mercoledì 4 luglio 2012

Bersaglio grosso. Davide Giacalone

E’ più facile colpire un orso che un passero. La doppietta del governo si accanisce su un bersaglio piccolo, tremando fra le mani di chi non riesce a tarare il mirino, tant’è che i tagli necessari ammontano a 4.2 miliardi per Antonio Catricalà, fra i 7.5 e i 10 per Enrico Bondi, per collocarsi all’intermedio 6.8 di Piero Giarda. Tutto per evitare di aumentare ulteriormente l’iva di due punti, o quanto meno, per dimezzarne il già programmato e annunciato intervento. Al bersaglio grosso nessuno pensa.

L’idea di tagliare per non tassare è corretta, ma troppo limitata. Qualcuno penserà di leggere le parole di un matto, perché laddove non si riesce a fare poco è insensato proporsi assai di più. Invece credo che sia più facile ottenere molto, perché ci si proverebbe con strumenti e seguendo ragionamenti diversi. Più efficaci e promettenti. Seguite questi pochi numeri.

Marco Fortis insiste, meritoriamente, nel sottolineare che il mero parametro del rapporto fra il debito pubblico e il prodotto interno lordo ci penalizza. Quel tipo di misurazione è stato santificato nei trattati europei e posto a base dell’euro, ma non ha valenza generale e riconosciuta. Meglio sarebbe lavorare sul rapporto fra il debito aggregato e la ricchezza patrimoniale. Guardate la differenza: se si calcola il debito pubblico sul pil l’Italia arriva al 120%, la Francia al 90, la Germania all’83 e la Gran Bretagna all’81. Siamo messi male. Ma se si calcola il debito aggregato (Stato + famiglie + imprese), la classifica cambia: Gran Bretagna 507%, Francia 346, Italia 323 e Germania 279. Se si mette in rapporto il debito aggregato con il patrimonio, infine, risultiamo fra i più solidi e affidabili. Chi ci presta i soldi dovrebbe star più che sicuro, tant’è che, come calcola sempre l’ottimo Fortis, ove tutti i Paesi applicassero una patrimoniale (il cielo non voglia) per rientrare sotto il 60% del rapporto debito pubblico/pil, dopo la cura da cavallo gli italiani resterebbero i più ricchi, fra i grandi Paesi europei. Tutto questo per dire che c’è materiale buono per spiegare ai partner europei, come anche ai mercati, quanto l’Italia sia oggi vittima di una pericolosa manomissione. Il cui risultato sono tassi d’interesse così elevati da comportare un effettivo e pericoloso svantaggio competitivo.

Ciò, però, dice anche un’altra cosa, che ci riporta al tema della spesa statale: se i debiti pubblici sono così elevanti e quelli privati così bassi (rispetto a quelli degli altri) è segno che il nostro è un mercato statalista, una sorta di socialismo reale post-sovietico. Dentro l’Italia c’è un morbo cubano. Tale condizione è anche un’opportunità: non si deve tagliare a fette la spesa pubblica, provando a diminuirne progressivamente lo spessore, ma la si deve colpire a tocchi, perché alimenta un’idea sbagliata e regressiva di Stato. E’ vero quel che ha detto Mario Draghi, ovvero che la crisi non può non mettere in discussione il modello europeo di welfare, ma, come dimostrano i dati prima citati, da noi si tratta di una massa tumorale assai più estesa, capace di soffocare l’Italia che corre.

I debiti pubblici dei grandi europei, presi in valore assoluto, si somigliano (Germania 2.082 miliardi, Italia 1.988, Francia 1.946, Gran Bretagna circa 1900, dati relativi a previsioni per il 2013). I rapporti cambiano perché cambia il pil. Un’Italia che riprendesse a crescere scalerebbe posizioni anche in quella classifica che ci sfavorisce e ci costa. Se debellassimo il morbo cubano vedremmo crescere anche il bello della latinità, la gioia di vivere, la musica, il bel vivere, ma lo faremmo grazie alle imprese che crescono, non deprimendole per aumentare il gettito fiscale. Ci siamo riusciti in passato, possiamo rifarlo.

Quindi: provare a tagliare 4.2 miliardi è più difficile che tagliarne 42, sforbiciarne 10 più doloroso che 100, perché nel primo caso si cerca di farlo salvando l’esistente, nel secondo essendo consapevoli che va superato. Se si riesce a fare la prima cosa si evita un ulteriore aumento delle tasse, restando esattamente dove siamo (e non dico dove), nel secondo si può abbassare la pressione fiscale, restituendo irrigazione a un mercato che ha tante volte dimostrato d’essere fertilissimo. Se anziché tagliuzzare la spesa si sfoltisce lo Stato si fa cosa meno dolorosa e più promettente, al punto che quei numeri diventerebbero la premessa di un boom, questa volta sospinto non dagli investimenti pubblici, ma dalla globalizzazione.

C’è una sola cosa che c’impedisce di farlo: l’incapacità di pensarlo. Il governo commissariale, che non deve cercare voti, che non deve piatire consenso, prenda coraggio e agisca nel profondo. Poi porti il tutto davanti al Parlamento e chieda la fiducia. Sarà più serio e rispettoso di tredici decreti legge da convertirsi entro la fine di agosto, con fiducie fioccanti e riti umilianti.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Sono meravigliato dall'articolo. Dove l'hai copiato? Dai che non è farina del tuo sacco. Oggigiorno con il copia incolla si fanno miracoli.