I processi per la strage di Bologna si sono conclusi , tra i 15 e i 20 anni dopo, con una serie di sentenze che hanno ufficialmente suffragato una “verità ufficiale” non solo verosimile, ma in qualche modo obbligata.Quella di Bologna è stata infatti, fin da subito, una due-punti-aperte-le-virgolette “strage fascista, coperta da apparati deviati dello Stato e ordinata da una centrale politica interessata alla destabilizzazione del paese, per sbarrare il passo al PCI”. Lo è stata in modo così certo e storicamente consolidato che ha finito per esigere conferme giudiziarie, ben prima di trovarne, e di dettare i tempi, i modi e le parole d’ordine di quella retorica della memoria che nel nostro paese ha spesso sostituito la memoria, così come la propaganda storica ha finito col sostituire la storia.
Ciò non significa ovviamente che nella ricostruzione dell’Associazione dei parenti delle vittime e dei partiti della sinistra non vi fossero elementi di verità; né si può negare che una interpretazione “nazionale” della strage appare, ancora oggi, più plausibile di quella “internazionale” che qualcuno ha voluto suggerire. Eppure, queste tesi non costituiscono, necessariamente, “tutta la verità” per il solo fatto di essere sostenute da quanti serbano personalmente e testimoniano politicamente la memoria della strage.
Santificare un esito processuale che complessivamente condanna esecutori e depistatori, ma tiene nell’ombra i mandanti può essere molto comodo per descrivere ogni sorta di scenario complottistico, ma non molto utile quando si vuole rileggere criticamente la storia di un paese e il suo, certamente torbido, passato. Su questi come su molti altri processi chiamati impropriamente a confermare o a smentire una verità politica, i dubbi, per così dire, si sprecano: almeno agli occhi di chi ritiene che un processo non sia la sede in cui si stabilisce la “verità” su di un fatto, ma si verifica semplicemente se le prove raccolte contro gli imputati ne giustifichino la condanna oltre ogni ragionevole dubbio.
Non sono pochi infatti ad avere ritenuto quantomeno controversa la sentenza che ha condannato Giusva Fioravanti e Francesca Mambro come esecutori materiali, dopo un processo che porta il marchio di stile dei processi emergenziali. Non sono pochi ad avere pensato che Fioravanti e Mambro fossero più la dimostrazione di un teorema, che due imputati sottoposti ad un processo normale: colpevoli troppo “giusti” per essere assolti, ma anche troppo perfetti per essere veri.
D’altra parte la storia giudiziaria italiana, e non solo quella legata al terrorismo, è una lunga catena di cortocircuiti tra storia, politica e giustizia. Chi si è trovato a negare la fondatezza di una condanna per mafia emessa, o di interi processi per mafia istruiti per “pentito dire”, è stato giudicato un negazionista del fenomeno mafioso, se non un complice della mafia. Chi oggi volesse negare la plausibilità della condanna di Fioravanti e Mambro o, per altro verso, di Sofri, verrebbe considerato dalle “curve” nord e sud del giustizialismo politico italiano un negazionista delle responsabilità del terrorismo nero e rosso.
Non c’è dubbio che la strage di Bologna ha sfregiato una città, che se ne è sentita minacciata e attaccata anche nella sua identità politica. In questo quadro, è comprensibile che attorno alla memoria della strage, 29 anni dopo, ci sia ancora un tale concentrato di dolori personali, di rancori politici, di pregiudizi ideologici e di “opacità” istituzionali da rendere incandescente la sensibilità di chiunque vi si avvicini. Ed è anche comprensibile che la piazza continui a nutrire diffidenza e sospetto verso quanti, 30 anni fa, avevano responsabilità nelle politiche di ordine e sicurezza pubblica del paese.
Ma quanto è successo ieri a Bologna non c’entra niente con tutto questo. Trasformare la commemorazione della strage in un tiro al bersaglio contro il rappresentante del governo “nemico” significa solo lordare gli stessi nobili presupposti dell’indignazione morale. Agitare bellicosamente la memoria delle vittime contro il Ministro Bondi, zittirlo e denigrarlo, come se l’attuale esecutivo rappresentasse la continuità storica, politica e ideologica dei “carnefici” significa davvero usare i morti per dare addosso ai vivi, iscrivere abusivamente il corpo e la storia di persone morte quasi 30 anni fa nella lotta di resistenza contro il “nemico berlusconiano”, cioè contro un fenomeno politico che, comunque lo si voglia giudicare, non appartiene a quella fase della storia della Repubblica in cui erano maturati i presupposti e i protagonisti del terrorismo e dello stragismo.
La richiesta di accertare fino in fondo la verità sulla strage non può essere minacciosamente agitata – come una forma di implicita accusa – contro un ministro che nell’80 aveva vent’anni ed era comunista, e che partecipa oggi di un esecutivo composto da partiti e da una classe dirigente che nell’80 non si erano neppure affacciati alla vita politica. Soprattutto questa richiesta/accusa non può essere usata oltraggiosamente nei confronti dei ministri “berlusconiani”, dopo essere stata, ad esempio, graziosamente risparmiata a quanti negli anni in cui è maturata la strage e i depistaggi accertati dalla magistratura, e poi negli anni immediatamente successivi, hanno ricoperto i ruoli di vertice nel sistema della sicurezza nazionale, come i Ministri degli interni Rognoni (dal 1978 al 1983) e Scalfaro (dal 1983 al 1987): due che la stessa sinistra che ieri berciava ignobilmente contro Bondi, o ne giustificava ancora più ignobilmente il linciaggio morale, ha mandato l’uno al vertice del Csm e l’altro al Quirinale e che ha infilato nel proprio pantheon ideale per la loro – guarda un po’ – militanza anti-berlusconiana. (Libertiamo)
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