Senato per il centrosinistra contro Giuliano Ferrara e Sandro Curzi. In cambio di quella ritrattazione e di un risarcimento di 700 milioni di lire, l’ex pm ritirò le querele sporte contro il Giornale, tutte vinte in partenza. Furente Ferrara, furente Berlusconi. Così Feltri, spintaneamente, se ne andò.


LA VERITA' TI FA MALE LO SO

Anonimo ha detto...

belissima SPINTANEAMENTE

il padrone RULES!!!

Anonimo ha detto...

Mentre usciva dal Giornale, Littorio sparò a palle incatenate contro i fratelli Berlusconi: “Provo un certo fastidio: per la causa comune mi sono esposto (alla transazione con Di Pietro, ndr), poi gli altri si sono ritirati e io sono rimasto con la mia faccina e tutti ci hanno sputato sopra. La cosa non ha fatto per niente piacere. Così si rompe un rapporto di fiducia… Mi sono trovato da solo e ho le ferite addosso e il morale a terra” (Ansa,10 novembre 1997). E il Cavaliere gli diede del bugiardo: “Feltri ha detto ultimamente qualche piccola bugia, però è ampiamente scusato” (Ansa, 7 dicembre 1997).


LA VERITA' TI FA MALE LO SO

per fortuna c'è Internet
SUCA FELTRI SUCA

Anonimo ha detto...

Oggi, nella fretta, Feltri dimentica di spiegare come mai a richiamarlo al Giornale sia stato un signore che non possiede nemmeno un’azione del Giornale, cioè il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, scavalcando l’editore, il fratello Paolo, informato come al solito a cose fatte. Se l’è lasciato sfuggire, come se fosse un dettaglio insignificante, lo stesso Littorio l’altra sera nella rassegna di regime di Cortina Incontra: “Il 30 giugno scorso ho incontrato Silvio Berlusconi. Ogni volta che lo vedevo mi chiedeva: ‘Ma quand'è che torna al Giornale?’. E io: ‘Sto bene dove sono’. Ma quel giorno entrò subito nei dettagli, fece proposte concrete e alla fine mi ha convinto”.

Materiale interessante per le Authority che dovrebbero vigilare sui conflitto d’interessi, se non fossimo in Italia.


LA VERITA' TI FA MALE LO SO

Anonimo ha detto...

potete vedere la celebre figura di merda di Feltri nei confronti di Montanelli che chiama in trasmissione e da una lezioncina niente male allo zerbino Feltri su youtube cliccando "feltri travaglio"
"Il Raggio Verde" - Feltri,Travaglio e telefonata Montanelli

http://www.youtube.com/watch?v=oOP3Z09GQcI

Anonimo ha detto...

Una bella rispoosta a D Avanzo:
Quando De Benedetti tramava in politica: come ha fatto fortuna

La verità, come si sa, è sempre rivoluzionaria. Pochi la cercano e molti la temono. Altri, invece, pensano di poterla «governare» a proprio uso e consumo e tra questi, da sempre, ci sono gli amici di Repubblica. Ogni tanto partono in quarta come se fossero scesi qualche minuto prima dal monte Sinai sul quale avrebbero ricevuto, di volta in volta, le tavole della verità da comunicare al mondo. E come sempre è capitato nella storia dell’Uomo, chi inveisce moralisteggiando contro tutti dimentica di avere alle sue spalle ombre lunghe e inquietanti. Ma veniamo al fatto. Chi, come il Giornale ed altri, ha cominciato a indagare sui conti di casa Agnelli e sulle probabili evasioni fiscali lo ha fatto solo perché ha raccolto le notizie da uno dei massimi esponenti di quella famiglia, la figlia dell’Avvocato signora Margherita. Apriti cielo. Il simpatico Giuseppe D’Avanzo che sa sempre tutto su tutti tranne che sul suo editore Carlo De Benedetti, ha intimato di fatto al nuovo direttore del Giornale (ma perché solo a lui?) di dire anche tutte le malefatte, vere o presunte, di Silvio Berlusconi se voleva continuare le indagini sulle evasioni fiscali, anch’esse vere o presunte, di casa Agnelli. D’Avanzo sa che noi lo stimiamo e che per tale stima seguiamo passo dopo passo le sue orme.

Se dobbiamo fare la storia di Mediaset o quella personale di Berlusconi, come chiede D’Avanzo è giusto che anche lui faccia la storia personale e politica di Carlo De Benedetti, l’editore autorevole e illuminato del gruppo Repubblica-Espresso. Se dobbiamo sposare la Verità, e noi più di altri ne siamo affascinati, volgiamo dunque lo sguardo a 360 gradi cominciando proprio da chi predica legalità e santità e cioè dall’editore di Repubblica. In questa ricerca vogliamo dare una mano al caro D’Avanzo che forse non ricorda alcune vicende della storia italiana, quelle vicende che pure tanta devastazione produssero sul sistema politico-economico italiano. Per brevità non vogliamo ricordare la vicenda del gruppo alimentare Sme che De Benedetti stava acquistando per poche lire e che Giuliano Amato, per nome e per conto di Bettino Craxi, impedì con un intervento durissimo nella commissione Bilancio della Camera dei deputati.

Vedremo tra poco come Giuliano Amato, anni dopo, si fece perdonare dall’amico Carlo. Partiamo, invece, dal progetto «politico» che Carlo De Benedetti, con l’accordo anche di Gianni Agnelli, mise a punto nei primi mesi del 1991 per cambiare gli assetti politici che l’Italia si era democraticamente dati e per portare al governo del Paese il vecchio Pci che a Rimini stava «espellendo» la sua area più dura, quella che poi assunse il nome di Rifondazione Comunista. Nel marzo del ’91 De Benedetti chiese all’allora ministro del Bilancio Cirino Pomicino se voleva «essere il suo ministro» dopo avergli spiegato le ragioni del progetto e i suoi protagonisti. Quell’offerta, tra l’altro, per come fu fatta, dimostrò la concezione «proprietaria» che De Benedetti aveva della politica e che si impose in Italia sin da quegli anni anche se, per l’eterogenesi dei fini, con altri protagonisti.

Anonimo ha detto...

Ma la vocazione proprietaria della politica di Carlo De Benedetti era sempre finalizzata a questioni economiche. E, infatti, il 28 marzo 1994 il carissimo Carlo Azeglio Ciampi quando stava per lasciare Palazzo Chigi perché gli amici sponsorizzati da De Benedetti (Occhetto e compagni) erano stati sconfitti alle elezioni un giorno prima da Berlusconi, decise il vincitore della gara d’appalto per il secondo gestore dei telefonini in Italia. Il vincitore fu naturalmente Carlo De Benedetti. Gli sconfitti, la cordata Fiat-Fininvest. Siccome «ciascun dal proprio cuor l’altrui misura» Carlo De Benedetti immaginò che il proprietario della Fininvest sconfitta, una volta arrivato a palazzo Chigi, avrebbe di fatto revocato alla Olivetti la licenza di secondo gestore della telefonia mobile. Così naturalmente non fu e il moribondo governo Ciampi, figlio dell’intrigo di palazzo, si comportò come i generali nazisti che con gli americani alle porte fuggivano bruciando le ultime carte e fece nascere la Omnitel di Carlo De Benedetti che realizzò uno dei migliori affari della sua vita. Ma all’ingegnere d’Ivrea non bastava. Il compianto Lorenzo Necci presidente delle Ferrovie di Stato, aveva concluso nel dicembre del 1993 con la Telecom pubblica di Ernesto Pascale la vendita della rete telefonica ferroviaria per 1.100 miliardi di vecchie lire.

Anonimo ha detto...

Ma Giuliano Amato, nominato alcuni mesi dopo da Silvio Berlusconi presidente dell’Antitrust, si mise di traverso suggerendo addirittura a Lorenzo Necci quale dovesse essere il destinatario della rete telefonica ferroviaria e cioè la Omnitel di Carlo De Benedetti probabilmente per farsi perdonare il suo acerrimo contrasto all’acquisto della Sme di alcuni anni prima. E così fu. Il prezzo concordato fu di 750 miliardi di lire (350 in meno del prezzo pattuito tra Stet-Telecom e Fs) e il pagamento fu rateizzato in 14 anni con rate annuali di 76 miliardi sempre di vecchie lire. Roba un po’ da ridere.

Qualche tempo dopo Omnitel-Infostrada governata a quel tempo dal duo Colaninno-De Benedetti fu venduta ai tedeschi della Mannesman per 14mila miliardi senza, naturalmente, alcuna rateizzazione. Potremmo continuare a «spigolare» qui e là a cominciare dalla scandalosa vicenda Seat-Pagine Gialle che in poco più di 30 mesi passò dalla Telecom pubblica alla società Otto e poi di nuovo alla Telecom privata con una plusvalenza di oltre 14mila miliardi. Nella cordata iniziale che si candidò a comprare la Seat dalla Telecom c’erano insieme a Comit, De Agostini, Bain Cuneo, B.C. partner, Cvc partner, Investitori associati, anche il gruppo editoriale Espresso-Repubblica, che comunque ne uscì prima che l’acquisto fosse concluso.

Resta il fatto che ben il 42% della società che acquistò la Seat e che quindi realizzò la scandalosa plusvalenza era nelle mani di azionisti sconosciuti e collocati nei paradisi fiscali. Carlo De Benedetti e il principe Caracciolo non c’erano più nella cordata ma un tarlo malizioso c’è sempre nella nostra testa. E, come dice il vecchio Andreotti, a pensar male si fa peccato ma si indovina. Ci fermiamo qui lasciando al nostro amico D’Avanzo di continuare la carrellata. Se ha difficoltà potrà sempre chiamarci, ricordandogli, in ultimo, che senza l’iniziale progetto politico di De Benedetti, Berlusconi non sarebbe mai sceso in politica.

Anonimo ha detto...

Se qualcheduno ha interesse a difendere De Benedetti faccia pure .

Anonimo ha detto...

e tu fatti li cazzi tui